domenica 28 aprile 2024

La prima forma di violenza sarebbe stata quella «insurrezionale»


Finita la guerra si apre il periodo dei conti con il passato. Il passaggio dalla guerra alla pace infatti necessita di chiudere col passato di guerra e con la dittatura, e di transitare verso un nuovo ordine di pace e un nuovo governo democratico.
Come in ogni transizione, anche nella vicenda italiana, si possono distinguere diverse fasi, quella della resa dei conti, quella dei processi e quella della riconciliazione. Ogni momento è animato da motivazioni e emozioni diverse: la vendetta, la volontà di giustizia, quella di dimenticare e di pacificare il paese. Se i primi due stadi guardano al passato, la pacificazione mira al futuro. La giustizia di transizione infatti è un fenomeno complesso, ed assolve un duplice ruolo, essendo pervasa da un misto di propositi retrospettivi e programmatici. Da una parte infatti nella fase di passaggio l’obbiettivo principale da perseguire è quello di punire i responsabili di crimini di guerra o di regimi politici autoritari, di vendicare e rendere giustizia alle vittime, segnando una rottura e una separazione con il passato.
Francesca Gori, Ausiliarie, spie, amanti. Donne tra guerra totale, guerra civile e giustizia di transizione in Italia. 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013

Se la delinquenza comune aveva destato preoccupazioni a ragione del mutamento qualitativo e quantitativo, un ulteriore fattore destabilizzante aveva riguardato la componente resistenziale. Infatti, le bande criminali avevano occasionalmente incluso individui riconoscibili come partigiani, sia per l’abbigliamento e la presenza di simboli politici apparentemente inequivocabili - come il fazzoletto rosso -, sia perché noti sul territorio. Non si trattava di un fenomeno eccezionale: le circostanze del dopoguerra avevano fatto sì che tutte le categorie di combattenti attive durante il conflitto, dagli alleati agli ex-fascisti, avessero poi alimentato le fila della delinquenza. Tuttavia, la deriva delinquenziale di una minoranza partigiana, ampiamente ribadita dalla stampa locale, aveva avuto un grande impatto sull’immaginario pubblico e aveva fatto leva sulla diffidenza e il sospetto ancora diffusi a livello popolare nei confronti dei patrioti; i dirigenti partigiani e i CLN locali erano quindi stati costretti ad affrontarlo pubblicamente, ribadendo la moralità del movimento e l’alterità rispetto alle sue derive degradanti derive. <51 In alcuni casi l’abbigliamento aveva costituito un escamotage utilizzato dai ladri o dai rapinatori per muoversi indisturbati e suscitare negli interlocutori qualsiasi sentimento permettesse loro la riuscita del colpo, fosse questo il rispetto, la fiducia o la paura; occasioni simili avevano permesso ai patrioti di prendere le distanze dagli episodi con facilità. <52 Tuttavia, talvolta si era trattato realmente di patrioti e partigiani combattenti e queste situazioni avevano ulteriormente complicato il processo di legittimazione della Resistenza, iniziato dai Comitati durante il conflitto. La sezione bolognese del «Giornale dell’Emilia», ad esempio, il 25 agosto 1945 aveva pubblicato un articolo dal titolo "Particolari sui 14 arresti avvenuti a Crevalcore", in merito all’azione condotta dalle forze dell’ordine per «stroncare la delittuosa attività di una banda bene organizzata», responsabile di continui furti, grassazioni e rapine. <53 Tra gli arrestati comparivano 9 ex partigiani. In questo caso specifico, un altro gruppo di resistenti locali aveva coadiuvato l’azione dei Carabinieri di San Giovanni in Persiceto, dando al giornale l’occasione per distinguere i «veri paladini di una nuova giustizia» dai criminali, arrestati a dispetto della vita condivisa in montagna. <54 Un secondo episodio esplicativo è quello di Savigno (BO), che l’11 dicembre 1945 era stato teatro di una serie di rapine che avevano simultaneamente coinvolto due banche, le poste e l’ANPI. Le vie di accesso al paese erano state tutte bloccate, i carabinieri erano stati disarmati e due di loro - un brigadiere e un appuntato - erano stati minacciati di morte. All’azione, che secondo i responsabili aveva lo scopo di raccogliere il denaro necessario per la sepoltura dei partigiani caduti in zona, avevano partecipato anche ex partigiani. L’esperienza aveva poi condizionato le scelte politiche del paese, che alle elezioni successive aveva espresso una massiccia preferenza per la DC. <55 La frequenza e la risonanza di questi episodi avevano condotto a prese di posizioni del movimento resistenziale. Era scattata una vera e propria caccia al “falso partigiano”, condotta a livello sociale e mediatico, ma anche tra le stesse istituzioni. La questione della moralità della Resistenza si era confermata in questo senso fondamentale e discriminante.
[...] Pur riconoscendo l’eterogeneità del fenomeno, che ha raccolto al proprio interno istanze differenti in conformità con i tempi e le specificità locali, l’analisi proposta da Mirco Dondi nell’ambito della sua ricerca sulla «lunga liberazione» ha offerto un quadro di riferimento funzionale alla sommaria comprensione della dinamica, basata sull’intensità delle violenze e sull’estensione cronologica. <62 In conformità con l’analisi proposta dall’autore, la prima forma di violenza sarebbe stata quella «insurrezionale», approssimativamente collocata tra il 20 aprile e il 10 maggio 1945 e caratterizzata dalle mobilitazioni popolari e partigiane proprie del contesto urbano a ridosso della Liberazione, così come dalle esecuzioni di fascisti e collaborazionisti coeve o immediatamente successive. <63 Corrispondeva dunque all’esplosione del livore accumulato durante il ventennio e nel biennio della guerra civile, che tendeva ad indirizzarsi verso figure note e riconosciute dall’opinione pubblica o dai partigiani come collaboratori degli occupanti o della RSI, per «ripulire» il Paese una volta per tutte. <64 Questa prima fase aveva coinvolto sia le forze partigiane che i civili fino ad allora estranei alla guerra di liberazione, che quindi non avevano compiuto la scelta radicale di combattere per la Resistenza e che non si erano adoperati per essa. Si trattava in questo senso di esplosioni di violenza causate dal ricordo e dalle conseguenze delle devastazioni e dei soprusi, ma anche di episodi connessi con la volontà di rivendicare la propria partecipazione all’insurrezione, prima che il conflitto volgesse al termine. I linciaggi e le umiliazioni pubbliche inflitte ai compatrioti e alle compatriote - talvolta compaesani e compaesane - avevano quindi dato sfogo alle tensioni e contemporaneamente rappresentato un rituale simbolico di riappropriazione della sovranità a fronte di uno Stato ancora assente e di purificazione e ricostituzione della comunità di appartenenza. <65
[NOTE]
51 Cfr. Mirco Dondi, op. cit., 2004, pp. 81-90.
52 Mirco Dondi, op. cit., 2004, p. 88. Sulla questione si vedano anche le analisi coeve al fenomeno in: Alessandro Trabucchi, I vinti hanno sempre torto, Torino, De Silva, 1947, p. 240. In merito ad alcuni episodi avvenuti nel reggiano: Vittorio Pellizzi, Trenta mesi: Appunti e documenti sulla lotta di liberazione e sulla prima ricostruzione nella provincia di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Poligrafica Reggiana, 1954, pp. 14-16 e pp. 34-36.
53 [s.a.], Particolari sui 14 arresti avvenuti a Crevalcore, «Giornale dell’Emilia», 25.8.45.
54 Ibidem.
55 Archivio Istituto Parri, Bologna, Fondo Leonida Casali, b.35, f. 18.
62 Mirco Dondi, La lunga liberazione: Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma, 2004.
63 Ivi, p. 8 e p. 91.
64 Cfr. Simeone Del Prete, Il partito comunista italiano dinanzi al «Processo alla Resistenza»: Il Comitato di Solidarietà Democratica e la difesa degli ex-partigiani (1948-1953), tesi di Dottorato, A.A. 2018/2019, Tutor: Gianluca Fiocco, inedita, p. 36; Mirco Dondi, op. cit., 2004, p. 91.
65 Cfr. Toni Rovatti, Ansia di giustizia e desiderio di vendetta. Esperienze di punizione nell’Italia del Centro-nord, 1945-1946, in Enrico Acciai et al., op. cit., p. 79.

