giovedì 22 febbraio 2024

L'accusa ai comunisti di usare gli scioperi come arma politica contro il governo, se non addirittura come atti preparatori alla insurrezione armata


Solitamente la fiammata insurrezionale del luglio '48, seguita all'attentato a Togliatti, viene considerato l'episodio conclusivo del ciclo conflittuale iniziato con le agitazioni del marzo 1943. Secondo noi risulta invece più corretto, sia a livello nazionale che locale, comprendere anche i due anni successivi fino alle mobilitazioni del 1950: l'eccidio di Modena del 9 gennaio e il grande, ultimo, sciopero bracciantile della pianura padana dell'autunno rappresentano la definitiva chiusura di fase e l'inizio del decennio critico per il movimento dei lavoratori.
Vediamo brevemente i momenti più importanti della fase '47-'50 per quanto riguarda il contesto milanese: la vertenza estiva, luglio-agosto, sulle riunioni interne nelle fabbriche e sul radicale ridimensionamento delle Commissioni Interne; a fine agosto la CGIL nazionale lancia la 'crociata popolare' contro carovita e disoccupazione, che vede Milano in prima fila con un lungo sciopero di 48 ore dei metallurgici il 17 e 18 settembre; dal 7 al 20 settembre 1947 si verifica un grande sciopero bracciantile nelle campagne, di portata nazionale, che presto si estende ad altre categorie, quali anzitutto i mungitori che a dicembre incrociano le braccia; dalla fine di ottobre entrano in agitazione i principali stabilimenti industriali cittadini (Caproni, Lagomarsino, Isotta Fraschini), la cui avanguardia è rappresentata dalle Rubinetterie della Edison, contro i licenziamenti di massa che colpiscono l'industria meneghina e dove affiorano nuovamente le parole d'ordine dell'autogestione; le agitazioni (con proclamazione dello sciopero generale di 12 ore) e l'occupazione della prefettura del novembre '47 guidata dai dirigenti comunisti locali, per protestare contro la sostituzione del prefetto Ettore Troilo (azionista, molto amato dai lavoratori, l'ultimo di nomina CLN) con un funzionario di carriera, da parte di Scelba; gli scontri di piazza del 25 aprile 1948, culmine di un crescendo di violenza poliziesca nei confronti delle agitazioni sindacali e sociali; sciopero bracciantile del maggio-giugno '48, ben presto esteso anche ai mungitori, durante il quale osserviamo il ripresentarsi di antiche forme conflittuali radicali; le mobilitazioni operaie di giugno-luglio, che vedono oltre 250.000 lavoratori in piazza e, dal 2 luglio con la proclamazione dello sciopero generale, l'occupazione delle fabbriche (in particolare Falck, Bezzi, Motta) da parte dei lavoratori; il moto insurrezionale del 14-15 luglio (anche se a Milano assume caratteri decisamente meno radicali rispetto ad altre città, come ad esempio Genova), strettamente connesso con le agitazioni in corso, seguito all'attentato a Togliatti; nuovo sciopero bracciantile a novembre, contro la disdetta di massa che esclude i lavoratori legati alla Federterra; i lavoratori agricoli sono i principali protagonisti delle lotte sociali che dall'aprile '49 fino all'autunno del 1950 agitano la provincia e le campagne milanesi e lombarde; ad essi si affiancano, a Milano, le cosiddette 'lotte difensive' che in alcuni casi portano gli operai ad occupare le fabbriche in risposta alle serrate padronali.
È significativo che lo sciopero bracciantile dell'autunno '50 sia stato chiamato in seguito, dai protagonisti stessi, 'sciopero della sconfitta' <396; mentre gli ultimi episodi del conflitto operaio urbano, risoltisi anch'essi in un fallimento dal punto di vista vertenziale, preludono alla crisi di consenso che FIOM e CGIL conosceranno con le sconfitte storiche nelle elezioni delle commissioni interne, oltre che al completo ribaltamento dei rapporti di forza interni alle fabbriche, di cui i 'reparti confino' saranno la rappresentazione più odiosa. Dopo la fiammata dell'estate '48, l'andamento del conflitto sociale (numero degli episodi, lavoratori coinvolti, successo rispetto al piano rivendicativo) è discendente, fino poi a chiudersi.
È possibile individuare tratti comuni agli episodi di tutto il periodo, anche se dopo le mobilitazioni di luglio '48 il tratto essenziale dell'autonomia e del dualismo di poteri è ormai definitivamente tramontato. Se nel '45-'47 la politica del conflitto ruota attorno alla sopravvivenza e le condizioni di lavoro, i criteri della ricostruzione e l'epurazione antifascista, possiamo dire che nel periodo successivo la battaglia su questi piani è sostanzialmente persa, ma si continua a combattere: la politica economica centrale ha fissato sia la libertà padronale di licenziamento che il piano di sacrifici per i lavoratori, determinando in questo modo la gerarchia sociale del processo di ricostruzione.
Adesso le piattaforme e le modalità del conflitto assumono contenuto radicale e in alcuni casi rivoluzionario (sebbene in assenza di una situazione rivoluzionaria), si recuperano le istanze più estremiste e le aspirazioni classiste di rottura, nonostante il contesto sia nettamente più sfavorevole rispetto al '45.
Importante aprire una parentesi (che riprenderemo più avanti) sull'azione di Mario Scelba ministro degli Interni (dal febbraio '47), dopo la cacciata delle sinistre dal governo. Chi era Scelba? Uomo del circolo ristretto della Democrazia cristiana, esponente di quel filone democratico conservatore che rifiuta la cittadinanza politica alle 'classi pericolose', è sostenitore della necessità di stroncare preventivamente quei movimenti sociali e politici che dietro le bandiere del lavoro sono in realtà gli antichi portatori del germe della sovversione: "È insomma un esponente di primo piano del partito, una figura di rilievo dei governi De Gasperi e il cui impegno, prevalentemente indirizzato al rafforzamento dello Stato, alla riorganizzazione delle forze di pubblica sicurezza e alla protezione della democrazia, va perciò inquadrato nelle scelte e nell'azione della classe dirigente che guida il paese all'uscita dalla guerra e che affronta il problema dell'ordine pubblico 'anche eminentemente come problema politico'." <397
Da questo punto di vista, dunque, egli porta a compimento quel processo di assorbimento e rivalutazione democratico-conservatrice di elementi tipici della tradizionale cultura di governo italiana e di strumenti ereditati dal fascismo (a partire dalla sostanziale preservazione integrale del Testo unico sulle leggi di pubblica sicurezza - TULPS e il codice penale Rocco). Diciamo che lo porta a compimento perché, da quanto abbiamo anticipato nel paragrafo precedente, il processo è stato avviato nel primissimo dopoguerra; Scelba gli dà una dichiarata funzione pubblica, che recupera antiche credenze proprie delle classi dirigenti prefasciste e dandogli carattere di permanenza nei decenni successivi: "Fu soprattutto Scelba a dare alla polizia una chiara direzione politica contro i partiti politici e le organizzazioni collaterali del movimento operaio - condivisa da tutto il gabinetto e dal presidente del consiglio De Gasperi - con una crescente azione repressiva verso il sindacato e gli scioperi. Nel lavoro pratico della polizia ciò si traduceva in continui interventi nei conflitti sindacali per salvaguarda la 'libertà di lavoro'. Gli interventi sempre più duri erano giustificati con l'accusa ai comunisti di usare gli scioperi come arma politica contro il governo, se non addirittura come atti preparatori alla insurrezione armata". <398 Filosofia politica esplicitata inoltre dalla sua riserva nei confronti della Costituzione e dei diritti sociali in essa contenuti: "[…] per assecondare lo sforzo di ciascuno e della Nazione, avranno corso tutte le misure ritenute necessarie perché l'azione disgregatrice non abbia a prevalere, quale che sia il costo e il nostro impegno. Rispettosi della Costituzione, siamo peraltro convinti che essa non può diventare una trappola per la libertà del popolo italiano a cui garanzia è stata voluta". <399
L'epurazione (obiettivo mai realmente perseguito nemmeno sotto il governo Parri) è stata definitivamente bloccata e anzi il processo invertito, con l'allontanamento dagli apparati di sicurezza di uomini della sinistra antifascista e di nomina CLN, il reinserimento di quadri medi e alti del periodo fascista, l'annullamento del decreto di incorporamento di 15.000 partigiani nelle forze di polizia ed esercito. "Scelba, poi, procedette a un'accurata selezione del personale nelle posizioni di comando, allontanando per esempio gli ultimi prefetti di nomina politica. Emblematica delle scelte di Scelba fu la nomina nel 1948 di un militare, il generale Giovanni D'Antoni, già prefetto di Bologna, come nuovo capo della polizia. Degli 8.000 ex partigiani che aveva trovato ancora all'interno della polizia, Scelba fece, come dichiarò in un'intervista a 'il Resto del Carlino' (24/2/1971), 'piazza pulita', offrendo condizioni molto favorevoli a chi era disposto a lasciare volontariamente il corpo, ma facendo anche ricorso a un vero e proprio mobbing con trasferimenti punitivi nelle isole. Il punto più importante per caratterizzare la gestione di Scelba sembra però l'allineamento politico-ideologico della polizia e l'affermazione al suo interno di una mentalità che faticava a comprendere e ad accettare la portata dei diritti sanciti dalla costituzione. Più che di un'affermazione però sarebbe corretto di parlare di una riaffermazione che poteva contare su tendenze consolidate da più generazioni all'interno delle forze dell'ordine […]". <400 Aggiungiamo che Scelba si adopera anche per trasformare il reparto Celere da strumento di 'civilizzazione' della gestione dell'ordine pubblico di piazza, come voleva Romita, in mezzo di contenimento e repressione rapida di manifestazioni, scioperi, presìdi e di tutte le forme conflittuali  pubbliche di massa.
