mercoledì 28 luglio 2021

Luci ed ombre sulla fine della guerra a Trieste ed al confine con la Jugoslavia

Fonte: La Nuova Alabarda cit. infra

All’indomani della firma dell’armistizio di Cassibile il governo provvisorio siglò alcuni accordi con gli alleati che rimandavano la definizione dei confini orientali dello Stato al termine della guerra.
In risposta all’armistizio, i tedeschi già il 18 settembre occuparono militarmente ed amministrativamente il nord-est italiano fondando la Adriatisches Küstenland (comprendente i territori delle province di Trieste, di Udine, di Gorizia, di Pola, di Fiume e - istituita ex novo dopo l’invasione e la spartizione della Slovenia - di Lubiana) controllata direttamente dai tedeschi fino al 1945. La regione fu teatro di aspri combattimenti e violenze tra gli italiani della neonata R.S.I. e le truppe tedesche  da una parte e i partigiani comunisti jugoslavi e italiani comandati da Tito dall’altra che già nel settembre 1943 avviarono i massacri delle foibe.
I tedeschi e gli Italiani  tennero Trieste fino al 1º maggio 1945 quando, dopo intensi bombardamenti alleati, i partigiani jugoslavi del generale Dusan Kveder riuscirono ad occupare la città battendo sul tempo i neozelandesi del generale Bernard Freyberg che, appoggiati dai partigiani della divisione Osoppo, si erano inutilmente impegnati nella corsa per Trieste (race for Trieste).
Kveder proclamò l’annessione di Trieste e dei territori limitrofi alla nascente Federazione Jugoslava quale sua settima repubblica autonoma mentre Tito, appoggiato dalle formazioni partigiane comuniste di italiani che vi operavano, poteva affermare di avere il controllo di tutta la Venezia Giulia.
[...] Le milizie Jugoslave, (IX Corpus Sloveno e IV Armata del Gen. Petar DRAPSIN), giunte a Trieste a marce forzate per precedere gli anglo americani nella “liberazione” della Venezia Giulia, non contengono nessuna unità partigiana italiana inserita nell’Esercito jugoslavo (formazioni garibaldine “Natisone”, “Trieste” “Fontanot”), mandate a operare altrove.
Gli Alleati giungono a Trieste il giorno seguente, il 2 maggio con la 2A Divisione neozelandese comandata dal Gen. Bernard Freyberg; i “kiwi”, avendo trovato il centro urbano occupato, si sistemano alla meno peggio.
Gli Slavi assumono i pieni poteri.
Affidano il comando al Gen. Josip Cemi, sostituito, dopo pochi giorni, dal Gen. Dusan Kveder. Nominano un Commissario Politico, Franc Stoka, comunista filo slavo. Emanano ordinanze sconcertanti per la illiberalità. Impongono, a guerra finita!, un lungo coprifuoco (dalle 15 alle 10!). Limitano la circolazione dei veicoli. Dispongono il passaggio all’ora legale per uniformare la Città al “resto della Jugoslavia”! Fanno uno smaccato uso dello slogan “Smrt Fazismu - Svoboda Narodu”, “Morte al Fascismo - Libertà ai popoli”, per giustificare la licenza di uccidere chi si suppone possa opporsi alle mire annessionistiche di Tito. [...]
Redazione, La provincia di Trieste nel 1946, Military Story, 1° febbraio 2020

Rispetto al corso delle vicende belliche nel resto d’Italia, dopo l’8 settembre ‘43 nelle regioni del Nord Est (Friuli, Venezia Giulia Fiume, Istria e Dalmazia) gli avvenimenti seguono un corso completamente diverso, che identificano una “storia locale” [...] Nelle terre orientali , invece, si fronteggiavano varie formazioni militari, schierate sui fronti opposti ma anche in contrasto fra loro e con alleanze incrociate. Erano alleati di italiani e ustasha croati, nemici di serbi cetnici (vedi oltre). Dopo l’8 settembre divennero nemici degli italiani, ma collaboranti con i cetnici serbi in chiave anticomunista.
L'equipaggiamento di ben 10 divisioni italiane abbandonate in Yugoslavia dopo l’8 Settembre fu acquisito dalle formazioni partigiane comuniste.
Inoltre alcuni militari italiani vi confluirono, proseguendo la guerra contro i tedeschi.
Domobranci (scritto, seguendo la grafia italiana, anche Domobranzi) fu la denominazione collettiva degli appartenenti alla Slovensko domobranstvo (Difesa territoriale slovena), formazione anticomunista e collaborazionista di miliziani prevalentemente volontari, costituitasi in Slovenia nel settembre 1943, per contrastare la Resistenza antifascista slovena. Questa milizia, che arrivò a contare 13.000 uomini, fu equipaggiata, addestrata e di fatto guidata dalle SS tedesche. Il comandante della milizia fu Leon Rupnik, ex generale dell'esercito iugoslavo. Alla fine della guerra, i Domobranci catturati e tenuti prigionieri dagli Alleati a Viktring, nella Carinzia austriaca furono consegnati all'esercito di TITO, e vennero per la maggior parte uccisi e interrati. Il numero esatto delle vittime non è accertato, ma la maggioranza degli storici conviene sul numero di 12.000 uccisi.
Gli ustasha si proclamavano orgogliosamente “cattolici” e, oltre che sugli ebrei, infierivano sui serbi anche per la loro religione ortodossa: i preti ortodossi venivano uccisi, le chiese distrutte e nella migliore delle ipotesi, la popolazione era costretta a convertirsi al cattolicesimo.
Due divisioni di Cosacchi seguirono i tedeschi nella ritirata di Russia. Si erano mossi dalla loro terra con famiglie, animali e masserizie, per sfuggire alla vendetta russa.
La Carnia venne dai tedeschi ribattezzata "KOSAKENLAND in NORD ITALIEN" e promessa a questi fedeli alleati, che vi si installarono, non senza contrasti con la popolazione locale.
I combattenti cosacchi, che avevano seguito i tedeschi nella ritirata, erano inquadrati soprattutto nel 15° Corpo di Cavalleria del generale tedesco Helmut von Pannwitz, che portava abitualmente l'uniforme cosacca.
[...] Dopo la resa dell’esercito regolare serbo, alcuni ufficiali e soldati ripresero l’antica denominazione di “Cetnici” usata nelle guerre contro i turchi, e proseguirono la resistenza contro gli italo-tedeschi, al comando del generale Draza Mihajlovic. Obbedendo alle disposizioni del re Pietro II (in esilio a Londra), erano schierati con gli anglo-americani, ma, dopo un vano tentativo di collaborazione con Tito, combattevano anche i comunisti: il comunismo era infatti incompatibile con i loro principi monarchici e conservatori.
Per lo sforzo profuso da egli stesso e dalle sue formazioni nel salvataggio di oltre cinquecento aviatori alleati precipitati sulla Jugoslavia durante il secondo conflitto mondiale il Presidente USA Harry S. Truman insignì Draza Mihajlovic postumo della Legione al Merito, una tra le più alte onorificenze statunitensi. Il 9 maggio 2005, giornata mondiale di celebrazione per la vittoria sulle forze nazifasciste, l'amministrazione statunitense consegna la Legion of Merit, la più alta onorificenza negli USA, alla nipote di Draža Mihailović, Gordana Mihailović. L'attribuzione della medaglia al valore avvenne nel 1948 ad opera del Presidente statunitense Harry S. Truman, per aver salvato 500 piloti
dell'aviazione USA i cui aerei erano caduti sulla Serbia.
I Cetnici , in quanto monarchici e nazionalisti serbi, erano nemici anche degli Ustasha, nazionalisti croati. Tuttavia, in chiave anticomunista, a volte collaborarono entrambi con italiani e tedeschi.
Partigiani comunisti
Inizialmente erano prevalentemente serbi ma dopo il ’44 anche sloveni e croati. Infatti Il 16 giugno 1944 fu firmato sull'isola di Lissa l'accordo tra Tito e il governo monarchico in esilio, noti come Accordi Tito-Šubašić o "Trattato di Lissa". Il documento chiamava tutti gli sloveni, i serbi e i croati ad aderire alla lotta partigiana. I partigiani furono riconosciuti dal governo reale come l'Esercito regolare della Jugoslavia. Mihailović e molti cetnici rifiutarono. Su pressione di Churchill, il 29 agosto re Pietro II destituì Draža Mihailović da comandante in capo di tutte le forze jugoslave di liberazione e il 12 settembre mise Tito al suo posto.
Le truppe di Tito, accaparrandosi l'equipaggiamento di ben 10 divisioni italiane abbandonate in Yugoslavia dopo l’8 Settembre, consolidarono ulteriormente la propria forza militare. Inoltre i partigiani di Tito ottennero una valido supporto da parte dei militari italiani confluiti dalle divisioni “Tridentina” e “Venezia” nella brigata partigiana “Garibaldi”, di matrice comunista.
Nelle regioni venete, ed in particolare in Friuli e nella Venezia Giulia il movimento partigiano passò anche attraverso gli intricati rapporti e le difficoltà nate con la presenza jugoslava sul territorio, interpretata in maniera contrastante tra le forze politiche.
Redazione, La situazione militare sul campo, Studiober, 2016