Lidia Celli, Giudicare, punire, normalizzare: collaborazioniste e partigiane tra Bologna, Forlì e Ravenna (1944-1955), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno Accademico 2021-2022

“Se i fascisti avevano tanto spesso realizzato la “messa in scena della morte”, il desiderio di chiudere i conti con chi ha insanguinato la propria terra, dopo averla tenuta vent'anni sotto una dittatura, richiede una “messa in scena della vendetta” <968, attraverso linciaggi pubblici, bastonature di prigionieri costretti a passare tra due ali di folla inferocita o “rinchiusi significativamente in gabbie usate solitamente per il trasporto dei suini, e avviati a una tragica tournée nei paesi limitrofi, una “esposizione della colpa” che precede la eliminazione fisica dei condannati, eliminazione che però non avviene pubblicamente ma si traduce nella sparizione nel nulla anche dei cadaveri” <969.
Sono tanti coloro che, a ruoli invertiti, devono bere l'olio di ricino e pulire le latrine. E sono anche tanti i fascisti costretti a compiere la “marcia della vergogna”, tra insulti, urla, botte. Qualcuno riesce a salvarsi <970, qualcun altro viene ucciso a bastonate e poi bruciato. È quanto accade ad un sottufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana, riconosciuto e inseguito da un gruppo di donne, negli stessi luoghi in cui, un anno prima, i nazisti hanno compiuto un massacro: “[…] Gli uomini, compreso il parroco e il medico, in tutto 80 individui, vennero condotti ed ammassati nella piazza del paese […] Uno dei disgraziati tentò di fuggire. Una scarica di mitraglia lo raggiunse e cadde esanime […] Compiuta la strage, gli agonizzanti e i feriti vennero finiti a colpi di pistola. Quell'ammasso di cadaveri venne ricoperto con delle lenzuola, sopra le quali vennero poste delle ramaglie secche e del legname. Tutto venne cosparso di benzina ed incendiato […] Alla popolazione, o meglio alle sole donne rimaste venne impedito per tre giorni di recuperare le salme dei loro cari. I tedeschi rispondevano che lo spettacolo doveva essere visto dagli inglesi […]” <971.
Le donne sono artefici della vendetta ma anche oggetto di punizioni simboliche. In un paese abruzzese, i carabinieri arrestano, per metterla in salvo da una folla di circa 3.000 persone, una ragazza di ventiquattro anni accusata di essere stata l'amante del comandante tedesco e di aver denunciato quattro persone, in seguito fucilate dai nazisti. La caserma, però, viene assaltata e la ragazza viene “afferrata, trascinata nella piazza antistante, massacrata a colpi di scure, di coltello e di altri corpi contundenti dopo essere stata denudata. Ancora viva fu legata con una fune al di sopra del ginocchio destro ed appesa ad un ramo dell'unico albero esistente sulla piazza, nuovamente colpita con bastoni e con sassi fino alla sua morte, avvenuta mezz'ora dopo” <972.
Molte donne sono sottoposte alla completa rasatura dei capelli, spesso in pubblico, così come avviene anche in altri paesi europei. Si tratta di una punizione simbolica che tende a “mettere a nudo” una colpa commessa ai danni della comunità di appartenenza, a volte attraverso la delazione, e a vantaggio degli occupanti con i quali sono intercorsi rapporti di “collaborazione” <973.
C'è, in questi comportamenti, una dimensione pubblica della pena, commisurata ai reati compiuti o dei quali si è accusati. Tutti devono e vogliono vedere e partecipare. La stessa violenza diventa anche rappresentazione e “spettacolo”, attraverso un percorso di espiazione dei colpevoli e di rigenerazione della comunità. Giuseppe Sidoli, responsabile del carcere dei Servi, luogo di prigionia e di torture compiute dai fascisti a Reggio Emilia, viene ucciso a seguito di un pestaggio e il suo corpo, seguito dalla folla, attraversa le strade del centro fino al cimitero <974.
Anche le esecuzioni devono essere pubbliche, in un clima di vendetta e di “festa”: “Chi disgrazieè lè [quei delinquenti] andavano fucilati in piazza, non al poligono. Al poligono? Lo stesso posto dei Cervi e di don Pasquino? Non gli andava fatto un onore così […] io li ho conosciuti […] andavano fucilati in piazza, a mezzogiorno, con la banda” <975.
La folla assiste alla celebrazione della “giustizia”, sia nella versione “popolare” sia nella versione ufficiale dei tribunali. È presente nelle aule in cui si svolgono i processi, fa sentire tutto il suo peso, quasi fisico, la sua rabbia a lungo repressa, ora libera di esplodere e di travolgere il debole diaframma che si frappone tra la Corte e il pubblico, tra il pubblico e gli imputati, tra la procedura formale e la “verità” sostanziale. Si ha difficoltà a contenere questa folla che reclama giustizia e grida vendetta. Nelle sue urla, quasi un prolungamento del dolore patito negli anni del fascismo e della guerra, c'è già la sentenza ritenuta giusta. È, quasi sempre, una sentenza di morte. In alcuni casi, precede quella emessa dal tribunale. A Brescia, “il più feroce rastrellatore fascista, Ferruccio Sorlini, viene ucciso durante il dibattimento da un carabiniere che gli spara una raffica di mitra; subiscono un linciaggio che li porta alla morte anche due imputati, rispettivamente a Padova e a La Spezia” <976. Proprio a La Spezia, “la stessa sentenza di morte non viene considerata sufficiente dal pubblico. Temendo infatti un annullamento della condanna, il pubblico […] uccide nella gabbia l'ex brigatista nero Mario Passalacqua” <977.
Spesso la sentenza di morte è emessa al di fuori delle aule di tribunale e viene eseguita con modalità diverse anche in relazione ai “colpevoli”. Nella notte tra il 6 e il 7 luglio 1945 un gruppo di partigiani compie un'irruzione nel carcere di Schio, preleva un gruppo di detenuti e li uccide a raffica di mitra. I morti sono oltre cinquanta e numerosi sono i feriti. Si tratta di una esecuzione pianificata e insensata che suscita sdegno e condanne anche all'interno del variegato fronte partigiano, tra le forze politiche nazionali e negli ambienti alleati. La comunità vicentina è però divisa e lo sarà anche in seguito. I figli di una delle vittime così ricorderanno quegli avvenimenti: “La massa a Schio odiava quelli che erano stati uccisi, questa è la verità. Fu una rivelazione. E diventò impossibile continuare a stare là […] Pensi che il giorno dopo, quando passarono le cinquantatrè bare, non fermarono neanche le giostre […] Mia madre in chiesa, in cimitero, davanti a quelle cinquantatrè bare ha avuto il coraggio di alzarsi in piedi e dire: “Di fronte a tutte queste vittime dobbiamo giurare che perdoniamo”. Io l'avrei uccisa. Ancora oggi quando c'è una massa di persone io non resisto, devo scappare via […] Le donne che gridavano, quell'atmosfera d'odio […]” <978.
[NOTE]
968 Massimo Storchi, Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra (Reggio Emilia 1943-1946), Marsilio, Venezia, pp. 102-103.
969 Ivi, p.103.
970 “Ogni metro un insulto. Ogni metro una valanga di botte […] apparvero le prime case di Sondrio. La folla si infittì. Un urlo continuo, prolungato, ossessionante ci accompagnò in quell'ultimo tratto”, Giorgio Pisanò, Io fascista. La testimonianza di un superstite, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 71.
971 ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri 1944-1947, f. 19-13/12545, Eccidio e atrocità tedesche a Castelnuovo dei Sabbioni (Arezzo). Testimonianze firmate, citato in Guido Crainz, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, cit., pp. 258-259.
972 Rapporto dei Carabinieri, in ACS, MI PS AGR 1944-1946, b. 75, f. 1/55/2/28, citato in Guido Crainz, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, cit., p. 256. “Qualche anno dopo un sindaco decise di sradicare quell'albero: unico albero della piazza ed elemento della sua identità, ma anche luogo in cui si era consumata la parte finale della tragedia. Qui è forte la tentazione di abbandonare la ricostruzione storica per la metafora: sembra quasi che la piazza debba mutilarsi di una parte di sé per mutilarsi di memoria. Ma deve mutilarsi di memoria per poter continuare ad essere piazza, luogo collettivo, sede di memoria. Luogo di storia che può convivere con la propria storia solo rimuovendola”, ivi, p. 257.
973 “Ne hanno poi tosata un'altra che l'avevano pescata che insegnava ai fascisti dove erano andati i partigiani. L'hanno tosata proprio vicino a casa mia. E poi buona grazia che le hanno solo tosato i capelli, perché se i fascisti prendevano i partigiani gli tagliavano la testa, mica i capelli”. Testimonianza riportata in Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, cit., p.127.
974 “Mi ricordo bene quella cosa lì, quando s'è sparsa la voce 'Han masè Sidoli …[hanno ucciso Sidoli]', la gente che correva al cimitero perché voleva vedere, chi gli sputava addosso, chi rideva, una donna, piccoletta, col fazzoletto in testa a dire 'L'è ancora poc [è ancora poco]'. Era la gente che non ne poteva più […] non è stato bello […] ma anch'io forse avrei fatto lo stesso […] ma ero in divisa e allora cercavo di tenerli indietro”. Testimonianza riportata in ivi, p.116.
975 Gabriele Ranzato, Un evento antico e un nuovo oggetto di riflessione, in Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di Gabriele Ranzato, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. IV, citazione riportata in ivi, p.117.
976 Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, cit., p.50 e p.212, nota 90.
977 Ivi, p. 55
978 Silvano Villani, L'eccidio di Schio, Mursia, Milano 1994, p. 67. Citato da Guido Crainz, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, cit., p.268. Su questi avvenimenti vedi: Sarah Morgan, Rappresaglie dopo la Resistenza. L'eccidio di Schio tra guerra civile e guerra fredda, Bruno Mondadori, Milano 2002; Ezio Maria Simini, … e Abele uccise Caino. Elementi per una rilettura critica del bimestre della “resa dei conti”. Schio 29 aprile-7 luglio 1945, B.M. Marcolin, Schio 2000; Sentenza pronunciata dalla corte di assise di Milano per l'eccidio di Schio: Milano, 13 novembre 1952, Tipografia F. Meneghini, Thiene 1987; Giuseppe Mugnone, Operazione Rossa. Analisi storica degli eccidi e dei delitti isolati compiuti in Italia dal 1945 al 1948, Tip. Gori di Tognana, Padova 1959. Sottotitolo in copertina: Il processo della Corte alleata per l'eccidio di Schio. Vedi anche: Archivio dell'Istituto Storico della Resistenza di Vicenza, Sezione “Il dopoguerra nel vicentino”, sottosezione “L'eccidio di Schio (luglio 1945)”. 1 busta contenente: Cartella 1. Documenti e cronache sull'eccidio di Schio. Cartella 2. Relazione medica sui feriti dell'eccidio. Cartella 3. Promemoria Legione Carabinieri sull'eccidio. Cartella 4. Interrogatori condotti da John Valentino [agente della V Armata americana che conduce l'inchiesta]. Cartella 5. Processo del 1945. Cartella 6. Articoli 1948-1949 sull'eccidio. Cartella 7. Articoli sull'eccidio di Schio 1950-2000. Cartella 8. Sulla morte di Germano Baron (“Turco”) [Comandante partigiano, Medaglia d'oro al Valor Militare]. Più in generale vedi: Elena Carano, Oltre la soglia. Uccisioni di civili nel Veneto 1943-1945, Cluep, Padova 2007.

Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

domenica 21 aprile 2024

Dalla strage nazista di Sant’Anna di Stazzema a quella di Massaciuccoli


Dopo i rastrellamenti del 10 agosto e i sanguinosi fatti del giorno successivo, la RFSS continuò ad imperversare in territorio versiliese. Il 12 agosto 1944 si consumò la tragedia più grande. All’alba di quel giorno, diverse squadre di soldati tedeschi mossero verso il paese di Sant’Anna di Stazzema <624, piccolo agglomerato di case sulle colline del comune omonimo a una ventina di chilometri di strada da Massarosa. Appartenevano al 2° Battaglione del 35° Reggimento della 16ᵃ Divisione SS ed erano appoggiati da altre truppe della stessa unità e della Wehrmacht <625. In una vera e propria operazione di terra bruciata, che non lasciò scampo a cose e persone, le SS uccisero entro la mattinata circa 400 civili <626, facendo di questo il secondo massacro più grave compiuto in Italia dalle truppe tedesche, superato solamente da quello di Monte Sole <627. Le motivazioni di questa strage, le cui modalità non rimasero circoscritte ad essa, non sono facili da individuare, ma la volontà sterminatrice di tale azione non può essere messa in dubbio. Le finalità erano semplicemente di annientare qualsiasi persona – anziano, donna o bambino che fosse – nell’area circoscritta in cui si prevedeva di effettuare il rastrellamento <628. Poco più di un mese dopo, a Monte Sole, un’analoga azione determinò il più grande massacro compiuto da forze tedesche in Europa occidentale, con 770 vittime accertate <629.
Nel massarosese, dopo i luttuosi fatti della prima decade di agosto, i reparti della 16ᵃ Divisione si limitarono a ulteriori rastrellamenti di lavoratori, anche se su scala molto più ridotta rispetto a quelli del 10. Nel paese la tensione rimaneva però palpabile e la paura si era ormai insinuata all’interno della popolazione. Gli uomini che non erano stati ancora presi si erano nascosti o erano fuggiti sui monti, mentre donne, vecchi e bambini vivevano quasi da reclusi nelle proprie case. L’ultimo mese di occupazione venne passato in questo modo dalla maggioranza dei massarosesi. Anche don Chicca e il personale della chiesa di Massarosa, temendo di essere potenziali vittime dei rastrellamenti tedeschi, decisero di passare praticamente in clausura l’ultimo mese di occupazione, pur cercando di continuare a svolgere le opere pastorali e l’assistenza ai più bisognosi <630.
La situazione peggiorò drasticamente con l’inizio di settembre, quando il IV Corpo d’Armata americano del generale Crittenberger passò il fiume Arno e iniziò la sua avanzata che l’avrebbe portato, poco più di due settimane dopo, a liberare quasi tutta la Versilia <631. I tedeschi si allarmarono, capendo evidentemente che non avrebbero potuto tenere la piana della Versilia molto a lungo prima di ritirarsi sulle fortificazioni della linea Gotica, le quali erano state allestite diversi chilometri più a sud di quanto preventivato inizialmente. Questo però non impedì loro di infierire ulteriormente sull’inerme popolazione civile, che prima di assaporare la sospirata liberazione avrebbe pagato un ultimo dazio alla guerra.
L’inizio della ritirata indusse i tedeschi a cercare di racimolare quanta più manodopera possibile, questa volta senza tenere in alcun conto l’età e il sesso dei rastrellati. Tra il 1° e il 2 settembre viene emanato un ordine di sfollamento generale dei paesi di Massaciuccoli, Nozzano, Balbano, Compignano, Quiesa e Massarosa. Parte della popolazione venne incolonnata e mandata verso nord, ma la vera tragedia si compì a Massaciuccoli, il cui territorio era già stato pesantemente martoriato da alcuni precedenti massacri e dai rastrellamenti della prima metà di agosto <632. Alle 6,30 della mattina del 1°, a seguito del primo sfondamento alleato del fronte di Pisa, circa 400 persone, praticamente l’intero paese, venne radunato e rinchiuso nel grande edificio dove veniva brillato il riso (la «brilla», come è conosciuto da tutti nel comune di Massarosa), di proprietà del conte Carlo Minutoli Tegrimi <633. Una parte più piccola viene a sua volta rinchiusa in un altro edificio poco lontano, anch’esso di proprietà del conte, che fungeva da frantoio. Entrambi si trovano in località «Molinaccio», sulla strada che da Massaciuccoli conduce a Quiesa. Ad occuparsi dell’azione fu il 1° Battaglione del 36° Reggimento della RFSS, al comando dello Sturmbannführer Ludwig Gantzer <634.
[NOTE]
624 Per una ricostruzione della strage di Sant’Anna di Stazzema cfr. Paolo Pezzino, Sant’Anna di Stazzema. Storia di una strage, Il Mulino, Bologna 2008. Si veda anche la sentenza del processo di La Spezia del 2004, disponibile sul sito del comune di Stazzema, nella quale è contenuta una lunga ricostruzione storica degli
eventi.
625 Pezzino, Sant’Anna di Stazzema, cit., p. 15.
626 A tutt’oggi non esiste un conteggio ufficiale dei morti. Nel paese di Sant’Anna erano presenti molti sfollati che aumentarono di molto il normale numero di residenti fissi. A questo si aggiunge l’opera distruttiva fatta dal fuoco, che ha quasi certamente divorato alcuni corpi fino a non lasciarne traccia, rendendo il conteggio ancora più difficile. La sentenza del tribunale di La Spezia parla di un elenco incompleto di 363 vittime accertate. Fulvetti, Uccidere i civili, nota 94, p. 230.
627 Per le vicende che videro coinvolta l’area di Monte sole, compresa la feroce azione contro la formazione partigiana «Stella Rossa», che portò alla strage del 29 settembre-5 ottobre 1944, cfr., Luca Baldissara – Paolo Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, Il Mulino, Bologna 2009.
628 Pezzino, Sant’Anna di Stazzema, cit., p.72.
629 Per la strage di Monte Sole è stato fatto un lungo lavoro di ricerca che ha permesso di stabilire, con un buon grado di approssimazione, il numero delle vittime, appunto 770. Per anni si era parlato di una cifra ben maggiore di circa 1.800 morti. È auspicabile che un lavoro di questo tipo venga effettuato anche per il caso di Sant’Anna.
630 APM, Cronache 1938-1966 (B-F 65 372), Breve cronistoria della Parrocchia di Massarosa dall’anno 1938.
631 AA.VV., Fifth Army History – Part VII – The Gothic Line, Government Printing Office, Washington, D.C. 1947, pp. 31-35.
632 Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 247.
633 Comune di Massarosa, Ricordare la guerra per educare la pace. Massaciuccoli, 8 settembre 1944, Pacini Fazzi, Lucca 1995, p. 14.
634 Fulvetti, Uccidere I civili, cit., p. 247.

