domenica 19 maggio 2024

Città colpite dalla guerra

Milano: Arco della Pace all'inizio di Corso Sempione

Alla tipologia della manmade atopia, ovvero all’invivibilità creata per opera dell’uomo, si può accostare la maggior parte delle ambientazioni della guerra: sono luoghi destituiti dal loro passato, dalla loro primaria funzionalità, spazi privati dalla loro essenza: l’asfalto delle strade è «qua e là sfondato, sdrucito dappertutto» (QP [Una questione privata di Beppe Fenoglio] 4), i portici dei posti di guardia sono «semidiroccati» (QP 55), le baracche «miserabili e sporche» (AVM [L’Agnese va a morire di Renata Viganò] 123), le case dei villaggi e delle città «bucate, frantumate, corrose dalle bombe e dai colpi d’artiglieria» (AVM 206), le abitazioni ridotte a «spettri di case» (UN [Uomini e no di Elio Vittorini] 23), con delle finestre «semiaccecate da assiti» (QP 84) oppure «slabbrate e quasi tutte mascherate da assiti fradici per le intemperie» (QP 64). In alcuni casi, i romanzi presuppongono un paesaggio presentato nella sua stiuation faite, a cui spetta il ruolo di mettere in evidenza la distruzione bellica sin dall’inizio della narrazione, altre volte, invece, l’instancabile traduzione dei luoghi in spazi sprovvisti della loro identità, in paesaggi rasi al suolo e riproposti solamente nella loro qualità materiale ormai inutile, viene illustrati in presa diretta. Per esempio, la Milano vittoriniana è già dall’apertura del romanzo interamente costruita sull’estetica della lacuna: "(...) il deserto era come non era mai stato in nessun luogo del mondo. Non era come in Africa, nemmeno come in Australia, non era né di sabbia, né di pietre, e tuttavia era com’è in tutto il mondo. Era com’è anche in mezzo a una camera. Un uomo entra. Ed entra nel deserto. Enne 2 vide ch’era il deserto, lo attraversò, e pensava a Berta che non abitava a Milano, andò fino in fondo al corso Sempione dov’era la sua casa". (UN 21)
Analogamente, il protagonista fenogliano, nel suo percorso per le Langhe, soffermandosi a studiare la zona per mettere in atto con successo il piano della sua azione, nell’osservazione dei paesi constata come tratto principale del nuovo paesaggio bellico il vuoto di quella “terra di nessuno” installatasi all’interno dei luoghi abitati: "Da un promontorio della collina Milton guardava giù a Santo Stefano. Il grosso paese giaceva deserto e muto, sebbene già interamente sveglio, come dichiaravano i comignoli che fumavano bianco e denso. Deserto era pure il lungo rettilineo che collegava il paese alla stazione ferroviaria, e vuota, dalla parte opposta, la diritta strada per Canelli, tutta visibile fin oltre il ponte metallico, fino allo spigolo della collina che copriva Canelli. (…) Non vedeva nessuno, non una vecchia né un bambino, alle finestre o sui ballatoi posteriori delle case sopraelevate che da quella parte chiudevano la piazza maggiore del paese". (QP 75-77)
La città vecchia [di Sanremo] lasciata alle spalle da parte di Pin, invece, anche se ugualmente soggetta a uno svuotamento, subisce una trasformazione graduale: "Pin sente la terra vibrare sotto il rombo e la minaccia delle tonnellate di bombe appese che trasmigrano sopra la sua testa. La Città Vecchia in quel momento si sta svuotando e la povera gente s’accalca nella fanghiglia della galleria. (…) Pin vede il Dritto che s’è messo su un’altura e guarda nella gola della valle con il binocolo. Lo raggiunge. (…) Mi fai vedere anche a me, poi, Dritto? - dice Pin. Te’, - fa il Dritto, e gli passa il binocolo. Nella confusione di colori delle lenti, a poco a poco appare la cresta delle ultime montagne prima del mare e un grande fumo biancastro che s’alza. Altri tonfi, laggiù: il bombardamento continua". (SNR [Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino]) Se all’inizio della vicenda, la città vecchia conserva una sua dinamicità nell’«eco di richiami e d’insulti» (SNR 3), nei raggi di sole che si incrociano con i «cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali» (SNR 3), nella riapparizione finale si profila come un luogo assente, come una «città proibita». L’ultimo capitolo de "Il Sentiero" si apre con Pin «seduto sulla cresta della montagna, solo» (SNR 139), mentre contempla le «vallate, fin giù nel fondo dove scorrono neri fiumi» (SNR 139) e le «lunghe nuvole (che) cancellano i paesi spersi e gli alberi» (SNR 139). Ogni idea di ritorno al passato del carruggio gli viene negata proprio a causa dell’inesistenza dei luoghi del passato: l’osteria è svuotata a causa della retata durante la quale tutti sono stati deportati o uccisi, la casa è disabitata perché la sorella si è trasferita all’hotel occupato dai tedeschi, mentre il vicolo «è deserto, come quando lui è venuto», con delle impannate delle botteghe chiuse e «a ridosso dei muri, antischegge di tavole e sacchi di terra» (SNR 144): "Pin è triste. (…) Pin vorrebbe essere con Pietromagro e riaprire la bottega nel carruggio. Ma il carruggio è deserto ormai, tutti sono scappati o prigionieri, o morti, e sua sorella, quella scimmia, va coi capitani". (SNR 132)
