domenica 29 maggio 2022

Considerazioni circa il "Giardino dei Giusti" di Lugano

Lugano: Parco Ciani - Fonte: ticino.ch

Dal 2018, il Parco Ciani di Lugano ospita il primo “Giardino dei Giusti” del nostro paese. Sei ulivi rendono omaggio a sei figure ticinesi - per cui il nostro Cantone è stato il luogo di nascita o di accoglienza - che con le loro azioni coraggiose si inseriscono nella tradizione umanitaria della nostra regione. Marietta Crivelli Torricelli, Francesco Alberti, Guido Rivoir, Carlo e Annamaria Sommaruga, Federica Spitzer: sei persone con esperienze di vita per certi versi molto diverse, ma accomunate dalle loro azioni di solidarietà nei confronti dei perseguitati.
Diventato ormai parte del panorama cittadino, il Giardino è un luogo di incontro e di dialogo, con particolare attenzione alle giovani generazioni. Luogo fisico ma anche portatore di significati simbolici, il “Giardino dei Giusti” può essere considerato un “luogo di memoria”, che contribuisce alla creazione d’identità della nostra comunità.
Situato a pochi metri dalla Biblioteca cantonale di Lugano, questo lavoro nasce dalla volontà di dare un contributo alla comprensione del “Giardino dei Giusti” proponendo delle bibliografie per approfondire il tema - focalizzandosi in particolare sul periodo della Seconda guerra mondiale e sul nazi-fascismo - con un occhio di riguardo alla realtà della Svizzera italiana. Parallelamente, questa operazione permette di valorizzare il vasto patrimonio librario e documentario della biblioteca verso un pubblico più ampio.
 

L'inaugurazione del "Giardino dei Giusti" al Parco Ciani di Lugano - Fonte: gariwo

[...]
Nel sistema scolastico ticinese, il tema della Seconda guerra mondiale e della Shoah vengono trattati in un primo momento nel IV anno delle scuole medie e, in modo più approfondito, durante il IV anno di liceo. Questo significa affrontare con le allieve e gli allievi temi molto complessi e delicati. L’Associazione ticinese degli insegnanti di storia (ATIS), da anni si impegna per fornire materiali agli insegnanti del cantone per trattare temi quali la Seconda guerra mondiale e la politica d’asilo della Svizzera. In particolare, l’ATIS ritiene che l’insegnamento della storia debba nutrirsi «del dialogo degli studenti con le fonti, in un’interrogazione dinamica e coinvolgente, tra il documento e lo studente» (Binaghi, 2020, p. 29).
Il “Giardino dei Giusti” di Lugano offre una valida risorsa per l’insegnamento di queste tematiche nelle scuole medie e superiori del Cantone. Come fa notare Sonia Castro, storica e consulente scientifica del progetto: «così come affermano le teorie di didattica della storia, l’interazione con le fonti consente di generare processi cognitivi complessi, di creare inferenze significative che mettono al centro del processo di insegnamento-apprendimento lo studente» (Castro, 2020, p. 166). La valorizzazione delle storie dei “Giusti”, ossia coloro che hanno avuto il coraggio di opporsi, di agire secondo i loro valori morali e andare controcorrente, ha ricadute didattiche anche al di là dell’insegnamento della storia. Le vite dei “Giusti”, situate fra storia e memoria in un continuo dialogo fra passato e presente, possono infatti essere connesse all’educazione alla cittadinanza, ai valori democratici e all’etica della responsabilità (Castro, 2020).
[...]
Bibliografia 4.2: La Svizzera italiana tra fascismo e antifascismo
A noi! Settimanale fascista della Svizzera italiana aderente al programma del fascismo svizzero. (1935). ASB: 329 /0/068/03B3. Posseduto: 1935 BCLu: LPR 495. Posseduto: Anno 1, n. 1 [= Anno 3, n. 14](30 marzo 1935) - anno 3, n. 45(21 dicembre 1935)
Fascio di Locarno della federazione fascista ticinese. (1934). Fatti, non parole! [Proclama ai] Cittadini di Locarno. s.n. BCLu: LP 30 C 4/14
Il fascista svizzero: Organo della Federazione fascista del Cantone Ticino, settimanale di polemica e di battaglia. (1933-1935). ASB: 329 /0/068/03B3 (13). Posseduto: 1933-1935 BCLu: LPR 495. Posseduto: Anno 1, n. 1(14 dic. 1933) - anno 3, n. 13(16 marzo 1935)
L’idea nazionale: Foglio di propaganda della Lega nazionale ticinese. (1933-1938). ASB: 329 /0/068/01E2. Posseduto: 1933-1938 BCLu: LP Idea nazionale. Posseduto: Anno 1, n. 1(13 novembre 1933) - anno 6, n. 53(31 dicembre 1938)
Rezzonico, N. (1937). Battaglie. Tipografia popolare. ASB: 8271 BCLu: 126 C 16 BCLo: BRLTA 2334 BSF: 58 Fa 26 BCMe: FFR 151
Squilla italica: Settimanale fascista per gli italiani in Isvizzera. (1923-1944). BCLu: LP Squilla italica. Posseduto: Anno 2, n. 1(3 gennaio 1924) ; anno 3(1925) - anno 22, n. 33(12 agosto 1944) ASB: 329 /0/068/01B3. Posseduto: Anno 1, n. 1(1 gennaio 1923)-Anno 22, n. 33(12 agosto 1944)
Alessandrone Perona, E., Cavaglion, A., Valsangiacomo, N., & Bazzocco, A. (Cur.). (2005). Luoghi della memoria, memoria dei luoghi nelle regioni alpine occidentali, 1940-1945. Blu Edizioni. BCLu: LPB 3116 ASL: XXI-196 BCB: 3.3.7 LUOG BCMe: 940.53 LUOG
Bazzocco, A. (2004). Il Cantone Grigioni e la sua frontiera meridionale negli anni del fascismo italiano (1922-1943). Bollettino storico della Svizzera italiana, 107 (2), 395-420. AQP (consultazione online)
Bernardi-Snozzi, P. (1983). Dalla difesa dell’italianità al filofascismo nel Canton Ticino (1920-1924). Archivio storico ticinese, 95-96, 307-472. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Boschetti, P., Kreis, G., & Kuder, M. (2016). La Svizzera e la Seconda guerra mondiale nel Rapporto Bergier. G. Casagrande. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Butti, G., Rossi, G., & Genasci, P. (2002). L’aereo della libertà: Il caso Bassanesi e il Ticino. Fondazione Pellegrini-Canevascini. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Canevascini, G., Reale, E., Castro, S., & Cerutti, M. (2016). Al di sopra di ogni frontiera: Carteggio 1927-1957. Giampiero Casagrande. ASB: 24099 BCLu: MC 2135 BCMe: 949.45 CANE BCB: 3.3.7 CANE BCLo: BRLTA 5771
Castagnola, R. (2004). Incontri di spiriti liberi: Amicizie, relazioni professionali e iniziative editoriali di Silone in Svizzera. Lacaita. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Castagnola, R., Panzera, F., & Parachini, P. (Cur.). (2003). Per una comune civiltà letteraria: Rapporti culturali tra Italia e Svizzera negli anni ’40. F. Cesati. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Castro, S. (2008). Liberali antifascisti e socialisti ticinesi di fronte al fascismo (1921-1939). In Il Ticino fra le due guerre, 1919-1939: Alla prova dei totalitarismi e dell’emergenza economia e sociale (pagg. 59–77). Associazione Carlo Cattaneo. BCB: BZA 39152 BCLu: MB 14799 BCMe: 949.45 TICI ASB: 18503 BUL: A 949.478072 TIC
Castro, S. (2018). Storia e memoria. Lugano dal Risorgimento alla Resistenza. In Pietro Montorfani, Giacomo Jori & Sara Garau (Cur.), Lugano Città Aperta (pagg. 175-201). ). Ed. Città di Lugano, Archivio storico. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Cerutti, M. (1982). L’antifascisme italien au Tessin et les relations de la Suisse avec l’Italie fasciste à travers le cas Pacciardi. Relations internationales, 30, 177-191. BCLu: LPS 2640
Cerutti, M. (1986). Fra Roma e Berna: La Svizzera italiana nel ventennio fascista. Franco Angeli. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Cerutti, M. (1988). Le Tessin, la Suisse et l’Italie de Mussolini: Fascisme et antifascisme, 1921-1935. Payot. BCMe: 949.45 CERU BCLu: LP PN 2181 ASB: cons 940 BCB: 3.3.7 CERU
Cerutti, M. (2004). Svizzera e Italia nel periodo fascista e nella seconda guerra mondiale: La questione dei rifugiati politici. In E. Halter (Cur.), Gli italiani in Svizzera: (pagg. 83-91). Casagrande. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Cerutti, M. (2014). La Svizzera fra le due guerre: La politica estera. In Lezioni bellinzonesi 7 (pagg. 68-83). Casagrande. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Ceschi, R. (Cur.). (2015). Storia del Cantone Ticino: L’Ottocento e il Novecento. Casagrande. BCLu: 949.47800 CESC 3 ASB: 25904 (altre edizioni in catalogo)
Codiroli, P. (1984). 1929: Il caso Salvemini, Francesco Chiesa, Libera stampa e altro. Le Monnier. BCB: 3.3.7 CODI Opti BCLo: BRLGA 3110 BCLu: LPS 2897 ASB Q 3
Codiroli, P. (1987). Appunti riguardanti la politica culturale dell’Italia fascista nel Cantone Ticino: 1922-1930. Cenobio, 36(2), 127-147. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Codiroli, P. (1988). L’ombra del duce: Lineamenti di politica culturale del fascismo nel cantone Ticino (1922-1943). F. Angeli. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Codiroli, P. (1992). Tra fascio e balestra: Un’acerba contesa culturale (1941-1945). A. Dadò. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Commissione indipendente d’esperti. (2002). La Svizzera, il nazionalsocialismo e la Seconda Guerra Mondiale: Rapporto finale. A. Dadò. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Dosi, D. (1999). Il cattolicesimo ticinese e i fascismi: La Chiesa e il partito conservatore ticinese nel periodo tra le due guerre mondiali. Ed. universitarie. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Dosi, D. (2004). Giuseppe Cattori e il Ticino cattolico negli anni della minaccia fascista. Bollettino storico della Svizzera italiana, 107 (1), 73-81. AQP (consultazione online)
Garobbio, A. (1998). A colloquio con il duce (M. Viganò, Cur.). Mursia. BCMe: 92 MUSS BCLu: MB 6212 CHB: S c 551 BSF: 203 D 3
Genasci, P., Luminati, M., Garré, R., & Contarini, F. (2017). L’aereo della libertà: Il volo di Bassanesi su Milano. Ed. del Cantonetto. BCLu: LPSQ 5100 ASB: 25147
Macaluso, P. (2004). Liberali antifascisti: Storia del Partito Liberale Radicale Democratico Ticinese (1926-1946). A. Dadò. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Macaluso, P., & Pedroni, V. (2013). Tra due guerre: Problemi e protagonisti del Ticino (1920-1940). A. Dadò. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Palma, P., & Moro, R. (2003). Una bomba per il duce: La centrale antifascista di Pacciardi a Lugano (1927-1933). Rubbettino. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Panzera, F. (2008). I cattolici ticinesi negli anni dei fascismi. In Il Ticino fra le due guerre, 1919-1939: Alla prova dei totalitarismi e dell’emergenza economia e sociale (pagg. 79–103). Associazione Carlo Cattaneo. BCB: BZA 39152 BCLu: MB 14799 BCMe: 949.45 TICI ASB: 18503 BUL: A 949.478072 TIC
Pozzoli, F., & Luchessa, C. (2006). Lugano 1939-1945: Guida ai luoghi, ai personaggi e agli avvenimenti della città e dei suoi dintorni in tempo di guerra. s.n. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Rigonalli, M. (1984). Le Tessin dans les relations entre la Suisse et l’Italie: 1922-1940. Tipografia Pedrazzini. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Rima, A. (2000). Come il Cantone Ticino ha vissuto la guerra totale (1936-1945): Fronte sud, nel periodo precedente e durante la seconda guerra mondiale. A. Rima. BCLu: 949.47807 RIMA 1 BCB: 3.3.7 RIMA CDE: 53 B 2 RIMA ASB: 12896 BCMe: 949.45 RIMA
Spiga, M., Panzera, F., Castagnola, R., & Caizzi, T. (Cur.). (2006). Spiriti liberi in Svizzera: La presenza di fuorusciti italiani nella Confederazione negli anni del fascismo e del nazismo (1922-1945). F. Cesati. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Valsangiacomo, N. (2001). Militanze intellettuali durante il fascismo: L’Associazione Romeo Manzoni (1929-30). In Altre culture. Ricerche, proposte, testimonianze (pagg. 35-49). Fondazione Pellegrini-Canevascini. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Valsangiacomo, N., & Signori, E. (2001). Storia di un leader: Vita di Guglielmo Canevascini 1886-1965. Fondazione Pellegrini-Canevascini Fondazione Miranda e Guglielmo Canevascini. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Viganò, M. (1998). Nella seconda guerra mondiale: Ombre e luci. In Storia del Cantone Ticino (pagg. 517-550). Stato del Cantone Ticino. Posseduto da gran parte delle biblioteche del sistema.
Barbara Rossi, Il "Giardino dei giusti" di Lugano tra memoria e storia: un percorso bibliografico, Diploma of Advanced Studies (DAS) thesis, Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), Anno accademico 2019/2020

venerdì 27 maggio 2022

Le agende e i diari di Pietromarchi costituiscono una fonte importante per i rapporti tra l’Italia fascista e la Spagna nazionalista