Jonathan Pieri, Massarosa in guerra (1940-1945), Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2013-2014

giovedì 18 aprile 2024

Durante tutti gli anni Ottanta la tensione tra politici e magistrati riguarda in particolar modo il partito socialista


Nel corso dell’ottava legislatura, come abbiamo visto attraverso qualche cenno, si definiscono gli equilibri politici, basati sostanzialmente sull’accordo tra socialisti e democristiani, che si mantengono per tutti gli anni Ottanta e fino al 1992-1993, biennio che segna il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Pur trattandosi di un equilibrio caratterizzato da un alto livello di conflittualità interna tra i partiti della coalizione, in primo luogo tra il Psi e la Dc <14, ma anche tra le varie correnti di quest’ultima, il “pentapartito” costituisce la formula che permetterà di sostenere i governi che si susseguono nel corso del decennio.
Parallelamente, nei primi anni Ottanta, si cristallizza anche una contrapposizione che vede da una parte alcune forze politiche, a cominciare dal Psi di Craxi e da alcune aree della Dc, e dall’altra la magistratura; essa deriva, in massima parte, dall’atteggiamento di dura critica nei confronti dell’ordine giudiziario e di quell’attività di giurisdizione che contribuisce a svelare all’opinione pubblica condotte illegali da parte di politici, cosa evidentemente non gradita dagli esponenti di partito. Si tratta di una contrapposizione che deriva dal fatto che la magistratura ha ormai assunto pienamente le sue caratteristiche di potere diffuso, nell’ambito del quale esiste una pluralità di opinioni e di atteggiamenti circa le modalità di applicazione delle leggi e circa l’esercizio della giurisdizione e non, come fino circa alla fine degli anni Sessanta, una sostanziale contiguità e unità d’indirizzi e d’intenti tra magistratura e classe politica di governo.
Durante tutti gli anni Ottanta la tensione tra politici e magistrati riguarda in particolar modo il partito socialista e si sviluppa alternando periodi di maggior tranquillità istituzionali con vere e proprie crisi. Molte di queste coinvolgono in prima persona il Presidente della Repubblica (e presidente del Csm), Francesco Cossiga, a cominciare da quella che si verifica dopo la condanna di alcuni esponenti socialisti per diffamazione. Ugo Intini, Salvo Andò e Paolo Pillitteri, secondo una sentenza del novembre 1985 emessa dal Tribunale di Milano <15, avevano diffamato il pubblico ministero del capoluogo lombardo Armando Spataro per la sua gestione dell’accusa ai terroristi responsabili dell’omicidio di Walter Tobagi, socialista e amico personale di Craxi, avvenuto nel 1980. Dopo tale condanna il segretario del Psi conferma pubblicamente la sua solidarietà ai dirigenti e fa sue le critiche ai magistrati <16 per le pene, considerate troppo lievi, irrogate agli omicidi; queste dichiarazioni spingono il Csm, su iniziativa di Magistratura indipendente, a discutere il caso al fine di tutelare i magistrati attaccati. Ma l’ordine del giorno predisposto trova la netta opposizione da parte di Cossiga, il quale afferma che è inammissibile un intervento del Consiglio su atti o dichiarazioni del capo del governo; tutti i magistrati membri del Csm rassegnano allora le dimissioni, atto che induce Cossiga ad ammorbidire i toni. Il Presidente della Repubblica interviene poco dopo affermando che il Csm ha assunto grandi meriti durante il terrorismo, ma che ora si rende necessario tornare alla normalità <17.
Romano Canosa attribuisce al Csm la responsabilità maggiore in un secondo episodio di conflitto con Cossiga, che ha luogo nel mese di gennaio 1986 e che ha come oggetto l’organizzazione di un dibattito, proposto da alcuni consiglieri di Magistratura democratica, circa le linee di politica giudiziaria che i candidati a vicepresidente dell’organo di autogoverno adotterebbero in caso risultassero eletti. A tale dibattito si oppone con decisione Cossiga, argomentando che il Csm non può fissare le linee di attività del consiglio alle spalle del presidente, il quale verrebbe ad assumere un ruolo solo formale; questa volta Cossiga ha la meglio ed i commissari tornano sui loro passi.
Gli anni successivi però sono caratterizzati da una notevole tensione latente tra il Csm ed il capo dello Stato, tra pause e varie «punture di spillo» <18, praticamente durante tutto il settennato. Si tratta di una contrapposizione che deriva, in qualche misura dalla particolare personalità del capo dello Stato, ma che ha soprattutto valenza politica nella misura in cui ha come oggetto l’attribuzione e l’esercizio di poteri reali.
Il contrasto tra magistrati ed alcune forze politiche si manifesta anche attraverso l’organizzazione del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, promosso all’inizio del 1986 da socialisti, radicali, liberali e socialdemocratici e definito di «carattere pretestuoso» da Pizzorusso <19. La proposta referendaria inizialmente include un quesito sulla legge elettorale del Csm, già presente nel programma del governo Craxi nel 1983 <20, ma questo viene bocciato dalla Corte costituzionale. Esso costituisce, secondo Canosa <21, la vera mira del Psi, anche perché questo partito non propone alcun sistema alternativo e quindi non è chiaro quale sia il suo fine (sul punto specifico) se non quello di delegittimare il Csm. Ma se le intenzioni dei socialisti sono «pretestuose» o oblique, la proposta politica, che consiste nel rendere i magistrati civilmente responsabili di fronte a casi dimostrati di danni ai cittadini causati da “colpa grave”, sembra condivisibile dalla gran maggioranza delle forze politiche, non escluso il partito comunista, il quale si pronuncia apertamente per il “sì”. L’intero ordine giudiziario però si schiera in senso contrario e anche Magistratura democratica afferma la necessità di salvaguardare i giudici. Non sono certo estranee a questo atteggiamento istanze tipicamente corporative, anche se unite, in particolare per quanto riguarda Md, ad esigenze reali che riguardano la realizzazione della libera espressione della giurisdizione, la quale potrebbe trovarsi condizionata dal timore di danni futuri a causa del maggior rischio di dover rispondere personalmente di eventuali errori. Eppure, al di là del merito, è difficile non vedere in questo appuntamento referendario un’espressione del conflitto ormai evidente tra il Psi e la magistratura e, contemporaneamente, è difficile negare un’estesa presenza di istanze corporative nell’ambito dell’ordine giudiziario in questa circostanza. L’atteggiamento da parte dell’Anm, ricorda  Liberati <22, in particolare in occasione del congresso di Genova nel 1987, poco dopo il referendum, riflette l’emergere di «chiusure corporative, tentazioni di ripiegamento e demagogiche posizioni di scontro frontale con l’intera classe politica» <23.
In quella circostanza i giudici sono comunque costretti ad una riflessione circa l’orientamento della pubblica opinione, che è alquanto chiaro visto che la vittoria dei “sì” risulta schiacciante (ottiene oltre l’ottanta percento dei votanti); ma tale atteggiamento viene interpretato come insoddisfazione per il servizio giustizia nella sua generalità, a cominciare dalla lentezza dei processi, problema ormai annoso in Italia e che aveva già visto il Paese sul banco degli accusati presso la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Oltre al quesito circa la responsabilità dei giudici, la tornata referendaria include anche la commissione inquirente, la cui sopravvivenza per giudicare i reati dei ministri viene rigettata da più dell’84 percento dei votanti. Negli anni precedenti, come abbiamo visto in queste pagine, questo istituto aveva dato un importante contributo per rallentare o porre fine a procedimenti giudiziari dotati di notevole portata politica, con l’unica e parziale (visto il proscioglimento di Rumor) eccezione costituita dal caso Lockheed.
Vale dunque la pena di chiedersi per quali ragioni il Psi, che pure non risparmia occasione di proclamare l’esigenza di tutelare esponenti dell’esecutivo o del Parlamento rispetto alle iniziative dei giudici, si adoperi per la soppressione della commissione inquirente. A questo proposito conviene ricordare che l’aspetto maggiormente insidioso delle inchieste è quello che riguarda la divulgazione delle notizie circa la condotta, in molti casi altamente censurabile, posta in atto dai politici interessati, assai più che l’irrogazione della pena in seguito alle eventuali condanne. Mentre l’inquirente può costituire un valido strumento per impedire quest’ultima, in particolare in presenza di un accordo parlamentare tra Psi e Dc, il suo utilizzo è assai più dubbio quando si tratta di evitare la divulgazione delle notizie; anzi, in determinati casi può ottenere l’effetto opposto perché le sedute della commissione fano circolare dati ed informazioni anche presso i membri dell’opposizione, che le possono in varie maniere divulgare, rendendo così l’inquirente un megafono di atti censurabili commessi da esponenti di partito. Del resto i ministri sono quasi sempre parlamentari e le inchieste giudiziarie devono pur passare attraverso il severo vaglio delle giunte per le autorizzazioni a procedere di Camera e Senato, da sempre decisamente restie a permettere le inchieste a carico dei membri del Parlamento.
La tensione e le frequenti dichiarazioni circa la parzialità dei giudici, unite ad alcune storiche ed assai note disfunzioni del servizio giustizia, contribuiscono probabilmente, in questi anni, a incrinare, in qualche misura, l’immagine della magistratura presso la pubblica opinione e ad erodere parte di quel prestigio guadagnato dall’ordine giudiziario grazie al contrasto, costato tanti sacrifici, al terrorismo. Uno dei casi giudiziari che crea maggiore sconcerto nell’opinione pubblica è quello relativo al presentatore televisivo Enzo Tortora, accusato da un pregiudicato “pentito” di essere coinvolto in un traffico di stupefacenti e sottoposto a carcerazione preventiva nel 1983 per alcuni anni per poi essere completamente scagionato. Il caso è certamente meritevole di grande attenzione in quanto mette in risalto i rischi legati all’uso processuale dei collaboratori di giustizia; ma presso l’opinione pubblica contribuisce all’intensificarsi di una certa diffidenza nei confronti del sistema giudiziario nel suo complesso, a cui non sono estranee le prese di posizione di alcuni partiti. Il calo di fiducia e di prestigio dei giudici italiani sembra trovare riflessi anche nelle espressioni cinematografiche; se all’inizio degli anni Settanta il magistrato vi era rappresentato dal giudice istruttore Mariano Bonifazi, impegnato in difficili battaglie contro l’inquinamento e le frodi degli affaristi senza scrupoli e protetti dalla politica nella pellicola di Dino Risi “In nome del popolo italiano” (1971), nel decennio successivo questi cede il posto a Annibale Salvemini, giudice vanesio, molto sensibile alle attenzioni della stampa, e caratterizzato da un incomprensibile voluttà per gli arresti in gruppo, interpretato da Alberto Sordi in “Tutti dentro” (1984).
[NOTE]
14 Una cronaca dei conflitti tra i partiti negli anni Ottanta è fornita da L. Cecchini, Palazzo dei veleni. Cronaca litigiosa del pentapartito (1981-1987), Rubettino, Catanzaro, 1987.
15 Una narrazione dettagliata degli eventi è contenuta in L. Pepino, “Speciale: storia e analisi di una unanimità presunta (a proposito del conflitto Cossiga-Csm)”, Questione giustizia, 1986, Pag. 97
16 Il segretario del Psi dichiara «Noi confermiamo uno per uno i giudizi severi e critici che i nostri compagni condannati hanno espresso nei confronti dell’operato della magistratura», citato in R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit. Pag. 131
17 Ibid.
18 R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit.
19 A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. Cit. Pag. 60
20 E. Bruti Liberati, “La magistratura dall’attuazione della costituzione agli anni Novanta”, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana. Cit. Pag. 211
21 R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit. Pag. 139
22 E. Bruti Liberati, “La magistratura dall’attuazione della costituzione agli anni Novanta”, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana. Cit. Pag. 218
23 Ibid. Pag. 233 L’atteggiamento dell’Anm sul referendum viene condannato, oltre che da Bruti Liberati, anche da Canosa e Pizzorusso.
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza - Università di Roma, 2013