PREMESSA.
V’è un argomento su cui la storiografia di regime, di destra e di sinistra, va, oggi, assolutamente all’unisono: nella condanna, cioè, assoluta ed acritica dei 42 giorni di amministrazione jugoslava di Trieste, dopo che le truppe di Tito alleate con gli occidentali e con i sovietici in funzione antinazista ed antifascista, ma anche alleate, è bene non dimenticarlo, del legittimo (seppure indegno) governo badogliano dell’Italia dell’epoca, avevano liberato la città dagli occupanti nazisti e dai collaborazionisti locali.
Il IX Korpus, che fu incaricato di marciare sulla città, giunse il 1° maggio 1945, in Trieste con gli organici dimezzati per la durezza dei combattimenti, visto che i tedeschi avevano adottato una strategia ben precisa: arrendersi agli alleati occidentali e combattere fino all’ultimo contro gli “slavi comunisti” allo scopo di tentare a fare sì che fossero per primi gli angloamericani ad entrare in città.
Era, questo, parte degli accordi che il comandante della SS in Italia, generale Wolf, aveva stipulato con Allen Dulles, capo dell’intelligence americana in Europa all’atto di arrendersi agli stessi alleati, ottenendo così salva la vita per ignobili delinquenti quali il generale SS Odilo Lotario Globocnik (un triestino, è bene non dimenticarlo).
A leggere la storiografia odierna su questi argomenti, sembra ormai che tutto sia stato già scritto e che nulla debba essere ancora acclarato, che non occorra più fare ricerca in proposito, visto che, ormai, l’ultima parola è stata già detta.
È cosi che interi archivi, come quello del Comune di Trieste sulla giunta Pagnini, rimangono inesplorati dagli storici professionisti di regime, e, nei confronti di chi azzarda ipotesi ed opinioni diverse, se pure documentate, si esprime il giudizio rapido e sbrigativo di “negazionisti”.
Ancora più impressionante è lo schieramento dei mass-media su questi argomenti: semplicemente, le opinioni di coloro che non sono in sintonia con la verità ufficiale e la verità di regime, vengono taciute. Questa informazione stile Goebbels dei mass-media locali rappresenta, dal punto di vista psicologico, l’equivalente del rogo dei libri proibiti che il Führer ordinò all’inizio del suo potere assoluto; oggi, nell’unidimensionalismo marcusiano che stiamo vivendo, non c’è più bisogno di bruciare alcunché, basta mettersi d’accordo con gli editori e i direttori degli organi di informazione per ottenere gli stessi risultati in modo assolutamente soft, senza clamori, con stile post-moderno.
A volte, questa strumentalizzazione della storia per fini politici da parte di tanti storici ufficiali (qualche eccezione v’è, ma sono, appunto, eccezioni) assume aspetti particolarmente inaccettabili, come nel caso dei “diari” (inediti ma consultabili) che Diego de Henriquez, personaggio triestino strano ed inquietante ma assolutamente scrupoloso ed obiettivo, ha lasciato. Questa fonte, preziosissima, per la storia recente della città di Trieste, è stata trascurata dagli storici, almeno fino ad ora, perché assolutamente scomoda. Approfondiamo ora brevemente questo argomento.
UNA DOCUMENTAZIONE DIMENTICATA.
Presso i Civici musei di Trieste, sono conservati 287 grossi diari, oltre a quaderni di bozze, per oltre 50.000 pagine scritte con scrittura minuta e chiarissima dal professor Diego de Henriquez, un personaggio che i più ricordano come collezionista e raccoglitore di armi ed oggetti di argomento guerrologico o polemologico. In effetti, in questa veste egli compì un’opera davvero eccezionale, lasciando alla città di Trieste una raccolta di centinaia di migliaia di pezzi ancora in fase di sistemazione, che negli anni ‘70 fu valutata oltre 30 miliardi di lire dell’epoca. De Henriquez però fece anche qualcosa di più: a partire dal 1941 e fino alla sua tragica e misteriosa morte avvenuta nel 1974, annotò tutto quello che vedeva e sentiva su delle agende che conservava e catalogava con assoluta pignoleria.
De Henriquez parlava e comprendeva praticamente tutte le lingue d’Europa, aveva fatto studi tecnici ed era preparatissimo in materia di armi, fortificazioni e naviglio di ogni tipo. In tutti questi settori, ad una indiscutibile ed indiscussa competenza tecnica egli aggiungeva soprattutto una grandissima passione. Riuscì ad essere in rapporti di amicizia con tutti gli organi di intelligence dell’epoca: quella tedesca, quella fascista prima e dopo il 25 luglio 1943, quella partigiana bianca, quella jugoslava, quelle alleate. De Henriquez parlava con tutti, riscuoteva la fiducia di tutti ed annotava tutto quello che gli veniva detto.
Negli anni ‘90 i suoi diari furono acquisiti ed in parte fotocopiati da un magistrato veneziano, il dottor Carlo Mastelloni, che ha compiuto e portato a termine l’unica inchiesta giudiziaria complessiva nel nostro paese sull’intera strategia della tensione; un’enorme lavoro, che se pur non ha condotto a sbocchi giudiziari, ha tuttavia contribuito in modo fondamentale a scrivere una pagina di storia italiana decisiva per i tempi recenti e soprattutto ha reso con quella documentazione un servizio impagabile per la democrazia. È bene rilevare che quei diari non sono ancora stati consultati in maniera sistematica da nessuno storico professionista, eppure contengono notizie molto importanti, tali da rendere possibile, se presi in esame, la rimessa in discussione di quasi tutte le certezze che oggi vengono così arrogantemente sbandierate, incluse quelle relative ai 42 giorni di occupazione jugoslava di Trieste. Ma forse è proprio per questo che nessuno li va a vedere?
Noi, che storici non siamo ma giornalisti dediti alla controinformazione, abbiamo potuto consultare alcuni di questi diari ed abbiamo visto come il “professore” parli ad esempio con precisione della sostanziale adesione dell’opinione pubblica cittadina all’amministrazione germanica: quasi la metà della popolazione, secondo lui, collaborò in un modo o nell’altro con i nazisti in quei due anni. Nell’immediato dopoguerra, quando a Trieste erano detenuti molti prigionieri tedeschi, gli stessi militari alleati erano meravigliati per le grandi manifestazioni di solidarietà e di concreto sostegno che uomini e donne triestini dimostravano verso i tedeschi prigionieri, anche SS. Grazie ai triestini molti tedeschi poterono fuggire e de Henriquez indica anche i percorsi e le basi usate per queste fughe: questo però non sembra interessare gli storici, così come nessuno è interessato a casi addirittura vergognosi di collaborazionismo, come quello dell’interprete triestino delle SS che eliminava negli interrogatori, nel tradurre le risposte, tutti quegli elementi che avrebbero potuto giocare a favore dell’arrestato. O quello dell’avvocato di grido, poi riciclato nel dopoguerra nelle partecipazioni statali, che dopo l’8 settembre 1943 compilò un elenco di 40 ebrei e lo portò al comandante SS di propria iniziativa.
De Henriquez mette poi in evidenza la totale inadeguatezza ed improvvisazione dell’insurrezione di fine aprile ‘45 organizzata dal CVL di Fonda Savio e don Marzari, dimostrando in maniera fin troppo chiara come quell’operazione fosse stata posta in essere solo dopo che i dirigenti del CVL avevano avuto la certezza assoluta della partenza dei tedeschi, allo scopo di giocare dal punto di vista politico una carta in più contro i partigiani filotitini comandati da Franc Štoka, un triestino di Santa Croce, il quale aveva loro comunicato l’intenzione di insorgere il giorno dopo e li aveva invitati ad un’azione comune. Un atto di vera e propria furberia politica, insomma. Leggiamo ancora, che il primo carro armato jugoslavo che giunse a Trieste era guidato da un altro triestino di Santa Croce, Sirk, ed è molto interessante leggere quello che dice il capitano Ercole Miani a proposito di scomparsi ed infoibati: “in effetti gli scomparsi furono poco più di 500 in tutto, ma si continua a parlare di migliaia perché la cosa è utile in funzione anticomunista ed antislava”. Questo esattamente riporta de Henriquez (pag. 12.512, diario 52).
Abbiamo provato a ricostruire le vicende di quei 42 giorni in base ai dati documentali (quei pochissimi e scarsissimamente reperibili ad esempio presso l’archivio storico del Comune di Trieste ed altre fonti). L’impresa è stata ardua ed ha richiesto un grande sforzo di riflessione, perché si è dovuto lavorare sul pochissimo, sulle briciole di documentazione, sulle deduzioni; ma riteniamo che, comunque ne sia valsa la pena.
I “42 GIORNI” IN COMUNE.
Presso l’archivio comunale di Trieste la documentazione dell’attività svolta in quei 42 giorni in cui l’amministrazione comunale continuò a funzionare regolarmente e con lo stesso personale (tranne qualche eccezione) che aveva servito sotto l’amministrazione nazista (nessuna epurazione sommaria e nessun infoibamento di quel personale!) è semplicemente scomparsa. Quando l’esercito jugoslavo abbandonò la città, il 12 giugno 1945 per fare posto agli angloamericani, forse asportò tutto il carteggio prodotto. La cosa ci dispiace, anche perché indica uno stato di inizio di guerra fredda che si manifestava con evidenza. Quelle carte, però, ne siamo convinti, se fossero state lasciate, oggi giocherebbero, e molto, a favore dell’amministrazione jugoslava, che tanto, in tutti i modi, tentò di assicurare una normalità alla popolazione di questa città.
La loro mancanza consente di parlare di terrore, disordine, arbitrio e così via, ma abbiamo motivo di ritenere che non fu esattamente così.
Se facciamo riferimento ai “diari” di de Henriquez, quanto si legge nel diario n. 45 è estremamente chiaro: l’esercito jugoslavo, secondo il “professore”, aveva l’ordine preciso di usare moderazione e suo compito fu anche quello di impedire che a livello locale le inevitabili vendette diventassero eccessive. Di quella documentazione però sono rimaste davvero solo briciole; per ricostruire a livello documentale qualcosa bisogna usare il metodo deduttivo, partendo, ad esempio dall’amplissima documentazione che il governo militare alleato ha invece lasciato.
I “DANNI”.
Il 17/6/45 il governatore militare angloamericano di Trieste che gestiva la città in assenza di un’amministrazione civile che gli alleati (contrariamente a quanto avevano fatto sia i germanici che gli jugoslavi), tardarono molto ad installare ed autorizzarono solo a settembre inoltrato del 1945 emetteva una delibera, la n. 16 UAC, che è integralmente riportata nel registro delle delibere che in quel tormentato 1945 documenta gli atti amministrativi in città di ben quattro gestioni: la filotedesca, la jugoslava, la militare alleata ed infine la nuova amministrazione civile cittadina. Argomento di questa specifica delibera è la regolazione degli ammanchi accertati dopo lo sgombero delle truppe jugoslave dal palazzo municipale. Nei primissimi giorni di maggio, infatti, sia i partigiani sia l’Armata jugoslava occuparono gli uffici comunali paralizzando inevitabilmente l’attività degli stessi, come del resto è ovvio che accada in una situazione di occupazione militare. La cosa però durò solo qualche giorno, dopo di che gli uffici ripresero a funzionare regolarmente con gli stessi dirigenti e lo stesso personale che aveva operato sotto l’amministrazione germanica. Fatti i conti di quanto mancava perché asportato dalle truppe jugoslave che si erano ritirate in seguito agli accordi raggiunti, la somma complessiva è calcolata in Lire 1.102,50. Se si tiene conto che all’epoca lo stipendio di un dirigente comunale superava, e di parecchio, le duemila lire mensili, se ne trae, dunque, la conclusione che i “danni” arrecati all’amministrazione comunale da coloro che avevano liberato la città dai nazisti e dai loro alleati triestini, con eccezionale contributo di sangue versato, ammontava alla metà dello stipendio mensile di un singolo funzionario. L’affitto che Pagnini pagava per l’ufficio del Deutsche Berater (cioè il consulente tedesco, insediato a fianco di ciascun vertice dell’amministrazione, strumento diretto el Supremo commissario del Reich) al Tergesteo era di lunga superiore alle tremila lire. Dunque, se ne trae l’inevitabile conclusione che le truppe jugoslave non effettuarono alcun saccheggio della proprietà pubblica della città. De Henriquez aveva pertanto ragione ad esprimersi in tal modo nei propri diari. Se vogliamo soltanto fare un paragone tratto dai diari di de Henriquez, vediamo che altrove ad opera di altri “liberatori” non fu sempre così: ad esempio, dopo la liberazione di Macerata, dove si erano acquartierate truppe polacche, la popolazione dovette presto chiedere l’allontanamento di quei soldati perché rissosi, violenti, ubriaconi, attaccabrighe e soprattutto ladri e saccheggiatori. Sono questi paragoni che a nostro parere andrebbero fatti.
AMMINISTRAZIONE.
Il 13 giugno 1945 l’amministrazione alleata acquisiva a protocollo una lunga e dettagliata relazione sulla situazione dell’Acegat (Azienda Comunale Elettricità, Gas, Acqua e Trasporti), la quale ovviamente era stata preparata e stesa dall’amministrazione jugoslava per se stessa, non potendo certo conoscere in anticipo i funzionari dell’Acegat la data di partenza delle truppe jugoslave e la data del cambio di amministrazione. È un documento molto analitico e corposo che fa il punto organico, operativo e gestionale di quell’importante settore della vita cittadina: 5.537 impiegati, 1.768 operai e 20 milioni di deficit annuo che si conclude con una richiesta: un contributo straordinario di almeno 10 milioni per consentire alla società di continuare ad operare al minimo di efficienza. E ci sembra una richiesta che si fa non certo nei confronti di nemici o di occupanti che terrorizzano ma verso dirigenti cui ci si rivolge con la fiducia che essi possano risolvere un problema serio. Anche questi elementi riteniamo, vanno presi in considerazione così come vanno prese in considerazione le due lettere interne (le due uniche rimaste presso gli atti della segreteria generale del comune) con cui gli uffici comunali si danno comunicazione che venga informato il pubblico di cambio di locali aperti al pubblico disposti dall’autorità militare. Il tutto nella più normale prassi burocratica, allora come sempre.
LA CRONACA DELLA CITTÀ.
Anche se le carte ufficiali dei 42 giorni sono state portate via dall’esercito jugoslavo il 12 giugno 1945, rimane però la cronaca, abbastanza dettagliata, di quel periodo, così come è riportata dal quotidiano dell’epoca della città: “Il nostro avvenire” (costo: 1 lira). Iniziò le pubblicazioni il 4 maggio 1945, appena liberata la città e le cessò l’8 giugno, alla vigilia del ritiro, concordato con gli alleati, delle truppe jugoslave da Trieste. Sul primo numero, accanto ad una foto in prima pagina del Maresciallo Tito in divisa, sono indicati, anche i primi quattro ordini emessi dalla nuova autorità che viene installata in città, a firma congiunta del Commissario politico Štoka e del Comandante militare, maggior generale Cerni. Si danno direttive sul coprifuoco, sulla consegna delle armi, la divisione della città in quattro settori, l’obbligo per i soldati tedeschi di arrendersi e così via. Al numero quattro va data precisa disposizione a tutti gli impiegati ed addetti civili di presentarsi al lavoro e di far continuare la vita della città nella più possibile normalità.
Il giornale riporta molte notizie di cronaca internazionale e molte notizie di cronaca italiana, politica e non, nonché, ovviamente, la puntuale comunicazione di quanto avveniva in città. Il primo organo della società civile di cui si riporta un comunicato, è il Comitato per la gioventù antifascista, ma ben presto molte altre categorie di cittadini costituiscono le loro associazioni. I fatti luttuosi del 5 maggio, in cui erano avvenute manifestazioni antijugoslave, inducono l’autorità militare a vietare le manifestazioni di odio etnico, mentre viene pubblicato il documento in italiano e tedesco, trovato in tasca ad uno dei feriti, Mascia Augusto, da cui risulta che lo stesso, con il grado di sottotenente, aveva combattuto a fianco della truppe naziste. In seguito a ciò, in un editoriale del 6 maggio, il giornale si sente il dovere di puntualizzare: sacri sono l’amore per la propria lingua materna, il culto per la memoria degli avi, lo studio del pensiero antico e recente dei propri connazionali.
L’8 maggio viene data notizia della costituzione della Commissione mista italo-slovena per l’annona ed il giorno 9 la municipalità triestina riceve la visita del presidente del consiglio del governo della Slovenia inserita nell’Unione jugoslava. Vengono anche costituiti ufficialmente i Sindacati unici per le varie categorie di lavoratori.
Il 12 maggio entra il funzione il CEAIS (Comitato esecutivo antifascista italo-sloveno), con otto membri italiani e cinque sloveni, a cui l’autorità militare cede i poteri della municipalità, con una rapidità di tempi obiettivamente ammirevole. Sono bastati solo 12 giorni dalla fine degli eventi bellici per ripristinare l’amministrazione civile. Gli angloamericani impiegheranno alcuni mesi.