Per quanto riguarda la percezione della guerra civile spagnola in Italia, i diari e le agende di Pietromarchi sono di duplice interesse perché in essi si rispecchiano sia l’atteggiamento del regime fascista nei confronti della Spagna sia le opinioni personali del diarista e il suo giudizio su determinati eventi e sviluppi storici. Diversamente dalle memorie della guerra civile spagnola, scritte successivamente da alcuni funzionari italiani, come ad esempio quelle di Roberto Cantalupo, l’ex ambasciatore italiano in Spagna, <6 le annotazioni di Pietromarchi costituiscono una fonte straordinaria nella sua autenticità, che finora è stata completamente ignorata dalla ricerca storica sul tema. Lo stesso John F. Coverdale, che con il suo ampio studio sull’intervento italiano nella guerra civile spagnola, pubblicato a metà degli anni Settanta, svolse un lavoro pionieristico, aveva sì inserito nelle sue indagini anche le carte dell’Ufficio Spagna e addirittura intervistato Pietromarchi, allora settantacinquenne, a Roma, <7 ma non aveva fatto alcun accenno ai diari e alle agende. Presumibilmente il diplomatico non rivelò allora l’esistenza di questi suoi scritti, perché era intenzionato a ricorrere direttamente ad alcune parti delle sue annotazioni per le memorie che avrebbe iniziato a scrivere tra il 1976 e il 1977. Ma anche dopo la consegna dei diari all’archivio della Fondazione Einaudi, essi non vennero presi in considerazione come fonte relativa all’intervento italiano nella guerra civile spagnola. Sia l’eccellente lavoro di Gabriele Ranzato sulla guerra civile spagnola e le sue cause, <8 sia la monografia, pubblicata nel 2005 dallo storico militare Giorgio Rochat sulle guerre italiane dal 1935 al 1943, <9 si riferiscono solo marginalmente all’Ufficio Spagna diretto da Pietromarchi e non utilizzano le sue osservazioni relative alla guerra civile spagnola. Eppure tutta la potenzialità dei diari per l’analisi dell’intervento italiano a sostegno di Franco si rivela già nella summenzionata pubblicazione di alcune pagine dei diari di Pietromarchi scelte da Paolo Soddu, che contengono una lunga e istruttiva annotazione sulla battaglia di Guadalajara del marzo 1937. <10
I suoi compagni di fede politica vedevano in Pietromarchi il capo ideale dell’Ufficio Spagna che da Roma coordinava la “crociata contro il bolscevismo”. Le funzioni dell’ufficio erano soprattutto di natura militare, ma vi si svolgevano anche compiti di propaganda e mansioni legate alla “assistenza alle popolazioni civili” organizzata dalla Croce Rossa, dalla quale erano evidentemente esclusi gli attivisti repubblicani. Il rapporto ufficiale sull’istituzione e sulle competenze dell’ufficio rimane molto vago: il suo compito sarebbe stato la “centralizzazione di tutte le richieste provenienti dalla Missione Militare in Spagna, coordinamento dell’attività dei tre Ministeri militari onde dare
alle richieste stesse il più sollecito corso ed infine svolgimento di tutte le pratiche relative alla collaborazione con le forze nazionali spagnole”. <11 L’Ufficio Spagna divenne così il centro di collegamento esclusivo tra le truppe italiane in Spagna e tutte le autorità militari e civili a Roma. Faceva parte delle sue funzioni militari il reclutamento, il raggruppamento e il trasporto delle truppe in Spagna, ma anche la raccolta di informazioni.
Pietromarchi si dedicava a questo lavoro con un impegno tale da seguire spesso di persona tutta la fase di reclutamento delle truppe, portando loro, al momento della partenza, anche il saluto di Mussolini. Nel gennaio del 1937 raccontò a Ciano con entusiasmo l’imbarco dei soldati avvenuto nel porto di Gaeta: “Il gran rapporto degli ufficiali a bordo si è svolto, come sempre, in un’atmosfera di vibrante entusiasmo … Gli ufficiali mi hanno fatto la più favorevole impressione: uomini di profondo sentire, compresi della missione loro affidata. Molti di essi hanno tenuto a dirmi la loro soddisfazione e la loro fierezza di riprendere le armi contro il nemico del Fascismo: il sovversivismo internazionale”. <12
Nelle agende e nei diari Pietromarchi si mostra soprattutto convinto della superiorità morale e militare delle truppe italiane su quelle tedesche. Il 22 febbraio 1939 ad esempio annotò nella sua agenda: “Ottimi rapporti [degli italiani] con gli Spagnoli … La nota del Duce, informazioni diplomatiche, che [gli italiani] sarebbero rimasti fino a quando Franco li avesse voluti ha solleticato l’amor proprio spagnolo come pone il rimettersene alla cavalleresca lealtà spagnola. Franco marca la differenza di trattamento tra Italiani e Tedeschi. Gli Alemanni mi fanno sempre dei ricatti”. <13 Ma non solo nei confronti dei Tedeschi viene ripetutamente sottolineata la destrezza delle truppe italiane. Dalle note di Pietromarchi risalta in generale l’estrema sopravvalutazione delle proprie capacità militari da parte degli Italiani, che dopo la conquista dell’Etiopia si credevano invincibili, e che erano intervenuti in Spagna nella convinzione di sbarazzarsi dei “rossi” in brevissimo tempo. <14 Durante la conquista della Catalogna nel febbraio 1939, Pietromarchi rimarcò in modo particolare la preparazione degli Italiani e la dipendenza da loro degli alleati spagnoli. Egli cita il generale Gambara che gli aveva riferito: “Franco ha detto ai suoi che le unità spagnole avevano fatto figura di essere rimorchiate dagl’Italiani. Le migliori unità di Navarra. Hanno sempre cercato di essere allineate coi nostri”. <15
Il senso di superiorità spingeva gli Italiani talvolta al paradosso di considerare il loro sostegno a Franco come un’azione “altruistica”. <16 Lo stesso Pietromarchi era persuaso della “grande bontà del popolo italiano, serenità con la quale sacrifica la sua giovinezza”. <17 L’autoesaltazione si intrecciava qui con il fatto che Franco effettivamente non offrì nessuna concreta compensazione per il sostegno ricevuto dagli Italiani; talvolta il dittatore spagnolo disapprovava anche l’autonomia che essi mostravano nelle iniziative militari. <18
D’altra parte, dalle annotazioni del diplomatico emergono anche i frequenti momenti di insoddisfazione del governo fascista nei confronti dell’alleato spagnolo, che si alternano però con dichiarazioni rivolte a sottolineare i loro buoni rapporti; in tutto ciò, come in molti altri passi dei diari e delle agende, si scorgono sia le oscillazioni dei giudizi di Pietromarchi sia il corso capriccioso della politica mussoliniana. Soprattutto la disperata battaglia per la conquista della città aragonese di Teruel, durata dal dicembre 1937 al febbraio 1938, accrebbe a Roma l’impazienza nei confronti delle operazioni in Spagna.
Gli iniziali insuccessi delle forze nazionaliste furono addebitati esclusivamente all’incapacità degli Spagnoli. Il proprio senso d’onnipotenza alimentò l’immagine dell’eroico combattente italiano, ostacolato nella conquista della vittoria soltanto dal rammollito alleato spagnolo e dalle sue titubanze. Pietromarchi sperava che gli Italiani assestassero alla fine il “colpo decisivo”, per vincere la battaglia rapidamente; <19 e, a proposito dell’atteggiamento di Mussolini verso Franco, appuntò: “Il Duce è ‘stufo’ del modo col quale vengono condotte le operazioni in Spagna. Franco è un uomo senza attributi virili”. <20 Il tenore caratteristico delle annotazioni di Pietromarchi corrisponde in questo periodo alle affermazioni dei militari italiani in Spagna che sentivano il loro valore compromesso dall’incompetenza del comando spagnolo. <21
Il giudizio più duro sulla condotta di Franco Pietromarchi lo espresse più di un anno dopo la battaglia di Guadalajara del marzo 1937, esaminando le cause della sconfitta subita dalle truppe italiane: “Gli Spagnoli non si mossero … Tutta la tragedia di Guadalajara si riassume nella mancanza di riserve … [Franco] … considerò le richieste italiane come dettate dal panico, non volle mai riconoscere la gravità della situazione, ci lasciò nelle contingenze più critiche con una truppa stanca, scossa, insufficiente ad arginare un nemico preciso, insistente, superiore di numero”. <22 Uno dei motivi della sconfitta di Guadalajara fu effettivamente la passività mostrata da Franco in quell’occasione. Dal punto di vista puramente militare non si trattò di un vero disastro, come sottolinea Ranzato, ma il prestigio di Mussolini e delle truppe italiane venne fortemente leso. <23 Sorprende che Pietromarchi adducesse, nell’appunto diaristico, l’insufficiente addestramento delle proprie truppe e dei loro comandanti come ulteriore causa dell’insuccesso. È uno dei rarissimi momenti in cui Pietromarchi lascia sorgere in sé stesso, e nel suo lettore immaginario, dei dubbi sull’invincibilità degli Italiani in Spagna. È evidente che la corresponsabilità di Franco gli rese il fatto più sopportabile, dal momento che, in chiusura dell’appunto, egli aveva già ritrovato la sua fiducia nelle capacità militari delle truppe italiane: “I [volontari] rimasti fecero miracoli. Da allora, dovunque si presentò il Corpo Legionario, la vittoria fu rapida e travolgente”. <24
Le tensioni tra gli Italiani e gli Spagnoli, che si rispecchiano nelle annotazioni di Pietromarchi soprattutto durante il 1938, possono essere interpretate come diretta conseguenza e continuazione dei risentimenti reciproci che la sconfitta italiana di Guadalajara aveva rafforzato. I rapporti culturali tra Italia e Spagna invece erano basati su un ampio consenso, come risulta pure dalle note di Pietromarchi: nella cornice della concezione fascista, secondo cui l’Italia era l’erede dell’Impero romano, il rinnovato legame italo-spagnolo si presentava come ritorno al glorioso passato antico quando le province spagnole, dopo la loro romanizzazione, avevano svolto un importante ruolo all’interno dello stesso impero. Certo, anche questo era un modo sottile per attribuire all’Italia una posizione di superiorità, seppure intesa come magnanimità, individuando in Roma l’origine della latinità e della romanità spagnola. Ma, nella misura in cui si sottolineavano le comuni origini storiche e si propagava la fratellanza, venivano ben compensati i contrasti che erano emersi nel contesto della cooperazione militare. La dettagliata descrizione delle celebrazioni organizzate nel maggio 1938 a Roma in occasione dell’annuale “Giornata di solidarietà spagnola”, testimonia sia l’entusiastica accoglienza dei rappresentanti spagnoli da parte del popolo italiano, sia l’ostentazione teatrale della concordia tra i ceti dirigenti italiani e spagnoli che veniva ancora ampliata dalla visita di luoghi simbolici come l’altare della Patria e la Casa dei Mutilati, nonché da solenni ricevimenti. <25 Nel contesto di questo evento, che ebbe luogo in un periodo di rancori militari tra Spagnoli e Italiani, Mussolini accennò in un suo discorso ai legami di fratellanza e alle affinità esistenti tra i due popoli. <26
Non meno pomposa risultò l’accoglienza ricevuta dal ministro degli Esteri Ciano e dalla sua delegazione in occasione del viaggio in Spagna avvenuto nel luglio del 1939, dopo la vittoria di Franco. <27 Pietromarchi, a cui Ciano aveva espressamente chiesto di partecipare, ne fece nelle sue annotazioni un grande racconto. <28 Con entusiasmo descrive i ricevimenti, le visite delle città, le corride e le parate falangiste. Che la “fratellanza” italo-spagnola dovesse essere confermata e curata anche dopo la fine della guerra, <29 e precisamente, come prima, sulla base della forza unificatrice della storia, emerge non da ultimo dalla ricollocazione di un bronzo dell’imperatore romano Augusto, un
regalo fatto da Mussolini agli Spagnoli nel 1934. La statua fu inaugurata solennemente a Tarragona, dove Augusto aveva vissuto due anni; Pietromarchi era stato incaricato di stilare il relativo discorso per Ciano. <30 Nel complesso, il viaggio si rivelò un grande successo propagandistico per tutt’e due le parti. Ciano fu accolto dai nazionalisti con grande entusiasmo, come confermano sia le annotazioni del diplomatico sia le notizie della stampa dell’epoca. <31
Pertanto, le agende e i diari di Pietromarchi costituiscono una fonte importante per i rapporti tra l’Italia fascista e la Spagna nazionalista. Da essi risulta che non rari momenti di concorrenza pregiudicavano la cooperazione in ambito militare nonostante tutte le affinità ideologiche, ma anche che, soprattutto attraverso la strumentalizzazione del passato, si riusciva ugualmente a creare un sentire comune tra le due nazioni.
[NOTE]
6. Cantalupo, Spagna.
7. Coverdale, Intervention, pp. 165, 167s.
8. Ranzato, Eclissi.
9. Rochat, Guerre.
10. Cfr. Soddu, Pietromarchi.
11. ASMAE, US 5, Relazione Finale, “Costituzione ed Organizzazione dell’Ufficio Spagna”.
12. Pietromarchi a Ciano, 28 gennaio 1937, ASMAE, US 1.
13. Agenda Pietromarchi, 22 febbraio 1939.
14. Cfr. Ranzato, Eclissi, pp. 376s.
15. Agenda Pietromarchi, 23 febbraio 1939.
16. Cfr. B u r g w y n, Policy, p. 163.
17. Agenda Pietromarchi, 13 luglio 1938.
18. Cfr. ibid.; R a n z a t o, Eclissi, p. 377.
19. Agenda Pietromarchi, 15 gennaio 1938.
20. Ibid., 22 gennaio 1938.
21. Il pilota Ettore Muti ad esempio scrisse a Ciano verso la fine del gennaio 1938: “L’onore delle truppe italiane, la combattività, il valore, lo spirito di sacrificio e tutte le altre virtù del nostro combattente, sono affidate alla incompetenza del comando spagnolo”; Muti a Ciano, 25 gennaio 1938, USSME, Fondo Oltre Mare Spagna F. 18, R.4, fasc. 25, Muti a Ciano, 25 gennaio 1938.
22. Diario Pietromarchi, ca. 11 agosto 1938.
23. Cfr. Ranzato, Eclissi, p. 379.
24. Diario Pietromarchi, 21 agosto 1938.
25. Cfr. Agenda Pietromarchi, 28 maggio 1938.
26. Cfr. ibid., 30 maggio 1938.
27. Sul viaggio di Ciano in Spagna cfr. in dettaglio G. Di Febo, Riti, pp. 245-275.
28. Cfr. Agenda Pietromarchi, dal 9 al 19 luglio 1939. Anche nel diario di Pietromarchi si trova una eco di questo viaggio: il 28 luglio 1939 egli scrisse, sotto il titolo Paesaggi di Spagna, una serie di appunti relativi ad alcune regioni spagnole, che però non sono compresi nella presente edizione; cfr. supra, II.3: La veste editoriale.
29. Di Febo vede nell’immagine della “fratellanza” italo-spagnola il “tema ricorrente nel viaggio fino ad assumere il senso di un codice precostituito e quindi la fissità dello stereotipo”; Di Febo, Riti, p. 246.
30. Cfr. Agenda Pietromarchi, 6 e 10 luglio 1939; Di Febo, Riti, pp. 261s.
31. Cfr. i rapporti e le notizie di stampa in ASMAE, Affari Politici: Spagna, b. 58 (1939), “Visita di Ciano in Spagna”.
(a cura di) Ruth Nattermann, I diari e le agende di Luca Pietromarchi (1938-1940). Politica estera del fascismo e vita quotidiana di un diplomatico romano del ’900, Ricerche dell'Istituto Storico Germanico di Roma Band 5 (2009), Istituto Storico Germanico di Roma & Viella S.r.l., 2009 - Istituto Storico Germanico a Roma- Deutches Historisches Institut in Rom: www.dhi-roma.it