martedì 9 aprile 2024

Nel 1960 il Centro Nazionale Prevenzione e Difesa Sociale di Milano organizzava un convegno sul progresso tecnico


La breccia aperta dai dibattiti del post 1955-56 nella spessa coltre dell’ortodossia marxista, non si impose beninteso immediatamente, ma subì attacchi da parte delle correnti interne più legate ad una impostazione classica della teoria sindacale, che subito dopo il 1957 riebbero il sopravvento e che solo la ripresa della conflittualità negli anni Sessanta riuscì a mettere in minoranza.
Nel 1957 così, Silvio Leonardi venne rimosso dal suo incarico alla guida dell’USE, dopo essere entrato in conflitto con la dirigenza del PCI milanese, come descritto da Petrillo: «era uno scossone all’impianto concettuale e alla prassi politica e sindacale, un invito al realismo e alla concretezza [...] che non a caso venne da Milano: non soltanto per il cima generale che vi vigeva, ma per il confronto ravvicinato che vi si stava istituendo fra la tradizione Cgil e la sfida proveniente da un laicato cattolico particolarmente effervescente» <279. La piazza milanese, in cui era in gioco l’egemonia teorica per il sindacato industriale, a contatto diretto con il laboratorio più avanzato del sindacato cattolico CISL costituito dalle ACLI e dalla scuola di Mario Romani, non permetteva eccessive prese di posizione autonome. Quella che Petrillo indica con la rivolta degli “innovatori togliattiani”, tra i quali vi era Leonardi, fallì e Mario Montagnana, segretario della CdL del capoluogo lombardo, si dimostrò solerte nell’attaccare Leonardi e la sua analisi innovatrice, opponendo all’apertura nei confronti della sociologia la più stretta visione dogmatica dello stagnazionismo e della teoria del crollo, inseriti in un capitalismo fatto di grande fabbrica meccanica. e
La breccia, tuttavia, era stata aperta e il movimento operaio intero venne coinvolto dal bisogno di conoscenza e dalla volontà di ricerca. Fu un’altra storica istituzione del movimento operai milanese a richiedere l’opera di Leonardi dopo l’allontanamento dall’USE, l’Istituto Feltrinelli, la cui attività, come ricorda Luciano Cafagna «era imperniata principalmente sulla storia [...] il passaggio a interessi in un campo operativo, come quello dei temi economici correnti, era un mutamento netto» <280. Il fatto di affidare a Leonardi lo studio dello «sviluppo e trasformazione industriale e tecnologica che si stava manifestando in Italia, almeno nel Nord del paese» <281 non era un evento da sottovalutare così come non sarebbe stato pensabile solo tre anni prima il fatto che gli venissero affiancati nel comitato scientifico personaggi come Franco Momigliano, Bruno Trentin, Siro Lombardini, Nino Andreatta, Paolo Sylos Labini, Pietro Gennaro e Piero Bontadini.
Lo stesso anno Leonardi pubblicò un libro che costituì una svolta per le riflessioni che metteva in campo. Il saggio riprendeva ed ampliava le riflessioni esposte al convegno di Roma e si ricollegava al dibattito che all’interno della sinistra vedeva coinvolte figure come Roberto Guiducci ed altri sempre meno disposti ad accettare il dogmatismo e l’ideologia a senso unico imposta dal PCI, ma messa in crisi dopo il 1955 e il 1956. Leonardi affermava come una visione dogmatica che non prendesse in considerazione un’analisi scientifica dei fenomeni sociali potesse portare alla rovina chi si proponeva di difendere i diritti dei lavoratori: «anche ideologie rivoluzionarie possono essere messe in difficoltà quando si sono trasformate in senso dogmatico, cristallizzando interpretazioni di passate situazioni, e quando non vengono utilizzate come metodo per esaminare ed interpretare la realtà nei suoi continui cambiamenti. Ma il nuovo è più forte del vecchio e prima o poi si impone» <282.
Nel momento in cui per Leonardi e la sinistra si apriva una fase di passaggio, il dirigente milanese smentiva ad un tempo Lenin ed i tecnocrati attaccando la pretesa apoliticità di chi al contrario non voleva cedere il controllo sugli strumenti di produzione ma anche le messianiche affermazioni di presa violenta del potere.
Affrontando l’analisi dello sviluppo e degli squilibri in Italia, Leonardi rimaneva dell’idea che dovesse essere lo Stato ad assumersi la responsabilità di pianificare l’industrializzazione: «gli investimenti di automazione perderebbero il carattere che oggi hanno di essere quasi esclusivamente intensivi e diventerebbero largamente estensivi con creazione di nuovi posti di lavoro sia nelle fabbriche automatizzate sia in quelle che producono strumenti ed impianti per le fabbriche stesse» <283. Lo stato soltanto avrebbe garantito il livello di investimenti necessari «a cambiamenti qualitativi e non solo quantitativi del nostro apparato produttivo» <284 al fine di superare il blocco del potere monopolistico e per rendere l’automazione un fenomeno positivo e non di vantaggio per pochi a spese della maggioranza dei lavoratori.
Scrivendo nel 1957 sulla rivista “Ulisse”, Leonardi assumeva il progresso tecnico e l’automazione come fattori positivi di sviluppo, che dovevano rientrare in una prospettiva globale per coglierne la portata: «l’automazione favorirà anche il decentramento della produzione con una maggiore e più organica utilizzazione delle risorse di ogni singolo Paese aiutando a risolvere, dal punto di vista tecnico, problemi oggi gravi e aperti per esempio nel processo di industrializzazione dei Paesi sottosviluppati. Decentramento della produzione e integrazione di maggiori spazi economici [...] tendono all’unico fine di una più omogenea distribuzione delle forze produttive» <285.
Un passaggio, quello aperto da Leonardi ed altri, che, nonostante i tentativi di restaurazione segnò in modo definitivo il dibattito a sinistra, e le cui intuizioni si rivelarono assolutamente pertinenti solo pochi anni dopo.
Nel 1960 il Centro Nazionale Prevenzione e Difesa Sociale di Milano organizzava un convegno sul progresso tecnico. I temi che i convegni organizzati dall’Istituto Gramsci avevano sollevato erano rimasti al centro del dibattito nonostante la chiusura dimostrata da settori non minoritari della sinistra. Il progresso tecnico nel 1960, nel pieno del boom era sotto gli occhi di tutti e iniziava ad essere preso in esame da soggetti diversi, interessati agli effetti sociali che poteva portare.
Silvio Leonardi espose l’analisi dell’industria delle macchine utensili, industria a suo avviso chiave per comprendere lo sviluppo di un’economia. In questa industria si concentravano i risultati dei progressi tecnici raggiunti in tutti i rami industriali e i macchinari prodotti erano al tempo stesso risultato e mezzi di diffusione del progresso tecnico.
La dimensione ridotta dell’industria delle macchine utensili ben si adattava inoltre a descrivere la struttura produttiva italiana, basata su imprese famigliari e piccole aziende che basavano la produzione sulla domanda oscillante e soprattutto sull’esportazione dei propri prodotti, meno richiesti in patria ed erano caratterizzate dallo scarso investimento sulla ricerca.
Leonardi individuava la funzione di questa industria come complementare a quella dei grandi monopoli, che sfruttavano le ridotte dimensioni e la loro capacità di adattarsi alle oscillazioni del mercato per imporre loro ritmi e scadenze, senza continuità di domanda, dal momento che la grande industria italiana si caratterizzava da un impiego diseguale di macchinari moderni.
L’impiego superiore rispetto agli altri paesi industrializzati di macchinari usati in Italia veniva visto come la chiave del capitalismo nostrano per l’estrazione del plusvalore dal lavoro, che si incastrava con l’analisi che abbiamo già visto dei tre livelli di compresenza dell’innovazione tecnologica: «la fase attuale italiana è caratterizzata da un forte contrasto tra un livello tecnico molto avanzato in alcune unità produttive e l’allargamento del parco macchine nazionale soprattutto attraverso un tasso di sostituzione molto basso» <286.