Le conseguenze di questa azione politico-organizzativa furono determinanti per la futura composizione delle forze di polizia in Italia: "le tensioni politiche e sociali portarono, o costrinsero, molti ausiliari a non fare domanda per un regolare arruolamento nella Ps, con il risultato finale che all'inizio dell'anno 1950 dei ventimila ausiliari, poco più di 4000 erano rimasti in servizio, a differenza di praticamente tutti gli ex agenti della Pai rientrati. Il ricambio fu anche regionale: gli ausiliari essenzialmente d'origine settentrionale vennero sostituiti da una nuova leva di agenti meridionali, alla ricerca di una collocazione lavorativa e del tutto privi dell'esperienza politica della lotta di Liberazione". <401
Come già anticipato, è precisamente su questo terreno che l'azione dei comunisti al governo ha trovato dei limiti (esterni e interni) invalicabili: nella continuità tra Stato fascista e post-fascista, esplicitando un fenomeno che Renzo Martinelli ha definito 'autocefalia dell'esecutivo' <402, ovvero di separazione netta della dirigenza dai quadri intermedi e dalla base.
Ma qual è stata la premessa di tutto ciò? La fine dell'emergenza e dell'unità antifascista, con il passaggio del dopoguerra alla sua fase definita di 'guerra civile fredda'. Mario Venanzi, partigiano in Val Sesia e Val d'Ossola, deputato comunista e assessore all'urbanistica nella giunta Greppi, ricorderà anni dopo quel momento di passaggio che non si può dire fosse arrivato come un fulmine a ciel sereno: "Come presidente del Cln lombardo, dopo Sereni, posso dire di aver vissuto da vicino il processo di rottura dell'unità antifascista. Prima sono i liberali che se ne vanno, poi sono i democristiani che tentennano. Già con Romita ministro degli interni si era cominciato ad assistere ai primi tentativi di ricucire il vecchio tessuto statuale. Intanto, si cambiano i questori, e a uno a uno si tolgono tutti quelli nominati dal Cln. A Milano spediscono il questore di Modena, lo stesso che, nell'agosto del '43, era venuto nel carcere di Castelfranco Emilia assieme al procuratore del re quando noi detenuti politici avevamo iniziato lo sciopero della fame perché non si decidevano a liberarci. Ancora più che un affronto poteva sembrare una beffa. […] Ci mandano un altro questore, Vincenzo Agnesina, un vecchio volpone della questura romana che era stato capo della polizia speciale di Mussolini ma che, nel '43, aveva preso ad assumere degli atteggiamenti da antifascista. […] Sono proprio le elezioni [quelle amministrative, nda] l'ultimo golino, come dicono i toscani, l'ultimo colpo sotto la gola. Il Cln viene liquidato e il vento del Sud, che cominciava a risalire la penisola, intacca e sbreccia quell'unità antifascista che, a Milano, era ancora molto forte e sentita. Ma noi, da questo osservatorio, stentiamo a capire che quelle forze che la Resistenza sembrava avesse spazzato via riprendono a sollevare la testa. Solo dopo il 2 giugno cominciamo a renderci conto di qual è la scacchiera sulla quale ci muoviamo […] Noi non avevamo, come potevamo averlo a Roma, il polso reale della situazione. Certo, le volte che andavamo a Roma ci si accorgeva che, scendendo verso il Sud, la realtà cambiava sotto gli occhi. Altro linguaggio, altri comportamenti, altra mentalità. Ma solo le elezioni del 18 aprile ci diedero la misura di quel che era il paese". <403
La direzione PCI si trova in realtà costretta da due cause principali a lanciare la controffensiva con il rilancio a fondo delle lotte, a tutti i livelli: lo spostamento a destra dell'asse politico nazionale, in previsione delle elezioni generali del 18 aprile '48, e le direttive del neonato Cominform ai partiti comunisti occidentali di interrompere le politiche di compromesso. C'è poi anche una ragione economica legata alla crisi nera che vive il paese e che in alcuni centri (come Milano) è particolarmente dura, portando le Camere del Lavoro locali a superare la svolta moderata decisa dalla CGIL nazionale. In alcuni casi viene accolta con sollievo la nuova linea di Mosca e la fine dell'unità antifascista, vista come un costante compromesso al ribasso; anche a livello locale i dirigenti comunisti la interpretano positivamente, come l'uscita da una situazione ambigua: questo è ad esempio il giudizio espresso da Pajetta sull'uscita della DC dalla giunta di Milano guidata dal socialista Antonio Greppi. Nel capoluogo lombardo è Longo che coordina l'applicazione delle nuove direttive, che hanno nelle fabbriche il luogo privilegiato, affermando che la Direzione "denuncia l'offensiva padronale che, mirando ad avere mano libera nei licenziamenti, vuol gettare sul lastrico centinaia di migliaia o addirittura milioni di lavoratori… la Direzione invita pertanto tutti i compagni che ricoprono cariche sindacali e tutte le organizzazioni del partito a dare la massima attenzione alla preparazione e all'organizzazione della resistenza e del contrattacco […] Il partito riprenda la lotta fino in fondo, chi non intende impegnarvisi può andarsene". <404
Non potrebbe essere altrimenti: secondo il rapporto di Pietro Secchia, responsabile dell'organizzazione, alla fine del 1947 "nella provincia di Milano abbiamo nel partito il 71% di operai, poco più del 4% di artigiani, neppure l'1% tra intellettuali, studenti e tecnici. L'1,65% di coloni, piccoli proprietari e piccoli affittuari. Poco più del 7% di giornalieri, obbligati e salariati agricoli". <405
La svolta a sinistra del PCI milanese è data però anche da altri due cambiamenti: il passaggio di Giuseppe Alberganti dalla segreteria della CdL a quella della Federazione comunista; la maggiore forza acquisita da Pietro Vergani, esponente dell'ala dura del partito, come segretario  d'organizzazione a Milano. Contemporaneamente, come già accennato, anche nel PSIUP si consolida a livello nazionale la svolta a sinistra data in particolare dal gruppo settentrionale e milanese (qui per un moto più spontaneo che imposto da direttive esterne, come nel caso del PCI), che culmina con l'uscita dei moderati e socialdemocratici interni guidati da Giuseppe Saragat, nella famosa scissione di Palazzo Barberini (11 gennaio 1947), che darà vita al Partito socialista dei lavoratori italiani - PSLI (successivamente Partito socialdemocratico italiano - PSDI) e porta i socialisti ad assumere la vecchia denominazione di Partito socialista italiano - PSI. A fine dicembre '47 PCI e PSI danno vita al Fronte democratico popolare in vista delle elezioni.