Dimas Vaquero Peláez, analizzando l'atteggiamento adottato da Mussolini riguardo alla politica interna spagnola, sostiene che la decisione italiana fu meditata e presa al termine di una lunga riflessione, considerando sempre i possibili esiti che la rivolta avrebbe potuto avere, poiché il duce voleva essere sicuro per decidere di collaborare in maniera definitiva con Franco. Solo alla fine del mese di dicembre si autorizzò l'apertura a Roma di un ufficio spagnolo per il reclutamento di volontari per la Spagna, l'Ufficio Spagna. Questo ufficio venne creato nella sede del Ministero degli affari Esteri: era composto da varie sezioni provenienti dalle tre Armi e dalla Milizia.
L'ufficio doveva funzionare come organo centrale in tutte le questioni che si riferivano alla guerra di Spagna, centralizzando tutte le richieste provenienti dalla missione militare e coordinando tutte le attività dei tre ministeri militari e la loro collaborazione con le truppe nazionaliste franchiste. La comunicazione con la Spagna si realizzava tramite posta e radio, dalle stazioni di Monte Mario a Roma e a Salamanca <118.
Si deduce, di conseguenza, che tutte le operazioni e i rapporti riguardanti la Spagna non fossero in mano solo a diplomatici, bensì erano quasi sotto il totale arbitrio delle alte gerarchie militari italiane e spagnole, tanto che queste ebbero l'autorizzazione per aprire la sede per il reclutamento di volontari per la Spagna dentro la sede del Ministero degli Esteri.
L'ufficio aveva il compito di vigilare sull'intera operazione, centralizzando le richieste e coordinando tutte le attività; il capo dell'operazione era il conte Luca Pietromarchi, diplomatico amico di Ciano <119.
La predominanza dei militari nel rappresentare gli interessi italiani, che era destinata a caratterizzare i rapporti dell'Italia con la Spagna per tutta la durata della guerra civile, era già implicita nelle istruzioni date al generale Roatta, che pur avendo il carattere di consigliere militare, ricevette dal ministro degli Esteri precise disposizioni di occuparsi degli aspetti politici ed economici del conflitto, oltre che dei suoi compiti strettamente militari <120. L'ingerenza di militari nella sfera civile avrebbe avuto in seguito la sua contropartita nell'assunzione da parte del ministero degli Esteri del comando delle operazioni belliche militari in Spagna. Durante l'intero corso della guerra però la rappresentanza in Spagna degli interessi italiani fu in gran parte affidata a comandanti militari; Roatta ebbe il comando delle forze italiane in Spagna sino all'aprile del 1937, cercando di non immischiarsi troppo nella politica
nazionalista, secondo le direttive di Roma <121.
La decisione più importante presa dagli italiani sul fronte della politica interna della Spagna nazionalista fu quella di appoggiare esplicitamente Franco, e non invece qualche altro capo militare o politico; tale scelta fu chiara sin dalla fine di agosto, cioè quando ancora esistevano forte divisioni interne tra gli insorti spagnoli. Le forze nazionaliste in quel momento erano ancora scisse in due tronconi: Mola al Nord e Franco al Sud.
Inizialmente Mussolini non prevedeva di appoggiare Franco come capo della Spagna nazionalista; le richieste di aiuto da parte del futuro dittatore erano state respinte dal duce; solo dopo l'ambasciata di Mola a Roma si decise di inviare aiuti alle forze comandate dal Caudillo <122.
[NOTE]
118 «La decisión italiana fue meditada y llevada a término con mucha reflexión, valorando siempre las posibilidades de éxito que la revuelta pudiera tener, ya que quería jugar sobre seguro. Muy claro lo tenían que ver para decantarse definitivamente por colaborar con Franco. Será a finales del mes de diciembre cuando definitivamente se autoriza la apertura en Roma de una oficina española para el aislamiento de voluntarios para España, l'Ufficio Spagna» Cfr. D. Vaquero Peláez, Credere, Obbedire, Combattere, Mira Ediciones, Madrid 2007, p. 33.
119 Cfr. Il conte Luca Pietromarchi (1895-1978) iniziò la carriera diplomatica nel 1923. Dal 1932 occupò posti-chiave nel gabinetto di Galeazzo Ciano presso il Ministero degli Affari Esteri. Nell'intero periodo della guerra civile spagnola, dal '36 al '39, fu capo dell'Ufficio Spagna. Cfr. Istituto Storico Germanico a Roma- Deutches Historisches Institut in Rom: www.dhi-roma.it.
120 Cfr. M. Lazzarini, Italiani nella guerra di Spagna!, Italia editrice, Campobasso 1994.
121 Cfr. Generale Mario Roatta: (Modena 1887-Roma 1968) è stato un generale e agente segreto italiano: nel 1934 divenne capo del Servizio Informazioni Militari e lo rimase fino all'agosto 1939, anche se solo sul piano formale, poiché dal 1936 fu nominato comandante del Corpo Truppe Volontarie (CTV) italiane nella guerra civile spagnola al fianco degli insorti nazionalisti guidati da Franco. Il controllo effettivo del SIM era passato nelle mani del colonnello Paolo Angioy. Fu infatti, secondo risultanze giudiziarie, Roatta insieme ad Angioy, al colonnello Santo Emanuele ed al maggiore Roberto Navale l'ideatore del piano per assassinare i fratelli Rosselli e numerosi antifascisti che avevano trovato asilo in paesi vicini. Sia il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano che il suo capo di gabinetto Filippo Anfuso sarebbero stati a conoscenza dell'operazione. Nel frattempo Roatta diviene generale di brigata. Cfr. Istituto Storico Germanico a Roma- Deutches Historisches Institut in Rom: www.dhi-roma.it. Si veda inoltre in proposito: Victoria De Grazia - Sergio Luzzatto, Dizionario del Fascismo, Einaudi, Torino 2000, pp. 532-533.
122 Cfr. M. Lazzarini, Italiani nella guerra di Spagna!, op.cit.
Giulia Medas, ¿Quiénes fuerón los voluntarios? Identità, motivazioni, linguaggi e vissuto quotidiano dei volontari italiani nella guerra civile spagnola, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari in collaborazione con Universitat de València, 2014

La presenza dell‘apparato propagandistico in Spagna cresce con il passare dei mesi. Dai primi momenti di sorpresa e disorganizzazione si passa ad una sempre più massiccia presenza in loco, in quanto ci si può estendere in tutti i territori via via conquistati dai nazionalisti. L‘agenzia Stefani, ad esempio, ha il suo quartier generale a Salamanca, da dove l‘impianto può captare il servizio mondiale Stefani, da cui ricavare e trasmettere i bollettini quotidiani ai giornali spagnoli del fronte nazionale. L'8 dicembre 1936 viene creato a Roma l‘Ufficio Spagna, presso il Ministero per gli Affari Esteri, diretto dal conte Luca Pietromarchi. Nel febbraio 1937 viene installato a Salamanca l‘Ufficio Stampa e Propaganda (USP), con a capo il giornalista Guglielmo Danzi.
Dal novembre 1937 l'USP assume il nome di Ufficio Stampa Italiano (USI). Dal punto di vista radiofonico, l'USP punta su una propaganda massiccia, anche per contrapposizione all‘uso frequente che ne fanno gli antifascisti. Dall‘Italia il Ministero decide di agire su un duplice livello: intercettare ed interferire sulle frequenze delle radio spagnole antifasciste; sviluppare un‘azione più diretta nei confronti della stessa popolazione spagnola, al punto da arrivare alla creazione di Radio Verdad. Lo sforzo compiuto dal fascismo in Spagna, sul territorio spagnolo, è senz‘altro enorme: è il tentativo di costruire una narrazione propria del conflitto. Una narrazione che prevede l‘uso dei grandi temi della propaganda fascista, già utilizzati in passato, e che collimano in gran parte con gli stessi temi della propaganda franchista. È una comunicazione che vuole avere un target variegato. Un target costituito dalla popolazione spagnola, lì dove si può arrivare, e cioè alle zone riconquistate alla causa franchista. Un target costituito però anche dalle truppe italiane, mandate in Spagna in previsione di un conflitto veloce, spedito, e spesso rimaste lì per più di un anno, in condizioni psicologiche molto diverse da quelle, appunto, narrate dalla propaganda. Ed ecco l‘organizzazione di 6 autocinematografi ambulanti, a ripetere in misura minore l‘esperienza compiuta in Etiopia, laddove venivano proiettate le imprese italiane ad una popolazione digiuna di un tale mezzo comunicativo. Ed ecco la nascita del foglio ufficiale del Ctv, Il Legionario. Nato come settimanale, in seguito il foglio diviene un vero e proprio quotidiano. Il foglio, se si considera la retorica cara alla stampa italiana, è molto più contenuto nei toni di quanto ci si potrebbe aspettare. Ciò corrisponde al fine di tenere alto il morale delle truppe, e distrarli per quanto possibile da altre e meno degne occupazioni, come i postriboli che in alcuni casi vengono frequentati. Esso offre dunque un‘informazione ad ampio raggio, non solo con tematiche militari sulla guerra in corso e sulle condizioni del nemico, ma trattando anche di sport ed altri temi più leggeri. Su pressioni di Bastico, il foglio chiude la sua attività a fine settembre del 1938, a causa degli alti costi che la sua produzione comporta, sostituito dall‘invio direttamente dall‘Italia di alcuni quotidiani, sia di informazione che umoristici.
Riccardo Notari, Il fascismo e la guerra civile spagnola. Propaganda e comunicazione, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2009-2010

martedì 24 maggio 2022

Un luogo carico di ricordi che diede il nome a due leggendarie Formazioni Garibaldine

Veduta della Val Cichero dal Ramaceto - Fonte: Comune di San Colombano Certenoli (GE)


La scelta di Cichero [n.d.r.: nel territorio del comune di San Colombano Certenoli (GE)] come base partigiana avvenne, come ricordò in un’intervista Paolo Castagnino “Saetta”, «durante una riunione tenutasi a Lavagna nell’abitazione del Geometra Missale, poco dopo l’8 settembre 1943. Erano presenti Aldo Gastaldi “Bisagno”, Franco Antolini “Furlini”, Umberto Lazagna “Canevari”, Giovanni Serbandini “Bini”. Nei giorni precedenti, “Bisagno”, “Bini” e “Furlini” avevano compiuto una minuziosa perlustrazione nella zona dell’Antola e della Fontanabuona. Si recarono a Favale dove si trovavano “Marzo” e il suo gruppo, la cui presenza era ormai troppo nota per non suggerire l’allestimento di un’altra base militare».
La scelta cadde su Cichero in risposta a precisi criteri politici e militari, anche per le notizie positive sui sentimenti della popolazione fornite da Domingo Brignardello «antifascista cattolico esponente del CLN di Chiavari che aveva delle proprietà nella zona».
È da sottolineare il coraggio della popolazione che ospitò e sostentò con ogni mezzo la presenza partigiana pagando per questo duramente con l’incendio dell’intera valle e con la perdita di beni e del bestiame. Tutto questo è ricordato nella motivazione della Croce di Guerra al V.M. riportata nella targa apposta al “Casun du Stecca”, luogo di riunione dei partigiani.
Questo luogo così carico di ricordi diede il proprio nome alle 2 leggendarie Formazioni Garibaldine “Cichero” e “Pinan-Cichero”. Il nucleo partigiano qui presente era un gruppo temprato e affiatato. Verso la metà del luglio 1944, una colonna formata da SS e fascisti partita da Genova e camuffata da colonna partigiana arrivò nella Valle di Cichero. Colse di sorpresa un gruppo di partigiani della “Sezione stampa”, da poco arrivato da Chiavari e ancora disarmato. Era il 16 luglio 1944.
Ricorda ancora “Saetta”: «Dopo feroci percosse i fascisti costrinsero questi giovani, in località Gnorecco, a scavarsi la fossa nella quale furono poi selvaggiamente abbattuti. Poi entrarono nelle case, le razziarono e vi appiccarono il fuoco. Non risparmiarono né la scuola né la Chiesa». Questi i nomi di coloro che si immolarono nella dura lotta per una vita di libertà e di giustizia: Giancarlo Antonioni, Salvatore Daverio, Serafino Pinna, un giovane rimasto sconosciuto e 3 chiavaresi (Giuseppe Giacometti, Carlo Parodi e Vinicio Ventisette).
Redazione, Cichero, un paese decorato al V.M., Patria Indipendente, 16 novembre 2003

Enrica Canepa, figlia del partigiano “Marzo” e della staffetta partigiana Maria Vitiello, durante la Seconda Guerra Mondiale era una bambina. Per anni in fuga tra l’Italia e Parigi ha vissuto nel terrore delle violenze fasciste quando tutta la famiglia era ricercata dopo l’8 settembre. Nelle campagne tra Genova e Chiavari è stata protetta dalle famiglie che l’hanno nascosta a rischio della propria vita.
Enrica era soprannominata “Ridarella. La figlia di Marzo”, un nomignolo che è diventato il titolo di una pièce teatrale messa in scena da Ivano Malcotti, che ha trasformato la sua testimonianza in un testo che vive, oggi, con la regia di Giorgio De Virgiliis e la direzione artistica di Valeria Stagno, per il Teatro di Cittadinanza.