Data la scarsa influenza dei centri di ricerca scientifici, degli aiuti statali ed il conseguente ricorso alle conoscenze dirette, artigianali, al fine di pianificare uno sviluppo che portasse reali benefici ai lavoratori per Leonardi era interessante analizzare il livello potenziale di sviluppo dell’industria nel mercato italiano, «le reali possibilità per l’industria italiana delle macchine utensili di influire sul mercato interno, di favorire la meccanizzazione e un più rapido rinnovamento del parco macchine utensili attraverso una migliore organizzazione della sua prodzuione, una diminuzione dei costi e quindi dei prezzi modificando il rapporto prezzo macchine-prezzo lavoro» <287.
Inoltre Leonardi era consapevole dei limiti che la struttura produttiva italiana poneva ad uno sviluppo dell’industria del macchinario, e quindi ad un salto tecnologico generale: «da una parte la domanda delle aziende più avanzate pone innanzitutto problemi di qualità, dall’altra nelle aziende più arretrate il prezzo marginale della forza lavoro, condizionato dalla permanente alternativa della disoccupazione è ad un livello tale da renderlo economicamente componibile innanzitutto con macchine di bassissimo prezzo e quindi soprattutto usate» <288. Questo per Leonardi il fattore di maggior rischio per i lavoratori italiani che avrebbero dovuto riprendere in mano ed esigere uno sviluppo dell’automazione per conseguire una migliore qualità del lavoro.
In seguito i medesimi concetti furono ampliati nello Studio eseguito per il Centro di studi e ricerche sulla struttura economica italiana Le macchine utensili e la loro industria.
Estendendo l’analisi del macchinismo presentata al convegno del 1956, Leonardi proponeva la teoria che le macchine utensili fossero il prodotto di un’elaborazione sociale e che quindi fossero il frutto di rapporti sociali anche al di fuori della fabbrica: «le macchine utensili possono essere considerate come prodotti di montaggio collettivo, cioè con elementi eterogenei che derivano da settori diversi e che confluiscono in un prodotto estremamente complesso nel quale si sommano esperienze e progressi fatti nei più diversi campi dell’attività umana che l’industria delle macchine utensili fa propri adattandoli a scopi specifici, a loro volta promotori di ulteriori progressi» <289.
Questa industria rappresenta un momento di sintesi tra fabbrica e società e per questo la sua regolazione dovrebbe essere pianificata da organismi pubblici e non lasciata a se stessa. La produzione sociale dell’innovazione applicata alle macchine avrebbe posto il problema di un riequilibrio del costo della forza lavoro. Una società sempre più complessa avrebbe prodotto sempre più macchine ma avrebbe espresso sempre più bisogni, il cui costo sarebbe ricaduto sulla società intera: «si può certo constatare una stretta correlazione tra sviluppo del meccanizzazione e quindi aumento della produttività del lavoro umano e una diminuzione del rapporto tra prezzo del capitale e prezzo del lavoro [...] il prezzo delle macchine diminuisce per l’estensione del progresso tecnico nella produzione di macchine stesse e dei materiali che le compongono, provocando, quindi, una obiettiva diminuzione del loro costo in termini di lavoro, mentre non avviene altrettanto per il prezzo della forza lavoro che deve coprire crescenti bisogni socialmente necessari con componenti di beni materiali e di servizi assai meno soggetti all’influenza del progresso tecnico e quindi con costi relativamente crescenti» <290.
Leonardi, che probabilmente aveva in mente lo sviluppo della provincia di Milano negli anni Cinquanta, effettuava una nuova fuga in avanti rispetto al dibattito in corso. Attraverso l’analisi dell’industria delle macchine utensili affrontava il nodo dello sviluppo del terziario avanzato, e dello sviluppo generale della società, di cui l’industria delle macchine utensili era specchio e motore. Una società per essere competitiva nella produzione di macchine utensili, avrebbe dovuto essere progredita tecnicamente: «la possibilità di coprire con forniture esterne una parte più o meno ampia della macchina dipende dal grado di specializzazione del lavoro sociale, dallo sviluppo della standardizzazione e, quindi, dallo sviluppo dell’ambiente industriale in cui la singola azienda costruttrice opera e dal grado di specializzazione della macchina stessa e quindi dal peso dei pezzi speciali necessari alla sua costruzione» <291.
Se le macchine utensili occupavano «un posto centrale nel processo di meccanizzazione e nello sviluppo della produttività del lavoro umano, che sono, a loro volta, effetto della confluenza di varie e complesse forze economiche e sociali» allora «il processo di meccanizzazione può ritenersi connesso con lo sviluppo della scienza e della tecnica e lo sviluppo della produzione in termini quantitativi e qualitativi» <292. Questo per Leonardi poneva il problema della distribuzione sociale dei benefici derivanti da una produzione che risultava essere sociale.
Impiegando l’esempio della cassetta dei suggerimenti, si mettevano in discussione le modalità con cui si cercava di drenare il portato di conoscenze dirette, decisive nel progresso tecnico più di quanto fossero le ricerche scientifiche: «particolare contributo al progresso tecnico delle macchine utensili è derivato dall’esperienza e dall’osservazione empirica dei fenomeni a livello, per così dire, direttamente operativo o artigianale, quando il contributo stesso è derivato da singoli non direttamente impegnati in lavori di ricerca» <293.
Per Leonardi il nodo da affrontare con la massima urgenza era il superamento delle divisioni e delle differenze tra azienda e azienda, regione e regione, differenze che imponevano il ritmo al lavoro e rendevano le gerarchie elementi di sfruttamento: «il progresso tecnico non si svolge in modo uniforme su tutto il fronte, di volta in volta aperto alle conoscenze scientifiche di base, ma differentemente per i vari prodotti, esso non costituisce inoltre un obiettivo direttamente perseguito dagli imprenditori privati, ma è un effetto indotto dalla ricerca del profitto. Quest’ultima tende a mantenere le situazioni differenziali che sono proprie del progresso tecnico nel suo evolversi e a consolidare nelle singole aziende accentuando le differenze tra le aziende stesse e tra i vari settori dell’industria meccanica» <294.
[NOTE]
279 G. Petrillo, La capitale del miracolo. Sviluppo, lavoro e potere a Milano 1953-1962, Milano, Franco Angeli, 1992.
280 L. Cafagna, La questione settentrionale, cit., p. 4.
281 Ivi, p. 5.
282 S. Leonardi, Progresso tecnico e rapporti di lavoro, Torino, Einaudi, 1957, p. 14.
283 S. Leonardi, Per una politica economica che si prefigga la più larga utilizzazione delle forze produttive in “Critica economica”, n. 5, 1956, p. 35.
284 Ivi, p. 36.
285 S. Leonardi, Programmazione dell’automazione: a livello d’impresa, sul piano nazionale, o internazionale? In “Ulisse”, n. 26, 1957, p. 1201.
286 S. Leonardi, L’industria delle macchine utensili e lo sviluppo dell’economia italiana in CNPDS, Il progresso tecnologico e la società italiana. Effetti economici del progresso tecnologico sull’economia industriale italiana (1938-1958). Vol. II, Milano, Giuffrè, 1961, p. 164.
287 Ivi, p. 170.
288 Ivi, pp. 170-171.
289 S. Leonardi, Le macchine utensili e la loro industria. Alternative tecnologiche allo sviluppo economico, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 38.
290 Ivi, p. 24
291 Ivi, p. 40.
292 Ivi, p. 89.
293 Ibidem.
294 Ivi, p. 94.
Daniele Franco, Dalla Francia all’Italia: impegno politico, inchiesta e transfers culturali alle origini della sociologia del lavoro in Italia, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009

lunedì 1 aprile 2024

La Seconda guerra mondiale ha insomma pregiudicato irreparabilmente la Weltanschauung dell’Occidente


