giovedì 30 ottobre 2025

Prigionieri di guerra alleati in Italia durante la primavera-estate del 1943


Tuttavia, la fascinazione provocata dai prigionieri [alleati] scaturiva anche da altro, da qualcosa di molto più concreto: «ai prigionieri di Mariano Comense, a cura della Croce Rossa Internazionale, v[eniva] distribuito inappuntabilmente, ogni settimana, un pacco del peso di kg. 5 circa contenente condimenti, cibarie e generi di conforto di ogni qualità non escluso un pacchetto di the e moltissimi di sigarette, circostanza questa che genera[va] discussioni fra i residenti di Mariano Comense i quali afferma[va]no di non avere essi tanta abbondanza».
Anche Absalom attesta reazioni simili per i distaccamenti dell’area di Monigo dove, «vedendo che [gli Alleati ]consumavano tre razioni al giorno (il pasto al campo, quello al lavoro e i pacchi della Croce Rossa), i contadini e i pastori delle montagne li consideravano “prigionieri in vacanza” che “entravano, uscivano e se ne andavano a spasso come gli pareva”». <575
Invidia e, ovviamente, contatti inevitabili. Per questa fraternizzazione non c’erano soluzioni possibili, sia per la naturalità dei rapporti tra esseri umani, sia per le condizioni di quell’Italia sconfitta e affamata che faceva i conti nei pacchi dei suoi nemici prigionieri. Ai cittadini di Mariano Comense, sosteneva il prefetto, bisognava ricordare che «i prigionieri ciprioti colà accantonati [era]no nemici e non ospiti», e la stessa cosa andava fatta, probabilmente, con in contadini e i pastori di Monigo.
Tuttavia, era difficile, al contempo, negare che quei nemici stessero vincendo la guerra.
Rapporti di eccessiva familiarità tra prigionieri e civili, anche donne, erano attestati per diverse parti d’Italia, anche se a volte si colorivano degli elementi, addirittura “favolistici” prodotti dalla propaganda e introiettati nell’immaginario, a volte in modo così duraturo da essere ancora parte del discorso odierno sull’esperienza di guerra. Ad esempio, nel giugno 1943, gli informatori relazionavano sulle voci che giravano e che dicevano che "nella provincia di Pavia, come anche nel Novarese, presta[va]no servizio agricolo presso le varie fattorie, numerosi prigionieri di guerra anglo-americani, in prevalenza australiani [sic]. Sarebbero [stati] trattati benissimo, con alimentazione migliore di quella dei nostri cittadini! Nelle varie fattorie, poi, essi ricev[eva]no cure e facilitazioni pietistiche dai nostri agricoltori, in stridente contrasto al trattamento, spesso inumano, che v[eniva] invece riservato ai nostri prigionieri di guerra […]. I nostri agricoltori [avrebbero] larghegg[iato] nel regalare loro pane bianco e cibarie. Come anche aderi[va]no a barattare con i «prigionieri» <576 inglesi oggetti e cibarie che a loro arriva[va]no regolarmente in pacchi di cinque chili, cioè: saponette, cacao, cioccolatto [sic], sigarette, lamette da rasoio ecc. Gli accantonamenti di questi prigionieri [era]no in apposite fattorie vicine, requisite, cintate da filo spinato, ma situate in posizione molto salubre. [Era] avvenuto […] che in relazione ai lavori stagionali di mietitura, in qualche fattoria dove esiste[va] l’accantonamento di detti «prigionieri» [era]no state alloggiate (in apposito angolo dello stesso stabile) numerose mondine provenienti dalle varie provincie [sic] vicine. [Era]no tutte ragazze giovanissime sui venti anni e gli australiani [era]no dei bei pezzi di giovanotti che da parecchi mesi non vedevano più donne! Così di notte questi [uscivano] dai propri cameroni per incrociarsi in quelli dove alloggia[va]no le ragazze… e gli effetti di ciò si [sarebbero] v[isti] alle varie scadenze dei prescritti «nove mesi»!" <577