Del CEAIS fanno parte otto fra partiti ed associazioni, mentre il PSI preferisce rimanere, nello stesso, come osservatore. Intanto molti sono i segnali del ritorno alla normalità in tutti i settori della vita: si dà conto delle modalità di distribuzione del latte a Muggia, e sul giornale ricompare, accanto ai necrologi a pagamento, anche la pubblicità.
Si crea una commissione tecnica per l’attività industriale e si aboliscono con regolare ordinanza, le leggi fasciste sulla razza; si pubblicano i nuovi orari dei programmi radio e si svolge una partita di calcio tra giovani triestini e soldati scozzesi.
Il comitato regionale di liberazione tiene a Trieste la sua prima seduta plenaria, mentre, progressivamente, il coprifuoco che il 1° maggio era stato fissato alle ore 18, viene spostato, in poche settimane, alla mezzanotte. Il 18 maggio a tutta pagina viene data notizia della tenuta assemblea della Consulta cittadina e si regola il commercio di vari prodotti: patate, olii, latte, combustibile, sigarette, vini. Il 21 maggio riapre il teatro lirico con la “Carmen”, seguita subito dal “Rigoletto” e poi dalla “Lucia di Lammermoor”, mentre il 24 maggio gli industriali triestini vanno in delegazione a Lubiana. Si ha tempo, in Comune, anche di festeggiare il genetliaco di Tito.
Il 25 maggio, in un edificio di fronte alla Villa Segrè (dove aveva sede il Comando del II settore cittadino), sede di una caserma di garibaldini, scoppia una bomba con morti e feriti. È il nuovo clima, creato dall’atteggiamento antislavo assunto dal generale Alexander, a cui il governo jugoslavo replica puntualmente. Ma ormai appare sempre più chiaro che la volontà degli alleati, nel silenzio di Stalin è perché Tito si ritiri in là di qualche chilometro e lasci la città.
L’8 giugno il giornale, con una nota di congedo piena di lirismo e di dignità, cessa le pubblicazioni.
1) IL COLONNELLO PESCATORE
Tra le “vittime” del tutto sconosciute della pregiudiziale anticomunista ed antislava di Trieste, vi è, nel 1946, anche il colonnello Pescatore. Chi era? Di lui parla più volte de Henriquez nei suoi diari e lo fa sempre con molta simpatia e solidarietà, dato che cercò anche di aiutarlo nelle sue assurde e paradossali vicende. Il suddetto colonnello era un ufficiale di amministrazione che, durante l’occupazione tedesca della città, aveva prestato servizio presso il Distretto militare, alle dipendenze del generale collaborazionista Esposito. Uno di quelli di Salò, dunque. Il 1° maggio, all’arrivo degli Jugoslavi, mentre tutti o quasi fuggivano e si sbandavano, egli si pose un problema, innanzitutto di coscienza. Il suo ufficio aveva, tra l’altro, il compito di provvedere a preparare le pratiche mensili per il pagamento delle pensioni di anzianità dei militari in congedo, alle indennità di sussidio per le vedove e gli orfani di guerra. Quale sarebbe stato il destino di tutti costoro se anche i suoi dipendenti se ne fossero andati? Convocò gli uomini e tenne loro questo discorso: non abbiamo commesso, noi dell’amministrazione, reati e crimini durante il periodo nazista, noi rimaniamo qui per svolgere il nostro compito di sempre presso il Distretto militare, per non lasciare morire di fame i vecchi, gli orfani e le vedove che vivevano dei sussidi loro erogati. Tra l’altro, allora, nessuno poteva assolutamente prevedere che il periodo di gestione jugoslava del potere a Trieste sarebbe stato così breve.
Rimasero 18 militari alle sue dipendenze. Il loro colleghi jugoslavi capirono il problema e li lasciarono al loro posto con un ufficiale di collegamento del IX Korpus presso il loro ufficio, come è normale che accada in simili casi. Nessuno chiese loro conto dei precedenti collaborazionisti, nessuno li “infoibò” o “deportò”. Quando giunsero gli angloamericani, essi continuarono ancora a lavorare presso il Distretto, così come avevano fatto con i germanici, e poi con gli jugoslavi, in base alle leggi internazionali di guerra; ma le associazioni nazionalistiche che proliferavano in città foraggiate dal governo di Roma, e che nulla avevano avuto da ridire a proposito di italianità allorché questi soldati avevano operato alle dipendenze del Gauleiter nazista Rainer, ora si dichiararono scandalizzati e protestarono presso gli alleati: come si poteva lasciare il Distretto in mano a chi aveva “lordato la divisa” collaborando con i “titini”? La cosa durò fino al marzo 1946, con attacchi subdoli e velenosi, fino a che la polizia militare alleata non arrestò il colonnello ed i 18 dipendenti. Perché? Per avere collaborato con i “titini”? Nossignore, naturalmente, e del resto la cosa sarebbe stata giuridicamente, oltre che politicamente, molto problematica da proporsi, ma per la loro attività prestata sotto l’autorità tedesca! Fu, ovviamente, una scusa volgare posta in essere per tacitare i neo-fascisti e per alimentare a livello subliminale, la nascente guerra fredda. Fu così che il colonnello ed i suoi uomini furono internati in un campo di rieducazione per fascisti fanatici in Toscana, con grave rischio per la loro stessa incolumità fisica; i fascisti autentici ivi detenuti, infatti, presero subito le distanze da questi “filo-comunisti” e li emarginarono. I militari furono comunque ben presto liberati e chiamati a Roma presso il Ministero, dove fu loro fatto questo discorso: nei loro confronti non veniva rivolta alcuna accusa, ma, dati i trascorsi “titini”, per motivi di opportunità politica essi sarebbero rimasti in servizio fino al limite di età a stipendio pieno, ma con il divieto di indossare la divisa e di frequentare le caserme.
Ognuno poté scegliersi un distretto militare di gradimento e qui furono trasferiti. Quasi tutti i sottoposti di Pescatore furono ben lieti di questa insperata fortuna che era loro capitata, ma il colonnello, che aveva altre aspirazioni ed altri principi etici, rimase molto male per questa ingiustizia che pose anticipatamente fine di fatto, se non di diritto, alla sua carriera. Nei suoi confronti gli angloamericani si comportarono in modo molto peggiore degli jugoslavi, che avevano invece rispettato la lealtà della sua scelta.
2) I SOLDI DEI NAZISTI.
Quando il 1° maggio 1945 le truppe jugoslave liberarono la città di Trieste dai nazisti, delle stesse facevano parte numerosi triestini, sia di lingua slovena, sia di lingua italiana. Uno di questi “reduci”, vissuto in città fino a non molti anni fa raccontava questo aneddoto: dopo la resa dei tedeschi egli fu tra coloro che entrarono nel palazzo del governatorato nazista, l’attuale palazzo di giustizia. Trovarono tra l’altro grossi rotoli di banconote italiane, che i tedeschi avevano abbandonato. Erano fatti in carta filigranata, quindi, da questo punto di vista, perfettamente “legali”, ma non provenivano dall’istituto di emissione: i tedeschi le stampavano “in proprio” con materiale autentico, e le distribuivano con larghezza ai loro reparti in Italia, i quali non avevano, così facendo, alcun problema a pagare quello che acquistavano. La cosa trova conferma anche da altre testimonianze triestine. Le autorità militari jugoslave fecero immediatamente bruciare quelle banconote, e la cosa dispiacque molto ai soldati che le avevano trovate; il nostro, in particolare, ancora negli anni recenti, si innervosiva contro i suoi superiori nel ricordare quello “scempio”: ma come, erano soldi “buoni”, gli stessi che usavano i triestini, e loro li bruciavano? È una cosa che al vecchio triestino che aveva combattuto con Tito, non è mai andata giù, che non è mai riuscito a capire, fino alla fine. Omettiamo il nome di questo testimone per rispettare la sua volontà di non essere collegato a questa vicenda col proprio nome.
3) IL COMITATO ED IL CONSIGLIO.
Dal 1° maggio 1945, con la città controllata dalle truppe jugoslave, si costituì presso l’Amministrazione comunale di Trieste prima un Comitato esecutivo e poi un Consiglio di Liberazione, che svolsero l’attività amministrativa. Dunque nessuna soluzione di continuità, neanche giuridica, con l’amministrazione precedente da questo punto di vista. Poiché non esiste nessun alto ufficiale accessibile che ne chiarisca gli effetti giuridici, l’esatta composizione, le finalità e le funzioni, tali organi, che pure operarono al posto della vecchia giunta collaborazionista di Pagnini, rimangono indefiniti, quasi fossero semplici situazioni di fatto. Si trattava invece della legittima autorità civica dell’epoca. Durante i 42 giorni, tali organismi si riunirono sette volte ed emanarono 21 delibere, che venivano predisposte dai funzionari responsabili dei singoli settori dell’amministrazione comunale, tutti confermati nei loro incarichi (neanche questi, dunque, “infoibati” o deportati) e firmate dal presidente del Comitato esecutivo o del Consiglio di Liberazione. Le delibere stesse diventavano immediatamente esecutive in mancanza di organi superiori o di controllo, che normalmente avallano le stesse in situazioni di non eccezionalità.
La stessa cosa accadrà anche dopo il 12 giugno con l’amministrazione militare alleata angloamericana.
La prima delibera porta la data del 17 maggio ed ha per oggetto: “Revoca della licenza comunale del servizio di autovettura di piazza a Loy Mauro, ed assegnazione della stessa alla vedova Loy Maria”.
L’ultima delle delibere “titine”, invece, la n. 21, tratta della pensione vedovile assegnata a Zorzini Antonia. Tutte le altre avevano per oggetto argomenti della più assoluta normalità: pensioni, loculi cimiteriali, sgravi d’imposta, compensi a dipendenti e così via. Firmatari delle suddette delibere furono prima Štoka e poi Rudi Ursič, facenti funzioni di sindaco in quella Amministrazione provvisoria. Ma non solo: poiché il podestà Pagnini aveva ritenuto di dover deliberare con ritmo frenetico fino al 29 aprile, mentre tutto attorno crollava, il presidente Štoka ritenne di dovere controfirmare e rendere così esecutive decine di delibere che ancora erano in sospeso, e così fu assicurata per i cittadini la continuità della gestione amministrativa dal periodo nazista a quello democratico. Una continuità che un fanatismo cieco si ostina inutilmente a negare. Di tutto questo aspetto di normalità dei 42 giorni “titini” infatti, a Trieste nessuno parla, come se vi fosse stato, in città, un regime di terrore totale. Ciò non risulta affatto dalla documentazione ufficiale rimasta, purché la si voglia esaminare con obiettività.
ARRIVANO I NOSTRI.
Non avevano certo gli stivali a speroni ed i cappellacci da cow boys, ma l’essenziale c’era, e cioè il senso di arroganza, il disprezzo verso gli altri, tutto ciò insomma che ha fatto odiare da tutti gli altri popoli prima gli inglesi e poi i loro eredi statunitensi.
Proviamo a vedere infatti cosa accadde esattamente il 12 giugno, quando gli uomini di Alexander, cioè del colonnello Bowman, sostituirono con un regolare passaggio di consegne fra alleati (anche qui tutto nella norma dunque), le truppe jugoslave.
Il primo documento della nuova amministrazione esclusivamente militare alleata (ribadiamo qui che, contrariamente a quanto avevano fatto a Trieste i germanici prima e gli jugoslavi poi, i quali subito avevano creato un potere civile, la municipalità civile cittadina fu, dagli angloamericani, autorizzata solo a settembre inoltrato) il primo documento alleato dunque fu il proclama n. 1 a firma Alexander, il generale cioè che sollevava in Africa le risate e l’ironia di Churchill per la sua boria e per il suo esagerato esibizionismo. È uno di quei documenti tronfi ed arroganti con i quali i militari inglesi (ma non hanno davvero l’esclusiva in questo campo!) sanno rendersi da sempre altamente antipatici. Dopo aver dichiarato di assumere tutto il potere nella città liberata dai nazisti (viene quindi del tutto omessa la parte riguardante l’entrata in città delle truppe jugoslave!) Alexander si esprime con estrema chiarezza nei confronti dei cittadini di Trieste. In sostanza ultima ecco qual è il messaggio che lancia agli stessi: qui comandiamo noi, ed intendiamo esercitare tutto il potere nella maniera più totale come si conviene ad un esercito vincitore ed occupante. Voi dovete fare quello che vi ordiniamo e senza discutere, altrimenti ne pagherete le conseguenze davanti ai Tribunali militari alleati: infatti con questo proclama venivano istituiti anche i Tribunali militari alleati. A capo del Comune fu posto un ufficiale inglese, a cui i capi ufficio dovevano rendere conto e che doveva avallare tutti gli atti affinché divenissero esecutivi.
Veniva poi elencata una lunga serie di comportamenti illegali di competenza delle Corti militari alleate di cui sopra: proviamo ora a vederne qualcuno in sintesi, e tra i più significativi tra la numerosissima casistica che veniva ipotizzata. Il comma 21 prevedeva la Corte marziale con possibilità anche di condanna a morte per “chiunque inciti all’insurrezione contro l’autorità militare occupante”. Ci chiediamo qui cosa dunque avrebbero fatto gli angloamericani se i triestini avessero inscenato contro di loro manifestazioni ostili del tipo di quella che fu posta in essere contro l’autorità jugoslava il 5 maggio, non appena la città era stata liberata. Conviene ricordare a questo proposito, che il 5 maggio la vicinissima Slovenia era ancora in gran parte occupata da truppe tedesche in armi e in guerra contro gli jugoslavi: si poteva in alcun modo escludersi che costoro, nel ripiegare verso il confine austriaco, decidessero di dirigersi ancora su Trieste? La guerra era ancora in corso e combattimenti si svolgevano ancora in città. A voler guardare le cose in maniera assolutamente obiettiva, la repressione jugoslava, inevitabile in quella circostanza, non fu affatto eccessiva.
Ricordiamo inoltre che durante i 42 giorni operò in città il IV CVL, costituito da elementi della ex Brigata Venezia Giulia riorganizzatasi proprio in funzione antijugoslava: esso operò con volantini, scritte murali, trasmissioni radio e varie missioni, anche fuori Trieste, incitanti i triestini alla ribellione; ma furono anche compiuti atti ostili concreti, come attentati dinamitardi e atti di intimidazione, contro i cittadini che operavano con la nuova e legittima autorità civile, insediata da chi aveva liberato la città dai tedeschi (atti questi rivendicati dagli stessi “diari” del CVL clandestino dei 42 giorni, sull’attività del quale vi rimandiamo al dossier “Luci ed ombre del CLN triestino in questo sito).
Il contenuto del comma 21 della legge penale di Alexander, comunque avrebbe autorizzato pienamente ogni repressione militare fino alle condanne a morte (che non vi furono) per ogni comportamento simile a quello dei manifestanti del 5 maggio.
Ciò che fecero le truppe jugoslave nella circostanza avrebbe quindi dovuto avere il totale avallo di Alexander. Il comma 30 prevedeva la corte marziale, per “chiunque produca o diffonda materiali irriguardosi verso le truppe alleate”. Cosa dunque dire della scritte antijugoslave e dei volantini che furono diffusi in tutti i 42 giorni?
Il comma 31 poi colpisce davanti agli stessi tribunali chiunque “pronunci discorsi e parole ostili contro gli occupanti” mentre il 33 vieta, sotto gravissime pene, “ogni manifestazione non autorizzata di qualsiasi genere”.
Ma non basta: il comma 38 vieta che si spargano “faziosità per allarmare la popolazione”. Quante voci, risultanti poi artificiosamente false, furono spese ad arte contro gli jugoslavi durante i 42 giorni, e poi anche sotto l’amministrazione angloamericana? La notizia falsa dell’uccisione ed infoibamento di militari neozelandesi continua ancora oggi, pervicacemente, benché lo stesso governo neozelandese l’abbia ufficialmente e con documento scritto e reso pubblico, dichiarata priva di ogni fondamento, come testimonia una lettera pubblicata sul periodico di Cividale “Novi Matajur” del 25/4/96).
Su questi argomenti i diari di Diego de Henriquez riportano un accurato florilegio al di là di ogni dubbio, e con ampio dettaglio, anche se nessuno storico ufficiale né alcun opinionista di regime ne tiene conto.
Il comma 42 poi vieta che si disobbedisca in qualsiasi modo a qualsiasi soldato alleato ed il comma 43 vieta ogni forma anche indiretta di fascismo (ma senza ottenere, a Trieste, grande risultato, dato che le organizzazioni neofasciste armate qui erano pagate direttamente dal governo di Roma).
Infine, per concludere, il comma 45 parla di qualsiasi altro atto, non previsto dai precedenti commi, che comunque possa danneggiare il buon ordine della vita nel territorio occupato; una particolare norma giuridica “aperta” dunque, che con un po’ di buona volontà avrebbe potuto mandare nelle galere militari triestine qualsiasi cittadino: ubriachi che schiamazzano, prostitute, ragazzi che schiamazzano, e così via.
Il 14 giugno furono sciolti tutti i corpi militari e di polizia, anche la Difesa popolare.
[...]
La pubblicazione del presente breve studio ha richiesto la consultazione dei seguenti documenti:
- atti di segreteria generale ed atti di gabinetto presso l’Archivio Storico del Comune di Trieste - 1945 ;
- diari di Diego de Henriquez presso i Musei civici di Trieste, dal diario 1 al diario 50, dal diario 64 al diario 66 ed inoltre i diari 73, 172, 174, 195.
Vincenzo Cerceo, Trst Je Naš! I 42 Giorni Di Amministrazione Jugoslava di Trieste, La Nuova Alabarda