Il decadimento di ogni forma umana dell’abitare viene spesso illustrato anche al momento stesso in cui accade, cancellando non solo il passato collettivo di un popolo, ma anche quello privato dei singoli personaggi, sprovvisti in un attimo dalla propria dimora. Con una funzione formativa, quasi di rito di passaggio, sembra proporsi la perdita della dimora di Agnese del tutto distrutta dal fuoco e ridotta a un «mucchio di macerie nere» (AVM 176), distruggendo ogni residuo della vita della protagonista prima della sua definitiva entrata nel mondo della Resistenza. Walter, invece, uno dei compagni che operano tra le valli di Comacchio, diviene testimone diretto della perdita del proprio “luogo”: "Un mucchio di macerie tra l’orto e il frutteto. Dove erano state le belle camere e la grande cucina, il forno e il portico, non c’era più niente: in pezzi anche le pietre. Una linea di meno nel paesaggio, un vuoto che lo rendeva strano, sconosciuto, un posto cambiato. E un’altra famiglia che due ore prima aveva tante cose, adesso se ne andava a cercare un ricovero per la notte, con le mani vuote e il vestito che portava addosso; e contentarsi se erano tutti salvi". (AVM 116)
Tra le ambientazioni più importanti di questa manmade atopia, però, si collocano i luoghi più “stratificati” sul piano diacronico, come i luoghi pubblici delle città colpite dalla guerra, e soprattutto le loro piazze, irriconoscibili nel nuovo aspetto e, di frequente, dotate di una precisa funzionalità dal punto di vista del messaggio ideologico alla base dei romanzi. Il panorama bellico esposto nella sua invivibilità diviene al contempo significativo nella sua visibilità, poiché il guardare diventa imperativo, «un metodo d’indagine, un modo nuovo di guardare attorno a sé, di vedere i fatti e gli uomini e le cose non come proiezione di una particolare ideologia, ma come stimolo, semmai a una revisione di valori, a un approfondimento di temi, a una ulteriore indagine conoscitiva» (Melanco, 2005, p. 64). In quest’ottica si propone lo spazio di Largo Augusto di "Uomini e no", in cui l’egemonia della modalità visiva sulle altre percezioni sensoriali si coglie già dall’univoca direzione in cui si muove la folla, «tutta in un senso, tutta verso la piazza dov’è il monumento delle Cinque Giornate» (UN 82) e, soprattutto dall’insistenza sullo sguardo di Berta, divenuta protagonista del romanzo a partire dal LXII capitolo: "Scese, e camminava; guardava da ogni parte, e anche si voltava per guardare. (...) vide davanti a sé degli uomini fermi, con dei berretti strani e lunghi bastoni neri tenuti sulle braccia, come ne aveva veduti il giorno ch’era stata con Enne 2 in bicicletta, sul corso Sempione. (...) Scese allora dal marciapiede, si mise con la folla, passò davanti a quegli uomini, e guardava che cosa avessero che luccicava al sole sui berretti. Vide che avevano delle teste di morto in metallo bianco, il teschio con le tibie incrociate; ma vide anche che sul marciapiede, tra quegli uomini e altri più in fondo, stavano allineati come dei mucchietti di cenci, qualche mucchietto bianco, e qualche mucchietto invece scuro, di pantaloni, giacche, capotti: panni usati. Che cos’era? (...) Avrebbe voluto saperlo da qualcuno della folla, non vederlo da sé, e invece vide da sé, e vide che erano morti, cinque uomini allineati morti sul marciapiede (…)". (UN 93-94)
Ana Stefanovska, Lo spazio narrativo del neorealismo italiano, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2019

lunedì 13 maggio 2024

La morte del Duce lasciò i servizi segreti americani oltremodo insoddisfatti e delusi per essersi lasciati sfuggire l’ambita preda


E’ noto che i due partigiani a guardia della coppia [Benito Mussolono e Claretta Petacci] durante la notte tra il 27 e il 28 aprile 1945 in casa De Maria, furono Giuseppe Frangi, alias “Lino”, e Gugliemo Cantoni, nome in codice “Sandrino”. Tra le persone interrogate dal Mocarski non appare “Lino” che, d’altro canto, moriva agli inizi di maggio del 1945 e, dunque, assai difficilmente poteva essere stato interrogato. Pertanto, il referente per le indagini dei servizi segreti americani ben poteva essere “Sandrino Menefrego” <136, il quale effettivamente figura tra le persone interrogate il 12 giugno 1945, ancorché, come noto, quest’ultimo fornisse versioni differenti della morte del duce <137. “Sandrino” resta, in definitiva, un personaggio assai indecifrabile che s’ipotizza abbia lasciato in eredità un memoriale sulla morte del Duce che, però, non è stato mai rinvenuto e il cui contenuto, prima di morire, avrebbe svelato a una persona anch’essa restata nell’oblio … A meno di non ritenere che l’uno dei due carcerieri interrogato dal Mocarski fosse non il Guglielmo Cantoni ma altri <138.
Sappiamo, inoltre, che “Sandrino” non fu l’unico custode della coppia a casa De Maria nella notte tra il 27 e il 28 aprile ’45. E, infatti, non è trascurabile il ruolo assunto in tale torbida vicenda dal partigiano “Lino”, il quale, nel rapporto dell’OSS, dapprima, figura tra i presenti all’esecuzione del Duce, giacché riferirà di aver sentito la Petacci prima di morire rivolgere a Mussolini quella singolare domanda sopra citata, e, poi, nella seconda stesura, non è direttamente e specificamente nominato né tra i membri della scorta di Mussolini, né tra i suoi omicidi (identificati - si ricordi - nell’uomo da Milano in vesti civili, un partigiano e, infine, l’ignoto autore di due colpi di grazia indicato quale «ufficiale della locale unità partigiana»). Ivi è, però, riportata la medesima domanda rivolta dalla Petacci a Mussolini ma, questa volta, riferita dal capo partigiano proprio all’ufficiale partigiano autore dei due colpi di grazia. In altri termini, se la logica può essere invocata ad ausilio in tutta questa complessa vicenda: o l’elemento costante in entrambi i capitoli sull’esecuzione di Mussolini e della Petacci è irrilevante o, invece, il partigiano “Lino” e quell’«ufficiale partigiano» che esplose almeno due colpi contro il Duce furono la stessa persona che Mocarski, per qualche intuibile ragione, volle poi escludere dalla scena dell’esecuzione.