A settembre è lo sciopero di oltre 600.000 braccianti nel centro-nord a scuotere il paese: le tradizionali questioni dell'imponibile e del collocamento sono al centro delle agitazioni nelle diverse province padane, in particolare rivendicando la regolamentazione degli imponibili e la giusta causa nelle disdette dei lavoratori delle cascine, per cercare di limitare l'arbitrio degli agrari: "Agrari che sparano contro gli scioperanti sono segnalati nel Bresciano, nel Pavese, nel Padovano, mentre d'altro canto allarmi crescenti destano sia la tendenza a estendere lo sciopero ai mungitori sia gli 'scioperi alla rovescia' per imporre ai proprietari lavori di miglioria: proclamati in nome delle esigenze della produzione ma vissuti per la verità sia dagli agrari che dai braccianti come 'invasioni' od 'occupazioni' delle aziende (e una relazione sindacale segnala con preoccupazione 'qualche incidente, di cui qualcuno abbastanza grave come incendi di cascine, fucilate per le strade, atti di crumiraggio')". <406 Si richiede inoltre un contratto unificato che equipari la loro condizione a quella dei lavoratori industriali.
Nelle campagne il conflitto assume caratteri molto duri ed estremi: non solo per i braccianti che ripropongono antiche forme di lotte, quali il 'gallo rosso' e il sabotaggio, ma anche perché gli agrari rappresentano il principale sostegno del terrorismo neofascista che si sta riorganizzando in questi mesi e che colpisce, tra i diversi obiettivi, in particolare cooperative e case del popolo. Il 9 novembre, ad esempio, un gruppo di giovani comunisti sta rientrando a mezzanotte da una festa da ballo a San Giuliano Milanese e, mentre attraversa un ponte, vengono sparati alcuni colpi di rivoltella che ne feriscono tre. L'11, su invito del sindaco di Mediglia (un paesino nei pressi del capoluogo), alcune centinaia di operai della Breda e della Caproni raggiungono sui loro autocarri il paese dove si sarebbe tenuta una dimostrazione: viene presa d'assalto la casa dell'agrario Giorgio Magenes, ritenuto implicato sia nell'attentato del ponte sia nel lancio di alcune bombe contro un cooperativa sempre a San Giuliano e una trattoria popolare a Desio; Magenes spara contro i lavoratori, uccidendo l'operaio 21enne della Breda Luigi Gaiotti e ferendo Domenico Rivolta. Nonostante l'arrivo dei carabinieri che tentano di portarlo via, questi vengono soverchiati dalla folla che lincia a morte il proprietario terriero. Così un militante della Volante Rossa, presente a quella come ad altre dimostrazioni, ricorda l'episodio: "Abbiamo fatto l'assalto alla cascina. E quando sono arrivati i carabinieri con sei autoblindo è stato troppo tardi, l'avevamo già linciato. Due autoblindo dei carabinieri non ci hanno poi mollato fino a Milano, scortavano il nostro camion". <407
[NOTE]
396 G. Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti dall'Ottocento alla fuga dalle campagne, p. 246, Donzelli 2007
397 L. Bertucelli, All'alba della repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L'eccidio delle Fonderie Riunite, p. 26, Edizioni Unicopli 2012
398 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., p. 73
399 M. Scelba, discorso alla Basilica di Massenzio, Roma, 15 agosto 1950, cit. in ibidem, p. 70
400 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 74-75
401 P. Dogliani, La polizia alla nascita della Repubblica, p. 25, in P. Dogliani, M.A. Matard-Bonucci, op. cit.
402 Cfr. R. Martinelli, op. cit., p. 233
403 G. Manzini, op. cit., pp. 89-91
404 L. Longo cit. in G. Galli, op. cit., p. 177
405 P. Secchia, Il partito della rinascita (Rapporto alla Conferenza Nazionale d'organizzazione del Partito comunista italiano), p. 33, cit. in R. Martinelli, op. cit., p. 165
406 G. Crainz, op. cit., p. 237
407 C. Bermani, op. cit., p. 84
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

venerdì 16 febbraio 2024

La creazione dell'Alpenvorland rese appunto chiara la politica di Hitler nei confronti di questa zona


Ciò che avvenne a Malga Zonta si inserisce dunque nel grande rastrellamento che, iniziato la notte tra l'11 e il 12 agosto [1944] si protrasse fino al 15 agosto. Questo rastrellamento puntava ad eliminare la presenza partigiana in tutta la zona di Posina e di Folgaria. Come già detto, nella Valle di Posina era stata creata una sorta di zona libera, ovvero una zona che era sotto l'organizzato controllo della Resistenza. I partigiani delle “Garemi” inoltre l'avevano eletta a zona nella quale impiantarvi i loro “uffici” dirigenti, non temendo alcun attacco nemico, così come per la zona di Passo Coe, dove c'era la base di Germano Baron.
Per i nazisti però queste zone erano troppo importanti: la creazione di “zone franche”, come quella di Posina, era così particolarmente combattuta dai tedeschi in quest'area del Veneto.
[...] Tutti i partigiani morti a Malga Zonta erano vicentini. La maggior parte di loro era nata a Malo e Monte di Malo, altri a San Vito, Bruno Viola a Vicenza. L'eccidio di Malga Zonta è avvenuto però a poca distanza da Folgaria, in provincia di Trento. Certo, molto vicino al confine con il Veneto. Ma in territorio trentino.
Ma non è questo il motivo per cui ho deciso di dedicare una parte di questa tesi alla Resistenza nel Trentino Alto Adige. Non è stata insomma una mera questione geografica a motivare la mia scelta, bensì il desiderio di capire più a fondo alcune questioni che sono nate durante lo svolgimento della tesi e che all'inizio dello studio non avrei pensato di dover affrontare.
In particolare sentivo la necessità di verificare quello che, durante le interviste, mi veniva detto da alcune persone, che esprimevano un sentimento di ostilità, di mal celato “rancore” nei confronti dei partigiani, fino a veri e propri giudizi negativi sul loro operato.
Si può giustamente obiettare che questi giudizi sono sicuramente presenti nella memoria di molte persone, non solo qui in Trentino.
Bisogna però considerare le grosse difficoltà che ebbe la Resistenza a nascere e diffondersi in questa parte dell'Italia. Ecco allora che le due questioni sembrano collegarsi e porre degli interrogativi ai quali rispondere.
Da questi presupposti infatti la mia intenzione era quella di capire il perché delle difficoltà organizzative della Resistenza e il tentativo di capire se il sentimento di “ostilità” di alcune persone nei confronti dei partigiani fosse motivato da questioni di carattere esclusivamente personale o se tale sentimento poggiasse su basi più “solide”, trovasse cioè qualche riscontro nelle vicende storiche; capire insomma per quale motivo siano nati tali giudizi negativi.
Il Trentino Alto Adige non rappresentava solamente una realtà a sè stante rispetto al resto d'Italia, ma anche al suo interno era notevolmente differenziato. Se l'Alto Adige era caratterizzato per il suo forte consenso alla Germania, il Trentino aveva carattere anti tedesco ma anche anti italiano, riconoscendo nell'Italia il regime fascista, arrivando quindi a tendenze autonomistiche.
Va detto infine che sebbene la Resistenza abbia avuto grosse difficoltà a svilupparsi in Trentino Alto Adige, le “Garemi” intervennero anche su questo territorio, congiungendo idealmente Resistenza veneta e trentina.
Per capire appieno ciò che successe in Trentino Alto Adige tra il 1943 e il 1945 bisogna fare una premessa, che ci porta indietro di qualche anno.
Il Trentino Alto Adige era stato sottratto all'impero asburgico e annesso al Regno d'Italia nel primo dopoguerra.
