martedì 9 aprile 2024

Nel 1960 il Centro Nazionale Prevenzione e Difesa Sociale di Milano organizzava un convegno sul progresso tecnico


La breccia aperta dai dibattiti del post 1955-56 nella spessa coltre dell’ortodossia marxista, non si impose beninteso immediatamente, ma subì attacchi da parte delle correnti interne più legate ad una impostazione classica della teoria sindacale, che subito dopo il 1957 riebbero il sopravvento e che solo la ripresa della conflittualità negli anni Sessanta riuscì a mettere in minoranza.
Nel 1957 così, Silvio Leonardi venne rimosso dal suo incarico alla guida dell’USE, dopo essere entrato in conflitto con la dirigenza del PCI milanese, come descritto da Petrillo: «era uno scossone all’impianto concettuale e alla prassi politica e sindacale, un invito al realismo e alla concretezza [...] che non a caso venne da Milano: non soltanto per il cima generale che vi vigeva, ma per il confronto ravvicinato che vi si stava istituendo fra la tradizione Cgil e la sfida proveniente da un laicato cattolico particolarmente effervescente» <279. La piazza milanese, in cui era in gioco l’egemonia teorica per il sindacato industriale, a contatto diretto con il laboratorio più avanzato del sindacato cattolico CISL costituito dalle ACLI e dalla scuola di Mario Romani, non permetteva eccessive prese di posizione autonome. Quella che Petrillo indica con la rivolta degli “innovatori togliattiani”, tra i quali vi era Leonardi, fallì e Mario Montagnana, segretario della CdL del capoluogo lombardo, si dimostrò solerte nell’attaccare Leonardi e la sua analisi innovatrice, opponendo all’apertura nei confronti della sociologia la più stretta visione dogmatica dello stagnazionismo e della teoria del crollo, inseriti in un capitalismo fatto di grande fabbrica meccanica. e
La breccia, tuttavia, era stata aperta e il movimento operaio intero venne coinvolto dal bisogno di conoscenza e dalla volontà di ricerca. Fu un’altra storica istituzione del movimento operai milanese a richiedere l’opera di Leonardi dopo l’allontanamento dall’USE, l’Istituto Feltrinelli, la cui attività, come ricorda Luciano Cafagna «era imperniata principalmente sulla storia [...] il passaggio a interessi in un campo operativo, come quello dei temi economici correnti, era un mutamento netto» <280. Il fatto di affidare a Leonardi lo studio dello «sviluppo e trasformazione industriale e tecnologica che si stava manifestando in Italia, almeno nel Nord del paese» <281 non era un evento da sottovalutare così come non sarebbe stato pensabile solo tre anni prima il fatto che gli venissero affiancati nel comitato scientifico personaggi come Franco Momigliano, Bruno Trentin, Siro Lombardini, Nino Andreatta, Paolo Sylos Labini, Pietro Gennaro e Piero Bontadini.
Lo stesso anno Leonardi pubblicò un libro che costituì una svolta per le riflessioni che metteva in campo. Il saggio riprendeva ed ampliava le riflessioni esposte al convegno di Roma e si ricollegava al dibattito che all’interno della sinistra vedeva coinvolte figure come Roberto Guiducci ed altri sempre meno disposti ad accettare il dogmatismo e l’ideologia a senso unico imposta dal PCI, ma messa in crisi dopo il 1955 e il 1956. Leonardi affermava come una visione dogmatica che non prendesse in considerazione un’analisi scientifica dei fenomeni sociali potesse portare alla rovina chi si proponeva di difendere i diritti dei lavoratori: «anche ideologie rivoluzionarie possono essere messe in difficoltà quando si sono trasformate in senso dogmatico, cristallizzando interpretazioni di passate situazioni, e quando non vengono utilizzate come metodo per esaminare ed interpretare la realtà nei suoi continui cambiamenti. Ma il nuovo è più forte del vecchio e prima o poi si impone» <282.