Va, comunque, rammentato che sul ruolo di “Lino” (al secolo Giuseppe Frangi) nei fatti di Dongo e in ciò che ne scaturì, molto si è scritto e anche insinuato <139. E’ un fatto che il Frangi morì in circostanze misteriose il 5 maggio 1945: fu rinvenuto cadavere sul greto del fiume Albano che sfocia nel centro di Dongo. Il partigiano “Bill” ha narrato che fu il “Neri” a trovare lì il suo cadavere intorno alle ore 2,00 del mattino. "La presenza di uno dei personaggi più misteriosi della vicenda di Dongo [il “Neri”] induce a supporre che la morte del “Lino” abbia qualcosa a che vedere con i fatti di Bonzanigo dove “Lino” insieme a “Menefrego” fece la guardia a Mussolini e Claretta Petacci in casa degli zii e assistette alla morte del dittatore e dell’amante. Indubbiamente “Lino” non è stato ucciso per essere stato di guardia a Mussolini. Bisogna quindi cercare nei fatti precedenti e successivi alle vicende di Bonzanigo la causa della morte o meglio dell’uccisione di Lino" <140. Secondo quanto riferito da “Bill”, “Lino” avrebbe voluto avvisare il “Neri” del pericolo su di lui incombente, non dovuto, però, alla vecchia condanna a morte inflittagli dal partito ma al fatto che aveva disobbedito all’ordine di uccidere Mussolini, avendo, invece, aderito al piano di Cadorna - Sardagna - Cademartori che ne prevedeva la consegna agli Alleati: questo, dunque, sarebbe stato il movente dell’assassinio del “Neri” e, di riflesso, anche dello stesso “Lino”che si accingeva a rivelare il disegno criminoso ordito ai suoi danni <141.
É, comunque, un fatto che le circostanze della morte del partigiano “Lino” non furono mai chiarite: si disse che Giuseppe Frangi, alias “Lino”, fosse stato dilaniato dallo scoppio fortuito del suo stesso fucile, ma c’è chi ha mormorato che fosse stato ucciso da mani fratricide. Effettivamente la sentenza della sezione istruttoria della Corte d’Appello di Milano n.772/49, resa nel processo contro Moretti e altri, citava il delitto di omicidio in danno di Giuseppe Frangi in Dongo il 5 maggio 1945. E’, altresì, noto che al partigiano “Lino” furono decretati dai dirigenti del PCI funerali grandiosi che, per molti, sarebbero stati giustificati da notevoli meriti storici <142. Su questa celebrazione post mortem, la fonte più importante è di certo costituita dagli archivi del Pci: una nota dattiloscritta in calce a una copia del manifesto funebre in onore di Siro Rosi <143, alias il comandante “Lino”, così recitava: «Il comandante “Lino”, contrariamente a quanto da questi riferito, cioè che al momento della cattura del Duce, si trovava da tutt’altra parte e abbastanza lontano, aveva, al contrario, partecipato alla cattura del Duce e ovviamente a tutto quanto ne seguì. La prova sul ruolo avuto dal comandante Lino negli ultimi giorni del fascismo, la “tessera” mancante dell’intricato mosaico sui fatti di Dongo doveva emergere solo dopo la morte del leggendario rivoluzionario dall’occhio di vetro» <144. Il ruolo del partigiano “Lino” nelle ultime convulse ore della vita del Duce non è, dunque seriamente, trascurabile, chiunque egli fosse stato. Piuttosto, la questione da porsi è la seguente: se si possa dedurre un tale decisivo ruolo dal mero fatto che “Lino”, come molti altri in quel periodo, fosse morto in circostanze misteriose o anche dalla sin troppo ovvia circostanza che altri protagonisti di quelle intricate vicende abbiano riportato le dichiarazioni da lui rese in quel concitato contesto. O se, forse, non sia più corretto, dal punto di vista storico, oltre che logico, limitarsi a registrare un “sintomo” dell’importanza del personaggio e, dunque, almeno un indizio del ruolo di prim’ordine da lui assunto nella fine del Duce, non, di certo, costretto entro i limiti del mero carceriere, nella peculiare circostanza secondo la quale il PCI, che non ne riconobbe in vita i meriti, poi gli tributò in morte grandiosi onori?
Conclusioni
La vicenda della condanna e messa a morte di Benito Mussolini è ancora avvolta nella nebbia e, probabilmente, cela molti segreti che non saranno mai disvelati … Come si è chiarito in premessa, si condivide l’impostazione metodologica di Renzo De Felice, secondo il quale "la morte non è stata la cosa più importante della vita di Mussolini!", ma ciò non esime lo storico (o chi ambisca a contribuire alla ricerca della verità) dalla ricostruzione dei fatti ovvero, avuto riguardo al lavoro che è stato svolto da coloro che lo hanno preceduto, che, nel caso di specie, non è stato certo di lieve entità, dall’approfondire, correggere, chiarire la loro ricostruzione dei fatti. E ciò è quanto sommessamente ci si è proposto di fare, al fine di lasciar emergere finalmente la verità storica dalla saga romanzesca, anche se forse si è deluso chi si aspettava di scoprire chi abbia premuto il fatidico grilletto …
In compenso, alcune verità ci sembrano ormai acquisite e imprescindibili per una seria ricerca storica sul tema:
- il viaggio di Mussolini lungo la sponda occidentale del lago di Como non aveva come destinazione la Svizzera, dove Mussolini più volte aveva dichiarato di non volere fuggire, ma la Valtellina, eletto a ridotto sicuro in un estremo atto di difesa o, più probabilmente, di resistenza in attesa dell’arrivo degli Alleati ormai prossimi, cui arrendersi dignitosamente nella consapevolezza che tutto era perduto e che i suoi connazionali non gli avrebbero permesso di difendersi innanzi al tribunale della storia;