Il regime di Mussolini mantenne, nei confronti di questa regione, un comportamento che sarà causa di un grosso malcontento. Mussolini infatti procedette verso una italianizzazione forzata della regione, cercando di ridurre l'influenza della componente tedesca ad esempio vietando l'uso della lingua tedesca nelle scuole e in pubblico, modificando i cognomi delle persone da tedeschi a italiani o ancora ingrandendo l'area industriale di Bolzano e mandandovi a lavorare persone italiane. Altri malumori nacquero, soprattutto nella parte trentina, nel 1927, quando Bolzano e Trento vennero separate e furono create due province differenti. Il fascismo così non ebbe mai grosso seguito: “non perché la gente trentina fosse estranea per costituzione ad ideologie di questo tipo,ma perché mancavano le premesse politiche e sociali che consentissero il diffondersi dell'ideologia fascista.” <46
La borghesia industriale, come i grandi proprietari terrieri erano esigui numericamente. La gran parte della popolazione era formata da piccoli coltivatori diretti, inseriti nelle organizzazioni del clero e del movimento cattolico. Si può dire che le decisioni del fascismo “avevano alimentato nella popolazione un senso di rimpianto e di simpatia per la “buona” amministrazione austriaca...” <47
Ai motivi sociali si aggiungeva poi il fatto che il fascismo aveva creato, con la sua politica centralista, indifferente alle esigenze locali e autonomistiche, un malumore crescente nella popolazione trentina.
Anche la Germania puntava alla conquista del Trentino Alto Adige.
L'interesse di Hitler per questa regione era insito nell'idea che perseguiva, quella cioè di riunire in un'unica nazione tutto il popolo tedesco, e dunque anche le minoranze all'estero: “il 20 febbraio 1938 in un discorso al Reichstag Hitler rivendicava il diritto di tutelare e provvedere ai 10 milioni di tedeschi viventi all'estero, in un tono e in un contesto tale del discorso che non lasciava dubbi sul programma ultimo, quello di risolvere le questioni relative anche con la forza, modificando la carta politica dell'Europa.” <48
Questo nonostante le dichiarazioni come quella del 7 maggio 1938, in cui a palazzo Venezia, a colloquio con Mussolini, affermava il contrario: “È mia incontrollabile volontà ed è anche mio testamento politico al popolo tedesco che consideri intangibile per sempre la frontiera delle Alpi eretta fra noi dalla Natura.” <49
Una “soluzione” fu siglata il 23 giugno 1939. Gli accordi di Berlino regolamentavano l'opzione e il trasferimento nel Reich dei sudtirolesi: entro il 31 dicembre 1939 la popolazione di Bolzano e provincia, di Ampezzo e Livinallongo, nel bellunese, e della Val Canale, in provincia di Udine (ma anche altre genti della Val di Fassa, secondo accordi verbali) dovevano esprimere la loro preferenza, se assumere o meno la cittadinanza tedesca. Entro il 31 dicembre 1942, quindi nell'arco di tre anni, il trasferimento doveva essere completato.
“Vanno male le cose in Alto Adige. I tedeschi, in seguito agli accordi, si preparano a compiervi un vero e proprio plebiscito. E fin qui niente di male, se i tedeschi subito dopo aver optato, se ne andassero. Invece niente. Hanno la facoltà di rimanere fino a tre anni... Mussolini dice che non ci vede chiaro” scriveva nei suoi diari Galeazzo Ciano. <50
Il risultato di tali accordi però fu quello di dividere ancora di più la popolazione, tra dableiber, coloro i quali scelsero di rimanere in Italia, e optanten, che invece scelsero di “aderire” al Reich.
Si può stimare che dal 69% al 88% degli aventi diritto abbia scelto di optare per il Reich anche se gli espatri furono rallentati da molteplici fattori: lo scoppio della seconda guerra mondiale, difficoltà burocratiche dovute alla reale valutazione del patrimonio, le perplessità degli optanti per l'incertezza del loro destino (a volte si diceva che sarebbero stati portati sui monti Beskidi in Polonia, altre volte in Borgogna, altre in Crimea).
Così in tutto “gli espatriati effettivi furono circa 85.000, un terzo scarso della popolazione tedescofona, e di essi almeno 20.000 espatriarono perché essendo divenuti cittadini del Reich erano stati richiamati alle armi.”51Altre cifre ci vengono date da Hubert Mock. Mock dice che su 246.000 votanti, un numero compreso tra 188.978 e 201.336 persone scelsero di trasferirsi nel Reich. Circa 78.000 furono però gli optanti che effettivamente emigrarono. I non optanti e quanti optarono per l'Italia furono tra 44.600 e 57.000 persone. <52
L'iniziale rinuncia di Hitler al controllo del Trentino Alto Adige era stata dettata dall'alleanza con il fascismo allo scopo di raggiungere fini comuni in politica interna ed internazionale. Tali remore cadranno definitivamente in seguito all'8 settembre 1943 seguendo così in Trentino la strada già perseguita in Austria, Cecoslovacchia, Polonia. Insomma, l'interesse di Hitler per il Trentino era stato sempre dissimulato, latente, ma mai sopito.
L'8 settembre comportò dei cambiamenti anche da questo punto di vista: “Questa data fu come il disco verde per iniziare l'attuazione dei progetti annessionistici. Il Reich si sente più libero nei confronti dell'Italia che è uscita dall'alleanza militare...” <53
La creazione dell'Alpenvorland rese appunto chiara la politica di Hitler nei confronti di questa zona.
Il 10 settembre 1943 venne istituita la “Zona d'operazione delle Prealpi”, comprendente le province di Trento, Belluno e Bolzano, che venivano annesse di fatto alla Germania, sotto il controllo di Franz Hofer, Gauleiter di Innsbruck e del generale Joachim Witthöft. Il primo veniva nominato commissario supremo, il secondo comandante nella Zona d'operazione delle Prealpi.
Di fatto la Germania non tollerava l'ingerenza fascista in questi territori, avocando a sè la totale facoltà di amministrarli.
Tra il 25 luglio e l'8 settembre l'Alto Adige era già stato occupato da truppe tedesche, per lo più però di passaggio; l'occupazione militare era però un fatto compiuto anche prima dell'8 settembre.
“Fu il 17 settembre che giunse ufficialmente a Trento la nuova dell'avvenuto distacco politico-amministrativo delle tre province italiane (Belluno, Trento e Bolzano appunto, nda) dal resto del Paese e della loro riunione, per ordine del Capo nazista in un organismo denominato Zona d'Operazione delle Prealpi (Alpen Vorland), direttamente controllato dalle autorità germaniche d'occupazione al cui vertice era stato messo, col titolo di Commissario Supermo, il Gauleiter del Tirolo e Vorarlberg, Franz Hofer, di Innsbruck.” <54
La creazione “ufficiale” dell'Alpenvorland (Zona d'operazione delle Prealpi, detta anche OZAV da Operationszone Alpenvorland appunto) e della Adriatisches Küstenland (zona di operazioni Litorale Adriatico, OZAK, affidata al Gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer, comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume) risale dunque al 10 settembre 1943.
Numerosi furono i provvedimenti e le azioni mirate che resero chiaro che la Germania intendeva di fatto esercitare poteri sovrani sull'Alpenvorland.
Hofer invitava i dipendenti delle pubbliche amministrazioni a non prestare giuramento alla Rsi, poiché “i diritti sovrani del Governo italiano nella zona di Operazioni delle Prealpi sono attualmente sospesi” <55, si vietava a Mussolini di porre la sede della neonata Repubblica sociale in territorio trentino, si vietava nell'Alpenvorland la ricostruzione del Pfr, venne tolta alla Rsi la possibilità di nominare i prefetti (come ad esempio l'estromissione di Italo Foschi a Trento, poi “ripagato” con la carica a Belluno). L'arruolamento di nuovi soldati era di competenza del commissario supremo Hofer e le autorità militari italiane non potevano circolare liberamente, se non con il consenso delle truppe germaniche.