[...] A Cichero, sui monti della Fontanabuona organizza con Aldo Gastaldi “Bisagno” e Giovanni Serbandini “Bini” i primi nuclei partigiani della futura divisione garibaldina Cichero. Enrica dice “ho avuto una vita abbastanza bella” e non perde il sorriso...che è contagioso, proprio da Ridarella, titolo anche dello spettacolo scritto e ideato da Ivano Malcotti con la direzione artistica di Valeria Stagno per raccontare e interpretare con il teatro di cittadinanza del Gruppo Città di Genova il grande partigiano Marzo, sua nonna Rusinin, volitiva, intelligente e sfrenatamente ambiziosa e la figlia Enrica che insieme ai valori e ai sentimenti della sua famiglia mantiene vive memorie e pagine cruciali della nostra storia. L'opera teatrale è stata presentata nelle settimane scorse a Bogliasco e verrà riproposta nelle vicinanze del 25 aprile"
Redazione, Ridarella, 'La figlia di Marzo', Noi Donne, 16 aprile 2020

Nell’estate del ‘44 la continua crescita delle fila del movimento partigiano preoccupa seriamente il comando tedesco. Verso la metà del mese di luglio, giunge nella valle di Cichero la banda Gigi, composta da Ss e militi fascisti. Al comando del maresciallo Josef Peters, travestiti da partigiani, ha il compito di raccogliere informazioni e infiltrarsi tra le file del locale movimento partigiano. Il 16 luglio, vistisi scoperti, danno il via ad un rastrellamento in cui catturano 7 partigiani appartenenti alla sezione stampa appena giunti in zona e ancora poco armati. I patrioti catturati vengono condotti in località Gnorecco e fucilati dopo essere stati costretti a scavarsi la fossa. Per rappresaglia, nei confronti della popolazione di Cichero, colpevole di solidarietà con i partigiani, vengono razziate le case e appiccato il fuoco all’intero abitato.
[...] GNR, P.S. Squadra Politica, questura di Savona; Agenti e interpreti italiani dipendenti da SS della Casa dello studente
Nomi:
De Romedis Armando (“Gigi”), agente e interprete ufficio antiribelli alla casa dello studente;
Fantoni Luigi, volontario GNR;
Gavazzoni Giovanni, agente squadra politica di PS della Questura di Savona;
Montefameglio Libero, agente squadra politica di PS della Questura di Savona;
Puddu Pietro, agente e interprete SS di Genova;
Montis, Del Buono, Locci, Cavallero, Gibaudo, Guerra (emersi dall’interrogatorio di Giovanni Gavazzoni).
Estremi e Note sui procedimenti:
De Romedis Armando: la Sezione speciale della corte di Assise di Genova, ritenendolo colpevole di correità in omicidio e di sevizie, lo condanna alla pena di anni trenta di reclusione (di cui un terzo condonati ai sensi del Decreto di amnistia del 22/6/46) il 16 gennaio 1947.
Fantoni Luigi: la Sezione speciale di corte d’Assise di Savona in data 15 Febbraio 1947 assolve l’imputato per insufficienza di prove.
Gavazzoni Giovanni e Montefameglio Libero: gli atti del processo a carico degli imputati risultano mancanti.
Puddu Pietro: la Sezione speciale della corte di Assise di Genova in data 21 giugno 1947 lo condanna ad anni sedici di reclusione per il reato di collaborazionismo militare. Il 5 maggio 1948 la Corte di cassazione rigetta il ricorso presentato. Riduzione della pena a tre anni, dieci mesi e venti giorni in applicazione del decreto di amnistia del 22/1/1948.
[...] Croce al valor militare al Comune di San Colombano Certenoli. Primo fra i comuni liguri, sorgeva l’8 Settembre 1943 a difesa della libertà, ospitando e proteggendo la Resistenza che si stava organizzando in Val Cichero. Fulgido esempio di stretta collaborazione fra Popolazione e Partigiani; pagava il suo eroismo con l’incendio della vallata di Cichero il 19 Luglio 1944 e con le fucilazioni di Calvari, San Colombano, Gnorecco. San Colombano Certenoli 8 Settembre 1943 - Aprile 1945.
Francesco Caorsi e Alessio Parisi, Episodio di Gnorecco e Cichero, San Colombano Certenoli, 16.07.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

La Divisione Cichero è stata una formazione partigiana garibaldina che ha combattuto sulle alture di Genova durante la Resistenza. La Divisione Cichero agiva nel settore a levante della Camionale, oggi Autostrada A7, sull'Appennino ligure-piemontese.
Da essa usciranno quasi tutte le personalità di spicco della resistenza genovese, soprattutto grazie al ferreo rigore morale che da sempre caratterizzò la formazione, i cui uomini erano uniti più da legami personali che non di partito. Infatti, pur rimanendo saldamente nell'ambito garibaldino, molti furono i non comunisti, primo tra tutti il leader indiscusso Bisagno.
La formazione si contraddistinse anche per un ottimo rapporto con la popolazione della valli in cui si trovò a combattere, grazie anche al fatto di aver sempre vigilato sui gruppi di sbandati dediti più al saccheggio che alla guerra partigiana.
Le origini
Il primo nucleo di sbandati da cui la formazione ebbe origine si radunò dal settembre 1943 nella zona di Favale, nell'entroterra chiavarese: si trattava di una decina di uomini in tutto. La storiografia fa risalira già a questo periodo embrionale la stesura di Sutta a chi tucca (1), raro esempio di canto partigiano in dialetto genovese, sull'aria di un inno rivoluzionario sovietico (2). Già dal novembre, si rese necessario uno spostamento verso Cichero, alle pendici del Monte Ramaceto, perché il gruppo, in rapido aumento numerico, era diventato troppo vistoso.
Vengono intanto stretti rapporti col gruppo del Monte Antola, in seguito noto come Distaccamento La Scintilla. Questo gruppo confluì a Cichero nel marzo 1944, rendendo necessaria una riorganizzazione della banda, divenuta ormai di dimensioni considerevoli. Il gruppo viene suddiviso in tre distaccamenti: uno, denominato in seguito Severino, resterà a Cichero, uno, denominato in un primo momento Lupo e successivamente Peter si sposterà a Pannesi, l'altro, denominato Torre, tornerà nella zona dell'Antola, inglobando gli uomini della disciolta Banda dello Slavo.
Da Banda a Brigata
Il continuo incremento di uomini e di prestigio, portarono la Banda Cichero a raggiungere presto le dimensioni di una Brigata. Il riconoscimento ufficiale arrivò il 20 giugno 1944, con la nascita della 3° Brigata Liguria. Il fenomeno di quella che verrà poi definita VI Zona Operativa è in controtendenza con i continui problemi delle formazioni della III Zona. Ai tre distaccamenti iniziali, si uniscono altri due gruppi, uno attivo nel tortonese, il Battaglione Casalini, e l'altro nel pavesino, oltre ad un buon numero di contadini militarizzati.
Da Brigata a Divisione
La crescita esponenziale continua, e già nel mese di agosto si rende necessaria una nuova ristrutturazione, che porta alla nascita della 3° Divisione Cichero.
L'organizzazione interna poggia sulla 3° Brigata Jori, sorta su quella del Distaccamento Torre, ed attiva nella zona dell'Antola e dell'Alta val Trebbia; la 57° Brigata, che in seguito prenderà il nome di Berto agiva invece in Val d'Aveto; nelle valli Borbera e Curone si stava invece organizzando la 58° Brigata, nata dalla fusione del Peter e del Casalini, ed in seguito nota come Brigata Oreste. Quest'ultima formazione, nell'autunno successivo, fu scissa per formare la Brigata Arzani. Da segnalare, nel mese di novembre, l'ingresso nella Cichero della quasi totalità degli alpini del Battaglione Vestone della Monterosa.
La Divisione si dota anche di una Sezione Stampa, che cura la redazione de Il Partigiano, giornale ufficiale della Cichero ed in seguito di tutta la VI Zona Operativa. Saranno 15 le uscite dall'agosto 1944 alla Liberazione [...]
Redazione, La Divisione Cichero, Tuttostoria.net

Nel settembre 1943, nella zona del monte Capenardo, presso il casone delle “Vagge”, si costituisce ad opera di Giovanni Sanguineti (Bocci) ed Eraldo Fico (Virgola) il primo gruppo di giovani, conosciuto col nome di “ribelli del Capenardo”, che darà vita alla brigata. Nell’aprile 1944, con il supporto di Antonio Minetti (Gronda), proveniente da Cichero, la formazione comandata da Sanguineti si sposta in località Vigne, nei pressi di Statale di Ne, e da lì a Iscioli, in val Graveglia. Verso la metà del mese il gruppo ha i primi contatti con gli organi insurrezionali regionali, ma solo a giugno, forte di una cinquantina di uomini, passa dalle azioni di sabotaggio e cospirazione politica alla lotta armata. La catena di comando è costituita da  Bruno Solari (Bruno) ed Eraldo Fico, rispettivamente comandante e vicecomandante, Antonio Arpe (Italo), commissario politico, e Giovanni Sanguineti, Capo di stato maggiore. Dopo la metà di luglio, a seguito di una elezione tra i partigiani, Virgola sostituisce Bruno al comando della formazione, divisa in tre distaccamenti. Dopo gli scontri di Carro (agosto 1944) contro gli alpini della Monterosa, durante i quali  muore Giuseppe Coduri (Scioa), la formazione decide di assumerne il nome, divenendo il 20 settembre 1944 brigata Garibaldi Coduri che, seppur autonoma, dipenderà organizzativamente e militarmente dalla divisione Cichero. A settembre, in concomitanza con l’entrata nella formazione del distaccamento di Paolo Castagnino (Saetta), Bruno Monti (Leone) viene nominato commissario politico, Italo vice commissario,  Italo Fico (Naccari) vice comandante e Bocci  Capo di stato maggiore. Il comando si insedia a Valletti, nel comune di Varese Ligure, e la brigata, sempre guidata da Virgola, si attesta in val Graveglia, val Petronio, al  passo del Bocco e lungo la riviera del Tigullio, dislocazione che rimarrà pressoché inalterata sino alla Liberazione. Il 30 dicembre la Coduri subisce gravi perdite contro la Monterosa nel combattimento della Gattea e, pochi giorni dopo, perde anche il suo cappellano, don Giovanni Bobbio, fucilato a Chiavari il 3 gennaio 1945. A seguito del rastrellamento di gennaio, la brigata è costretta ad occultarsi e ad alleggerire il proprio organico rimandando a casa circa trecento partigiani. Riorganizzatasi, ai primi di marzo la Coduri può contare su un organico di circa 1200 uomini, suddivisi in tre formazioni: la Longhi comandata da Saetta, la Zelasco, comandata da Aldo Valerio (Riccio) e la Dall’Orco, comandata da Dino Massucco (Tigre). Il 20 aprile 1945 il comando della Coduri si riunisce, suddividendo le zone da liberare: Velva, Castiglione Chiavarese e Casarza Ligure alla Dall’Orco, Moneglia, Sestri Levante e Lavagna alla Zelasco, Borzonasca, Carasco e il litorale tra Chiavari e Rapallo alla Longhi. Il 25 aprile la Coduri è promossa a divisione.
Redazione, Divisione Garibaldi Coduri, 9centRo

martedì 17 maggio 2022

Dopo la retata del 16 ottobre 1943 il medesimo reparto ricevette l’ordine di sparpagliarsi lungo tutta la penisola