Nel momento in cui per Leonardi e la sinistra si apriva una fase di passaggio, il dirigente milanese smentiva ad un tempo Lenin ed i tecnocrati attaccando la pretesa apoliticità di chi al contrario non voleva cedere il controllo sugli strumenti di produzione ma anche le messianiche affermazioni di presa violenta del potere.
Affrontando l’analisi dello sviluppo e degli squilibri in Italia, Leonardi rimaneva dell’idea che dovesse essere lo Stato ad assumersi la responsabilità di pianificare l’industrializzazione: «gli investimenti di automazione perderebbero il carattere che oggi hanno di essere quasi esclusivamente intensivi e diventerebbero largamente estensivi con creazione di nuovi posti di lavoro sia nelle fabbriche automatizzate sia in quelle che producono strumenti ed impianti per le fabbriche stesse» <283. Lo stato soltanto avrebbe garantito il livello di investimenti necessari «a cambiamenti qualitativi e non solo quantitativi del nostro apparato produttivo» <284 al fine di superare il blocco del potere monopolistico e per rendere l’automazione un fenomeno positivo e non di vantaggio per pochi a spese della maggioranza dei lavoratori.
Scrivendo nel 1957 sulla rivista “Ulisse”, Leonardi assumeva il progresso tecnico e l’automazione come fattori positivi di sviluppo, che dovevano rientrare in una prospettiva globale per coglierne la portata: «l’automazione favorirà anche il decentramento della produzione con una maggiore e più organica utilizzazione delle risorse di ogni singolo Paese aiutando a risolvere, dal punto di vista tecnico, problemi oggi gravi e aperti per esempio nel processo di industrializzazione dei Paesi sottosviluppati. Decentramento della produzione e integrazione di maggiori spazi economici [...] tendono all’unico fine di una più omogenea distribuzione delle forze produttive» <285.
Un passaggio, quello aperto da Leonardi ed altri, che, nonostante i tentativi di restaurazione segnò in modo definitivo il dibattito a sinistra, e le cui intuizioni si rivelarono assolutamente pertinenti solo pochi anni dopo.
Nel 1960 il Centro Nazionale Prevenzione e Difesa Sociale di Milano organizzava un convegno sul progresso tecnico. I temi che i convegni organizzati dall’Istituto Gramsci avevano sollevato erano rimasti al centro del dibattito nonostante la chiusura dimostrata da settori non minoritari della sinistra. Il progresso tecnico nel 1960, nel pieno del boom era sotto gli occhi di tutti e iniziava ad essere preso in esame da soggetti diversi, interessati agli effetti sociali che poteva portare.
Silvio Leonardi espose l’analisi dell’industria delle macchine utensili, industria a suo avviso chiave per comprendere lo sviluppo di un’economia. In questa industria si concentravano i risultati dei progressi tecnici raggiunti in tutti i rami industriali e i macchinari prodotti erano al tempo stesso risultato e mezzi di diffusione del progresso tecnico.
La dimensione ridotta dell’industria delle macchine utensili ben si adattava inoltre a descrivere la struttura produttiva italiana, basata su imprese famigliari e piccole aziende che basavano la produzione sulla domanda oscillante e soprattutto sull’esportazione dei propri prodotti, meno richiesti in patria ed erano caratterizzate dallo scarso investimento sulla ricerca.
Leonardi individuava la funzione di questa industria come complementare a quella dei grandi monopoli, che sfruttavano le ridotte dimensioni e la loro capacità di adattarsi alle oscillazioni del mercato per imporre loro ritmi e scadenze, senza continuità di domanda, dal momento che la grande industria italiana si caratterizzava da un impiego diseguale di macchinari moderni.
L’impiego superiore rispetto agli altri paesi industrializzati di macchinari usati in Italia veniva visto come la chiave del capitalismo nostrano per l’estrazione del plusvalore dal lavoro, che si incastrava con l’analisi che abbiamo già visto dei tre livelli di compresenza dell’innovazione tecnologica: «la fase attuale italiana è caratterizzata da un forte contrasto tra un livello tecnico molto avanzato in alcune unità produttive e l’allargamento del parco macchine nazionale soprattutto attraverso un tasso di sostituzione molto basso» <286.