- Benito Mussolini fu condannato a morte dal “Decreto sui poteri giurisdizionali” del CLNAI del 25 aprile;
- appresa la notizia dell’arresto del Duce, nella seduta notturna del 27 aprile, il Comitato Insurrezionale del CLNAI decise, in esecuzione del decreto sopra detto, la messa in morte del Duce e ne incaricò i comunisti Audisio e Lampredi, i quali, però, dovevano agire in tutta fretta, non escludendo la fucilazione sul posto, per evitare che il Duce cadesse nelle mani degli Alleati che lo avevano espressamente reclamato. Il CVL, organo militare del CLNAI, ratificava la decisione del Comitato Insurrezionale;
- la missione milanese non trovò tutti d’accordo. Innanzitutto il CLN di Como vantava la consegna del Duce (tanto che esiste delega firmata dai suoi membri al delegato alleato comandante Dessy a trattare la resa con i fascisti a Como a condizioni che includevano la consegna di Mussolini agli Alleati); il comandante della Brigata garibaldina a Dongo “Pedro” non fu favorevole all’esecuzione sommaria di Benito Mussolini e temporeggiò ma, alla fine, capitolò di fronte a "‹ordini superiori" e, infine, il “Capitano Neri”, condannato a morte dal Pci e reintegrato nella Resistenza grazie alla mediazione di “Pedro”, fu, di certo, contrario ai metodi stalinisti del partito …
- Mussolini, detenuto dal pomeriggio del 27 aprile, in un viaggio apparentemente cervellotico - da Dongo a Germasino e, dopo qualche ora, a Moltrasio nei pressi di Como e, poi, nuovamente verso Nord sino a Bonzanigo di Mezzegra - ma progettato con la collaborazione del “Neri”, che obbediva agli ordini di “Pedro” e non del partito, oramai vittima degli ordini e contrordini dei suoi carcerieri, fu fucilato a Giulino di Mezzegra nel pomeriggio del 28 aprile ’45 per opera di un’agguerrita spedizione giunta da Milano, i cui protagonisti furono i partigiani comunisti “Valerio”, “Guido”, “Pietro” e, molto probabilmente, “Lino”…
La morte del Duce lasciò i servizi segreti americani, che operarono, anche in tal caso, scoordinati e gli uni all’insaputa degli altri, oltremodo insoddisfatti e delusi per essersi lasciati sfuggire l’ambita preda, tanto che essi dovettero attivarsi a posteriori per scoprire le verità che ora sono emerse, mentre non si può dire parimenti di quelli inglesi che, bene irreggimentati e assai più disciplinati, non solo conferirono ampio mandato ai rappresentanti istituzionali della Resistenza ma li invitarono a “risolvere” la faccenda al più presto possibile. Pertanto, la fine del Duce condensa in sé e, nel contempo, rappresenta un caso eclatante della dicotomia interalleata che connotò la politica anglo-americana verso l’Italia, di cui nei capitoli precedenti si è ampiamente trattato.
[NOTE]
136 A proposito di “Sandrino Menefrego”, Mocarski ha affermato che costui era uno dei vecchi partigiani di “Pedro” a differenza di “Lino” che, invece, faceva parte di un distaccamento diverso.
137 Cantoni avrebbe confidato a “Bill”: «Beh, qualcosa di vero c’è» e ancora: «Di più non posso dirti, Bill; tu capisci, vero?». “Sandrino”, sentito come teste al processo di Padova, prima dichiarò di non avere assistito alla fucilazione dei due ma solo che «quando Mussolini e la Petacci uscirono dalla casa De Maria li accompagnava Moretti e un altro». Successivamente “Sandrino”, richiamato a deporre, affermò di essere rimasto di guardia ai cadaveri ma non anche di aver assistito alla loro fucilazione, poiché quando Mussolini fu prelevato da casa de Maria, egli era andato a fare un «pisolino». Per completezza, va ricordato che “Sandrino” nel 1956 riferì a Giorgio Pisanò: «non è andata come la raccontano. Ma io non posso dirti niente di più. Sono legato al segreto». Prima di morire costui avrebbe affidato il detto segreto a Giuseppe Giulini, sindaco di Gera Lario, il quale però morì nel 1992, prima che lo stesso deputato e giornalista potesse parlargli. Pisanò ha scritto di aver saputo aliunde che Giulini aveva detto che il memoriale di “Sandrino” sarebbe stato reso pubblico solo dopo cinquant’anni ma, in deroga a questo vincolo, aveva deciso che, se
fosse morto prima, il documento avrebbe dovuto essere pubblicato. Giulini aveva anche riferito che né Moretti né Lampredi avevano ucciso Mussolini. Pisanò intervistò anche Savina Cantoni, moglie di “Sandrino”, la quale, superando la paura di “quelli là”, accettò di parlare l’8 febbraio 1996 e, riportando quanto detto lei dal marito, affermò che Mussolini e la Petacci non erano stati uccisi nel pomeriggio del 28 aprile. La mattina di quel giorno, infatti, “Sandrino” avrebbe notato Moretti e altri due partigiani, da lui mai visti prima, salire le scale di casa De Maria. I tre gli avrebbero ordinato di restare sulla porta ma quello avrebbe udito: «vi portiamo a Dongo per fucilarvi» e ancora «anzi, vi uccidiamo qui». La stessa poi parlò di alcuni colpi di arma da fuoco e dichiarò che un’altra persona, di cui non svelò l’identità, aveva ricevuto le confidenze del marito. G. Pisanò, Gli ultimi cinque secondi di Mussolini cit., pp. 104 e ss.
138 A tal proposito, si rammenti che il commissario “Piero”, alias Orfeo Landini, riferì al giornalista Bernini: «di guardia a tutela da curiosi ponemmo all’imbocco dello stesso viottolo i due partigiani dell’Oltrepò che avevano scortato Mordini» e, dunque, pare che tali due partigiani sostituirono “Lino” e “Sandrino”.