[...] I tedeschi vollero espandere al più presto la persecuzione e l’eliminazione degli ebrei all’interno del territorio italiano. A prova di ciò, basti analizzare l’operato del I Battaglione e del II Reggimento della I SS Panzer-Division Leibstandarte SS Adolf Hitler stanziate in Italia; tra il 15 settembre e l’11 ottobre, «assassinarono, gettandone in parte i corpi nell’acqua, cinquantaquattro ebrei (dei quali sedici a Meina, quattordici a Baveno, nove ad Arona, quattro a Stresa, tre a Mergozzo, due a Orta San Giulio, due a Pian Nava, quattro a Intra)».[1]
Il fenomeno citato rientra tuttavia in un’iniziativa locale e non in un piano organizzato e generale esteso a tutta la Repubblica Sociale Italiana. Per assistere a ciò, bisognerà invece aspettare la metà di ottobre, quando venne incaricato un reparto di SS volante mandato appositamente da Berlino. A capo di questo reparto, rimasto attivo fino al febbraio del 1944, vi era un fidato di Adolf Eichmann, il capitano Theodor Dannecker, il quale aveva il compito di recarsi nella penisola con lo scopo di organizzare retate occasionali contro gli ebrei.
Prima fra tutte sarà quella del 16 ottobre a Roma, che in meno di dodici ore portò all’arresto di più di un migliaio di ebrei. Il 18 ottobre 1943 partì dalla stazione di Roma Tiburtina un convoglio carico di deportati. Oggi non possediamo la Transportliste, per questo non possiamo sapere il numero esatto delle persone che presero parte al viaggio; gli unici di cui conosciamo l’esistenza sono stati identificati grazie al CDEC e sono 1023, uomini e donne di tutte le classi e di tutte le età: il più giovane aveva un giorno di vita (la madre, Marcella Perugia, aveva partorito durante la detenzione), la più anziana, di nome Rachele Livoli, aveva novant’anni. Il loro viaggio durò cinque giorni arrivando ad Auschwitz il 23 settembre. Sappiamo che di questi 1023, solo 149 uomini e 47 donne passarono la prima selezione, mentre tutti gli altri furono condotti alle camere a gas.
Dopo la retata del 16 ottobre, il medesimo reparto ricevette l’ordine di sparpagliarsi lungo tutta la penisola e procedere negli arresti esattamente com’era avvenuto per Roma; pertanto, nel solo mese di novembre, seguirono i prelievi forzati nelle città di Genova (e tutta la riviera ligure), Siena, Firenze, Bologna, Milano e Montecatini, i quali portarono poi alla creazione di altri tre convogli con destinazione Auschwitz: Firenze (9 novembre) e Milano (6 dicembre e 30 gennaio).
Il treno partito dalla città toscana arrivò a destinazione il 14 novembre, per un totale di 5 giorni. A differenza del convoglio precedente, solo una piccolissima parte dei deportati è stata identificata, per un totale di 83 persone, quindi, anche qui, non si conosce il numero esatto degli ebrei; Liliana Picciotto ritiene che la causa di questo risieda nel fatto che molti dei prigionieri erano stranieri in transito. Purtroppo tra questi testimoni nessuno è sopravvissuto.
Nel frattempo la neo repubblica si stava dando un’organizzazione e aveva sposato e rilanciato la questione antiebraica. Il 14 novembre 1943 si tenne a Castelvecchio di Verona una riunione in cui venne stabilito “Il programma di azione del Partito Repubblicano Fascista” in diciotto punti. Importante per la questione qui analizzata sarà il punto sette che recita: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».[2] Liliana Picciotto interpreta la stesura di questo articolo in relazione all’alleato occupante, sostenendo come Mussolini volesse trattare la questione ebraica in quanto non aveva apprezzato il prelievo forzato degli ebrei da parte delle SS in territorio italiano: «Mussolini, malgrado l’apparente disinteresse, non poté certamente gradire che sul suo territorio – senza preavviso né consultazione alcuna – si effettuassero rastrellamenti di cittadini italiani, sia pure ebrei: era l’ennesima conferma di ciò che i tedeschi intendevano per «alleanza» con la Repubblica di Salò. Con l’invio di Dannecker in Italia, agli inizi di ottobre, essi avevano visibilmente approfittato del vuoto di potere e della mancanza di strutture amministrative in loco.[…] La prima mossa italiana autonoma in risposta all’atteggiamento tedesco giunge il 14 novembre sotto forma di enunciato ideologico inserito nel lungo testo programmatico della nascente Repubblica Sociale Italiana».[3]
Renzo De Felice dà un’interpretazione differente alla stesura di questo punto, sostenendo che Mussolini e il Partito non avessero sposato la tesi dello sterminio, tanto da affermare: «L’intenzione di Mussolini e dei moderati era senza dubbio di concentrare fino alla fine della guerra tutti gli ebrei e di rinviare la soluzione della questione a guerra finita»[4]; sostiene anche che i provvedimenti contro gli ebrei siano stati presi con lo scopo di confiscarne i beni e incamerarli all’interno delle casse dello Stato, risanando così la grave condizione economica; scriverà infatti: «va altresì notato che i provvedimenti contro gli ebrei adottati dai fascisti alla fine del 1943 e nei primi mesi del 1944 furono determinati […] dalle precarissime condizioni economico-finanziarie della RSI».
A prescindere dalla motivazione, il ministro dell’Interno Guido Buffarini-Guidi, il 30 novembre 1943, emanò a tutti i capi delle province l’Ordine di polizia n. 5:[5]
    1) Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.

    2) Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, devono essere sottoposti a speciale vigilanza degli organi di polizia. Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.

Questo venne poi integrato col D.L. 4 gennaio 1944 n. 2, con il quale si sanciva il totale spoglio dei beni, mobili ed immobili, degli ebrei, di cui i passi salienti erano:

    a) essere proprietari, in tutto o in parte, o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende di qualunque natura, né avere di dette aziende la direzione, né assumervi comunque l’ufficio di amministratore o di singolo;

    b) essere proprietari di terreni, né di fabbricati e loro pertinenze;

    c) possedere titoli, valori, crediti e diritti di compartecipazione di qualsiasi specie, ne essere proprietari di altri beni mobiliari di qualsiasi natura.[6]

Grazie a queste confische la Repubblica Sociale Italiana, al 31 dicembre 1944, poteva contare su un patrimonio di quasi un miliardo.
A partire dal primo dicembre del 1943, ogni ebreo era ricercato dalle autorità locali. Da questo momento in poi, incaricati degli arresti saranno i militari e la polizia dell’RSI. Poche ore dopo l’annuncio dell’Ordine di polizia n. 5, i capi delle province libere avvisarono i questori che diedero il via a un’innumerevole quantità di arresti indiscriminati, lungo tutto il territorio.  Una relazione del funzionario del ministero degli Esteri Horst Wagner in data 4 dicembre 1943, e il resoconto di una riunione degli addetti alla persecuzione in Italia avvenuta a Berlino il 14 dicembre dello stesso anno, ci dimostrano come in Germania fossero soddisfatti per la nuova politica degli arresti e per l’autonomia mostrata dalle forze dell’ordine italiane nel compierla.[7]
Presto le carceri furono piene e si dovette così procedere a nuovi convogli. Il 5 dicembre agli ebrei imprigionati a Milano (capoluogo del distretto nord-occidentale) ricevettero la notizia che sarebbero stati deportati il giorno seguente, con un discorso fatto per tranquillizzare gli animi. Si disse, infatti, che le persone sarebbero state spostate in Germania con il preciso scopo di trovar loro una sistemazione lavorativa, rassicurandoli anche sul fatto che avrebbero potuto portare con sé tutti i loro beni.
La mattina seguente, i deportati, furono caricati su camion chiusi da teloni che si trovavano nel cortile del carcere e condotti all’interno dei locali sotterranei di Stazione Centrale con ingresso in via Ferrante Apporti. Il convoglio del 6 dicembre partito da Milano si unì a quello creatosi a Verona nello stesso giorno e, durante il viaggio, al convoglio partito da Trieste e ricordato con numero 21T. Da Milano partirono 169 ebrei, tuttavia non conosciamo la lista completa dopo l’unione con gli altri due convogli: quelli identificati dal CDEC sono 246 di cui solo 5 reduci. Il viaggio durò 5 giorni e 5 notti e, la mattina dell’11, il treno si fermò allo scalo secondario della stazione della città di Auschwitz, dove subirono la prima selezione. Grazie ai numeri di matricola attribuiti, si conosce con esattezza il numero delle persone che furono introdotte all’interno del campo: 61 uomini e 35 donne.[8]
In breve tempo, il braccio IV di San Vittore, fu nuovamente pieno e un’ulteriore deportazione venne annunciata il 28 gennaio 1944. Il convoglio sarebbe partito due giorni dopo, la mattina del 30 gennaio. Dalla testimonianza della sopravvissuta Liliana Segre, sappiamo che, la sera prima della partenza, le guardie distribuirono a tutti i destinati alla deportazione un sacco contenente 7 scarse razioni di cibo: «e così capimmo che 7 erano i giorni che ci aspettavano». La notte tra il 29 e il 30, tutti gli ebrei vennero messi in fila e fatti sfilare lungo un altro braccio (destinato ai criminali comuni); qui la nostra testimone ci racconta l’umanità dei detenuti nei loro confronti in quanto, aggrappati alle celle, urlavano parole di incoraggiamento e lanciavano loro oggetti e cibo utili al viaggio. Tutti i detenuti, la sera prima, rinunciarono al pasto per fornire viveri ai deportati. Antonio Quatela sostiene che l’ideatore di questi gesti solidari sia il comunista Gino Guermandi, il quale trovò facilmente consenso tra i detenuti.[9] Raggruppati tutti gli ebrei nel cortile, si appose al collo di questi un numero impresso su una striscia di cartone messa a collare con una cordicella di spago, per poi farli ammassare all’interno di camion telati: «non ci fu violenza vera e propria, ma una gran fretta», descrive Liliana Segre. A questo punto, i mezzi di trasporto, percorsero tutto il centro e raggiunsero via Ferrante Aporti entrando nei locali sotterranei della Stazione Centrale: «qui sì, ci fu violenza: SS con cani scudiscate per farci salire a gran velocità su questi vagoni, bastonate, i vecchi che non ce la facevano, parolacce, solite cose che diventarono poi di ordinaria amministrazione. Questo fu il primo impatto con quella realtà che dopo sarebbe divenuta quotidiana».[10] In questa giornata, vennero deportate da Milano 605 persone. Il treno arrivò ad Auschwitz, sabato 6 febbraio, dopo un viaggio durato 7 giorni. Solo 97 uomini e 31 donne passarono la prima selezione. I reduci furono 22.[11]
Dopo questi trasporti, il distaccamento volante della SS venne richiamato in patria e sostituito con un ufficio stabile presso la centrale della Gestapo in Italia con sede a Verona, con lo scopo di mantenere un controllo diretto sulle persecuzioni e deportazioni all’interno della penisola. A capo delle operazioni fu messo Friedrich Bosshammer, al quale va attribuita la trasformazione del carcere-campo di concentramento per ebrei di Fossoli a campo di polizia e di transito verso destinazioni più lontane. Stessa funzione ebbe poi il campo di Bolzano, trasformato e usato dopo la chiusura del primo, avvenuta l’1 agosto 1944.
Le cose peggiorarono ulteriormente per la popolazione ebraica dopo il 16 marzo 1944 quando la Repubblica Sociale Italiana creò un ispettorato per la razza[12] con a capo Giovanni Preziosi, il quale stabilì la sede a Desenzano. Dopo poco meno di un mese, propose al duce nuovi progetti di decreti legge, tra cui il più importante riguardava una nuova definizione e differenziazione razziale, che consisteva nella traduzione in italiano delle leggi di Norimberga. Riassumo qui i punti chiave: 1) potevano definirsi italiani puri solo coloro i quali antenati vivevano nella penisola dal 1800 e non avevano subito incroci con altre razze; 2) vietava i matrimoni misti; 3) andava a creare un vero e proprio albero genealogico; 4) tutti coloro che fossero rientrati nella categoria “meticci” sarebbero stati allontanati dalle cariche pubbliche e dalle attività professionali. Lo stato avrebbe dovuto procedere alla confisca dei beni mobili ed immobili. Tuttavia Preziosi non riuscì a trovare l’approvazione di Mussolini.
A questo punto il direttore si adoperò per far rispettare con più rigidezza le leggi già in vigore e trasformò il suo ispettorato ad immagine della Gestapo. Le prime direttive comanderanno che, oltre agli ebrei puri, bisognasse mandare nei campi di concentramento anche coloro che, nonostante meticci, erano considerati comunque di razza ebraica.
La RSI continuò, fino alla totale sconfitta, a perseguitare la popolazione semita. A soli nove giorni dalla liberazione, nell’ultimo Consiglio dei Ministri del 16 aprile 1945, vennero emanate disposizioni per lo scioglimento dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e di tutte le associazioni di assistenza agli ebrei.
La cooperazione tra tedeschi e italiani si può vedere dall’efficienza dei campi di concentramento e di transito di Fossoli e Bolzano e dal numero di deportati.  Dall’ultimo punto dell’Ordine di polizia n. 5, emerge la disposizione di creare campi di concentramento provinciali, in attesa della creazione di un grande e unico campo italiano. Assistiamo alla nascita di numerosi campi di concentramento all’interno di tutte le città più importanti. A completare questi sarà la trasformazione del campo per prigionieri di guerra di Fossoli (sorto nel 1942) a campo di concentramento per ebrei nel dicembre del 1943. Nel corso del 1944 venne utilizzato dai tedeschi come campo di transito per i deportati destinati ai Lager del Reich: al suo interno furono rinchiusi in circa sette mesi quasi tremila ebrei. Dalla stazione ferroviaria limitrofa di Carpi partirono sei convogli: quattro diretti ad Auschwitz e due diretti a Bergen-Belsen con un totale di 2500 persone circa. Dal luglio del 1944, a causa dell’avanzata degli Alleati, i tedeschi furono costretti a trasferire il campo di transito a Bolzano. Quest’ultima città venne scelta per le sue caratteristiche: era sul confine e la sua provincia era sotto l’amministrazione diretta dei nazisti. Il campo, aperto nel sobborgo di Gries, rimase in funzione fino all’aprile 1945 e arrivò a ospitare anche quattromila persone tutte insieme. A marzo 1945 le deportazioni verso i Lager cessarono e tra l’aprile e il giugno i prigionieri furono liberati.
Vorrei infine accennare a un ultimo campo di concentramento allestito in Italia. Come si è detto, il Friuli-Venezia Giulia venne fin da subito messo sotto la giurisdizione diretta tedesca che decise di adibire la Risiera di San Sabba a Trieste, un insieme di edifici destinati in origine alla pilatura del riso, a campo di concentramento e transito. A differenza di Fossoli e Bolzano, questo divenne verso la fine della guerra anche campo di sterminio, unico caso in Italia. Si occuparono della sua organizzazione novantadue uomini scelti dal responsabile Odilo Globocnik. Qui 1200 ebrei furono deportati in 23 trasporti dal 7 dicembre 1943 fino al 24 febbraio 1945. La Risiera fu campo di morte per altre 2000 persone tra ebrei, partigiani, sloveni e croati.[13]
[NOTE]
[1] Liliana Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1945, Enaudi, Torino, 2018 p.43.
[2] Il testo completo in M. Viganò, Il Congresso di Verona (14 novembre 1943): documenti e testimonianze, Settimo Sigillo, Roma 1994.
[3] Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), MURSIA, Milano, 2002 p. 891.
[4] Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1993, p. 447.
[5] ACS, RSI, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, b. 57, cat. 3.2.2, fasc. 2012. Vedi anche Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1993, p. 447 e Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1944), Mursia pp. 891-892.
[6] Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1993, p. 448.
[7] Liliana Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1944, Einaudi, Torino, 2018, p. 49.
[8] Liliana Picciotto, Il libro della memoria, MURSIA, Milano, 2002, pp.46/888-889
[9] Antonio Quatella, Sei petali di sbarre e cemento, MURSIA, Milano, 2013, p.119
[10] Dalla testimonianza di Liliana Segre, 25 marzo 1992.
[11] Liliana Picciotto, Il libro della memoria, MURSIA, Milano, 2002, pp. 46-47
[12] Con il decreto legislativo del 16 aprile 1944, n. 136 il vecchio Ufficio per la Demografia e la Razza (istituito nel 1938), cambiava nome in Ufficio per la Demografia. Per attuare la politica razziale fu invece istituito presso la Presidenza del Consiglio un Ispettorato per la Razza.
[13] Cfr. Bruno Maida, I luoghi della Shoah in Italia, Edizione del Capricorno, Torino, 2017 pp. 93-94.
Jacopo Di Sacco, La persecuzione ebraica in Italia - Parte 2a: La Shoah italiana, Lo Storico, 27 gennaio 2020
 