«[...] à partir de 1945, les ruines ne renvoient plus au passé, mais au présent - un présent qui voit le pouvoir de destruction changer d’échelle» <51: Michel Makarius ha individuato con precisione, integrandoli fra loro, due momenti decisivi dell’imponente riflessione sorta, nel secondo Novecento, a proposito degli effetti della Seconda guerra mondiale, quella che secondo Gerhard L. Weinberg si potrebbe definire come «the Greatest War» (in evidente opposizione alla Prima, «the Great») <52. Più di ogni altro conflitto <53, infatti, quello che si scatenò fra il 1939 e il 1945 insanguinando quattro continenti cambiò per sempre il modo di combattere e di percepire la guerra: si trattò anzi propriamente di un nuovo genere di guerra, l’evoluzione con mezzi più radicali della predente o, semmai, il vertice parossistico di un conflitto iniziato nel 1914 e durato per più di trent’anni, per via di quell’«estensione del tempo di guerra» che ha implicato «una sovrapposizione di situazioni e immagini» fra i due conflitti <54. «La memoria della prima guerra dell’era tecnologica assurge insomma a paradigma della sostanza traumatica del mondo: sebbene alla “grande” guerra ne sia seguita un’altra, infinitamente più distruttiva, che ha conosciuto gli orrori assoluti dei bombardamenti strategici e dello sterminio razziale. Come se nella memoria collettiva fosse da sempre sedimentata l’idea di un’unica lunga guerra, durata trent’anni, che occupi per intero la prima metà del “secolo breve”» <55.
Al centro dell’«età della catastrofe», nell’«epoca della guerra totale» <56, il conflitto del 1939-45 si caratterizzò peculiarmente. Fu mondiale: perché al pari di quello del 1914-18 conobbe un’estensione su  vastissima scala, ma ben maggiore (raggiungendo le Hawaii e il Giappone attraverso tutta l’Europa) <57, ed ebbe un numero di morti vertiginosamente più alto; pervasivo: perché penetrò entro i confini della maggior parte dei paesi che la combatterono avendo spesso come teatro dei conflitti più cruenti le città (facendo così conoscere direttamente gli orrori e la tragedia tanto ai militari quanto ai civili, che vennero colpiti in questo caso più delle forze armate) <58; e mediale: perché (certo ancora sulla scia del primo conflitto mondiale) quello che Hans Blumenberg ha chiamato «il pathos della conquista tecnica» offrì alla Seconda guerra mondiale strumenti inediti di distruzione di massa d’ineguagliata potenza, che contribuirono decisamente non solo alla ridefinizione del concetto di corpo - bersaglio e vittima da quel momento annientabile, in un solo istante, non nel numero di unità bensì di decine e centinaia di migliaia - ma che implicarono inoltre un ineluttabile ripensamento epistemologico che coinvolse la condizione identitaria e collettiva dell’intera umanità <59. Insomma si verificò quel cambiamento di scala indicato (fra gli altri) da Makarius, per cui l’ordine delle vittime di quei nuovi ordigni passava dalla classe ‘uomini’ a quella di ‘umanità’. «In both war and torture, there is a destruction of “civilization” in its most elemental form», ha spiegato Elaine Scarry, ma «when Berlin is bombed, when Dresden is burned, there is a deconstruction not only of a particular ideology but of the primary evidence of the capacity for self-extension itself: one does not in bombing Berlin destroy only objects, gestures, and thoughts that are human, not Dresden buildings or German architecture but human shelter» <60.
Oramai, osserva Daniel Dennett, «le innovazioni della scienza - non solo i microscopi, i telescopi o i computer, ma i suoi legami con la ragione e i dati - sono i nuovi organi di senso della nostra specie» <61: l’età contemporanea, insomma, non può più fare a meno di quella tecnologia sempre più progredita che si è infiltrata inestricabilmente nel tessuto di quest’ultimo secolo e mezzo di esistenza, fino ad arrivare a corrodere e penetrare nelle frontiere di quelle discipline che da secoli regolavano la vita della società, la giurisprudenza e la medicina. Di tale infiltrazione della tecnica nel mondo del diritto ne offre una testimonianza d’eccezione il libro delle Erinnerungen di Albert Speer, architetto del Führer e, dal 1942, ministro agli armamenti e alla produzione bellica: questi, l’ha finemente ricordato di recente Natalino Irti <62, racconta di quando fu tradotto dinanzi al tribunale di Norimberga Karl Dönitz, Großadmiral tedesco e comandante della flotta sottomarina nazista (Befehlshaber der U-Boote), imputato, fra l’altro, d’aver affondato senza preavviso navi nemiche contravvenendo così all’accordo di Londra disciplinante la guerra sottomarina; Dönitz «lottò [...] con accanimento per se stesso e per i suoi sommergibili, ed ebbe una notevole soddisfazione personale quando il suo avvocato poté esibire una dichiarazione dell’ammiraglio Nimitz, comandante della flotta americana del Pacifico, che riconosceva di aver seguito, nella guerra sottomarina, criteri identici a quelli tedeschi» <63. Come recita la sentenza riportata da Speer, «In considerazione [però] delle risposte al questionario da parte dell’ammiraglio Nimitz, secondo il quale dai primi giorni dell’entrata in guerra degli Stati Uniti questa nazione aveva condotto un’indiscriminata guerra sottomarina nell’oceano Pacifico, la condanna inflitta a Dönitz non è stata fondata sulle sue infrazioni delle disposizioni internazionali per la guerra sottomarina» <64.
La chiosa di Speer impressiona ancora per lucidità e lungimiranza: "In questo caso uno sviluppo tecnico (impiego di aerei, migliori metodi di localizzazione) sopraffece, sconvolse, annullò la norma giuridica. Fu il primo esempio della possibilità che la tecnica ha oggi di stabilire nuove valutazioni giuridiche che possono avere come per conseguenza l’uccisione legalizzata di innumerevoli uomini". <65
Ciò che interessa qui è generalmente quel «principio di alterazione» che fu la Greatest War e sul quale si è soffermato (a proposito di due romanzi della Seconda guerra mondiale: V. di Thomas Pynchon e Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo) Gabriele Frasca, mostrando come «la guerra, insomma, non ha soltanto straziato vite e paesaggi ma è penetrata radicalmente, e definitivamente, nelle strutture sociali, abbiano o meno esperito direttamente le sue devastazioni» <66. Principio di alterazione che si è tradotto in una rivoluzione assiologica, una violenta svolta cognitiva della visione del mondo dell’uomo medio europeo <67: la Seconda guerra mondiale ha insomma pregiudicato irreparabilmente la Weltanschauung dell’Occidente compromettendo due delle fondamentali categorie di riferimento umane (per l’identià e la relazione), vale a dire il corpo e la città.
Ha scritto Alberto Casadei che «la lotta nelle trincee è ripensata, da chi non l’ha vissuta, come lotta di singoli individui» e che se pure la Prima guerra mondiale «rappresentò una svolta profonda nella storia bellica, certificando fra l’altro la necessità di una supremazia tecnologica; tuttavia, essa rimase almeno in parte una lotta di uomini, cioè in qualche modo ancora una guerra antica, che produsse sconvolgimenti soprattutto per le sue conseguenze politiche e sociali»; inoltre, i «profondi sconvolgimenti della personalità, la nuova percezione tecnico-mitica della realtà, la concezione “macchinistica” della guerra stessa (con gli addentellati modernisti ormai ben noti), che si produssero nel periodo 1914-18 [...], nella narrativa romanzesca, questi elementi furono metabolizzati con una certa lentezza». E ancora: «In un certo senso, la grande letteratura accolse dapprima gli aspetti sociologici oppure quelli simbolici della PGM più che quelli antropologici: saranno soprattutto i romanzi sulla successiva guerra mondiale che sperimenteranno nuove forme di realismo in rapporto all’evento da rappresentare».
"La SGM portò anche nuove forme di combattimento, in cui la tecnologia guidava la lotta, anziché essere utilizzata dagli uomini in lotta, che d’altronde erano ormai predisposti a considerare la guerra moderna come un’organizzazione di tipo industriale (Steinbeck, nel 1943, la paragona ad una catena di montaggio automobilistica). E, se è vero che la SGM ha racchiuso in sé tante guerre diverse, le varie esperienze a posteriori sono cofluite in un quadro davvero mondiale, cosicché ogni singolo combattimento è diventato un tassello da interpretare in prospettiva: la condizione umana subì modifiche radicali nel suo insieme (basti pensare alla concezione della storia prima e dopo Auschwitz e