La guerra effettiva in Istria durò molto meno rispetto agli altri territori jugoslavi, ma furono venti mesi densi di cambiamenti (ottobre ’43 - maggio ’45). Dopo la caduta di Mussolini e specie dopo l’8 settembre ’43, quando l’esercito italiano – che aveva occupato la Jugoslavia nel 1941 - si trovò allo sbando e i soldati abbandonati al loro destino, intere unità italiane consegnarono le armi per tornare a casa, e moltissimi militari passarono nel movimento partigiano jugoslavo con tutte le armi. Con la presa sotto il proprio controllo di gran parte dei territori jugoslavi, l’esercito di Tito aveva progressivamente assunto aspetti di massa; impossessatosi dei mezzi pesanti sottratti al nemico italiano e tedesco, era pure dotato di attrezzature tecniche fornite dagli alleati, che avevano riconosciuto il movimento partigiano nel dicembre 1943. Fu con la liberazione di Belgrado nell’ottobre 1944, che aumentò notevolmente il numero di coloro i quali entrarono nell’esercito partigiano, determinando le prime riorganizzazioni interne delle sue unità militari. Tito, inoltre, nel novembre 1944 (fino alla metà di gennaio 1945) aveva concesso l’amnistia ai domobrani sloveni e croati, ai cetnici e ai loro sostenitori <1, provvedimento che in Croazia aveva avuto un buon successo in quanto i domobrani croati erano entrati in massa nell’esercito del MPL.
Dall’estate 1944, poi, a seconda delle condizioni specifiche dei territori jugoslavi, era stata avviata la mobilitazione di tutti i maschi adulti nelle fila partigiane, azione che era proseguita sino alla fine della guerra. L’afflusso in massa nell’esercito partigiano aveva però portato anche al cambiamento della composizione politica sua e del MPL in generale (si potevano trovare oltre ai domobrani, simpatizzanti del Partito contadino croato, ecc.); e ciò in contrasto con l’indirizzo politico dei quadri militari - compresi quelli dell’Ozna - che guardavano come esempio all’Armata russa e che venivano addestrati presso le scuole militari di Mosca, come pure degli istruttori militari sovietici si trovavano nelle fila dell’esercito jugoslavo <2. Una grande influenza politica nell’esercito era svolta dal partito comunista, anche e soprattutto attraverso l’aiuto del KNOJ e dell’Ozna <3.
L’esercito, come scrisse Moša Pijade <4, rappresentava “la forza armata della rivoluzione (…), di coesione per l’unità e la fratellanza fra i popoli jugoslavi (…), la forza militare del potere popolare” <5. In effetti, assieme alla polizia segreta (Ozna) e all’apparato giudiziario, l’esercito costituì uno dei pilastri fondamentali su cui si costruì lo stato jugoslavo. Dotato di una organizzazione centralizzata, esso dopo la guerra rappresentò un potente fattore di coesione nel rafforzamento del nuovo ordinamento politico.
Durante la guerra l’esercito fu gradualmente controllato dal PCJ, che ne occupò progressivamente i ruoli chiave. Nel 1948, Tito ebbe a ricordare che “Oltre il 94% dei quadri dirigenziali della nostra Armata sono comunisti … 85.000 comunisti, membri del Partito, ci sono oggi nell’Armata” <6.
E proprio nelle ultime fasi del conflitto, l’esercito rappresentò anche una vera e propria scuola politica, che tramite le figure dei commissari politici, forgiò i propri reparti armati in vista degli obiettivi e dei compiti politici assegnatigli - assieme all’Ozna - durante le fasi di presa del potere <7.
Per il partito, perciò, i commissari erano molto più importanti delle figure dei comandanti.
Rappresentando l’emanazione diretta del partito comunista nel campo militare, i commissari politici seguivano la verticale delle strutture militari, dal Comando, ai battaglioni, alle unità più piccole, e facevano parte della dirigenza militare; avevano il compito di controllare la condotta politica e morale dei militari, e di impedire ai “provocatori e spioni” di agire nelle formazioni partigiane <8; di istruire e di elevare politicamente i partigiani, in particolare educandoli a quelli che erano i fini e gli obiettivi del MPL, nonché di illustrare la situazione politica e militare e gli avvenimenti politici quotidiani per mezzo della lettura dell’organo del PCJ, Borba (Lotta).
Ben poco o nulla si sa della loro condotta nella soluzione di problematiche politiche, specie in un territorio nazionalmente misto come l’Istria e la Venezia Giulia in generale. Dalla rilettura di alcune opere sulla storia di alcune formazioni militari croate/jugoslave, pubblicate molti anni orsono, risulta che prima di avviare le operazioni militari per la “corsa di Trieste”, i commissari politici abbiano svolto un intenso lavoro politico e di propaganda ideologica per spiegare ai combattenti del resto dei territori croati la storia dell’Istria, i rapporti con l’Italia, nonché la “lotta di liberazione” nella regione istriana <9. Le popolazioni, come i partigiani dei territori croati, erano praticamente a digiuno di qualsiasi nozione storica su quell’area nord adriatica, che mai aveva fatto parte di uno stato croato/sloveno/jugoslavo.
Sinteticamente, l’interpretazione propagandata dai commissari politici era quella del PCJ, che aveva fatto proprie le classiche tesi del nazionalismo borghese croato e sloveno di fine ‘800, e imperniata su posizioni fortemente ideologizzate, che istruiva i combattenti, come quelli appartenenti alle brigate dalmatine che parteciparono alle operazioni militari nella Venezia Giulia, a una missione di liberazione dei croati e sloveni - considerati “fratelli” - dell’Istria, delle isole quarnerine e del Litorale sloveno dal giogo fascista e nazista, per riunirli alla propria “madrepatria”, alla quale erano stati strappati dall’Italia dopo la I guerra mondiale, per essere poi sottoposti a una dura politica di asservimento e di snazionalizzazione da parte del fascismo italiano fra le due guerre. Durante la seconda guerra mondiale, poi, italiani (che avevano abbandonato l’esercito italiano, e i comunisti italiani istriani) e jugoslavi (croati, sloveni e di altre nazionalità) si erano uniti in fratellanza per combattere il fascismo italiano, in quanto desiderosi di vivere in uno stato jugoslavo, considerato patria del socialismo <10.
Pure lo slogan e il grido di battaglia che i commissari politici inculcarono alle proprie unità militari che combatterono nelle operazioni militari in Istria e nella Venezia Giulia, sintetizzava emblematicamente le rivendicazioni del MPL jugoslavo e del PCJ, nei confronti di tali territori, compresa Trieste: “L’altrui non vogliamo – Il nostro non diamo!” (Tuđe nećemo - Naše ne damo!) <11.
Nelle ultime fasi della guerra, anche nel campo militare si manifestarono alcuni cambiamenti di rilievo. In vista della formazione del governo provvisorio jugoslavo - che era stato contemplato dall’accordo Tito-Subašić e poi approvato dalle potenze alleate alla Conferenza di Jalta nel febbraio 1945 <12 - furono attuate enormi modifiche nell’organizzazione dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, ponendo così le condizioni per la sua trasformazione in una forza armata regolare <13.
1 Il testo dell’ordinanza sull’amnistia è riportato nella raccolta di Slobodan NEŠOVIĆ, Stvaranje nove Jugoslavije 1941-1945 (La creazione della nuova Jugoslavia, 1941-1945), Lubiana, 1981, pp. 575-578.
2 Durante la crisi di Trieste, che scoppiò di lì a poco, nel maggio 1945, Tito richiese ai sovietici che in Jugoslavia fossero inviati qualche centinaio di ufficiali, vedi in Josip Broz TITO, Sabrana djela (Raccolta di opere), vol. 28, Belgrado, 1982, pp. 38-40 e Oslobodilački rat naroda Jugoslavije 1941-1945 (La guerra di liberazione dei popoli della Jugoslavia), Vojnoistorijski institut, Belgrado, 1965, p. 500.
3 Jera VODUŠEK STARIČ, Kako su komunisti osvojili vlat 1944. - 1946., Zagabria, 2006 (Come i comunisti hanno conquistato il potere, 1944-1946), p. 222, [originale in lingua slovena: Prevrzem oblasti, 1944-1946, Lubiana, 1992].
4 Moša Pijade (Belgrado 1890 – Parigi 1957), partigiano, politico, giornalista, letterato serbo, di origini ebraiche; ricoprì alte cariche politiche durante e dopo la Seconda guerra mondiale: fu membro del Comitato centrale del PCJ, presidente dell’Assemblea popolare della Repubblica Popolare Federativa di Jugoslavia; tradusse Il Capitale di Marx, Il Manifesto comunista ed altre opere. Durante la guerra, scrisse e preparò i “Regolamenti di Foča“ (Fočanski propisi), emessi dal Comando Supremo del MPL jugoslavo nel febbraio 1942, i quali rapppresentarono la piattaforma dell’organizzazione del potere popolare e delle sue cellule basilari, fondate sui Comitati popolari di liberazione (CPL). Vedi Moša PIJADE, Izabrani govori i članci, 1941-1947, Belgrado, 1948.
5 Cfr. Moša PIJADE, Izabrani spisi, 1/5, Belgrado, 1964, p. 547.
6 J. Broz TITO, “Relazione politica presentata al V Congresso del PCJ”, in Kultura, 1948 e Dušan BILANDŽIĆ, Historija SFRJ. Glavni procesi (Storia della RPFJ. I processi fondamentali), Zagabria, 1976, p. 101.
7 Vedi Hrvatski Državni Arhiv Pazin (=HDAP), fondo (f.) Oblasni Narodni Odbor za Istru (=ONOI), busta (=b.) 9, fascicolo (=f.) “Izvještaj o zadatcima ONO u oslobođenim krajevima”; Darko DUKOVSKI, Rat i mir istarski (Guerra e pace istriana), CASH, Pola, s.a. (ma 2002), p. 149; Zdenko RADELIĆ, „Uloga OZNE u preuzimanju vlasti u Hrvatskoj 1945“ (Il ruolo dell’Ozna nella conquista del potere in Croazia nel 1945), in AA.VV., 1945.- Razdjelnica hrvatske prošlosti (La cesura nella storia croata), Hrvatski institut za povijest, Zagabria, 2006, pp. 97-122; a cura di Mate RUPIĆ, Partizanska i komunistička represija i zločini 1944.-1946. Dokumenti (La repressione e i crimini partigiani e comunisti, 1944-1946. Documenti), Hrvatski institut za povijest, Slavonski Brod, 2005.
8 Vedi Bilten Vrhovnog Štaba NOVJ (Bollettino del Quartiere Generale dell’Armata popolare di liberazione jugoslava), 1941.
9 Nel volume che ripercorre il cammino della 4° Brigata d’Assalto dalmatina - che sbarcò tra le altre sulla costa sud-orientale istriana nell’aprile 1945, per poi procedere verso Trieste - si ricorda che nella primavera del 1945, i commissari politici avessero dedicato 199 ore di lezione sulla storia dell’Istria e fossero stati letti 25 articoli relativi a tale tematica, vedi Mate ŠALOV, Četvrta dalmatinska (splitska) brigada (La Quarta Brigata dalmatina (spalatina)), Institut za historiju radničkog pokreta Dalmacije, 1980, p. 326.
10 Vedi quanto riporta M. ŠALOV, Cetvrta dalmatinska (splitska) brigada, cit., pp. 324-326.
11 La frase era stata lanciata da Tito come slogan nel suo discorso tenuto a Lissa nel 1944.
12 L’accordo Tito-Šubašić (era capo del governo monarchico in esilio) del novembre 1944, concluso a Belgrado, prevedeva la formazione di un governo di coalizione tra i membri del governo monarchico in esilio e i membri dell’Avnoj, il governo partigiano di Tito. Già con il primo accordo Tito-Subašić, firmato sull’isola di Lissa nel giugno 1944, Tito si era guadagnato l’appoggio alleato, essendosi impegnato a rispettare la disposizione che soltanto alla fine della guerra si sarebbe deciso l’ordinamento statale (repubblica o monarchia) del nuovo stato, vedi la raccolta di documenti dell’Avnoj nel corso della guerra: S. NEŠOVIĆ, Stvaranje nove Jugoslavije, cit., pp. 539-540 e 555-557.
13 Il governo provvisorio della Jugoslavia Democratica e Federativa (JDF), ovvero il governo di coalizione, con Tito primo ministro, e Šubašić, ministro degli esteri, fu formato il 7 marzo 1945. Il re Pietro II, in esilio a Londra, non fece più ritorno in Jugoslavia, mentre i suoi interessi furono rappresentati da alcuni membri nel governo di coalizione. A fine marzo 1945, il nuovo governo jugoslavo fu riconosciuto da tutte e tre le grandi potenze alleate (Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione sovietica), che avevano inviato a Belgrado i loro ambasciatori. Ad agosto 1945, in disaccordo con alcune scelte attuate dal nuovo governo, dominato da Tito, Subašić uscì dalla coalizione. La JDF durò fino alle prime elezioni del dopoguerra nel novembre 1945, che sancirono la vittoria dei comunisti di Tito. Vedi Oslobodilački rat naroda Jugoslavije 1941-1945, cit., pp. 531-532.