Data la scarsa influenza dei centri di ricerca scientifici, degli aiuti statali ed il conseguente ricorso alle conoscenze dirette, artigianali, al fine di pianificare uno sviluppo che portasse reali benefici ai lavoratori per Leonardi era interessante analizzare il livello potenziale di sviluppo dell’industria nel mercato italiano, «le reali possibilità per l’industria italiana delle macchine utensili di influire sul mercato interno, di favorire la meccanizzazione e un più rapido rinnovamento del parco macchine utensili attraverso una migliore organizzazione della sua prodzuione, una diminuzione dei costi e quindi dei prezzi modificando il rapporto prezzo macchine-prezzo lavoro» <287.
Inoltre Leonardi era consapevole dei limiti che la struttura produttiva italiana poneva ad uno sviluppo dell’industria del macchinario, e quindi ad un salto tecnologico generale: «da una parte la domanda delle aziende più avanzate pone innanzitutto problemi di qualità, dall’altra nelle aziende più arretrate il prezzo marginale della forza lavoro, condizionato dalla permanente alternativa della disoccupazione è ad un livello tale da renderlo economicamente componibile innanzitutto con macchine di bassissimo prezzo e quindi soprattutto usate» <288. Questo per Leonardi il fattore di maggior rischio per i lavoratori italiani che avrebbero dovuto riprendere in mano ed esigere uno sviluppo dell’automazione per conseguire una migliore qualità del lavoro.
In seguito i medesimi concetti furono ampliati nello Studio eseguito per il Centro di studi e ricerche sulla struttura economica italiana Le macchine utensili e la loro industria.
Estendendo l’analisi del macchinismo presentata al convegno del 1956, Leonardi proponeva la teoria che le macchine utensili fossero il prodotto di un’elaborazione sociale e che quindi fossero il frutto di rapporti sociali anche al di fuori della fabbrica: «le macchine utensili possono essere considerate come prodotti di montaggio collettivo, cioè con elementi eterogenei che derivano da settori diversi e che confluiscono in un prodotto estremamente complesso nel quale si sommano esperienze e progressi fatti nei più diversi campi dell’attività umana che l’industria delle macchine utensili fa propri adattandoli a scopi specifici, a loro volta promotori di ulteriori progressi» <289.
Questa industria rappresenta un momento di sintesi tra fabbrica e società e per questo la sua regolazione dovrebbe essere pianificata da organismi pubblici e non lasciata a se stessa. La produzione sociale dell’innovazione applicata alle macchine avrebbe posto il problema di un riequilibrio del costo della forza lavoro. Una società sempre più complessa avrebbe prodotto sempre più macchine ma avrebbe espresso sempre più bisogni, il cui costo sarebbe ricaduto sulla società intera: «si può certo constatare una stretta correlazione tra sviluppo del meccanizzazione e quindi aumento della produttività del lavoro umano e una diminuzione del rapporto tra prezzo del capitale e prezzo del lavoro [...] il prezzo delle macchine diminuisce per l’estensione del progresso tecnico nella produzione di macchine stesse e dei materiali che le compongono, provocando, quindi, una obiettiva diminuzione del loro costo in termini di lavoro, mentre non avviene altrettanto per il prezzo della forza lavoro che deve coprire crescenti bisogni socialmente necessari con componenti di beni materiali e di servizi assai meno soggetti all’influenza del progresso tecnico e quindi con costi relativamente crescenti» <290.