Man mano che i superstiti rientrano dai campi cominciano le prime testimonianze. Alle confessioni rivolte a parenti ed amici cominciano ad avvicendarsi le prime interviste, interventi sui giornali e le prime pubblicazioni. Se tornare era stato il sogno di tutti, adesso bisogna lottare contro quel timore di non essere ascoltati e creduti. <23 Una paura che molto spesso si traduce in realtà come testimonia, nelle sue memorie, Vittorio Foa, ebreo italiano e uno dei giovani animatori di Giustizia e Libertà. Nel 1945 scrive che l’atmosfera politica, culturale e psicologica che regna nel paese non permette di cogliere il significato dell’Olocausto:
“Tornavano i superstiti, uno su cento, dai campi di sterminio. Raccontavano e cominciavano a scrivere cose inimmaginabili sulla disumanità del potere e sull’organizzazione scientifica della morte, ma questi racconti non toccavano la nostra gioia di vivere finalmente nella pace. Non si spiega facilmente il fatto che il libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, ha trovato difficoltà per la pubblicazione: si temeva di turbare un sollievo collettivo, col rischio di cadere nell’omertà”. <24
I problemi dei superstiti e le loro attese vanno a scontrarsi col contesto generale dei drammi di guerra, teso ad attenuare o a minimizzare il carattere estremo della loro esperienza:
“E chi ti ascoltava - ma poi in realtà non ti ascoltava perché anche lui aveva la sua storia dentro ( ‘ma anche noi, sa, i bombardamenti, le paure, il freddo, non creda, sa? Anche noi...’) e posto per la tua non ce n’era”. <25
E’ in questo orizzonte che escono con ritmo serrato i primi libri di memoria del lager: undici nel 1945, quattordici nel 1946, tre nel 1947. Numeri e date sono significativi. All’indomani del ritorno i sopravvissuti raccontano, e quasi, immediatamente scrivono. A ben guardare, sino alla stasi del 1948, i numeri dicono anche altro. Denunciano, come del resto hanno fatto molte testimonianze in questi anni, quel corpo a corpo cui questa memoria è costretta. Primo Levi si sente uno “squilibrato innocuo” agli occhi dei suoi colleghi appena rientrato dall’esperienza di Auschwitz. Si sente isolato e le persone che gli stanno attorno sembrano prese dai loro pensieri, dalla ricostruzione, dalle difficoltà e la fame della guerra. Ecco che l’impulso a scrivere, hic et nunc, diviene fondamentale per la predisposizione mentale del superstite, quasi fosse un presagio a un futuro speranzoso:
“Ma io ero tornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. […] Mi pareva che mi sarei purificato raccontando […] Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a poco ne nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare un uomo, uno come tutti, né martire né infame né santo, uno di quelli che si fanno una famiglia, e guardano al futuro anziché al passato.” <26
Il libro di cui parla è naturalmente Se questo è un uomo e basti ricordare che viene respinto da Einaudi nel 1947, e a opera di una redattrice come Natalia Ginzburg. L’opera uscirà presso la piccola casa editrice Da Silva solo successivamente. Questa vicenda è indicativa in quanto a pubblicare le prime testimonianze sono, quasi esclusivamente, piccoli editori, se non semplici tipografie, capaci di far prevalere la solidarietà umana rispetto alle esigenze del mercato. Tale inerzia della cultura non è un’anomalia nel contesto del periodo: apparato statale e società civile né capiscono né sostengono i sopravvissuti e le loro famiglie né considerano lo sterminio come evento storico cruciale minimizzando il coinvolgimento del paese. Ma questo lo vedremo meglio successivamente. Quel che mi preme sottolineare è che, almeno in un primo momento, c’è stata una significativa produzione di memorie e scritti sui campi di concentramento. I testi assumono subito forme molto diverse. Taluni sono resoconti, nella forma del rapporto. Ne è un esempio il reportage sulle condizioni igieniche e sanitarie del campo di Monowitz-Auschwitz III pubblicato sulla rinomata rivista medica “Minerva” nel 1946. Con sobri e scrupolosi dettagli tecnici, il testo descrive le condizioni mediche in cui vivono i prigionieri, la loro dieta e la loro situazione sanitaria. Il rapporto è un’importante dimostrazione della varietà di forme di basso profilo in cui le informazioni circolano in quel periodo. <27 Altre tipologie di racconto vanno dall’autobiografia alla testimonianza sino al romanzo breve o all’album di disegni. In tutto questo corpus eterogeneo, si incomincia a intravedere un parallelismo tra la Resistenza armata e la deportazione. Ne è un esempio il libro di Francesco Ulivelli , detenuto nel campo di Bolzano:
“Noi oggi sentiamo il gusto della vittoria, lo sentivamo noi che marciavamo nei campi di concentramento, come lo sentivano i nostri Partigiani […] quando marciavano e si scaldavano al fuoco dei bivacchi.” <28
Sono due anime che si saldano nel medesimo racconto e sono le stesse che affiorano negli schizzi in cui Giovanni Baima Besquet, dal sanatorio dove è ricoverato, illustra la sua situazione, esternando brevi commenti sotto le immagini:
“Ho tracciato questi schizzi quantunque l’animo mio rifuggisse dal vivere, sia pure per un attimo, il nostro calvario, iniziatosi per me con l’arresto a Torino insieme a Luigi Capriolo, Eroe della Liberazione, il 17 ottobre 1943. È un semplice documentario di vita realmente vissuta, senza pretesa di fare un’opera di pregio artistico, ma per illustrare il Martirio e le incredibili atrocità patite dai deportati italiani e delle altre nazioni, fatto in omaggio alla Memoria dei Compagni Caduti per amore della libertà”. <29
Per i deportati politici italiani il campo più tristemente famoso è quello di Mauthausen. Ce ne dà un’impressione molto forte Bruno Vasari, militante dell’organizzazione Giustizia e Libertà, che, appena giunto in Italia dopo la liberazione del campo, si mette subito a redigere la sua testimonianza pubblicata nell’agosto del 1945. Mauthausen, bivacco della morte, lontana dall’invettiva e aliena da qualsiasi registro letterario, ricorda piuttosto la deposizione in giudizio con fatti, date e numeri. <30 La compressione temporale del racconto è tesa a riflettere la crudeltà raggiunta dal sistema nazista organizzato scientificamente alla distruzione di una diversa forma di umanità. Nel libro possiamo cogliere anche un'attenzione ai deportati che arrivano al campo di detenzione da altri campi assai più celebri, come Auschwitz. In seguito all‘offensiva russa, sono organizzate dai tedeschi le così dette “marce della morte”. Gli internati superstiti sono costretti a mettersi in cammino verso l’Occidente e, coloro che sono troppo deboli o malati per proseguire, vengono fucilati a migliaia. Dei 66.000 evacuati da Auschwitz perdono la vita circa 15.000 persone <31:
"I segni degli orrori di questa desolata marcia erano impressi nel corpo di questi sventurati ebrei […] <32 ; il giorno 1 febbraio vidi 1.500 di essi completamente nudi, gementi, con le piaghe che grondano sangue e materia, tenuti in piedi al freddo […]". <33
[NOTE]
24 V. Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino, 1991, pp. 69-70
25 G. Melodia, La quarantena. Gli italiani nel lager di Dachau, Mursia, Milano, 1971, p. 23
26 P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino, 2014, p. 143
27 P. Levi, L. De Benedetti, Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986, Einaudi, Torino, 2015
28 F. Ulivelli, Bolzano anticamera della morte, Edizioni Stellissima, Milano, 1946, p. 9
29 G. B. Besquet, Deportati a Mauthausen: 1943-1945, S.A.N., Torino, 1946, p. 5 in A. Bravo, D. Jalla, Una misura onesta. Gli scritti della deportazione dall’Italia 1944-93, Angeli/ANED, MIlano, 1994, p. 56
30 B. Vasari, Mauthausen, bivacco della morte, La Fiaccola, Milano, 1945, p. 50
31 W. Laqueur, A. Cavaglion (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino, 2007, p. 452
32 B. Vasari, Mauthausen, bivacco della morte, La Fiaccola, Milano, 1945, p. 24
33 ivi, p. 38
Gionata Grassi, La ricezione dell’Olocausto in Italia nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2018/2019 