Orietta Moscarda Oblak, L'armata e l'amministrazione militare jugoslava, Quaderni, Centro Ricerche Storiche Rovigno, volume XXV, Rovigno, 2014

3. L’incipit politico-militare delle operazioni nella Venezia Giulia
Lo sforzo interpretativo più immediato si traduce nella necessità di determinare sensatamente l’incipit del contenzioso diplomatico giuliano alla fine della II G.M. – limitatamente alle trattative per la ridefinizione del confine tra Italia e Jugoslavia nella regione della Venezia Giulia - attribuendo ad esso un preciso momento di rottura rispetto al contesto internazionale di riferimento. Ecco che allora non stupisce come la violazione degli Accordi di Belgrado <15 del 2 marzo 1945 tra il Generale Alexander <16 e il leader del Movimento popolare di liberazione jugoslavo Maresciallo Tito abbia costituito una prima frattura, un primo segnale del successivo stravolgimento delle operazioni politico-militari nella regione dell’Alto Adriatico.
Secondo tali accordi, nella primavera del 1945 gli angloamericani avrebbero dovuto assumere il controllo dell’amministrazione militare su tutta la Venezia Giulia, al fine di mettere in sicurezza le principali vie di comunicazione verso l’Austria e garantire il pieno funzionamento della rete ferroviaria nell’Alto Adriatico: Trieste e Pola sarebbero stati i capisaldi di questa vasta operazione.
Seguendo lo stesso filone logico, l’incessante inasprimento della situazione sul fronte di guerra balcanico tra la seconda metà del 1944 e l’inizio del 1945 indusse il pool strategico del Foreign Office britannico a elaborare una congettura più realistica riguardante il futuro confine tra Italia e Jugoslavia: andava profilandosi la necessità di ridisegnare un tracciato confinario che si accostasse il più possibile alla linea etnica. In questi termini, si poneva immediatamente una questione che per certi versi rimarrà insanabile anche negli estenuanti negoziati post-bellici: gli jugoslavi avevano una concezione di confine etnico decisamente inconciliabile rispetto a quella che poteva essere teorizzata dagli angloamericani, basata sull’inamovibile convinzione che i piccoli e medi centri urbani della Venezia Giulia – anche quelli distribuiti lungo la fascia costiera e di compagine compattamente italiana – dovessero essere fagocitati dall’entroterra rurale a maggioranza slava, che ne avrebbe dovuto unilateralmente determinare le sorti.
Con questo approccio risultava subito non praticabile una soluzione di compromesso, peraltro stravolgendo la nozione stessa di linea etnica nell’accezione teorizzata nel 1919 da Wilson sul caso del confine nordorientale italiano.
Consapevoli dell’intransigenza degli jugoslavi sulla questione etnica del confine, agli angloamericani parve inevitabile escogitare un piano che istituisse verosimilmente già nella primavera del 1945 un’amministrazione angloamericana
su tutta la regione della Venezia Giulia, allo scopo di separare italiani e jugoslavi fino al momento in cui fosse stato possibile negoziare una soluzione confinaria de jure in seno alla Conferenza di Pace.
Contrariamente a ciò, quello che non era stato opportunamente preso in considerazione dall’intelligence angloamericana era il vero spessore bellico del Movimento popolare di liberazione jugoslavo, per nulla intenzionato ad accettare remissivamente una soluzione di ripiegamento, che avrebbe di fatto vanificato gli sforzi militari jugoslavi nella disperata corsa per Trieste <17.
4. Ambiguità della cobelligeranza partigiana italo - slava nell’area giuliana
A complicare - per non dire aggravare - la situazione di caos in cui il piano di liberazione alleato avrebbe dovuto essere implementato nell’Alto Adriatico, fu l’atteggiamento deliberatamente filo-jugoslavo assunto già a partire dall’autunno 1944 dalla costola comunista del CLN italiano <18: le direttive con cui Palmiro Togliatti istruiva Vincenzo Bianco per l’area giuliana configgevano apertamente con la linea dei dirigenti comunisti triestini Frausin e Gigante, i quali - giacché dimostrando una certa lealtà verso il CLN locale - non erano disposti a sacrificare la sovranità nazionale nella Venezia Giulia né tantomeno ad assecondare l’occupazione di tutta la regione da parte dell’esercito popolare jugoslavo.
Nella logica mai dissimulata delle pervicaci aspirazioni jugoslave, tese ad una drastica traslazione del confine transadriatico verso la sponda occidentale, tale posizione trovava piena continuità e coesione con l’atteggiamento intrusivo e prevaricante del KPJ <19 nei confronti del PC giuliano. Ciò contribuì a rendere insanabile quella lacerazione interna al CLN tra il fronte di resistenza patriottica e l’ala comunista filo-jugoslava; quest’ultima cominciò allora a battersi collusivamente per l’instaurazione dei Poteri popolari di matrice rivoluzionaria su tutto il fronte nordorientale, a prescindere dalla perdita della sovranità italiana nella Venezia Giulia.
In questa lotta intestina emergeva pertanto una scissione gravissima tra chi - come Gigante - era favorevole all’integrazione dei comunisti sloveni e italiani (filo-jugoslavi) all’interno del CLN, senza minare la leadership antifascista orientata comunque al mantenimento della sovranità nazionale italiana nella regione; e chi invece anelava all’affermazione di un blocco politico a trazione comunista, integralmente sottomesso alle velleità annessionistiche degli jugoslavi <20.
A rigore di questa linea di per sé dissociativa e conflittuale rispetto a quella del CLN nazionale circa le modalità per la liberazione dell’area giuliana, e congiuntamente alla netta posizione filo-jugoslava che Mosca assunse prima e durante i negoziati per la ridefinizione dell’assetto confinario della Venezia Giulia, ci sembra utile proporre una rielaborazione delle direttive politico-militari di Stalin nell’ultima fase della II G.M.: secondo questo approccio, l’iniziale appoggio incondizionato di Stalin rispetto alle tesi annessionistiche di Tito nella Venezia Giulia stride non poco con uno dei pilastri indiscussi del Cominformismo, imperniato sulla funzione patriottica che i partiti comunisti nazionali erano chiamati a svolgere, al fine di consolidare quella politica satellitare di “lotta per la pace” dell’Unione Sovietica.
Ebbene, se a questa missione salvifica aderiva anche il PCI, la posizione di Togliatti si confermerebbe alquanto subdola e di difficile interpretazione. Forse è utile richiamare ancora una volta come Stalin, già nei primi incontri con la delegazione jugoslava titoista all’inizio del 1945, si prodigò alacremente a ché l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia fosse invocata dalla popolazione locale attraverso un’azione plebiscitaria, i cui esiti - nonostante le perduranti e sistematiche intimidazioni da parte degli jugoslavi nelle aree più compattamente italofone in Istria e nel Quarnaro - non sarebbero stati forse così scontati.
15 Cattaruzza M., L’Italia e il confine orientale 1866-2006, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 288-289.
16 Maresciallo e comandante supremo delle Forze Alleate del Mediterraneo durante la fase finale della II G.M. e della Resistenza nel Nord Italia tra il 1944 e il 1945.
17 Ancora una volta riemerge il valore tattico e allo stesso tempo simbolico che la conquista del capoluogo giuliano avrebbe avuto, con tutta una serie di conseguenze politico-militari da sfruttare nel gioco al rialzo per l’annessione dell’intera regione Venezia Giulia da parte degli jugoslavi.
18 Per Togliatti andava favorita “in tutti i modi” l’occupazione della Venezia Giulia da parte delle truppe di Tito, per evitare in primo luogo l’instaurarsi nella regione di un’occupazione inglese o la “restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana” (Karlsen, 2010, p. 64).
19 Partito Comunista Jugoslavo.
20 Karlsen P., Frontiera rossa: il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955, ed. LEG, Gorizia, 2010, p.66.