[NOTE]
46 Anna Maria Lona, Amministrazione, società e resistenza nel Trentino occupato (1943-1945), in Venetica. Rivista di storia delle Venezia, numero 2, luglio-dicembre 1984, Francisci Editore, Abano Terme, 1984 pag. 151
47 ibidem
48 Umberto Corsini, L'alpenvorland, necessità militare o disegno politico?, in AA.VV, Tedeschi, partigiani e popolazioni nell'Alpenvorland (1943-1945), Marsilio Editori, Venezia, 1984, pag. 18
49 Cit in Umberto Corsini, op. cit., nota 6 pag. 12
50 Galeazzo Ciano, Diario, in Umberto Corsini, op.cit., pag. 13
51 Gustavo Corni, Spostamenti di popolazioni nella Seconda guerra mondiale. Una nuova fonte sulle opzioni in Sudtirolo (1939-1943) in AA.VV, Demokratie und Erinnerung. Südtirol Österreich Italien. Festschrift fur Leopold Steurer zum 60. Geburstag, StudienVerlag, InnsbruckWien 2006, pag. 169
52 Hubert Mock, Geher e Bleiber. Concetti, eventi, esperienze, in Andrea Di Michele, Rodolfo Taiani (a cura di), La Zona d'operazione delle Prealpi nella seconda guerra mondiale, Fondazione Museo storico del Trentino, Trento, 2009, pag. 175
53 Umberto Corsini, op. cit., pag. 31
54 Antonino Radice, La Resistenza nel Trentino. 1943-1945, Collana del museo trentino del Risorgimento, Rovereto, 1960, pag. 57
55 Umberto Corsini, op. cit., pag. 41
Francesco Corniani, Un marinaio in montagna. Storia di Bruno Viola e dell'eccidio di Malga Zonta, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno accademico 2009-2010

venerdì 9 febbraio 2024

Sarebbe stato l’ultimo atto del governo Forlani prima di essere sfiduciato


Secondo il magistrato Giuliano Turone i documenti sequestrati all’aeroporto di Fiumicino furono deliberatamente fatti ritrovare da Gelli al fine di lanciare un messaggio chiaro sulla quantità e sulla qualità di informazioni che ancora erano in suo possesso. <66
In quest’ottica, il “PRD” sarebbe servito solamente a stimolare una reazione da parte di quei settori della classe politica più compromessi con la storia piduista; un canovaccio di idee atte a richiamare all’ordine tutti quei personaggi politici che sono legati a filo doppio alle logiche e ai ricatti del sistema P2. Quest’ultimo giudizio coincide parzialmente con quello dato da Teodori nella relazione finale, che giudica il “Piano” un “pezzo di carta […], un collage di ovvie e banali proposte di riforme costituzionali in circolazione negli ambienti politici ed accademici alla metà degli anni settanta”. In conclusione il “Piano di Rinascita Democratica” era un testo che lasciava presagire l’ipotesi di una istituzione totale chiusa all’impegno di cittadini consapevoli. Un trattato che se non destabilizzava il sistema democratico, certamente lavorava per mettere la sordina alle sue componenti più vitali.
1.3 La legge istitutiva.
Nei giorni successivi alla perquisizione e al sequestro di Castiglion Fibocchi, il silenzio avvolgeva l’intera operazione della Procura della Repubblica di Milano. Niente era trapelato a livello ufficiale e l’affaire P2 occupava un posto marginale nelle redazioni dei giornali. Ma le voci insistevano nel mese di marzo, e i trafiletti diventavano articoli guadagnando il sempre più vivace interesse dell’opinione pubblica, tanto che nel mese di aprile già ci si domandava: “Quali segreti nelle carte di Gelli?” <67
All’inizio del maggio 1981 alcuni deputati del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale avevano depositato un disegno di legge che estendeva i poteri della Commissione parlamentare che stava indagando sul caso del banchiere Sindona allo scopo di appurare i possibili collegamenti con le inchieste giudiziarie partite dalla Procura della Repubblica di Milano che interessavano il ruolo svolto dalle logge massoniche negli avvenimenti politici, economici e bancari, degli anni 1970-1980. <68
Mentre il Presidente del Consiglio Forlani definiva “fantasiosi” <69 i nomi dei presunti iscritti alla loggia P2 che i giornali continuavano a pubblicare, il settimanale “Panorama” si era spinto a divulgare un’intera lista di 82 personalità del mondo politico, delle forze armate, della magistratura, dell’editoria, del giornalismo e delle banche. Erano nomi importanti: vi si trovava il ministro del Commercio con l’estero, Enrico Manca <70, il senatore Gaetano Stammati, il capogruppo del Partito socialista alla Camera, Silvano Labriola, il segretario del Partito social-democratico, Pietro Longo.
Il Presidente del Consiglio Forlani aveva cercato invano di minimizzare la portata dello scandalo. A capo di una coalizione allargata a socialisti, repubblicani e socialdemocratici, composta da 13 ministri democristiani, 7 socialisti, 3 ciascuno ai repubblicani e ai socialdemocratici, l’indole di Forlani non sembrava reggere il peso di decisioni impellenti come quelle a cui il governo era chiamato in quella primavera del 1981 <71
Nel referendum indetto il 17 maggio il mondo cattolico non era riuscito a impedire che gli italiani aderissero a leggi ritenute dalla Chiesa contrarie all’insegnamento evangelico, tanto che il 68% dei votanti aveva espresso il suo assenso alla legalizzazione dell’aborto. Questa prova elettorale era stata preceduta di soli quattro giorni dall’attentato di Mehemet Ali Agca al Papa in una piazza San Pietro gremita di fedeli.
Contemporaneamente proseguiva lo stillicidio delle azioni sanguinarie dei brigatisti. Mentre si imponeva agli onori della cronaca lo scandalo P2, altri episodi di terrorismo politico si aggiungevano ai tanti del precedente decennio: il sequestro del magistrato Giovanni D’Urso e quello dell’assessore regionale in Campania, Ciro Cirillo.
Il 19 maggio a Montecitorio Forlani, rispondendo alle interrogazioni dei deputati, era chiamato a confermare o smentire quegli elementi di carattere mafioso, di affarismo internazionale e di collusione politica che sembravano essere l’architrave portante dell’ associazione segreta; e quali misure erano state adottate per impedire che queste attività potessero svolgersi in violazione della legge; ma soprattutto, chi erano i nomi contenuti nella lista e perchè il Parlamento non ne era stato informato. <72
I nomi riportati sui giornali non consentivano di temporeggiare dal momento che il danno più ingente nascosto dietro lo scandalo era la congettura, che devastava la realtà colpendo tutti indistintamente. Nel rispondere alle interrogazioni, Forlani aveva provato a coprire la propria prudenza con quella “ispirazione garantista e quel rispetto dei valori democratici” che dovevano presiedere ogni momento della vita del governo e che non gli consentivano di scendere in piazza con i forconi prima ancora che le responsabilità dei singoli fossero state accertate al di là di ogni ragionevole dubbio.