139 Di recente, il pediatra Alberto Bertotto, autore dell’originale tesi del suicidio del Duce mediante ingestione di una capsula di cianuro inseritagli in un dente da un medico tedesco, ha, poi, affermato che il detto gesto sarebbe stato solo tentato giacché Mussolini in agonia sarebbe stato finito dal partigiano “Lino”. A tal proposito, l’autore giudica determinante il "curriculum", a dir poco sanguinario del personaggio, tanto da essere definito il “Diavolo Rosso” dai suoi conterranei; nonché le grandiose onoranze funebri riservategli dal Pci, circostanza sulla quale, come sopra detto, già il De Felice si era soffermato. Inoltre, richiama la testimonianza (de relato) di Carradori, attendente del Duce, il quale riporta la dichiarazione resagli dal farneticante partigiano nelle circostanze del suo arresto a Dongo: "Con questo mitra ho ucciso il boia e la sua amante cinque colpi a lui e tre a lei.". Carradori ne venne colpito a tal punto da osservare che 'l’esecutore materiale del duplice delitto doveva essere sicuramente lui il diavolo rosso', anche se non è escluso che si fosse lasciato condizionare dalle voci che correvano sul “Lino”. Infine, sono giudicate affidabili le osservazioni proposte da vari pubblicisti quali il Borzicchi e l'Uboldi e altre testimonianze quale quella del sindaco comunista di Dongo eletto dopo la liberazione, che al 28 aprile era ancora il Giuseppe Rubini, i quali, però, non fanno altro che ribadire l’argomento dell’importanza delle onoranze funebri dispensategli. Dulcis in fundo, a suffragio della tesi, l’autore allegava tre documenti inviatigli da un tale Giuseppe Turconi, un
ultraottantenne compaesano del partigiano “Lino”, i quali tuttavia riportavano dichiarazioni rese da altri: - il primo proveniente da tale Arrigoni Martino, partigiano della Formazione Gramsci della 52ª Brigata Garibaldi, datato 1 febbraio 1946, indicava nel "Lino" uno dei partigiani della Formazione Gramsci della 52ª Brigata Garibaldi che avrebbe partecipato alla cattura di Mussolini e dei gerarchi fascisti; il secondo era il certificato di morte dello stesso Giuseppe Frangi nome di battaglia "Lino", con dichiarazione di tale Tenente Arno Bosisio , che confermava l’incidente con esito mortale occorsogli e, nel contempo, ne celebrava il ruolo nella partecipazione alla "cattura del duce" e alla "esecuzione dei 16 ministri"; il terzo era il racconto fatto dallo stesso Turconi circa una dichiarazione resa pubblicamente da Oreste Gementi (“Riccardo”), durante le esequie del “Lino”, nella quale questi aveva celebrato il valore del partigiano caduto e, nell'occasione, aveva accusato lo stesso Movimento partigiano dell’uccisione. ('mani fratricide'). Last but non least, si riportava la dichiarazione del partigiano Urbano Lazzaro, che l'autore ha definito in altra occasione un "fanfarone poco credibile", ancora una volta de relato perché riporta l’affermazione che "Lino", ai primi di maggio '45 e all’indomani della pubblicazione su “L’Unità “ della prima versione ufficiale di “Valerio”, gli avrebbe confidato: "Ti dirò io quello che è successo veramente a Bonzanigo. Adesso non posso", chiamando a propria conferma il “Neri” e la “Gianna” che, come noto, sarebbero poi morti in circostanze misteriose nei giorni immediatamente successivi alla morte del primo, anch’essa avvolta dal mistero. A. Bertotto, E’ stato il pluriomicida Giuseppe Frangi (Lino) a uccidere Mussolini?, reperibile per via telematica su www.Ladestra.it
140 U. Lazzaro, Dongo Mezzo secolo di menzogne, Oscar Mondadori, Milano 1997, p. 161.
141 U. Lazzaro, Ivi, p. 169.
142 F. Borzicchi afferma: «c’è quasi da pensare che a stringere quel mitra furono altri che Valerio e Moretti, forse addirittura uno dei guardiani del duce, Giuseppe Frangi». F. Borzicchi, Dongo. L’ultima autoblinda, Ciarrapico, Milano 1984.
143 Eraldo Vannozzi ha affermato che il vero nome di “Lino” non era Giuseppe Frangi, ma Siro Rosi. Questi, grossetano, già noto in Spagna, dove aveva combattuto nel 1937 con il nome di battaglia “il cugino di Barontini”, dal 1944 partecipò alla lotta partigiana nell’Italia del nord e fu nominato ispettore regionale del Comando Generale delle Brigate Garibaldi; prese parte alla cattura di Mussolini e arrestò alcuni gerarchi; morì il 14 marzo 1987. Archivio Privato Famiglia Rosi reperibile su www.isgrec.it.
144 De Felice aveva annotato in calce a tale copia proprio il riferimento a “Lino”. ACS, Archivi di famiglie e di persone, Fondo De Felice Renzo, B. 10, F. 47. Inoltre, nelle sue Lettere a Tomat, Giorgio Amendola si diffondeva a parlare di Domenico Tomat, alias “Valerio” e Siro Rosi, nome in codice “Lino” , che durante la seconda guerra mondiale operarono nelle Brigate Garibaldi nella zona di Chiavenna, il primo come colonnello con la qualifica di ispettore e l’altro quale colonnello ispettore. G. Amendola, Lettere a Milano, di cui uno stralcio è reperibile in ACS, Archivi di famiglie e di persone, Fondo De Felice Renzo, B.10, F. 50.
Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012

“Quattro giorni dopo le truppe tedesche capitolarono e Mussolini fu catturato vicino a Dongo mentre tentava di fuggire in Svizzera e fucilato il 28 aprile a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, per ordine del Cln”.
(Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, La conoscenza storica. Il Novecento, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2000, p.260).
“Mussolini, in fuga verso la Svizzera, fu arrestato da una colonna partigiana nei pressi di Dongo sul lago di Como e fucilato insieme ad altri gerarchi della Repubblica sociale”.