Marco Piccoli, L’Alto Adriatico nel contesto geopolitico internazionale: dal 1945 al 1954, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari, Venezia, Anno Accademico 2017/2018

giovedì 22 luglio 2021

Una forma si muove / in un circolo saliente


Dopo “Crescita e crisi della poesia visiva in Italia” pubblicato l'anno scorso da Mimesis, e curato da Adriano Accattino e Lorena Giuranna, è appena arrivato un altro esaustivo contributo sulla poesia visiva dal titolo “Pensare oltre l'ostacolo della parola” che emana una sinergia spesso in conflitto tra idea e parola.
Adriano Accattino, poeta e fondatore del Museo della Carale di Ivrea, dedicato alla poesia sperimentale visiva, e Lorena Giuranna, critico e storico dell'arte, direttrice del suddetto Museo costituiscono un connubio di completa e chiara affermazione della poesia visiva in Italia.
Il testo è un affascinante viaggio a tratti esistenziali sul dominio della parola sul pensiero, che comporta alle volte una sottomissione del soggetto. Sono vari i contributi che ruotano attorno alla facoltà del pensare che - se per i filosofi moderni è in necessario parallelismo con il soggetto -, nell'analisi di Accattino la parola diventa ostacolo al pensare quando è impedita da usi impropri e addirittura porta a ostacolare l'espressione autentica del soggetto.
Si compie una dettagliata analisi sulla parola e sul pensare attraverso la parola e ogni autore apporta il suo prezioso contributo come Armando Bertollo che scrive: «Pensare è un venire alla luce, un sentire riconosciuto e riconoscente, una presenza-evento che arriva e viaggia organizzandosi»; (p. 61) mentre, Adriano Accattino propone un'ode all'ostacolo, necessario certamente alla parola perché il poeta possa esprimersi in tutte le sue possibilità, contraddizioni, debolezze, nell'aulica espressione di umanità e si legge: «L'altezza dell'ostacolo è la nostra misura. Abbiamo bisogno di misure precise e di ostacoli fermi: quelli mobili possono darci una coscienza erronea delle nostre possibilità. Se non ci fosse l'ostacolo non avremmo neanche idea di dove finisce il nostro corpo. Se non ci fosse l'ostacolo della parola, pensare sarebbe piatto come un'ombra al suolo». (p. 47).
Una reale visione della necessità dell'impedimento, perché è ciò che produce stimolo al pensiero, porta a partorire sublimi poemi, elevati versi vitali.
A tal proposito Lidia Pizzo parla di uno spazio che imprigiona le parole e le costringe a significare, producendo libertà. La poesia è la libertà, richiede spazi indefiniti, menti libere, libere di volare alto col solo peso del respiro.
L'esigenza primordiale del pensare con la parola oltre l'ostacolo è intrisa profondamente in tutti gli interventi espressi dagli autori, simboleggiando nella parola quasi un amuleto per il poeta, capace di esprimersi anche nel silenzio, rendendosi padrone di immagini incandescenti.
Così “Pensare oltre l'ostacolo della parola” in aggiunta al fatto di essere una finissima riflessione sul pensare la parola oltre l'ostacolo, è uno strumento di conoscenza e trasmissione della poesia visiva in Italia, della sua straordinaria capacità di servirsi di immagini e parole combinandole in un suggestivo parallelismo che nutre come linfa il lettore.
Adriano Accattino e Lorena Giuranna hanno dimostrato con questa nuova pubblicazione di aver superato l'ostacolo, non solo, di averlo conosciuto e presa consapevolezza, ne hanno inoltre dato messaggio a chiunque avesse voglia di gustare il sapore della poesia: dolce e amaro come la vita.
Emerge la voglia di crescere proprio conoscendo il negativo, come la necessità della crisi nel libro “Crescita e crisi della poesia visiva in Italia”, così ora la necessità dell'impedimento.
La tesi e l'antitesi, il positivo e il negativo, gli opposti sono necessari alla vita e questo deve essere chiaro, accolto, perché si possa amare e apprezzarne il valore. Camus in particolare sostiene la necessità degli opposti, in quanto questa opposizione nutre la vita, la poesia e il poeta è colui che riconosce l'opposto e con tenacia; è un brivido di paura - il poeta/l'uomo - lo riconosce e tenta in ogni modo di superarlo.
“Pensare oltre l'ostacolo della parola” offre un tentativo coraggioso di affrontare la vita, nel detto e non detto della parola.
Alessandra Peluso, Pensare oltre l'ostacolo della parola, a cura di Adriano Accattino e Lorena Giuranna, Mimesis 2014, Affari Italiani, 15 settembre 2014 