Racchiudere il proprio operato entro il perimetro della legittimità democratica non bastava però a spiegare i mesi di inerzia che il governo aveva lasciato trascorrere senza informare il Parlamento e il paese. Pochi giorni prima era stato affidato ad un gruppo di tecnici, detto il “Comitato dei tre saggi”, il compito di capire cosa fosse questa Loggia e quali finalità perseguisse. Composto da eminenti giuristi - Aldo Sandulli, Lionello Levi Sandri, Vezio Crisafulli - scelti per l’importante prestigio delle loro biografie, il comitato aveva concluso i propri lavori dopo poche settimane dall’inizio dell’indagine con un giudizio estremamente pesante sulla Loggia P2 <73. Ma ai più intransigenti che chiedevano l’immediata pubblicazione degli elenchi, Forlani ancora temporeggiava e ancora una volta la responsabilità di questo ritardo non era la sua: "Desidero dichiarare che sono ben lontano da voler opporre il segreto in parola alla conoscenza o alla pubblicazione degli elenchi di presunti affiliati alla loggia P2. Nessuno ostacolo sarà quindi frapposto dal governo. Condivido anzi l’auspicio di una sollecita pubblicazione degli elenchi. Tuttavia spetta alla stessa autorità giudiziaria disporre in ordine alla libera conoscenza del contenuto degli atti e dei documenti suddetti. <74
Tale strategia sembrava dettata più dal calcolo politico che dall’attitudine alla delega, dal momento che il terzo potere dello Stato non avrebbe potuto pubblicare l’elenco degli iscritti alla Loggia senza venire accusato di interferenza illecita. Come ricorda nelle sue memorie Gherardo Colombo: “Scriviamo una lettera a Forlani. Sosteniamo che non esistono controindicazioni da parte nostra alla pubblicazione del materiale. Nonostante la lettera inviata, il governo non decide”. <75 La situazione si era sbloccata grazie alla Commissione parlamentare sul caso Sindona, la quale, con un comunicato ufficiale, aveva annunciato che avrebbe provveduto essa stessa alla pubblicazione delle liste. Solo a quel punto, dal telegiornale della notte, usciva la notizia che il governo aveva deciso. La lista completa degli affiliati alla Loggia massonica P2 veniva pubblicata dall’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio alla mezzanotte del 20 maggio 1981. <76 Sarebbe stato l’ultimo atto del governo Forlani prima di essere sfiduciato. Avrebbe lasciato il posto al primo presidente laico della storia repubblicana, Giovanni Spadolini. Nei giorni successivi alla pubblicazione delle liste, tra il 26 maggio e il 5 giugno 1981, venivano depositate alla Camera quattro proposte di legge per istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2: la prima su iniziativa della Democrazia Cristiana <77; la seconda del Partito Comunista <78; la terza e la quarta rispettivamente del Partito socialista <79 e del Partito socialdemocratico. <80
Le proposte di legge si presentavano tecnicamente simili. Tutte prevedevano una commissione bicamerale, che assicurasse la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo esistente in almeno un ramo del Parlamento. <81 Inoltre per tutti i partiti, l’inchiesta doveva avere carattere sia di controllo - ossia finalizzata ad accertare i caratteri, la natura e le finalità dell’associazione massonica - che legislativa, proponendosi di mettere le Camere nelle condizioni di approntare quegli strumenti normativi e organizzativi necessari ad evitare la ricomparsa del fenomeno criminoso. <82
[NOTE]
66 G. Turone, Il contesto e la teorizzazione del golpe strisciante, op.cit., p. 15.
67 S. Bonsanti, Trovato l’elenco supersegreto dei 1720 massoni della “P2”?, «La Stampa», 24.03.1981; la notizia della perquisizione a Castiglion Fibocchi trapela su un telgiornale della sera già il venerdì 20 marzo 1981; sabato 21 marzo sul «Giornale Nuovo»: “Nell’ambito delle indagini per l’affare Sindona, stasera si è appresa una doppia operazione compiuta dalla magistratura di Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di Licio Gelli, “venerabile maestro” della loggia P2. Per conto dei giudici milanesi l’intervento sarebbe stato operato dalla Guardia di Finanza mentre Roma avrebbe partecipato agli accertamentei attraverso il sostituto procuratore Domenico Sica”; Su «L’Unità» di lunedì 23 marzo “Dopo il sequestro di materiale importantissimo relativo alla Loggia massonica P2 e alle sue attività economiche svolte tramite il bancarottiere Michele Sindona, dopo l’interrogatorio del deputato socialdemocratico Flavio Orlandi per il suo intervento diretto a evitare a Sindona l’estradizione, questa della Usiris, società svizzera, e di Filippo Micheli, segretario amministrativo della Dc, destinatario di ingenti some sottratte alle banche milanesi del Sindona appare un elemento di grande rilievo”.
68 Atti parlamentari - Camera dei deputati - VIII legislatura - Disegni di legge e relazioni. Proposta di legge n. 2580 d’iniziativa dei deputati Tatarella, Pazzaglia, Menniti, Martinat, Rubinacci, Staiti di Cuddia Delle Chiuse. Integrazione della legge 22 maggio 1980, n. 204 istitutiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona mediante l’articolo unico 1-bis: “La commissione ha anche il compito di accertare ruoli e responsabilità di logge massoniche negli avvenimenti politici, economici, finanziari e bancari negli anni 70-80”.
69 Smentita di Forlani sulla loggia di Gelli, in «Corriere della Sera», 12 maggio 1981.
70 Furono altri due i ministri del governo Forlani i cui nomi erano stati ritrovati nelle liste della Loggia P2: il ministro di Grazia e Giustizia Adolfo Sarti e il ministro del Lavoro Franco Foschi.
71 Definito da Alessandro Piazzesi il “coniglio mannaro”, secondo le suggestioni di Indro Montanelli: “Forlani era un uomo senza molti nemici. Non li aveva per il temperamento accomodante, per le enunciazioni politiche totalmente generiche e prive di qualsiasi concretezza. Mediocre nel comandare, sublime nel minimizzare”, in I. Montanelli, L’Italia degli anni di fango, Milano, Rizzoli, 1993, p. 170; per una coeva ricostruzione politica dei mesi immediatamente precedenti l’istituzione della Commissione d’inchiesta si veda E. Scalfari, Da Sindona a Gelli, in A. Barberi, L’Italia della P2, Milano, Mondadori, 1981.
72 Camera dei Deputati - Discussioni - Seduta del 19 maggio 1981, p.29859 e sg. L’interpellanza a firma Bonino e altri chiede che la Presidenza del Consiglio “pubblichi per intero e immediatamente l’elenco di questa società segreta, lasciando poi ai magistrati e agli interessati il compito e l’onere di acclarare se la semplice appartenenza alla P2 si sia accompagnata per ciascuno di essi ad un comportamento illecito o no”. Nella medesima direzione si muovono le interpellanze degli altri gruppi parlamentari.
73 Il Comitato amministrativo, cominciò i suoi lavori il 7 maggio 1981 consegnando la relazione finale il 5 giugno 1981. La P2 veniva definita “una formazione postasi fuori dall’ordinamento massonico [...] Il vertice della cosiddetta loggia P2 gelliana ha vissuto e si è proposto di operare in Italia come un luogo di influenza e di potere occulto insinuandosi nei gangli dei poteri pubblici e della società civile, e di ordinare in un unico disegno bisogni, aspirazioni, ambizioni e interessi individuali sì da convogliarli verso tutt’altri risultati che quelli della solidarietà umana intesa nel suo autentico significato. [...] Un’associazione occulta può diventare uno Stato nello Stato. E questo non può esser consentito nell’ordine democratico. Un’associazione occulta potrebbe non soltanto contribuire a snaturare il sistema rappresentativo della Repubblica, potrebbe altresì far deviare quegli organi pubblici che sono tenuti a far puntuale applicazione delle scelte del potere politico e ad osservare l’imparzialità nell’esercizio delle rispettive attribuzioni. Nè può essere taciuta la nefasta azione che i centri di influenza occulti potrebbero essere in grado di esercitare in tutta la società civile condizionando le attività economiche, l’informazione, la vita dei partiti e dei sindacati”.
74 Camera dei Deputati - Discussioni - Seduta del 19 maggio 1981.
75 Lettera di G. Turone e G. Colombo ad Arnaldo Forlani, 20 maggio 1981, in CP2, Allegati, Serie II, Vol. I, tomo IV, p. 56; mi sono avvalso di G. Colombo, Il vizio della memoria, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 66. . Inoltre per tutti i partiti, l’inchiesta doveva avere carattere sia di controllo - ossia finalizzata ad accertare i caratteri, la natura e le finalità dell’associazione massonica - che legislativa, proponendosi di mettere le Camere
76 Cfr. Barberi (a cura di), L’Italia della P2, op. Cit.; S. Flamigni, Trame atlantiche, op.cit.; G. Galli, La venerabile trama, Lindau, Torino, 2007; G. Mastellarini, Assalto alla stampa, Dedalo, Bari, 2004.
77 Atti Parlamentari, Camera dei deputati, VIII Legislatura, Disegni di legge e relazioni, proposta di legge n. 2623 d’iniziativa dei deputati Carta, Del Rio, Fontana Elio, Grippo, Mora Gianpaolo, Padula, Segni, Silvestri, Zarro, Zurlo, presentata il 26 maggio 1981, Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia Massonica P2.
78 Ivi, proposta di legge n. 2632, d’iniziativa dei deputati Fracchia, Cecchi, Chiovini, Pochetti, presentata il 2 giugno 1981, Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia P2.