(Luigi Mascilli Migliorini, Le domande della storia. Corso diretto da Giuseppe Galasso, Profilo storico, vol. 3, Il Novecento, 3ª edizione, Bompiani, Milano 2001, p.212)
[...] “Il 25 aprile i partigiani erano insorti, riuscendo a liberare le grandi città del Nord prima che vi giungessero gli Alleati. Mussolini cercò di intavolare trattative con il CLNAI attraverso il cardinale di Milano, Ildefonso Schuster, che durante il ventennio aveva mostrato aperte simpatie per il fascismo ma, dopo 1'8 settembre, era entrato in contatto con il CLNAI. Le trattative non ebbero successo e Mussolini fuggì verso il confine svizzero, dove fu catturato dai partigiani e fucilato il 28 aprile”.
(Aurelio Lepre, La storia. Dalla fine dell'Ottocento a oggi. Volume terzo. Dalla fine dell'Ottocento a oggi , 2a edizione [1ª edizione: 1999], Zanichelli, Bologna 2004, p.321).
“Il Clnai proclamò per il 25 aprile l'insurrezione generale e i partigiani liberarono molte città e paesi prima dell'arrivo degli alleati. La guerra in Europa ebbe così fine: Mussolini, catturato dai partigiani, venne giustiziato il 28 aprile”.
(Luca Baldissara, Stefano Battilossi, La costruzione del presente. Vol. 3. Il Novecento, 1ª edizione, RCS Libri, Sansoni per la scuola, Milano 2005, p.217).
“Mussolini, Catturato dai partigiani a Dongo, sul lago di Como, mentre probabilmente tentava di fuggire in Svizzera, venne fucilato il 28 aprile insieme ad altri gerarchi”.
(Marco Fossati, Giorgio Luppi, Emilio Zanette, Passato presente. Vol. 3. Il Novecento e il mondo contemporaneo, Paravia Bruno Mondadori editori, Torino 2006, p.252).
“Mentre cercava di fuggire in Germania, Mussolini venne arrestato dai partigiani e fucilato”.
(Mario Trombino, Maurizio Villani, Storiamondo. Corso di storia per il triennio, 1ª edizione, Edizioni il capitello, Torino 2008, p.238)
“Il 28 aprile Mussolini fu catturato dai partigiani e fucilato. Il 4 maggio le forze tedesche presenti in Italia firmarono l'atto di resa”.
(Giovanni De Luna, Marco Meriggi, Giuseppe Albertoni, La storia al presente 3. Il mondo contemporaneo, Paravia, Torino 2008, p.371)
Alcuni manuali riportano un accenno a piazzale Loreto:
“Mussolini, dopo aver vagheggiato un'ultima resistenza in Valtellina, tenta di fuggire da soldato tedesco, verso la Svizzera, con una colonna germanica. Riconosciuto dai partigiani, è giustiziato il 28 aprile; trasportato ormai cadavere a Milano, è esposto per alcune ore, appeso per i piedi, a piazzale Loreto”.
(Carlo Cartiglia, Nella storia. Il Novecento. Loescher, Torino 1997, p.191).
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

lunedì 6 maggio 2024

L’obiettivo dei magistrati milanesi era quello di saldare le loro inchieste con quelle di Palermo


Mannoia raccontava che Riina, Calò e altri uomini d’onore di spicco intrattenevano rapporti di intimità con Ciancimino, e che nelle mani della mafia vi era «quasi tutto l’ambiente politico di Palermo». Faceva luce anche su un incontro avvenuto nella primavera del 1980, in una villetta di proprietà del boss Inzerillo alla periferia di Palermo, dove, a un certo punto, era sopraggiunta un’Alfa Romeo blindata di colore scuro e con i vetri scuri con a bordo i cugini Salvo e Andreotti. Alla riunione aveva preso parte anche Lima, già sul posto. Giunto da Trapani, nel cui aeroporto si era recato a bordo di un aereo privato affittato dagli esattori, Andreotti avrebbe chiesto a Bontate chiarimenti sull’omicidio Mattarella. Il boss, diffidando l’onorevole dall’adottare interventi o leggi speciali, poiché altrimenti si sarebbero verificati altri fatti gravissimi, lo aveva minacciato così: "In Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la DC dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare soltanto sui voti del nord, dove votano tutti comunista, accattatevi questi".
Interrogato sull’omicidio, Mannoia aggiungeva quindi che Lima era stato ucciso perché «non era più persona affidabile». Per quel che sapeva e che avrebbe potuto rivelare, era «una specie di mina vagante» che «non poteva campare in eterno». <1028 Anche Di Maggio faceva nuove dichiarazioni spontanee, il 16 aprile. Riferiva che, in veste di autista, nel settembre 1987 aveva accompagnato Riina a un incontro nell’abitazione palermitana di Ignazio Salvo, cui avevano partecipato anche Andreotti e Lima. Nella circostanza avrebbe visto Riina salutarli con un bacio sulla guancia. <1029
La Procura presentava perciò una seconda integrazione all’autorizzazione a procedere contro il senatore a vita, anche se - come hanno rivelato Caselli e Lo Forte - a partire da questa circostanza le acque del processo si sarebbero intorbidite notevolmente. Il “bacio” scatenava infatti i complottisti, mentre il fatto che Di Maggio avesse contribuito all’arresto di Riina e al crollo della cosca di San Giuseppe Jato da quel momento non contava più nulla. Si parlava di una “baggianata” cui solo quei “gonzi” che ipotizzavano la mafiosità di Andreotti potevano credere, mentre una sapiente regia ne faceva la chiave di volta per screditare l’intero processo. <1030 Per i magistrati, invece, Riina aveva compreso che il democristiano era un maestro del doppio gioco e che qualcosa nel suo atteggiamento era mutato. Gli voleva dunque far capire che ormai non poteva più prendere le distanze, che doveva ricordare che erano e avrebbero continuato a essere «la stessa cosa». E il boss glielo ricordava a modo suo, nel più tipico dei linguaggi mafiosi, baciandolo, assieme a Lima e a Ignazio Salvo, davanti al suo autista. Il messaggio era destinato tanto ad Andreotti, cui Riina ricordava che non gli si sentiva affatto inferiore, che a Di Maggio, in quel momento rappresentante del “popolo” mafioso. <1031 Mai prima di allora - ha scritto Santino senza nascondere perplessità verso questa raffigurazione - la mafia si era proiettata così in alto, come una «struttura ordinamentale» strettamente collegata, da pari a pari o addirittura con ruolo di supremazia o di comando, a un uomo di Stato e di potere così longevo. <1032
La Procura - secondo Lupo - non solo ricostruiva il fatto sulla base delle testimonianze di un pentito dalla dubbia credibilità, ma faceva propria l’interpretazione dell’episodio proposta dalla leadership mafiosa, che se ne serviva per auto-accreditarsi agli occhi dei gregari. <1033 La Giunta delle autorizzazioni e delle immunità del Senato, ad ogni modo, il 6 maggio 1993 dava parere positivo alla richiesta di procedere contro Andreotti, escludendo la sussistenza di fumus persecutionis nei suoi confronti. Su richiesta dello stesso senatore a vita, il 13 maggio, il Senato concedeva l’autorizzazione. I PM Lo Forte, Natoli e Scarpinato formulavano quindi la richiesta di rinvio a giudizio il 21 maggio 1994, poi disposta dal GIP Agostino Gristina il 2 marzo 1995.