lunedì 16 maggio 2022

Ho potuto così accogliere l’invito per un viaggio in Palestina


Per Umberto Zanotti Bianco il Mezzogiorno d’Italia è quel luogo in cui si può ancora sentire lo spirito di un cristianesimo puro e delle origini e dove si può lavorare per gli ultimi e i dimenticati mirando ad una loro concreta emancipazione. Anche queste convinzioni e motivazioni sono alla base dell’esperienza vissuta durante il suo viaggio in Palestina - raccontato nell’altro diario inedito - che conduce, inoltre, all’interessante intreccio tra colonizzazione, meridionalismo e tensione spirituale, già emerso nella trattazione del legame tra Zanotti Bianco, gli albanesi e gli armeni, ma che qui si carica anche di suggestioni sionistiche. Il secondo diario, infatti, è stato composto nelle circostanze del viaggio compiuto dal meridionalista in Palestina - tra la fine del 1926 e l’inizio del 1927 - lì recatosi per trascorrere le feste natalizie dal fratello Mario, allora console generale italiano a Gerusalemme. Il viaggio nella Terra Santa è per Zanotti Bianco un polivalente percorso di scoperta e confronto. Dal punto vista strettamente politico egli comprende il giudizio che hanno elaborato sul fascismo gli ambienti internazionali - proprio in quei giorni il fratello verrà rimosso dall’incarico e trasferito da Dino Grandi a Tiflis - medita sulle sorti dell’Associazione nella violenta fase reazionaria seguita al delitto Matteotti, rinsalda relazioni con numerose personalità straniere conosciute ai tempi della grande guerra e ora nei ranghi diplomatici che avrebbero potuto essere da supporto alla sua complessa attività. Come infatti scriverà a Roman Rolland (1866-1944) <10 poco dopo la partenza:
"Dopo molte insistenze sono riescito ad ottenere un passaporto ed ho potuto così accogliere l’invito per un viaggio in Palestina, da mio fratello che regge qui il nostro consolato. Non le so dire quanto le sue parole mi commuovano, e quanto bene mi rechino. Ho nel cuore tanta tristezza, tanto disgusto, tanta vergogna per l’atmosfera avvelenata, contaminata da cui esco! Se io avessi la speranza di poter salvare in questi anni di prova l’azione nostra nel Mezzogiorno, Dio mio! La sofferenza di ogni ora avrebbe il suo significato: ma già da un anno parte della nostra attività si esaurisce a parare i colpi di quelle organizzazioni fasciste che cercano di sottrarci le nostre opere. E noi oggi non abbiamo alcuna difesa: non legge, non magistratura, siamo legalmente in balia del malvolere altrui. E ancorché riuscissimo a salvare le nostre opere potremmo mai opporci al loro inquinamento per quello spirito di fazione che ispira tutta la nuova legislazione? Oggi sarà il ritratto del primo ministro imposto in tutte le scuole anche nelle private; domani sarà la camicia nera imposta a tutti gli scolari, la loro iscrizione d’ufficio all’organizzazione Balilla…Come subire ossequienti queste disposizioni" <11?
Dal punto di vista spirituale e culturale i luoghi della Terra Santa esercitano in lui un profondo fascino e lo spingono verso l’intima riflessione, fatta anche di accesi momenti allorquando egli giunge presso i luoghi della vicenda di Gesù Cristo e del primo cristianesimo. Le pagine di questo diario rafforzano poi la declinazione internazionale della questione meridionale. Zanotti Bianco, proprio come aveva fatto nella sua prima inchiesta sull’Aspromonte occidentale, per la situazione albanese e quella armena poi, anche qui non esita ad informarsi sugli aspetti inerenti all’educazione e la scolarità, sulla presenza di biblioteche e strutture sanitarie, sugli enti preposti al sostegno delle attività economiche e culturali. In questa regione si sofferma sui quei campi egli ha già compiutamente investigato e affrontato in altre circostanze e paragona le stesse situazione di disagio, ne elenca le potenzialità di sviluppo, ipotizza anche lì progetti di intervento. Come la cultura democratica americana di quegli anni ha dimostrato un certo interesse per le iniziative organizzate in Italia a favore del Mezzogiorno, allo stesso modo la Palestina di quel momento attrae l’attenzione di certa parte dei riformatori italiani per le opere di colonizzazione e ruralizzazione che lì si impostano durante il mandato inglese che garantisce un breve periodo di relativa pace a quel territorio. Per citare solo un esempio si può ricordare che proprio nello stesso momento in cui Zanotti Bianco giunge in Terra Santa, il fotografo Luciano Morpurgo (1886-1971) e il geografo Roberto Almagià (1884-1962) realizzano una significativa raccolta di materiali fotografici e documentali sulla realtà palestinese <12. Anche Morpurgo e Almagià - il fotografo aveva ritratto proprio quell’esperienza di ruralizzazione e scolarizzazione nell’agro romano alla quale come si è visto si era inizialmente ispirato anche Zanotti Bianco <13 - sono attratti da quel mondo arcaico e povero che sembra essere speculare al Mezzogiorno d’Italia. Numerose erano infatti le analogie tra la Palestina dell’epoca e le zone più arretrate del sud Italia <14. È noto, poi, come il legame tra sionismo, mazzinianesimo e meridionalismo sia stata una leva importante per l’evoluzione culturale e politica di un’intera generazione e cioè quella nata entro i primi dieci anni del Novecento: le vicende di Manlio Rossi Doria (1905-1988), Emilio (1907-1977) e Enzo Sereni (1905-1944) sono ad esempio emblematiche anche sotto questo profilo <15. Questo nesso, che già dalla fine degli anni Venti trova nella strada dell’impegno nel nostro Mezzogiorno una concreta opera riformatrice, fa ribadire anche ad Amendola lo stesso concetto maturato in lui nel 1928: "Per la prima volta, così, attraverso la questione ebraica, i problemi posti dall’imperialismo entravano nella mia sfera di interessi e mi spingevano già a sinistra, oltre le stesse frontiere del laburismo inglese. […] Il riconoscimento della necessità di un’alleanza rivoluzionaria tra classe operaia del Nord e contadini del Mezzogiorno era un tema che, sottolineato con forza da Sereni, veniva particolarmente accolto e compreso da chi, come me, poneva già la questione meridionale come problema politico essenziale dell’intera nazione" <16.
Emblematiche a questo proposito le richieste che Dante Lattes (1876-1965), all’epoca dirigente dell’ufficio di Roma dell’Organizzazione sionistica e futuro rabbino, porge a Zanotti Bianco già tre anni prima la sua partenza in Palestina:
"Un gruppo di giovani ebrei dell’Europa media, i quali si preparano a recarsi in Palestina per dedicarsi all’agricoltura, desidererebbero poter completare in Italia la loro preparazione agricola. Sono tutti giovani organizzati e diretti dalla speciale associazione dei pionieri ebrei la quale ha appunto fra i suoi scopi quello di preparare i futuri coloni ed operai della Palestina nei vari rami di lavoro più necessario e adatti alla ricostruzione di quella terra. Ora il clima dell’Italia ed i generi di cultura delle sue campagne sono, per la loro affinità col clima e colla natura del suolo palestinese, i più adatti a questo tirocinio, specie poi quelli dell’Italia meridionale. […] Potrebbe Ella, signor Zanotti Bianco, vedere se alcuni di questi giovani, desiderosi di portare in Palestina i metodi dell’agricoltura italiana, si potesse trovar posto in qualcheduna delle tenute dell’Italia meridionale, qualunque sia il genere di coltura a cui esse sono destinate? Noi saremmo grati all’Italia dell’ospitalità che offrirebbe così ai futuri contadini ebrei della Palestina e della gentilezza con cui consentirebbe loro di raggiungere quella capacità e quella modernità di lavoro che altrove non potrebbero raggiungere" <17.
[NOTE]
10 Del legame culturale, umano e spirituale con il premio Nobel per la letteratura ne ha parlato Zanotti Bianco nella sua Préface a Chère Sofia: choix de lettres De Romain Rolland à Sofia Bertolini Guerrieri-Gonzaga, 1901-1908, A.
Michel, Paris 1959-1960, pp. 7-10.
11 U. Zanotti Bianco, Carteggio. 1919-1928, cit., p. 646.
12 L’impresa dei due italiani e il contesto nel quale essi operano è ricostruita in G. Borghini, S. Della Seta, D. Di Castro, Palestina 1927 nelle foto di Luciano Morpugno, Ugo Bozzi Editore, Roma 2001. Di estremo interesse è anche il volume di Almagià, Palestina, Editore Luciano Morpugno, Roma 1930 in particolare il Capitolo III dedicato alle opere di colonizzazione interna.
13 Cfr. D. Di Castro, Luciano Morpugno (1886-1971), fotografo, scrittore, editore, in G. Borghini, S. Della Seta, D. Di Castro, Palestina 1927 nelle foto di Luciano Morpugno, cit., p. 45.
14 Cfr. S. Della Seta, 1927: passaggio in Palestina, ivi, p. 40.
15 Cfr. il già citato studio di S. Misiani, Manlio Rossi-Doria. Un riformatore del Novecento, cit., pp. 50-60.
16 G. Amendola, Una scelta di vita, cit., p. 218 e 257.
Mirko Grasso, L’alternativa democratica: Umberto Zanotti Bianco, il sud Italia e il Mediterraneo tra grande guerra e fascismo, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2013

venerdì 13 maggio 2022

Ondina che voleva essere "rapita"