79 Ivi, proposta di legge n. 2634, d’iniziativa dei deputati Casalinuovo, Seppia, Raffaelli Mario, Sacconi, Falisetti, Ferrari Marte, presentata il 3 giugno 1981, Costituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla cosiddetta Loggia massonica Propaganda 2.
80 Ivi, proposta di legge n. 2643 d’iniziativa dei deputati Reggiani, Rizzi, Cuojati, Madaudo, Furnari, Costi, presentata il 5 giugno 1981, Istituzione di una Commissione palamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2.
81 Così come stabilito con legge istitutiva della “Commissione Moro”, 23 novembre 1979, n. 597, la quale prevedeva che, oltre a garantire la proporzionalità tra i vari gruppi si dovesse comunque assicurare la presenza di un rappresentante per ciascuna componente politica costituita in gruppo in almeno un ramo del Parlamento, Senato della Repubblica, “Bollettino delle Giunte e delle Commissioni”, 12 maggio 1977.
82 La normativa delle Commissioni parlamentari era stata definita in Assemblea Costituente sull’onda della caduta del fascismo, dove era prevalsa la funzione di garanzia. L’articolazione del dibattito sviluppatosi nei decenni successivi intorno allo strumento dell’inchiesta parlamentare è ben descritto in G. De Vergottini (a cura di), Le inchieste delle Assemblee parlamentari,Rimini, Maggioli, 1985; per la distinzione tra inchieste legislative e inchieste di controllo mi sono avvalso di G. Troccoli, Le Commissioni parlamentari di inchiesta nella esperienza repubblicana, op. cit., p. 47; in G. Recchia, L’informazione delle Assemblee rappresentative, Napoli, Jovene, 1979, p. 252-257; in G. Maranini, Storia del potere in Italia, 1848-1967, Firenze, Vallecchi, 1968. Per una trattazione divulgativa delle Commissioni parlamentari come strumento di inchiesta ho consultato A. P. Tanda, Fondamenti normativi e prassi dell’inchiesta parlamentare, in Regione Toscana (a cura di), Le Commissione parlamentari di inchiesta, Regione Toscana, Firenze, 1997; per un raffronto storico sulle inchieste parlamentari negli ordinamenti europei e americani rimando a P. Avril, Le commissioni d’inchiesta in Francia, p. 313; B. Bercusson, Le commissioni parlamentari d’inchiesta nel diritto costituzionale britannico, p. 325 in G. De Vergottini; A. Reposo, L’ordinamento statunitense e Le inchieste negli ordinamenti socialisti, Padova, La Garangola, 1975.
Lorenzo Tombaresi, Una crepa nel muro. Storia politica della Commissione d'inchiesta P2 (1981-1984), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno Accademico 2014-2015

domenica 4 febbraio 2024

C'è anche un altro elemento da considerare rispetto al mancato consenso della classe operaia milanese verso il fascismo


Il rinascere della mobilitazione operaia nel triangolo industriale e in particolare a Milano è strettamente connesso con l'andamento generale della guerra e con il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Il fascismo non era mai del tutto riuscito a rompere quella resistenza morale e ideologica che i lavoratori industriali avevano opposto negli anni del regime; questo non necessariamente per identificazione con gli sconfitti degli anni Venti (sebbene la memoria dell'origine antiproletaria del movimento mussoliniano permanesse soprattutto nelle generazioni più vecchie), quanto per quello che il fascismo aveva concretamente significato per le condizioni di lavoro in fabbrica: compressione salariale, negazione della rappresentanza e dell'autonomia dei lavoratori, la 'trappola' del corporativismo interclassista. Uno dei terreni su cui si svolgerà l'interpretazione operaia della lotta antifascista sarà appunto la questione della rappresentanza, come testimoniano le interpretazioni 'consiliariste' di molte organizzazioni operaie e della sinistra classista a Milano relativamente alle commissioni interne istituite dopo l'8 settembre, in parte mantenute anche sotto Salò, e ai CLN aziendali: "La richiesta dei consigli era comparsa nel 1942 in un giornale il cui titolo e sottotitolo erano già tutta una rimembranza: 'L'Ardito del popolo. Organo degli operai, contadini e soldati'. La Federazione comunista libertaria milanese si rivolse al CLN provinciale informando di aver partecipato 'con altri movimenti rivoluzionari alla creazione di un movimento per la costituzione dei consigli di fabbrica, riprendendo l'idea torinese dell'altro dopoguerra', e di avere conseguentemente formato le 'brigate dei consigli', che chiedevano di operare 'in accordo con quelle del CLN'. I bordighisti del Partito comunista internazionalista rivendicarono anch'essi i consigli come organo della rivoluzione. La marginalità di questi gruppi e la posizione minoritaria dei socialisti che facevano capo a Lelio Basso, anch'essi favorevoli ai consigli, suffragano il giudizio espresso di recedente da uno dei più sensibili, fra i protagonisti di quegli eventi, alla tematica consiliare. Vittorio Foa ha infatti escluso che durante la Resistenza sia davvero riemersa 'la linea rivoluzionaria dei consigli di fabbrica' […]: i consigli del periodo resistenziale furono, e non solo in Italia, 'strumenti di collaborazione di classe e di democratizzazione del sistema sociale'. […] Lo spirito consiliare e autonomistico che animava un'ala del Partito d'azione si riversò più che sui consigli, soprattutto sui CLN […]". <259
Tuttavia, come vedremo, questa interpretazione rivoluzionaria della rappresentanza operaia o comunque legata alla necessità operaia di autonomia e controllo, ha un seguito molto superiore ai soli gruppi dell'estrema sinistra, arrivando a contagiare buona parte della base operaia del Partito comunista. Quando i repubblichini e gli occupanti nazisti riconoscono infatti le commissioni interne badogliane, il PCI dà ordine di scioglierle e rifiutarle, ma molti simpatizzanti e militanti non accettano e manifestano critiche, dubbi: "Non si trattava di opposizioni poco qualificate. Le riserve vengono dagli stessi compagni della base, da fabbriche che hanno al loro attivo dure e recenti lotte. Nel novembre il comitato di fabbrica della Breda rivolge alla direzione del partito una lettera contenente ampie riserve sulla sua decisione: le commissioni interne, scrive il comitato comunista di fabbrica, garantiscono la sorveglianza della mensa e della mutua; controllarle può significare impedire il ritorno dei fascisti a posti di rilievo, porre i compagni al riparo da persecuzioni". <260
Su questo punto incontriamo il nodo dell'interpretazione 'istituzionale' critica che una parte della Resistenza esprimerà attraverso quella che Claudio Pavone ha definito 'ideologia consiliare' o 'ideologia dell'autonomismo' <261.
Ed è sul terreno sindacale che si consuma la prima significativa rottura tra il governo Badoglio e operai del nord nell'agosto ‘43: il nodo è quello della libertà di rappresentanza e della rottura con l'apparato fascista, attraverso nuovi organismi. Badoglio aveva infatti disposto il passaggio delle organizzazioni sindacali di regime alle dipendenze dei prefetti, ma il ministro delle corporazioni, Piccardi, aveva avviato contatti con esponenti del vecchio sindacalismo prefascista per nominarli commissari e vicecommissari alle diverse confederazioni: "L'operazione è diretta a blandire ed a rassicurare l'opinione pubblica antifascista, ma non si svolge senza contrasti. Ci sono delle ostilità all'interno del governo in primo luogo, provenienti dall'ala più vicina al re, attestata su una linea che vuole la continuità dell'apparato statale e che si illude di conservare un blocco di sane forze d'ordine attorno alla monarchia senza concessioni all'antifascismo o alle richieste popolari. Questa linea è perdente a tutti gli effetti, ma altri conflitti si annodano attorno alla questione sindacale". <262
Ciò cui fa riferimento Ganapini sono le richieste di libertà politica e sindacale, di cui gli scioperi estivi del '43 in particolare a Milano si fanno portavoce nazionali. I commissari sindacali diventano così, da strumento di legittimazione del nuovo governo, dimostrazione del limite invalicabile tra questo e l'antifascismo.