Leonardi, che probabilmente aveva in mente lo sviluppo della provincia di Milano negli anni Cinquanta, effettuava una nuova fuga in avanti rispetto al dibattito in corso. Attraverso l’analisi dell’industria delle macchine utensili affrontava il nodo dello sviluppo del terziario avanzato, e dello sviluppo generale della società, di cui l’industria delle macchine utensili era specchio e motore. Una società per essere competitiva nella produzione di macchine utensili, avrebbe dovuto essere progredita tecnicamente: «la possibilità di coprire con forniture esterne una parte più o meno ampia della macchina dipende dal grado di specializzazione del lavoro sociale, dallo sviluppo della standardizzazione e, quindi, dallo sviluppo dell’ambiente industriale in cui la singola azienda costruttrice opera e dal grado di specializzazione della macchina stessa e quindi dal peso dei pezzi speciali necessari alla sua costruzione» <291.
Se le macchine utensili occupavano «un posto centrale nel processo di meccanizzazione e nello sviluppo della produttività del lavoro umano, che sono, a loro volta, effetto della confluenza di varie e complesse forze economiche e sociali» allora «il processo di meccanizzazione può ritenersi connesso con lo sviluppo della scienza e della tecnica e lo sviluppo della produzione in termini quantitativi e qualitativi» <292. Questo per Leonardi poneva il problema della distribuzione sociale dei benefici derivanti da una produzione che risultava essere sociale.
Impiegando l’esempio della cassetta dei suggerimenti, si mettevano in discussione le modalità con cui si cercava di drenare il portato di conoscenze dirette, decisive nel progresso tecnico più di quanto fossero le ricerche scientifiche: «particolare contributo al progresso tecnico delle macchine utensili è derivato dall’esperienza e dall’osservazione empirica dei fenomeni a livello, per così dire, direttamente operativo o artigianale, quando il contributo stesso è derivato da singoli non direttamente impegnati in lavori di ricerca» <293.
Per Leonardi il nodo da affrontare con la massima urgenza era il superamento delle divisioni e delle differenze tra azienda e azienda, regione e regione, differenze che imponevano il ritmo al lavoro e rendevano le gerarchie elementi di sfruttamento: «il progresso tecnico non si svolge in modo uniforme su tutto il fronte, di volta in volta aperto alle conoscenze scientifiche di base, ma differentemente per i vari prodotti, esso non costituisce inoltre un obiettivo direttamente perseguito dagli imprenditori privati, ma è un effetto indotto dalla ricerca del profitto. Quest’ultima tende a mantenere le situazioni differenziali che sono proprie del progresso tecnico nel suo evolversi e a consolidare nelle singole aziende accentuando le differenze tra le aziende stesse e tra i vari settori dell’industria meccanica» <294.
[NOTE]
279 G. Petrillo, La capitale del miracolo. Sviluppo, lavoro e potere a Milano 1953-1962, Milano, Franco Angeli, 1992.
280 L. Cafagna, La questione settentrionale, cit., p. 4.
281 Ivi, p. 5.
282 S. Leonardi, Progresso tecnico e rapporti di lavoro, Torino, Einaudi, 1957, p. 14.
283 S. Leonardi, Per una politica economica che si prefigga la più larga utilizzazione delle forze produttive in “Critica economica”, n. 5, 1956, p. 35.
284 Ivi, p. 36.
285 S. Leonardi, Programmazione dell’automazione: a livello d’impresa, sul piano nazionale, o internazionale? In “Ulisse”, n. 26, 1957, p. 1201.
286 S. Leonardi, L’industria delle macchine utensili e lo sviluppo dell’economia italiana in CNPDS, Il progresso tecnologico e la società italiana. Effetti economici del progresso tecnologico sull’economia industriale italiana (1938-1958). Vol. II, Milano, Giuffrè, 1961, p. 164.
287 Ivi, p. 170.
288 Ivi, pp. 170-171.
289 S. Leonardi, Le macchine utensili e la loro industria. Alternative tecnologiche allo sviluppo economico, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 38.
290 Ivi, p. 24
291 Ivi, p. 40.
292 Ivi, p. 89.
293 Ibidem.
294 Ivi, p. 94.
Daniele Franco, Dalla Francia all’Italia: impegno politico, inchiesta e transfers culturali alle origini della sociologia del lavoro in Italia, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009