3. Il processo Andreotti
A partire dall’avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa e dalla relativa autorizzazione a procedere, passando per l’inizio del processo, il 26 settembre 1995, fino all’assoluzione in primo grado, il 23 ottobre 1999, la vicenda giudiziaria di Andreotti si intrecciava alla situazione politica italiana. La sua evoluzione era strettamente legata alla fine di Mani pulite e all’ingresso in scena di Berlusconi, che con i suoi canali Fininvest scatenava una violenta campagna di delegittimazione della magistratura (in particolare di quella milanese e di quella palermitana, che indagavano entrambe sui suoi trascorsi) che, col tempo, avrebbe mutato l’orientamento di buona parte dell’opinione pubblica. Anche grazie agli errori e alle debolezze della sinistra, il berlusconismo strumentalizzava la parola d’ordine del garantismo per precipitare il Paese in una vera e propria guerra, senza esclusione di colpi, tra quella che si presentava come la nuova classe politica e un potere giudiziario che - era la sua tesi - minacciava gli interessi economici, personali e le stesse prerogative del presidente del Consiglio. <1034 Già alla fine del 1999, i magistrati di Tangentopoli e dell’antimafia non sarebbero più stati considerati benemeriti della Repubblica, ma “toghe rosse”. Le loro inchieste non avrebbero più rappresentato il doveroso esercizio dell’azione penale per il ripristino della legalità, ma “complotti politici”, mentre i politici della prima Repubblica non sarebbero più stati “ladri, corrotti e collusi con la mafia”, ma “vittime e perseguitati dalla giustizia”. <1035
Nel 1993, tuttavia, i giudici milanesi si erano convinti di aver disegnato la mappa della corruzione dell’intero Paese. La “Tangentopoli siciliana” si sarebbe sviluppata sotto la regia di due successivi protagonisti: prima Siino, forte dei suoi legami con Lima e con Cosa nostra; poi Filippo Salamone, un imprenditore agrigentino che, in seguito all’arresto del primo, era diventato il nuovo punto di riferimento del cosiddetto "tavulinu". <1036 Era emerso che la «mente» della Sirap, la società regionale attraverso la quale politici, mafiosi e imprenditori avevano divorato centinaia di miliardi, era proprio Salvo Lima, che attraverso la sua mediazione aveva suggellato il patto fra Riina e il “comitato di affari”. Che fosse il «manovratore occulto» di mafia e tangenti lo dimostravano due anni di intercettazioni telefoniche, piene delle sue conversazioni con altri esponenti politici, fino ad allora solo sfiorati dall’indagine, e gli stessi amministratori della Sirap. Costituita dopo una lunga serie di riunioni, nel 1983, proprio nella sua segreteria, da qui Lima decideva a chi e in che modo dovevano essere assegnati gli appalti. Ufficialmente l’azienda serviva a sollecitare investimenti ed insediamenti industriali, artigianali e commerciali nel territorio siciliano, ma ben presto, secondo i giudici, l’«artificiosa costruzione giuridica» si era trasformata in un luogo di sperpero e spartizione delle ingenti risorse finanziarie, a tutto vantaggio di politici, amministratori, professionisti ed esponenti della criminalità organizzata. Di interesse rilevante, al riguardo, erano le dichiarazioni di Vincenzo Lodigiani e Claudio De Eccher, uno imprenditore lombardo e l’altro friulano, che dopo esser stati arrestati descrivevano il sistema della gestione lottizzatoria degli appalti imperniato sulle tangenti. <1037 Nelle tasche di Lima erano finiti anche i miliardi della maxitangente Enimont. Una prima conferma veniva da Cirino Pomicino, che nel novembre del 1993 raccontava a Di Pietro tutta una serie di rivelazioni sulla spartizione dei 150 miliardi pagati dal finanziere Raoul Gardini per conto della famiglia Ferruzzi (azionista di maggioranza della Montedison, polo della chimica), perché si arrivasse alla conclusione di un accordo (che non andava in porto) per la fusione con l’ENI. Attraverso Sergio Cusani,  l’intermediario del gruppo, la tangente passava per buona parte, circa 90 miliardi, sotto forma di titoli di Stato. Rendendo ancor più cupa la vicenda, l’ex ministro del Bilancio sorprendeva quindi i magistrati, che gliene contestavano 3 miliardi e mezzo, confessandone più di cinque. In una deposizione in cui Tangentopoli si sposava praticamente con il “manuale Cencelli”, per sconfinare nei misteri di Palermo, Pomicino spiegava che, nel corso di un convegno DC a Milano, nel novembre 1991, aveva consegnato 1 miliardo e mezzo a Lima, come contributo per la campagna elettorale della corrente andreottiana. <1038 Se Gardini non si fosse ucciso, il 23 luglio 1993, e se Lima fosse stato ancora in vita - ha raccontato Di Pietro in una recente intervista pubblicata da L’Espresso - l’europarlamentare democristiano sarebbe quindi sicuramente stato arrestato con l’accusa di associazione mafiosa. Secondo l’ex PM, infatti, Gardini sapeva che, andando a deporre quella mattina al Palazzo di Giustizia di