C'è anche un altro elemento da considerare rispetto al mancato consenso della classe operaia milanese verso il fascismo: la sua composizione e le caratteristiche dell'operaio meneghino e dell'hinterland di fine anni Trenta - inizio Quaranta. Alla vigilia della guerra, nel '40-'41, si verifica infatti un incontro importante che è generazionale e sociale al tempo stesso: i vecchi nuclei di lavoratori urbani, dove più forte è la tradizione operaista e l'identificazione con gli sconfitti degli anni Venti, si contaminano con i giovani operai di origine contadina e recente inurbamento. Sono figli di gruppi sociali poverissimi, provenienti dalla Brianza a nord o dalla vastissima area agricola a sud, che vivono le difficoltà dell'immigrazione e non usufruiscono di provvidenze e dopolavoro; inoltre sono i principali obiettivi di quella rivalità tra operai e contadini che la propaganda fascista ha sempre esaltato, fattore che alimenta il senso di emarginazione ed esclusione nei secondi. Non che la classe operaia fosse immune dal pregiudizio antirurale: a Milano il termine 'paolott', bigotto, si riferisce proprio agli immigrati di origine contadine, descritti come sottomessi e incapaci di ribellione <263.
Tuttavia lo scoppio della guerra, il suo andamento, la crisi economica e alimentare, la militarizzazione dell'industria portano a crepe importanti nell'apparato del regime che, alla fine del '42, aprono uno spazio significativo perché la vecchia e la nuova classe operaia esprimano il loro malcontento che presto sfocia in protesta a carattere sindacale. I bombardamenti angloamericani sulla città e nei dintorni rappresentano l'innesco per le prime ridotte, ma significative mobilitazioni già nel novembre-dicembre 1942: "Le masse operaie, che a differenza degli abitanti del centro non possono permettersi di seguire il sensato consiglio del dittatore [di sfollare fuori città, NDA], reagiscono come possono. Anche se i loro atti di indisciplina sono ancora contenuti e limitati (relazione del 25 novembre 1942) hanno sufficiente energia per manifestazioni di malumore alla Breda, all'Alfa Romeo, alla Magneti Marelli; mentre un ritardo nella corresponsione delle paghe provoca all'Isotta Fraschini una sospensione temporanea del lavoro (relazione del 26 dicembre 1942)". <264
Il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro rappresentano un elemento unificante tra le diverse generazioni ed estrazioni di operai che, unitamente alla questione abitativa e dei trasporti (connesse direttamente ai danni dei bombardamenti e della guerra), trovano nella fabbrica e nella vita quotidiana i fronti delle loro vertenze. In particolare il fronte delle necessità quotidiane, esterne al posto di lavoro, come luoghi della battaglia sindacale e politica, diventerà importantissimo nella fisionomia della politica del conflitto a Resistenza avviata e nel dopoguerra.
Fino all'8 settembre possiamo individuare i seguenti episodi di conflitto: le già citate astensioni dal lavoro dell'inverno 1942 centrate, fuori dalla fabbrica sulla questione alimentare, abitativa e sanitaria, dentro la fabbrica sul regime di lavoro; gli scioperi del marzo 1943 in Alta Italia, che a Milano iniziano in ritardo a fine mese e che segnano l'inizio vero e proprio della prima parte del ciclo conflittuale di guerra, che durerà fino allo sciopero generale di un anno dopo: la mobilitazione scatena una dura repressione che renderà impossibile fino al 26 luglio qualunque altra manifestazione operaia <265; manifestazioni e scioperi che dal tardo luglio e per tutto agosto attraversano il paese e in particolare i poli industriali; a Milano in particolare il 2 agosto viene lanciato (sulla base dei contrasti già descritti) un ordine del giorno fortemente antibadogliano centrato su 'pane, pace, libertà'. La ripresa di intensi bombardamenti sui grandi centri del nord, tra l'8 e il 17 agosto scatena mobilitazioni e scioperi ancora più vasti. <266
Questione sindacale, questione politica, questione della pace si intrecciano in questa prima fase di politica del conflitto che si relaziona con due interlocutori governativi diversi (la dittatura fascista e il governo monarchico-militare di Badoglio) e dove cresce d'importanza la parola d'ordine dell'insurrezione antifascista fino al 25 luglio e centrale diventano quelle della pace e della libertà sotto Badoglio. I comitati unitari delle opposizioni che nascono nella prima metà del '43 hanno infatti nell'azione insurrezionale il principale elemento di divergenza; la soluzione legalitaria, il golpe di palazzo di luglio mette al riparo (momentaneamente) il fronte antifascista moderato da una prospettiva scomoda.
Le modalità con cui questi interlocutori interpretano e gestiscono il conflitto sociale che esplode in particolare nell'estate confermano la sostanziale continuità con il fascismo e mostrano la ricomparsa di antiche culture di governo, costitutive della classe dirigente italiana: "Attuali agitazioni assumono qua e là tendenza comunista. Masse operaie intenderebbero secondo notizie fiduciarie prossima notte oppure notti successive occupare mano armata uffici pubblici. Pregasi prendere opportuni accordi con autorità militare per stroncare con qualsiasi mezzo tentativi del genere". <267
E ancora: "Le autorità militari pensano di poter rispondere con la forza. Sui maggiori centri industriali vengono fatti affluire consistenti rinforzi. A Milano, in particolare, viene inviata 'una delle due divisioni dislocate sulle “posizioni d'arresto” della Toscana ed una parte delle divisioni di cavalleria rientrate dalla Russia (reggimento bersaglieri e l'artiglieria)'. Il comportamento cui devono ispirarsi le forze in servizio d'ordine pubblico è fissato dalla nota circolare Roatta: '…qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe […] delitto: […] poco sangue versato risparmia fiumi di sangue in seguito' ". <268
86 morti e 329 feriti è il bilancio della repressione governativa; solo a Milano e provincia i morti sono 26. Era corretto il sospetto che avevano le vecchie e le nuove autorità di una presenza comunista dietro le agitazioni? Sicuramente è dalle pagine de l'Unità clandestina che partono gli appelli e le indicazioni sugli obiettivi delle proteste, ma le manifestazioni di strada e molte proteste di lavoro nascono spontaneamente. Il Partito comunista precedente alla svolta di Salerno <269 dell'agosto 1944 è ancora un partito a prevalente tendenza insurrezionalista e cospirativa, con (ridottissimi) nuclei di militanti clandestini nelle fabbriche, l'unico (assieme alle formazioni 'Giustizia e libertà') a non aver lasciato il paese nei duri anni della dittatura. Quando si presenta l'occasione, poche decine di volantini e le copie illegali de l'Unità servono a fornire un embrione di contenuto politico alle lotte economiche e di sopravvivenza. Ed è qui che comincia a formarsi l'immaginario operaio del 'nemico', dove si sovrappongono le figure del fascista, del padrone e, dopo l'8 settembre, dell'occupante nazista.
[NOTE]
259 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, p. 315, Borlinghieri 2003 (Prima edizione 1991)
260 L. Ganapini, Una città, la guerra (Milano 1939-1951), p. 69, Franco Angeli 1988
261 C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, p. 81, Bollati Boringhieri 1995
262 Ibidem, p. 56
263 Ibidem, pp. 43-44
264 Ibidem, p. 37
265 Oltre 350 sarebbero stati, secondo diverse fonti orali e testimonianza, gli arresti e le condanne che seguirono gli scioperi.
266 Il 9 agosto alla Pirelli Bicocca di Milano, all'Elettromeccanica, alla Breda, alla Falck di Sesto San Giovanni oltre 15mila lavoratori entrano in sciopero contro la guerra; il 17 agosto il 20-30% degli addetti all'industria di Milano e provincia, circa 65mila persone, si astiene dal lavoro.
267 Carmine Senise (capo della polizia) nel telegramma ai prefetti del 27 luglio 1943, cit. in L. Ganapini, op. cit., p. 51
268 L. Ganapini, op. cit., pp. 52-53
269 Quando il segretario PCI, Palmiro Togliatti, di rientro in Italia lancia la svolta politico-organizzativa definita del 'partito nuovo'.
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017