La tradizione storiografica nazionale fa nascere la lotta armata partigiana dopo l'armistizio con gli Alleati dell'8 settembre.
In linea di massima questo giudizio storico è corretto per quasi tutta Italia fatta eccezione del Friuli Venezia Giulia. Qui la Resistenza armata nacque sin dal 1942 perché l'opposizione al fascismo nei venti anni di dittatura non si era mai spenta. Gli storici hanno parlato di "anni del consenso" riferendosi agli anni Trenta del Novecento. Un consenso largo e diffuso che circondò il fascismo che coglieva il suo trionfo con la guerra di Etiopia e la conseguente "proclamazione dell'Impero".
Gli antifascisti militanti in esilio o ridotti al silenzio in Italia erano certamente pochi in quegli anni di entusiasmi mussoliniani, pochi ma attivi. Alcune aree operaie italiane avevano ancora dei nuclei comunisti e socialisti che continuavano ad operare in clandestinità.
In Friuli Venezia Giulia una delle zone di resistenza politica è Monfalcone e particolarmente il cantiere navale. Occorre tenere presente che Monfalcone - proprio grazie alla nascita dell'attività cantieristica - si era trasformato da piccolo villaggio anima a borgo operaio con più di diciannovemila abitanti nel 1936. La vicina Ronchi dei Legionari nel giro di qualche decennio arrivava a contare ottomila abitanti e così tutti i piccoli comuni dell'area. Uno sviluppo impetuoso che "operaizzò" ampie fasce di popolazione e che, per conseguenza, condusse ad un rapporto con la politica assai diverso rispetto a quanto accadeva in aree del Paese meno industrializzate. Il cantiere - come la fabbrica altrove - divenne il terreno di sviluppo della coscienza sindacale prima e politica poi dei nuovi operai friulani.
Così negli "anni del consenso" in questa zona gli operai socialisti e comunisti lanciano manifestini contro la guerra d'Etiopia nel 1935, nel 1937 fanno decollare un pallone con la scritta "Viva l'URSS. Morte ai criminali fascisti", creano un circuito di assistenza - il "Soccorso Rosso" - che dal 1936 raccoglie tra gli operai fondi per aiutare le famiglie dei militanti arrestati dalla polizia politica fascista. Nasce ed opera una tipografia clandestina. Si distribuiscono copie de "L'Avanti" portate clandestinamente da Padova, si tengono riunioni di partito nelle case operaie <1.
Non è difficile essere reclutati ed entrare nelle fila del dissenso. Giovanni Fiori, nome di battaglia "Cvetko" ricorda così il suo arruolamento: ".... un pomeriggio verso la fine dello stesso mese di agosto [1940] mentre, come ogni giorno ritiravo delle bollette dai rispettivi bollettari mi si avvicina Fontanot Armido [...] ed incomincia a dirmi che il fascismo è contro i lavoratori e fa solo gli interessi dei capitalisti ecc. e che deve essere abbattuto per vivere liberi. [...] mi parlò di Soccorso Rosso e che io avrei dovuto contribuire a quella forma di sussidio per aiutare le famiglie ed i compagni caduti in sventura (disgrazia) a causa del fascismo. Da quel giorno contribuii regolarmente versando una quota fissa di due lire al mese. Un giorno, fine ottobre 1940 Armido mi portò a conoscenza che ad un convegno della cellula i compagni che componevano detta cellula e cioè: Fontanot Giovanni (padre di Armido, Licio e Vinicio); Armido, sua moglie (Lisa), Licio, Vinicio e sua moglie (Giovanna "Nina"), Ondina Peteani; Ribella [Fontanot], Mario Campo e Rosa o De Rosa [...] aprirono una clausola per accogliermi come simpatizzante del PCI dandomi un programma di lavoro, cioè fare propaganda ai giovani locali [...]" <2.
Ondina che voleva essere "rapita"
Nella città operaia, nella cellula del Partito Comunista compare il nome di Ondina Peteani. Non si tratta di una militante politica di vecchia data, è una ragazzina che in quell'agosto del 1940 ha da poco compiuto quindici anni. È nata il 26 aprile 1925 a Trieste, è più giovane del regime fascista che combatte, è nata in tempo di dittatura. Ma avere quindici anni non significa non poter essere utili: da tempo uno degli incarichi di Ondina è andarsene in treno a Padova e a Udine per portare tra gli operai copie della "Unità" e del "Avanti". Questa ragazzina cresce per certi versi a "pane e comunismo", un comunismo non da salotto o da teoria, un comunismo rischioso che porta dritti davanti al Tribunale Speciale. Nel 1942 lavora come operaia al cantiere di Monfalcone, sa usare il "tornio a revolver" una conoscenza che le tornerà utile ad Auschwitz. Nei suoi ricordi il ruolo dell'ambiente di lavoro è fondamentale per la crescita politica: "e così, da una parte i colleghi di lavoro e dall'altra un gruppo di studenti che frequentavo a Ronchi, attraverso chiacchierate e discussioni, cominciai ad interessarmi di problemi sociali e politici. Sia alcuni operai del cantiere, sia alcuni studenti, militavano già allora nelle file clandestine dell'antifascismo e quasi tutti erano comunisti ed io mi sentii progressivamente attratta da questi compagni ed infine cominciai a capire quanto eravamo incasermati" <3. Si tratta ancora soltanto di suggestioni e di discorsi, la resistenza armata è ancora qualcosa di distante, di epico e di elettrizzante per l'adolescente Ondina. "Allora in queste terre (soprattutto sul Carso) vi erano già operanti alcuni gruppi partigiani sloveni e parecchi ragazzi di queste località si aggregarono a queste formazioni. I loro familiari dicevano di non saperne niente, che i loro ragazzi erano stati rapiti (ovviamente per cercar di evitare le rappresaglie fasciste nei loro confronti). Da parte nostra, eravamo entusiasti e dicevamo a chi ci raccontava queste cose di dar loro anche il nostro indirizzo per farci "rapire" <4. La realtà che circonda Ondina è un presente fatto di guerra continua. Sin dal maggio 1941 il Partito Comunista Italiano e l'Osvoboldilna Fronta (il Fronte di Liberazione sloveno) collaborano nella lotta armata nella Slovenia occupata. L'invasione italo-tedesca della Iugoslavia ha prodotto un cambiamento profondo nei confini orientali italiani: la Slovenia è divenuta una nuova provincia e la vicina Croazia un regno satellite affidato al duca Aimone d'Aosta che ha slavizzato il suo nome in Tomislav II. A cavallo tra il Friuli e la Slovenia combattono le formazioni partigiane slovene e vi si affiancano anche i comunisti italiani. Di questi scontri si parla anche nel cantiere di Monfalcone e Ondina sogna di essere rapita, di andarsene in montagna.
Nel 1942 il Partito Comunista Italiano si pone l'obiettivo di creare delle unità nazionali che, almeno inizialmente, siano di concreto supporto alla ben più organizzata attività slovena. Le trattative tra i comunisti italiani e gli sloveni portarono alla creazione nel marzo 1943 del "Distaccamento Garibaldi", una piccola unità nella quale sarebbero dovuti confluire tutti i combattenti italiani che si trovavano inquadrati nelle unità partigiane slovene. Si trattava del primo distaccamento partigiano italiano.
Il "Distaccamento Garibaldi" (aprile - giugno 1943)
Ondina nel 1942 non è stata "rapita": "Eravamo alla fine del 1942 e si parlava che la fuga era da effettuarsi nei primi giorni del 1943. Ma un successivo contrordine ci impedì questa azione. Il contrordine veniva da Padova con la cui
Università i miei amici studenti avevano contatti da tempo. Lì operava Eugenio Curiel e da lì venne l'indicazione di formare gruppi antifascisti sul luogo" <5. Ondina distribuisce manifestini sovversivi e continua a sognare di andare in montagna. La nascita della "Garibaldi" e gli eventi legati al "Distaccamento" furono l'occasione per realizzare il sogno. Nei suoi appunti di ricordi Ondina scrive: "1943 - maggio - giugno: si fa vivo sul terreno un gruppo di cinque partigiani. Dicono che nel Collio era impossibile il mantenimento in zona. Il Davilla, giunto a sapere, li accusa di diserzione dai ranghi partigiani sloveni". I cinque che arrivano dal Collio sono i primi partigiani operativi nella resistenza armata che Ondina vede. Sino a quel momento ha assistito alla partenza dei giovani verso le brigate partigiane in montagna ma combattenti in pianura non se ne erano ancora visti. Se da un lato Ondina è interessata il Partito Comunista locale è invece preoccupato. I cinque partigiani che Ondina ricorda sono un gruppetto di uomini capitanati da Mario Karis, un comunista già condannato a dodici anni dal Tribunale Speciale fascista. Karis era ricercato e si era dato alla clandestinità raggiungendo nel marzo 1943 una unità di partigiani sloveni che operava nella zona del Collio: la "Briski-Beneski Odred". Karis era intenzionato a raggruppare gli italiani che operavano nelle unità slovene con il permesso del comandante della "Briski-Beneski Odred" si incontrò con il responsabile del Partito Comunista Italiano di Udine Mario Lizzero. Karis aveva fretta di costituire una unità italiana di partigiani mentre Lizzero aveva la necessità di procedere con metodo informando prima gli organi nazionali del Partito. I contatti però non riuscirono e Lizzero insieme ad un altro responsabile del Partito Comunista locale, Vincenzo Marcon detto "Davilla", ebbero un secondo incontro con Karis. Questa volta si decise che sarebbe dovuto nascere un distaccamento denominato "Garibaldi". L'avrebbe comandato Karis che per il momento doveva accogliere tutti i partigiani italiani che combattevano nelle unità slovene. La "Garibaldi" in realtà è più un atto politico simbolico che una unità in grado di reggere uno scontro armato con successo. Così la "Garibaldi" si stabilì nel paese di Clap in attesa di ingrandirsi con l'arrivo di altri combattenti. [...]
La compagna "Natalia" va alla guerra
La situazione del "Distaccamento" è assai confusa: il gruppo rimase in attesa di un segnale dai comunisti di Udine che gli permettesse di essere riconosciuti come affidabili e poter cominciare ad operare.
Mario Karis e Darko Pezza facevano la spola in bicicletta da Trieste a Monfalcone per avere notizie. Ondina ha assunto il nome di battaglia di "Natalia" e si reca nell'appartamento di via Seismit Doda per portare cibo e notizie. Il 26 giugno 1943 Karis e Pezza di ritorno da Monfalcone si imbattono in un posto di blocco. Karis spara, ne nasce un conflitto a fuoco. Pezza riesce a rientrare subito a casa mentre Karis ferito di striscio rientra la sera del 27. Proprio la sera del 27 Ondina, che non sa nulla, arriva nell'appartamento per portare come al solito viveri e notizie.
Così Giovanni Fiori ricorda gli avvenimenti successivi: "La sera del 27 giugno 1943 venne la compagna "Natalia" come altre volte per il consueto scambio di informazioni e per portarci da mangiare. La compagna "Natalia", il Karis e io dormivamo in una stanza, in un'altra adiacente alla nostra il Dettori dormiva da solo, mentre in cucina dell'altro appartamento dormiva il Pecic [Darko Pezza] anche lui da solo. Il mattino successivo (28 giugno 1943), alle ore cinque circa, trovammo la casa circondata da carabinieri e da squadristi-fascisti. Un momento prima il Karis era uscito per fare i bisogni corporali ma tutto ad un tratto sento la voce del Karis che grida: "Aiuto, siamo circondati" e nel medesimo istante entrava nella stanza occupata da me e dalla compagna "Natalia". Il mio primo pensiero [fu] quello di saltare dalla finestra (da notare che l'appartamento si trovava al primo piano) ma vidi che il Karis mi rincorreva, pensai alla sua posizione politica e gli lasciai il passo poi feci per seguirlo ma un carabiniere mi puntava la pistola gridando "Fermo, mani in alto o sparo". In camera rimasi io e la compagna "Natalia", mi venne l'idea di far fuggire la compagna magari col sacrificio della mia vita. Finsi un mal di ventre e mi misi in atto di fare i bisogni corporali e dissi alla compagna "Natalia" di passare nella camera adiacente alla nostra [...] lei mi ascoltò malgrado il carabiniere voleva opporsi. Il carabiniere messosi alla porta della stanza da me occupata poteva benissimo controllare tutti e due [...] un momento vidi che il carabiniere aveva l'attenzione verso la compagna, feci un volo, ma in un attimo due squadristi e il carabiniere - che aveva sparato due colpi di pistola e poi mi aveva seguito nel volo - erano sopra di me e mi legarono per bene e poi mi condussero a piedi in caserma. Dopo un breve interrogatorio potei sapere che il Pecic [Darko Pezza], il Dettori feriti ed io eravamo [stati] arrestati mentra la "Natalia" ed il Karis erano fuggiti" <6.
La "Brigata Proletaria" non si arrende
Mentre i carabinieri legavano Fiori, Ondina approfittando della confusione riuscì a fuggire. Non aveva molte altre possibilità se non ritornare a Monfalcone dai Fontanot e riferire quanto era accaduto. Ma neanche Monfalcone è sicura e lo stesso Vinicio Fontanot fugge in montagna per aggregarsi ai partigiani. Si tratta di un momento difficile: la partigiana Alma Vivoda è stata uccisa in uno scontro a fuoco a Trieste alla fine di giugno. Il cerchio si stringe anche intorno ad Ondina. Il 2 luglio la polizia politica l'arresta. Viene portata al carcere femminile dei "Gesuiti" e interrogata. La sua posizione è delicata e qualcuno ha parlato facendo nomi e raccontando fatti. Il carcere ospita prigioniere politiche soprattutto slovene, si fa la fame. A salvare Ondina sono gli avvenimenti del settembre 1943. L'armistizio firmato l'8 settembre mette in subbuglio anche il Friuli Venezia Giulia. Il 9 settembre la folla libera i prigionieri dell'altro carcere triestino, quello del "Coroneo", il giorno successivo vengono liberate anche le recluse dei "Gesuiti". Ondina appena libera decide di unirsi ai partigiani. Ha poche scelte: è oramai conosciuta come attivista comunista e per i fascisti è una "evasa" [...]
[NOTE
1 Fogar, Galliano, L'antifascismo operaio monfalconese fra le due guerre, Vangelista, Milano, 1982.
2 Memoria scritta di Giovanni Fiori "Cvetko" del 20 agosto 1976 consegnata all'ex comandante dei GAP dell'Isonzo e Basso Friuli, Vinicio Fontanot "Petronio".
3 Testimonianza di Ondina Peteani conservata presso l'Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei Campi Nazisti di Milano, p. 1.
4 Testimonianza di Ondina Peteani conservata presso l'Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei Campi Nazisti di Milano, p. 1.
5 Testimonianza di Ondina Peteani conservata presso l'Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei Campi Nazisti di Milano, pp. 1-2.
6 Memoria scritta di Giovanni Fiori "Cvetko" del 20 agosto 1976 consegnata all'ex comandante dei GAP dell'Isonzo e Basso Friuli, Vinicio Fontanot "Petronio".
Redazione, Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d'Italia, ANPI Bagno a Ripoli (FI)

Marta Cuscunà

A bottega da Baixas, Marta affina le proprie conoscenze rispetto al teatro visuale e alla manipolazione ed animazione di oggetti, ma l’esperienza spagnola contribuisce anche ad alimentare quella vocazione al teatro politico che avrà tanta parte nello sviluppo della sua poetica personale.
"Dietro 'Merma Never Dies' c’era una lunga storia: la collaborazione con Mirò quando la Spagna non era libera e loro erano costretti a organizzare le repliche in clandestinità, spesso interrotti dalla polizia. Un lavoro, dunque, che aveva radici profonde: è stata una grande scuola per me. Dopo questo spettacolo, con una sostanza così forte e unica, ho incontrato la storia di Ondina Peteani <18.
1.3 José Sanchis Sinisterra e la vocazione drammaturgica
Quella che fa imbattere Marta Cuscunà nella storia di Ondina Peteani è ancora una volta un’occasione fortuita: la storica Anna di Gianantonio, che ha scritto la biografia della staffetta partigiana, deve presentare il suo libro nella sala comunale di Monfalcone e chiede a Marta di leggerne qualche brano.
L’attrice si appassiona e legge il testo per intero, rimanendone folgorata.
"La biografia di Ondina mi ha letteralmente entusiasmata, scossa, “accesa”. Ho incontrato una ragazza, poco più giovane di me, incapace di restare a guardare, cosciente e determinata ad agire per cambiare il proprio Paese; con un’intuizione fondamentale: la Donna è una risorsa irrinunciabile per la Pace e la Giustizia" <19.
Decide, allora, che proverà a farne uno spettacolo teatrale e si rivolge a un drammaturgo perché le scriva il testo, con l’intento di presentare il progetto al Premio Scenario. Il drammaturgo però rifiuta e la scadenza per partecipare al concorso è ormai vicina. Marta si trova quindi nella necessità di dover fare da sé.
Proprio in quel periodo torna a San Miniato per seguire un corso con il drammaturgo valenziano Josè Sanchis Sinisterra e gli parla del suo desiderio di trarre uno spettacolo dalla vita della partigiana Ondina e della necessità di trovare qualcuno che possa scrivere il testo per lei: "[…] la sera prima che cominciasse il corso, a cena, ho raccontato a Josè che stavo cercando qualcuno che mi scrivesse questo testo. E il corso di Josè era diviso in due parti: una parte per attori e una parte per drammaturghi. E io, ovviamente, mi ero iscritta come attrice. E quella sera lui mi disse «Visto che tu stai cercando qualcuno che ti scriva un testo, domani vieni a fare il corso come drammaturga e non come attrice». E lì è stata la svolta perché io ho cominciato a studiare, a provare per la prima volta a scrivere qualcosa". <20
[...] Gli stimoli suggeriti hanno anche lo scopo di spingere l’autore a variazioni di registro, di punti di vista, alla frammentazione del discorso e della linea temporale, così da sperimentare diverse possibilità di composizione.
Marta Cuscunà arriva al suo primo testo drammatico proprio attraverso l’applicazione dei protocolli e già in quei giorni di laboratorio, a San Miniato, comincia a lavorare sulla storia di Ondina Peteani: "[…] quando Josè ci faceva fare degli esperimenti, se non dava un tema preciso, lavoravo su Ondina. Anche perché ce l’avevo molto chiaro, lo stavo studiando, quindi avevo un sacco di informazioni, un immaginario abbastanza fertile e quindi usavo quegli esperimenti, sì, quella storia lì" <25.
L’influenza di questi esercizi compositivi si ritrova nella drammaturgia di "E’ bello vivere liberi!" così come in quella di tutti e tre gli spettacoli successivi. Il continuo passaggio dal livello diegetico a quello extradiegetico nelle parti monologiche, la variazione dei tempi verbali e quindi dei piani temporali, la frammentarietà dei dialoghi nelle scene a più personaggi e la costruzione dei cori delle pupazze monache de "La semplicità ingannata", delle teste mozze di "Sorry, boys" e dei corvi animatronici de "Il canto della Caduta" sono il risultato delle tecniche apprese dal drammaturgo spagnolo.
[...] "E’ bello vivere liberi!", testo nato partire da quei primi tentativi laboratoriali dell’autrice di rendersi autonoma nella scrittura e poter così dare voce all’entusiasmo e all’impegno civile di Ondina Peteani, supera tutte le fasi del Premio Scenario e si aggiudica la vittoria per la sezione Scenario per Ustica 2009. In meno di un anno e mezzo dal debutto lo spettacolo raggiunge le prime cento repliche e ottiene a poco a poco riconoscimenti importanti.
[NOTE]
18 Marta Cuscunà, in Andrea Porcheddu (a cura di), Le Signore Attrici, cit. p. 104.
19 https://www.martacuscuna.it/e-bello-vivere-liberi/ (20 Gennaio 2019).
20 Intervista a Marta Cuscunà, a cura di chi scrive, cit.
Giulia Angeloni, Il teatro di Marta Cuscunà, Tesi di laurea, Università degli Studi di Roma Tre, Anno accademico 2017/2018