Hiroshima). Perciò il grande romanzo sulla SGM non è quello che appare più vicino alla cronaca, ma quello che fa comprendere, attraverso l’interpretazione della guerra, l’ormai collettiva consapevolezza del “male radicato” raggiunto»". <68
[NOTE]
51 M. MAKARIUS , Ruines [2004], Champs arts, Barcelone 2011, p. 245, che, prendendo le mosse dal saggio di E. PROUST, L’Histoire à contretemps. Le temps historique chez Walter Benjamin [1994], Le Livre de Poche, Paris 1999, ragiona sulle «ruptures consommées par la modernité et l’accumulation des désastres» che, «depuis le siècle dernier», «ont rendu la ruine indissociable de la perception générale de l’histoire»; al punto che queste «ne témoignent plus du passé mais du présent» (un «présent [qui] se donne comme ruine») e, in quest’ottica, «représenter les ruines, c’est mettre en scène la réalité elle-même» (M. MARKARIUS, Ruines cit., pp. 11-2). Importante per queste pagine è stata la lettura dello studio di E. PIRAZZOLI, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Diabasis, Bologna 2010.
52 G.L. WEINBERG , A World of Arms. Global History of World War II, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 3.
53 Non si intende certo sminuire la porata della Prima guerra mondiale e dei suoi effetti: si pensi per esempio, sul versante culturale, alle riflessioni musiliane dei primi anni Venti: R. MUSIL, L’Europa inerme: ovvero viaggio di palo in frasca [1922], trad. it. F. Valagussa, con riflessioni di V. Vitiello, F. Valagussa e A. Brandalise, Moretti&Vitali, Bergamo 2015 e ID ., L’uomo tedesco come sintomo [1923], trad. it. F. Valagussa, Pendragon, Bologna 2014; come pure a quelle di E. JÜNGER, Foglie e pietre [1934], trad. it. F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, pp. 113-38 (in part. il § 3), o, per altri versi, alle considerazioni di G. BATESON, Da Versailles alla cibernetica, conferenza tenuta il 21 aprile 1966 al «Two Worlds Symposium» presso lo Stage College di Sacramento, ora in ID., Verso un’ecologia della mente cit., pp. 511-20 (in part. le pp. 513-7).
54 G. ALFANO, Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Franco Cesati, Firenze 2014, p. 76.
55 A. CORTELLESSA, Fra le parentesi della storia, in Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di ID ., prefazione di M. Isnenghi, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 960, pp. 15-6.
56 Colgo le definizioni da E.J. HOBSBAWM , Il secolo breve 1914-1991 [1994], trad. it. B. Lotti, Rizzoli, Milano 2014.
57 «La Grande Guerra era stata una guerra europea, ma era diventata “mondiale” perché l’Europa era il centro del mondo, quando il conflitto era iniziato. Quando la guerra finì, il mondo era cambiato e non aveva più un centro» (E. GENTILE, L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano 2008, p. 20).
58 Cfr. E. PIRAZZOLI, A partire da ciò che resta cit. «Since the era of air raids, civilians have their own war tales too: as an old woman explained to me once, in World War I “they fought among themselves out there”, but in World War II “we all were involved”» (A. PORTELLI, The Battle of Valle Giulia: Oral History and the Art of Dialogue, University of Winsconsin Press, Madison 1997, p. 7).
59 H. BLUMENBERG, Perdita d’ordine e autoaffermazione. Comprensione e ordinamento nel divenire dell’epoca tecnica [1962], in ID., Storia dello spirito della tecnica, a cura di A. Schmitz e B. Stiegler, trad. it. R. Scolari e B. Simona, Mimesis, Milano 2014, pp. 63-87 (cit. p. 63): questo pathos «non ha più niente a che fare con le necessità e i bisogni, bensì [...] è tale per cui condetermina la produzione derivata dei bisogni in ragione del grado di tecnicizzazione raggiunto» (pp. 63-4); ecco perché «“la tecnica” è in questo senso un elemento costitutivo dell’epoca moderna» (p. 64). La definizione di armi di distruzione di massa (weapons of mass destruction) nacque con il bombardamento di Guernica (per cui cfr. P. PRESTON, La guerra civile spagnola 1936-1939 [1986], trad. it. C. Lazzari, Mondadori, Milano 1999, specie dalle pp. 203-sgg.) e fu brevettata dall’arcivescovo di Canterbury Cosmo Gordon Lang (Archibishop’s Appeal, in «Times», London, 28 December 1937, p. 9); per il concetto di «guerra mediale» cfr. G. FRASCA, La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale, Costa & Nolan, Genova 1996, cap. III, La sostanza traumatica del mondo, pp. 69-160, specie pp. 100-sgg (la definizione è a p. 105); cfr. M. DAVIS , Città morte. Storie di inferno metropolitano [2002], trad. it. G. Carlotti, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 71-89; si veda inoltre infra.
60 E. SCARRY, The Body in Pain. The Making and Unmaking of the World, Oxford University Press, New York-Oxford 1987, p. 61.
61 Così D.C. DENNET , L’evoluzione della libertà [2003], trad. it. M. Pagani, Cortina, Milano 2004, p. 7.
62 Si veda N. IRTI, Introduzione ai lavori in Il Diritto governa la Tecnica? Focus sulla dematerializzazione dei documenti: stato dell’arte e prospettive, Atti del seminario CNEL (Roma 16 dicembre 2008), a cura di E. B ROGI e M. POTENTE, Documenti CNEL n. 12, Roma 2009, pp. 10-4, qui a p. 10; si vedano inoltre ID., Il diritto nell’età della tecnica, Editoriale Scientifica, Napoli 2007 (in part. la prima parte, Tecno-diritto, pp. 9-20) e E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari 2001.
63 A. SPEER, Memorie del Terzo Reich [1969], trad. it. E. e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1997, p. 601.
64 Ibidem, n. 6 pp. 672-3.
65 Ibidem, p. 673.
66 G. FRASCA, La scimmia di Dio cit., pp. 127-sgg. (cit. a p. 127). Su Pynchon si veda anche C. L ÉVY, Territoires postmodernes. Géogritique de Calvino, Echenoz, Pynchon et Ransmayr, préface de B. Westphal, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2014, pp. 70-4 e 125-8, su D’Arrigo cfr. G. ALFANO, Gli effetti della guerra. Su Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, Sossella, Roma 2000.
67 Poiché si trattò, seppure non ancora di una guerra “in diretta” come quella del Vietnam (per cui si veda B. CUMINGS, Guerra e televisione. Il ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove strategie di guerra [1992]. trad. it. P. Cairoli e F. Pece Venturi, Baskerville, Bologna 1993), di un conflitto che godé di una notevole esposizione mediatica, anzitutto fotografica (se certo «sin dal 1839, quando furono inventate le macchine fotografiche, la fotografia ha infatti “corteggiato” la morte e la guerra», è però vero che «nelle prime guerrre importanti di cui esistono resoconti fotografici, quella di Crimea e le Guerra civile americana, e in tutte quelle che precedettero la prima Guerra mondiale, il combattimento vero e proprio era al di là della portata della macchina fotografica»; G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, pp. 19 e 20), rispetto al primo conflitto mondiale, le cui immagini furono spesso censurate - e che stanno però riemergendo negli ultimi anni (cfr. A fuoco l’obiettivo! Il cinema e la fotografia raccontano la Grande Guerra, a cura di A. FACCIOLI e A. S CANDOLA, Persiani, Bologna 2014, specie A. FACCIOLI, Il cinema italiano e la Grande Guerra: rovine, eroi, fantasmi, pp. 14-31). Ha scritto Susan Sontag che «il fotogiornalismo vide riconosciuto il proprio ruolo all’inizio degli anni Quaranta - in tempo di guerra»: proprio la Seconda guerra mondiale «offrì ai fotoreporter una nuova legittimità» (S. SONTAG, Davanti al dolore degli altri [2003], trad. it. P. Dilonardo, Mondadori, Milano 2006, p. 35). Se non altro, è certo che la Seconda guerra mondiale conobbe un’immediata fortuna mediatica alla sua conclusione, in specie dovuta ai suoi due emblemi tragicamente caratterizzanti: Auschwitz (e tutta l’esperienza concentrazionaria - che però emerse complessivamente solo a partire dalla metà degli anni Sessanta) e Hiroshima (e la paura della bomba che aleggiò per tutto il resto del secolo).
68 Questa e le precedenti citazioni non segnalate provengono da A. CASADEI, Romanzi di Finisterre. Narrazioni della guerra e problemi del realismo, Carocci, Roma 2000, pp. 27-8.
Tommaso Gennaro, «La traccia dell’addio delle cose». L’Europa postbellica e il caso Beckett, Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno accademico 2015-2016