È un compito a dir poco arduo, scrivere di un autore che ha deciso di pubblicare, per i tipi di Mimesis Edizioni, un mastodontica “opera omnia”, formata da 11 volumi suddivisi in 32 tomi. Finora sono stati pubblicati 15 volumi, l’ultimo Poesie rubate, nel 2013. Compito arduo non già per la cifra di pagine da leggere, ma per gli innumerevoli piani di lavoro che essi possano racchiudere e racchiudono in sé, il che per un lettore pigro come me, sarà compito ancora più arduo. Ma siccome sono anche curioso, mi cimento. L’autore in questione è Adriano Accattino, poeta e critico di lungo corso, e ora anche operatore culturale: qualche anno fa ha ideato e realizzato, a Ivrea dove risiede, un museo di arte contemporanea (Museo della Carale) con un particolare interesse rivolto anche alla poesia visuale.
Un’impresa (non c’è altro termine per definire la fatica di Accattino, che non ci lascia indifferenti in un periodo in cui la poesia è relegata a inutile prassi culturale), una programmazione di libri dalla scrittura all’evoluzione, che si alternano tra la critica e la poesia, spesso co-abitando nello stesso volume, «che risultano compiuti in sé e possono leggersi autonomamente, e nello stesso tempo si collegano organicamente in un complesso unitario [racchiuso sotto il titolo di Un salto nell’alto] [… che] promuove l’autonomia e l’originalità del pensare e introduce a un cammino di evoluzione. […] La scrittura costituisce lo strumento fondamentale di questa determinazione» [1] :
Di carne in carne sono transitato
come dormendo, ma quando ho visto
gli abusi perpetrati con assoluta
noncuranza mi sono risvegliato.
Carezzevole cuscino, spessore prezioso
e maltrattato, ora ho capito
che sei miracolo sprecato. [2]
La prima volta che sentii parlare di Accattino fu nella casa di Cuma di Franco Cavallo. Quando entrai nel suo studio mi comparve davanti una persona intenta a curiosare davanti alla libreria: mi fu presentato come Franco Capasso, poeta di “Pianura”. Ah, sei di Pianura? domandai. Allora siamo quasi concittadini: io abito a Quarto. No. Rispose lui, con un sorriso amichevole. “Pianura”, la rivista di Vassalli, no il quartiere di Napoli (in rigoroso dialetto napoletano). Sul tavolino, messo in bella evidenza, campeggiava una copia della suddetta rivista e un suo volume, Punto barometrico, introdotto da Raffaele Perrotta, pubblicato nel 1976 nella collana “Pianura. Itinerari”, una iniziativa editoriale parallela alla rivista piemontese. Evidentemente, dopo più di un decennio dalla loro uscita, erano ancora argomenti dei due Franco. Preso dalla curiosità cominciai a sfogliarne il contenuto, soprattutto il contenuto di quel numero 1 della rivista (febbraio 1976 - sono sempre stato attratto dalle riviste e dai gruppi che ne fanno parte -) interrotto a metà strada e poi rifatto, incrementato di nuovi testi nel maggio del ’76. Ancora oggi, la prima cosa che vado a leggere in una rivista è la composizione della redazione: non ricordo tutti i nomi dei redattori di Pianura, ma ricordo benissimo quello di Adriano Accattino, in quanto m’incuriosì il titolo di un suo scritto, La rivoluzione rivoltata. Ma non ricordo se era un testo critico o di poesie.
Possiamo affermare che “Pianura” è stata per Accattino il trampolino di lancio, la fucina che gli ha permesso di diventare l’intellettuale stimato e preparato che gli si riconosce. Ma l’avventura durò abbastanza poco: dopo qualche numero la rivista andò in crisi. Con la crisi del gruppo e il crollo del progetto di “Pianura”, concretizzatosi dopo appena quattro numeri (due di prova e due ufficiali), per via delle dimissioni del fondatore e direttore Sebastiano Vassalli, nonché anima e corpo della rivista, ormai avviato definitivamente verso una carriera che puntava dritto al “palazzo” della cultura ufficiale (una scelta parossistica e insostenibile per la lotta ad una letteratura paludata e vuota che la rivista aveva sposato), grazie ad Accattino, a partire dal n. 2 (gennaio 1977) furono pubblicati altri sei numeri fino al 1981, probabilmente perché la denuncia del fallimento, del decadimento dell’uomo moderno non si era ancora esaurita. Accattino prova a spiegare con I ricordi e le riflessioni, il senso culturale della presenza di “Pianura” in quegli anni di confusione e di azzeramento, nel recente volume I fuochi di Pianura (2011, a cura dello stesso), storia, testimonianze e documenti della rivista: «Mi sembrava allora che la nostra posizione fosse quella di una sana concretezza, quella di una lotta contro i letterati di mestiere e la letteratura esclusivamente letteraria; insomma una specie di nuovi barbari che conquistavano la vecchia città e la irroravano di energie schiette e fresche. Un atteggiamento anche irriverente ma rigeneratore. […] Il nemico contro cui batterci era la letteratura paludata e vuota, i cerebralismi e gli snobismi, l’aspirazione a cattedre e a posti di potere. Eravamo portatori di una nuova semplicità, spregiudicata e allegra. […] la parola d’ordine è rifiutare l’industria culturale e l’accademia, accampandosi fuori, è scegliere l’emarginazione senza ridursi al silenzio; anzi al contrario, accendere fuochi, cioè attuare situazioni creative e scritturali che non vengono fagocitate. Il progetto cambia la realtà ma la realtà cambia il progetto» [3] .
Ma allora che ci faceva uno come Vassalli che aveva riscontrato già un certo successo e pubblicato con Einaudi? Prova a spiegarcelo ancora Accattino delineando Vassalli come «un giovane ben introdotto, grazie ad un carattere vivace e irriverente, a uno spirito attivo e intraprendente, con qualità carismatiche di capo e conduttore di dure battaglie. […] Vassalli era capace di coinvolgere molti nelle iniziative che intraprendeva e aveva già intrapreso [… solo che la] fretta di arrivare ha condotto Vassalli su un strada sbagliata così che tutto è diventato parossistico e insostenibile; mentre il percorso di un’esperienza si coglie nell’esperienza stessa; una linea si traccia tracciando la linea e correggendo via via le deviazioni. […] Vassalli non comprende una cosa essenziale: che per essere davvero “fuori” del Palazzo, come dice lui, si deve essere senz’altro “nuovi”. Non possono essere fuori i Davico Bonino o gli Orengo o i Biondi o gli Scalia e neanche i Vassalli» [4] .
La poesia di Accattino (l’aspetto artistico che più m’interessa e per il quale, nonostante la mole di produzione, è meno noto) si può definirla una “poesia pensante”, nulla a che fare con la gnosi, però; una scrittura tesa tra la funzione e la poetica. «Si può scrivere secondo un progetto predisposto, ma si può scrivere anche secondo le esigenze intrinseche della scrittura. Nella prima modalità la scrittura viene trattata come un materiale da utilizzare o uno strumento capace di una certa funzione; nel secondo caso invece la scrittura viene assecondata nei suoi svolgimenti e veramente lo scrittore non sa che cosa scriverà quando si mette davanti a un foglio bianco. Non sa che cosa scriverà ma quello che scrive spesso lo sorprende» [5]. Questo dualismo mi riporta alla mente un volume di Anceschi, Gli specchi della poesia [6]. Entrambi, adoperando gli specchi della poesia (le innumerevoli proposizioni) per ribaltare e annullare l’immagine tautologica e teleologica di uno iato infinito, riescono a contaminare, con la forza del tempo, del reale, del modificare, l’assolutezza della poesia e la sua presunta indistinguibilità. È questa una poesia che si costituisce come tracciato di una certa idea negativa della poesia o se vogliamo, diacronica, intesa a spezzare l’egemonia dell’assolutezza, tenendo in auge il susseguirsi degli eventi, dei momenti d’attraversare giorno dopo giorno:
Una forma si muove
in un circolo saliente.
Una dislocazione
frutto d’invenzione.
Una novità la ribalta
e produce un’altra forma. [7]
Lungo l’asse propulsivo che da D’Annunzio passa per Campana, Rilke, Celan, Eliot fino alla beat generation, l’enigmaticità della poesia, il proliferare di operazioni ideologiche, il riordino della scansione poetica critica filosofica politica, è portata a nascita di un’invenzione, a una gravidanza di “forme aperte” che mettono sul piano delle iniziative non più il metodo ma i metodi, convinto del fatto che un molteplice sistema di critica deve riconoscere un molteplice sistema di poesia, un tipo di poesia che non si limiti soltanto a rompere ma ad alimentare il plurimo gioco dell’insolito, della complessità: «La complessità è un punto ideale di totale congiungimento, di unificazione, in cui gli antagonismi sono incoraggiati e temperati, le contraddizioni evidenziate e composte, le unità particolari rinvigorite e valorizzate» [8]:
Se scrivo poesie diverse con le medesime parole,
restano le parole ma delle poesie non rimane un fiato.
Non si pensi in fondo di ritrovare il primo autore,
che è irrimediabilmente perduto, sepolto
nel catafalco della primigenia versione.
Come un testo si allarga, anche di una sola parola
e si modifica di un accento, diventa tutto nuovo. [9]
La crisi dell’uomo occidentale che non ha più identità, né valori, accontentandosi di vivere una vita fragile, senza punti di riferimento, è anche leit-motiv della poesia di Accattino. Ingiustamente trascurato dalla grossa critica, Accattino dimostra ancora una volta, facendo lo sgambetto all’età non più giovanissima (quest’anno cade il suo 70° compleanno), di voler crier éncore, di voler dire cose necessarie, di non fermarsi mai al semplice gusto di un’eleganza. Nei suoi testi emerge in modo nitido e come dato principale – forse – una consapevolezza, come dire? quasi brutale, la stessa che va muovendo da una trasgressione al kitsch, al dejà vu, a un mondo marmoreo per un linguaggio strutturale (anche se non sperimentale e/o avanguardistico) che s’insinua nella differenza esistente tra Testo e Poesia, tra Poesia e Materia.
Ogni testo conserva sempre un quid di irriducibilità, una funzione orizzontale e zigzagante, una speranza di scrittura conflittuale ed avventurosa, tesa tra un corpus materico e una visione dinamica del mondo, dell’Essere. La lingua si carica fino a esplodere per poi ricomporsi nel luogo di un infinito senza infinito, in una Poesia senza Poesia. Accattino è maestro in questo. Si tratta di rappresentare un’immagine di un sogno, di una utopia, un sogno e una utopia forse irraggiungibili cui credere però. Si tratta anche di una ricomposizione di una memoria in cui l’impossibilità che emerge è anche uno stimolo a riconoscere qualcos’altro; giacché parlare di poesia o comporla è il parlare e il comporre di un’approssimazione; è generare un’esigenza, per dirla con Walter Benjamin, di energia celata dai depistaggi di eventi negativi, che non è mai in grado di soddisfare nel momento della composizione: l’indagine critica e il compito dell’arte non possono che svolgersi sul limite dell’impoetico: «È agevole individuare una composizione poetica: ci soccorrono la letteratura, la scuola, l’orecchio; ma di fronte all’impoetico ci troviamo del tutto impreparati. Esso non è, almeno questo sappiamo, una negazione o l’antitesi del poetico, ma ne è la punta; è un poetico altro, lontano ancora dal diventare universalmente noto ed accolto. Non è un valore affermato, ma qualcosa che si deve andare a cercare e si deve imparare a riconoscere, una specie di funzione che s’incrementa col distanziarsi dal poetico noto, a cui tuttavia dissanguandosi verrà alla fine a congiungersi» [10] .
Per concludere, nulla sembra impraticabile in questo fribillo universo culturale, tutto teso a non sfigurare troppo, a fare bella figura di sé, a nominarsi continuamente autoreferenziandosi, manifestandosi perfino con una energia estrema di sensazioni, di estraniamento dalle abitudini, dai contenuti assunti come soggetto. Ma è una mera illusione che non coglie di sorpresa un intellettuale come Adriano Accattino. D’altronde egli sa che in realtà tutto è impraticabile perché tutto è reso poetico, a tal punto da creare una frattura all’interno della parola che sancisce il cosiddetto “poetese” di sanguinetiana memoria, una eteronimia che lega sempre di più al suo centro. Stiamo vivendo uno stato di catalessi e di riflusso, dacché il predominio del trasparente, del comico e del demenziale, favorisce l’incremento dell’insulso consumismo, del mercato speculativo. In questa “trasparenza culturale” Accattino agisce nella possibilità che una scrittura possa essere ri-scritturata, elaborata anche all’interno del vuoto insignificante del disvalore e della caducità. Insomma lo sostiene la convinzione che si possa fare comunque vera arte, nonostante del problema-poesia non se ne parli neanche più, tranne alcuni accenni in riunioni di affezionati. Non si partecipa più al gioco d’una esistenza di figure mobili, di pluralismo, d’invenzioni, di smantellamento della parola da museo: si parteggia per la ristrutturazione dell’intellettuale come mito, come unico esemplare, non più da comprendere ma da beatificare. Accattino non cade nella trappola ma sa che occorre spostare i termini della riformulazione all’interno della regola per poterla poi sregolare (in modo deciso), credere che la poesia possa fluire e rifluire in questa realtà repressiva, senza doversi giustificare continuamente.
Accattino ci convince che si può rigenerare la poesia lontano dai canoni ufficiali, ma anche all’interno dei canoni: «Devo anzitutto rinforzare il respiro, poi cominciare a svolgere i pensieri da lontano, soffermandomi minutamente sulla cornice prima di entrare nel quadro. Conviene che pensi con insistenza da lontano prima di pensare da vicino, da fuori prima di pensare da dentro» [11]. Si tratta di dare alla parola e alle cose distinzioni e fondatezza, immagini e riflessioni, difesa e opposizione d’una lingua creativa che si snodi finalmente non più nel volgare o attraverso spettacoli da baraccone, ma in strutture lontane dal provincialismo e dalla solitudine come sub-alternanza, per farsi coscienza in tutta l’intelligenza dell’uomo. D’altra parte per decretare la “morte” della poesia (sein-zumTode) [12], anche se da più parti più volte implorata di fronte al disagio/disastro di un vuoto enormemente vuoto, ci vuole ben altro di un pur astuto strategico appiattimento. Si vive (ma è più giusto dire si sopravvive) all’ombra di un progetto, nell’oltranza, nella non-forma, nell’attesa che si ripresenti il momento della lotta per trasformare le nostre inermi condizioni. Sennonché ‒ come giustamente afferma Accattino ‒ tanto «più ci si troverà ad essere andati verso l’altro, quanto più ci si è tesi nel condurre verso di sé, tanto più ad esprimersi in un altro modo quanto più si sarà tentato fortemente di far dire l’altro nei propri modi. Non tanto l’emulazione e la ripetizione muovono in avanti il processo, quanto il tentativo di affermarsi. L’artista non fa dunque altro che cercare d’imporsi e d’impossessarsi di ciò che non gli appartiene, manifestando i suoi modi caratteristici, che proprio per questo insensibilmente si tramutano» [13]. Una responsabilità che non si può prendere a cuor leggero e che ci lega più ai precedenti che al nuovo. In quanto, secondo il pensiero di Accattino, se «la novità che ci tocca discende da un’origine anteriore e da una distanza remota, è illusorio pensare di creare con il nostro intervento una novità che ci possa appartenere. Le modificazioni che apportiamo non si identificano con la novità, né producono direttamente, sebbene alterino la situazione attuale: infatti la novità non è solo lo spostamento ma qualcosa di più complesso e concreto: è il risultato della variazione e delle conseguenze successive che si allargano attorno e interessano altri elementi. […] Non abbiamo dunque speranza di fare la novità autentica, ma solo spostamenti né di vedere la novità che i nostri spostamenti andranno a produrre, in un concorso inestricabile» [14]:
3.
Corpo, come riesci a durare
è mistero! Non conosco materia
più fragile, sempre sul punto di perdersi.
Una lunga serie di cedevolezze
intreccia la tua tenacia; in bilico
un istante dopo l’altro duri a lungo.
Morbidamente ti adatti a mille
variazioni: cambi a ogni cambiamento,
sei pronto a piegarti al primo vento. [15]
Dunque, sempre secondo Accattino, l’avanguardia è un illusione, come lo è il nuovo, e l’azione non può che avvenire transitando dallo spirituale al materiale e viceversa. E sarebbe comunque una risurrezione.
1 dal risvolto di copertina.
2 A. Accattino, Montagna di carne [5], in A. Accattino, Tema supremo, vol. IV, tomo X, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2011, p. 69.
3 Id., I ricordi e le riflessioni, in Aa. Vv., I fuochi di Pianura, s. e. Ivrea, 2011, pp. 33 e segg.
4 Ivi, pp. 29 e segg.
5 Id., Il problema contemplare, vol. X, tomo XXVI, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2011, p. 6.
6 Einaudi, Torino, 1989.
7 A. Accattino, Poesia dell’impoetico, vol. I, tomo III, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2012, p. 71.
8 Id., La scoperta della complessità, vol. III, tomo VIII, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2013, p. 126.
9 Id., Georg Trakl e Yves Bonnefoy, in A. Accattino, Poesie rubate, vol. XI, tomo XXXI, Mimesis Edizioni, Milano Udine, 2013, p. 29.
10 Id., Poesia dell’impoetico, op. cit., p. 114.
11 Id., Risurrezione, vol. X, tomo XXIX, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2012, p. 11.
12 Espressione heideggeriana che vuol dire essere-per-la-morte. Secondo il filosofo tedesco mondanità, coesistenza e mortalità costituiscono il nostro statuto ontologico: non c’è mai dato di poterci comprendere se non attraverso l’illusione e l’impotenza. Ma l’uomo che cede di fronte a se stesso e preferisce il silenzio al fare, a che razza appartiene? (Qui, razza sta per termine spregiativo). Gianni Vattimo, che di Heidegger e della sua illusione, è stato un attento studioso, va affermando che «il senso dell’arte […] sarà tanto più valido quanto più rinvierà a tale reintegrazione dissolvendosi tendenzialmente in essa [,] la sua riuscita coinciderà con la sua negazione di sé» (G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, 1985, p. 65).
13 A. Accattino, L’artista nella società e in solitudine, vol. II, tomo V, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2013, p. 90.
14 Id., Vertigini sulla realtà, vol. III, tomo VII, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2012, p. 14.
15 Id., Tempo supremo, vol. IV, tomo X, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2011, p. 57.