Milano, avrebbe dovuto fare il nome di Lima. Mani pulite è quindi «una storia che andrebbe riscritta», perché, in un binario parallelo al processo sulla trattativa Stato-mafia, nasceva in sostanza dall’inchieste di Falcone e dal rapporto del ROS che, una volta finito nelle mani di Giammanco, a Palermo, sarebbe poi rimasto chiuso in cassaforte. L’obiettivo dei magistrati milanesi, dunque, non era solamente quello di arrivare a Craxi, come tuttora, spesso, ci si limita a raccontare, bensì quello di saldare le loro inchieste con quelle di Palermo e avere gli elementi probatori sufficienti per chiedere al Parlamento l’arresto di Andreotti. Se Gardini non fosse morto, in definitiva, il processo Cusani sarebbe diventato «il processo Mafia-appalti, Andreotti compreso». <1039 I magistrati palermitani, contestualmente, nello stesso 1993 erano convinti di aver raccolto le prove che Andreotti avesse nascosto i suoi rapporti con Cosa nostra e che avesse perfino suggellato l’isolamento prima, l’esecuzione poi, di Dalla Chiesa e Falcone. La sostanza dell’accusa emergeva in numerosi riscontri e testimonianze, che, secondo la Procura, spazzavano via ogni dubbio sull’intreccio dei rapporti che il senatore si ostinava a negare. Che l’esponente democristiano mentisse era dimostrato dall’inverosimiglianza di alcune sue affermazioni. Sui rapporti con Lima, ad esempio, sosteneva di non aver mai avuto «un minimo indizio che vi fosse qualche collegamento da parte sua con persone che non dovessero essere frequentate». Teneva lo stesso atteggiamento davanti alle dichiarazioni di Evangelisti, che aveva raccontato che Lima gli aveva confidato che Buscetta era un suo vecchio amico: né Lima né il suo fidato braccio destro, dichiarava Andreotti, gli avevano mai detto una cosa simile. Evangelisti veniva scaricato pure per le sue dichiarazioni sull’omicidio Mattarella, quando aveva raccontato che Lima gli aveva detto che, «quando si fanno dei patti, vanno mantenuti». Andreotti sosteneva la propria totale innocenza non solo da qualsiasi complicità, ma anche da ogni, per quanto occasionale, frequentazione mafiosa. Metteva quindi in discussione la legittimità dell’accusa, attribuendogli finalità politiche miranti a dimostrare l’esistenza «di una sorta di reato collettivo, compiuto dalla Democrazia cristiana siciliana» e da quella nazionale. A suo sostegno interveniva Berlusconi, secondo il quale il processo al maggior esponente politico dell’ultimo ventennio rappresentava l’ennesimo misfatto da parte della magistratura nonché il segno dell’autolesionistica calunnia italiana utile solamente a danneggiare il Paese agli occhi del mondo. <1040
Per i giudici, però, il senatore mentiva su tutta la linea.
[NOTE]
1028 AP, Senato della Repubblica, Leg. XI, Documenti, Doc. IV n. 102, Domanda di autorizzazione a procedere contro il senatore Giulio Andreotti, 27 marzo 1993, pp. 15-25.
1029 Ivi, Seconda integrazione alla domanda di autorizzazione a procedere contro il senatore Giulio Andreotti, 20 aprile 1993, pp. 8-9.
1030 G. C. Caselli - G. Lo Forte, La verità sul processo Andreotti, cit., pp. 34-42.
1031 La vera storia d’Italia, cit., pp. 761-768.
1032 U. Santino, Guida al processo Andreotti, in «Città d’utopia», novembre 1995, p. 4.
1033 S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p. 47. Durante il programma di protezione dei testimoni, tra il 1995 e 1997, Di Maggio tornò nella sua città natale e cominciò a farsi vendetta contro gli uomini del clan di Giovanni Brusca. Quando fu arrestato nuovamente, il 14 ottobre 1997, lo scandalo fu tale che avrebbe finito per danneggiare il programma di aiuto testimoni e il processo contro Andreotti.
1034 G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Donzelli, Roma 2009, p. 205. Sul berlusconismo ci si limita a citare Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 2013.
1035 G. Galli, Il prezzo della democrazia. La carriera politica di Giulio Andreotti, Kaos, Milano 2003, pp. 251-253.
1036 Gianni Barbacetto - Peter Gomez - M. Travaglio, Mani pulite 25 anni dopo. Per chi non c’era, per chi ha dimenticato, per chi ha ancora le mani sporche, PaperFirst, Roma 2018, pp. 283-284.
1037 Francesco Viviano, Era Salvo Lima il re di “mafiopoli”, in «la Repubblica», 28 maggio 1993.
1038 Gianluca Di Feo, Pomicino: diedi a Lima titoli avuti da Sama, «Corriere della Sera», 26 novembre 1993. Sull’espressione giornalistica, che allude all’assegnazione dei ruoli politico-governativi agli esponenti dei vari partiti in base al loro peso, cfr. R. Venditti, Il manuale Cencelli. Il prontuario della lottizzazione democristiana: un documento sulla gestione del potere, Editori riuniti, Roma 1981.
1039 S. Turco (colloquio con A. Di Pietro), Vi racconto la vera storia di Mani Pulite, in «L’Espresso», 19 gennaio 2020.
1040 G. Andreotti, Cosa loro, cit., p. 5.
Vincenzo Cassarà, Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica 1928-1992, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2019