Giorgio Moio, Una poesia pensante che viaggia sul limite dell’impoetico, Reti Dedalus, estate 2014


Adriano Accattino, grande amico di Giovanni Bianchi e di altri operatori culturali della città, scrittore, organizzatore di mostre e convegni, curatore di testi collettanei, artista e collezionista, fondatore del Museo della Carale di Ivrea, dedicato alla poesia sperimentale visiva, ha in corso di pubblicazione presso le edizioni Mimesis di Sesto San Giovanni i 32 volumetti della sua ultima opera “Un Salto nell’Alto”.
Presente nel volume “Asemic Writing” con altri autori (i curatori Francesco Aprile e Cristiano Caggiula) e poi Carella, Federici, Fontana, Franceschi, Gaze, Guatteri, Pavanello, Pope e Samigulina, sostenendo la scrittura dotata di segno ma priva di significato, senza tuttavia perdere la possibilità del senso.
“Il presente volume - scrive l’autore - raccoglie voci autorali impegnate negli ambiti delle scritture asemantiche e delle ricerche verbose in genere, strutturando una riflessione storica e teorica attorno a un fenomeno di larga diffusione che oggi rivive, grazie anche all’apporto del web, momenti felici, dopo le sperimentazioni a largo raggio fra gli anni Sessanta e Settanta.”
“La scrittura asemica è senza sema, senza segno: una tale scrittura sarebbe invisibile in quanto sprovvista non solo del significato ma anche del segno. Il che vuol dire eliminare ogni segno o parte di segno. Per uno come Accattino che ha scritto di tutto per tutta la vita, questa scelta è significativa. La asemica starebbe meglio da sola, senza la parola scrittura.
Una rinuncia totale, un nuovo modo di affrontare la letteratura? Basta chiederlo a lui, all’autore, sempre un grande ricercatore della parola, ma “bisogna conoscere le parole per allontanare da esse ogni senso o segno, anche piccolo”.
Paolo Lezziero, Adriano Accattino e la scrittura asemica, Lo Specchio di Sesto San Giovanni, 28 maggio 2018 

Beato il poeta che sa stringere
le sue scritture in poche pagine.
Beatissimo quello che le riassume
in poche parole. Angelico colui
che di queste parole ne ha
così tante da riempire cento libri.

Di mille parole reperire
quell’una che le riassuma
e come questa
trovarne poi altre mille.

Luogo dove si smorza
lo scrivere, nel pari tempo
presente
e assente in una specie di ondulante interregno marino.

L’inizio risulta d’improvviso
sorpassato,
l’opera incominciata
irrimediabilmente tardiva.
Esercizio di mente, questo
lavoro è fatto per niente.

Si evidenzia uno spessore
dove viene a mancare;
un’ombra quando
si entra in luce;
un avvallamento
dove la costa si rileva.
Si conosce una forma
dal bordo che la contiene,
oppure da ciò che dall’esterno
delimita il suo contorno?

Sulla piatta dimensione
della pagina segni
raggelati nell’istante
in cui stavano cercandosi.
Questa gabbia
ha preso il posto di altre
cento che si sarebbero
potute combinare.

Adriano Accattino

domenica 18 luglio 2021

Molte regioni italiane hanno già posto sotto stretta tutela questo stupendo esemplare della flora d'alta quota

Carlina acaulis - Fonte: Wikipedia

Carlina è la denominazione scelta per un Genere di piante spinose molto famoso, sia per la sua estesa diffusione che per l’augusta provenienza.
Secondo quanto riferisce il Tabernaemontanus (pseudonimo latinizzato, in ossequio ad un vezzo dell'epoca, del celebre medico botanico Jacobus Theodorus di Bergzabern, vissuto dal 1515 al 1590), fu proposta da un altro insigne studioso come Rembert Dodoens (1517-1585) per la prima volta, derivandola da una forma contratta del battesimo popolare di “Carolina”, con la quale erano state battezzate alcune specie di Cardi.  
Il termine deriverebbe da una straordinaria e leggendaria vicenda di "buonasanità" accaduta a Carlo Magno, il cui esercito era stato colpito da una micidiale pestilenza.
L'episodio sarebbe avvenuto durante la guerra di Barberia (oppure, secondo il Papa Pio II° Silvio Piccolomini, nei pressi del monte Amiata, in occasione di un viaggio a Roma) quando Carlo Magno, in preda alla disperazione, avrebbe invocato fiducioso l’aiuto dei cielo.
Un angelo sarebbe subito apparso all'Imperatore consigliandolo di scagliare una freccia verso il sole per trovare il fiore della salvezza nel punto di ricaduta.
Eseguita con cura la celeste direttiva, Carlo Magno recuperò il dardo infisso in un rigoglioso ciuffo di Carline, immediatamente battezzate con il nome del celebre monarca. Un'enorme tisana, subito approntata dalla sussistenza, avrebbe riportato in salute tutta la truppa.  Accanto a questa eccelsa ipotesi non è mancata, anche in questo caso, quella alternativa che in realtà appare più probabile e terrena; ossia la concreta deformazione diminutiva del nome "piccolo cardo" (cardunculus).
Forse l'efficacia terapeutica di queste Composite Cynaree è sempre stata sopravvalutata grazie ai prodigi sovrannaturali loro attribuiti, ma il racconto è l’ennesima riprova della sconfinata fiducia riposta nelle piante da parte delle popolazioni dei passato.
Basta citare, a questo proposito, quanto si diceva ancora duecento anni o sono nei confronti del "Camaleonte bianco", "Carlo Pinto", "Carcioffo selvatico" (tre altri pittoreschi appellativi volgari riservati alla Carlina acaulis).
"Dappertutto se ne mangiano i ricettacoli a foggia di Carcioffi, sia cotti che crudi perché il loro sapore è quasi eguale a quello di una mandorla amara e quello della sua radice ancora più amaro; viene quest'ultima adoperata per ravvivare le forze vitali ed eccitare il corso delle orine; si fa disseccare tanto per mangiarla d'inverno, quanto per farne spedizioni lontane".  
Considerata dunque fra le erbe più preziose, la Carlina acaulis fu coltivata negli orti dei monasteri ed in Inghilterra sopravvive tuttora l'usanza di appenderla nella camera da letto dei bambini per invocare salute e protezione; così come la troviamo sulle porte delle case di montagna, dove funge da infallibile bollettino metereologico.
Infatti, anche nel secco, essa conserva la prerogativa congenita di rinchiudere verso il centro le brattee esterne allo scopo di proteggere il polline dai danni dell’acqua, quando il tempo minacci pioggia. Il fenomeno trova riscontro nel battesimo popolare di "Indovina"; una dizione sicuramente riferita alla caratteristica di preavvertire le mutazioni atmosferiche.
Per molti montanari i ricettacoli dei capolini sono anche popolari sotto il nome di “Pane del cacciatore”, in quanto sono utilizzabili per uno spuntino come il cuore del carciofo; è possibile anche conservarli tagliati a piccoli pezzi, canditi oppure caramellati con zucchero in poca acqua, per ottenere una sorta di mostarda.
Sarebbe bene, comunque, non divulgare che le Carline possono essere cucinate alla stessa maniera dei Carciofi, perché la specie italiana più vistosa, la Carlina acantifolia, si va ormai rarefacendo a causa della spietata caccia cui è sottoposta dai falsi amanti della montagna che la tagliano per i loro trofei di fiori secchi.
Molte regioni italiane hanno già posto sotto stretta tutela questo stupendo esemplare della flora d'alta quota che, per la sua dimensione e la vistosa appariscenza, difficilmente riesce a mimetizzarsi con l'ambiente ed a passare inosservato.
La caratteristica naturale delle Carline di vivere in luoghi solitari è stata sottolineata dalla emblematica floreale che conferisce a queste piante il significato di isolamento, di solitudine e di riflessione.
Le Carline, in particolare la Carlina acaulis contengono inuline, tannino, resine, un olio essenziale, sali di potassio, calcio e magnesio. Inpltre, posseggono qualità antisettiche simili a quelle della Canfora; soprattutto alla radice sono riconosciuti modesti poteri diuretici, digestivi, purganti e cicatrizzanti, anche se non si deve ignorare la presenza di noiosi effetti collaterali come vomito e diarrea. E' segnalato anche un impiego della polvere di radice contro il mal di denti, la scabbia ed altre malattie della pelle come vesciche piaghe.
In tempi di miseria o di penuria di tabacco, la polvere di radice è stata anche sfruttata nelle sigarette fai da te; sciolta nel vino rosso è stata usata come un comune sudorifero per combattere la febbre e gli attacchi reumatici. Il particolare zucchero di cui è ricca la Carlina risulta digeribile anche dai diabetici.
Le piante appartenenti a questo Genere sono bienni o perenni e si presentano sotto forma di rosette appiattite contro il terreno, oppure con fusto semplice o ramoso.  Le foglie possono essere cartilaginee in alcune specie oppure più sottili e flessibili, pennatifide o dentate e spinose al margine.
I capolini sono formati da fiori tutti tubolari ed ermafroditi, talvolta assai grandi, con squame involucrali esterne erbacee e spinose, mentre quelle interne sono lucide, scariose, disposte a forma di raggio attorno ai fiori e si aprono solamente con il tempo secco.
 

Carlina acanthifolia - Fonte: Wikipedia

Carlina acaulis (VI- IX. Nasce negli aridi sino ai 2300m). Specie molto variabile ha rosetta appiattita sul terreno, foglie raggiate lunghe sino a 30 cm, larghe cm con picciolo distinto, divise in segmenti stretti e dentati, con superficie peloso-sericea e spine appuntite. Il capolino solitario è sessile, largo da 7 a 13 cm con brattee interne bianco argentate alla punta, mentre la parte inferiore è verde o purpurea.
Carlina acanthifolia All (Syn. Carlina utzka Hacq. VII- IX. Nasce nei pendii aridi e sassosi sino ai 1800m). E’ una pianta inconfondibile per la grande rosetta appiattita di foglie lunghe sino a 35 cm, larghe 9 cm. fittamente addensate, lungamente picciolate a larghe lacinie, inegualmente incise e dentate per denti spinosi, ragnatelose su ambo i lati. Il capolino centrale è assai grande, da 7a 15 cm di diam., ha i fiori del disco gialli e squame dei raggio giallo pallido o bianco brillante  
Carlina corymbosa L. (VII- X. Nasce negli aridi sino ai 1300m). Ha fusto ramoso e corimboso, striato, densamente foglioso, alto sino a 70 cm.  Ha foglie coriacee pennato-dentate o lobate con spine gialle; le foglie sono conduplicate, con la pagina superiore piegata a costa. Le inferiori si presentano ristrette in breve picciolo, le superiori abbracciano il fusto che porta capolini solitari di 3-5 cm di diam. all'apice dei rami. Le brattee dell'involucro esterno sono simili alle foglie e le squame dei raggio, sono scariose, patenti, lineari- acute, di colore uniforme, ma porporine sul dorso.  
Carlina vulgaris L. (VI- IX. Nasce nei boschi sino ai 1800m). Ha fusto rossiccio, eretto ramoso e corimboso, con fiocchi e densamente foglioso, alto sino a 50 cm.  Ha foglie coriacee sessili a lamina ovale lanceolata, leggermente arcuate, spinose, le superiori carenate ed abbraccianti. Capolini apicali, solitari di 2-4 cm. con foglie dell'involucro esterno più corte delle squame che sono fini, con piccole spine nerastre sui bordi, color paglierino come le corolle dei fiori centrali.  
Carlina lanata L. (VI- VIII. Nasce nei pascoli aridi sino ai 1200m). Ha fusto eretto, lanoso, ramoso e corimbose alla sommità, foglioso, alto sino a 50 cm. Ha foglie coriacee conduplicate, nella parte bassa più o meno abbraccianti, a lamina ovale lanceolata, con lobi marcati e spinescenti; le superiori abbraccianti. I capolini in genere solitari (o un paio nei rami dicotomi) hanno 2-5 cm di diam. con foglie dell'involucro esterno lanose a spine acute; le squame del raggio, sono porporine come le corolle dei fiori centrali.
 

Carlina vulgaris - Fonte: Wikipedia

Come raccoglierle e coltivarle
Nel giardinaggio, oltre alla Carlina vulgaris  ed alla Carlina corymbosa si può tentare la coltivazione da seme della Carlina acanthifolia (è inutile oltre che dannoso per il patrimonio vegetale tentarne il trapianto).
Queste piante non si dimostrano però di facile coltura anche se il loro aspetto vistosamente decorativo può ripagare delle difficoltà di ambientamento.  

Alfredo Moreschi