Ancora, nell’agosto successivo la prefettura di Udine riferiva delle indagini svolte dai carabinieri a Torviscosa, dove si diceva che i civili fornissero ai prigionieri addetti ai lavori uova, vino e altri generi di conforto, avendo instaurato con loro rapporti più che informali: si era accertata, in particolare, la relazione amorosa tra un sergente boero e una ragazza del posto, con il beneplacito della famiglia di lei. Soprattutto in merito a questa relazione, i carabinieri avevano escluso «ogni forma di intelligenza a scopo spionistico», addebitando il tutto a «una corrente di simpatia da parte della Sabidussi - la ragazza - verso il sergente prigioniero Visser». <578 Fatto sta che il fascio triestino segnalava con preoccupazione l’«eccessiva libertà» concessa ai prigionieri nei rapporti con i civili, il fiorente mercato nero tra le due parti e, soprattutto, il fatto che «tali relazioni, sia pure di semplice carattere economico, suscita[va]no molti commenti e fa[cevan]o chiaramente capire come la propaganda nemica us[asse] tutti i mezzi per abbattere il morale delle nostre popolazioni in modo da far risaltare la ricchezza e la generosità dei nemici contro la nostra povertà». <579
In realtà la documentazione relativa ai sempre più frequenti casi di fraternizzazione, nella primavera-estate del 1943, è anche il segnale molto chiaro del crollo della compattezza del fronte interno (sempre che questa non fosse un mito del regime fin dall’inizio del conflitto). L’avvicinamento al nemico, la palese violazione delle norme relative alla borsa nera, le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei soldati alleati prigionieri, erano tutti sintomi di un rapido precipitare della situazione, causato innanzitutto dalla fallimentare gestione della guerra, che si dimostrava persa, materialmente prima che politicamente. A questi fenomeni non erano estranei gli stessi appartenenti alle forze armate nazionali - a partire dalle guardie dei campi - che non di rado, in quei mesi, presero a dare palesi dimostrazioni di vicinanza (quando non addirittura di complicità) con i soldati nemici, come evidenziavano sdegnati i funzionari del regime. Nel luglio 1943, ad esempio, alcuni marinai che avevano scambiato con i prigionieri in transito nella stazione di Varano di Ancona del pane per delle sigarette, furono portati a Bari e messi a disposizione di quel comando, probabilmente a fini punitivi. <580 Qualche giorno prima, episodi simili si erano avuti alle stazioni di S. Benedetto del Tronto, Cupra Marittima e Ascoli Piceno. A S. Benedetto del Tronto, durante una sosta del treno che trasportava circa 1.000 soldati nemici in 27 vagoni, i prigionieri avevano lanciato all’esterno alcune scatolette di cibo, presumibilmente non come offerta ma come provocazione nei confronti della popolazione e del personale ferroviario presente. Contestualmente, presso il ristoro militare della stazione erano state acquistate, pare dai militari italiani della scorta, «27 bottiglie di birra et 15 spumante e 4 scatole antipasto», pagate solo in parte ma rivendute ai prigionieri a prezzi molto più elevati del normale. Un manovale ferroviario era stato irriso perché indossava zoccoli di legno - «ecco come vi ha ridotti quel vigliacco di Mussolini, fucilatelo», gli avrebbero detto i prigionieri - e il lancio delle scatolette dal treno in partenza sarebbe stato accompagnato da frasi quali «mangiate morti di fame porci italiani, vigliacchi avete perso tutta l’Africa fra due mesi ve ne accorgerete». Nel frattempo, la scorta assisteva passivamente, quando non dimostrava «eccessiva dimestichezza» con i prigionieri. <581 Ad Ascoli si era ripetuto il lancio delle scatolette: il capostazione le aveva recuperate, rilanciandole nel treno, venendo quindi insultato dai prigionieri con improperi simili a quelli profferiti a S. Benedetto. Un soldato avrebbe anche masticato un biglietto da 5 lire, poi sputato sul viso di una donna. I militari di scorta, tra i quali un capitano e un tenente, avevano ignorato le sollecitazioni a intervenire, limitandosi ad assistere e trattando «i prigionieri con eccessiva confidenza e familiarità, scambiandosi perfino bevande ed altri generi». <582
Episodi come questi fanno intravedere fenomeni di alterità, se non di vera e propria frattura, tra organismi dello Stato: da un lato vi era l’apparato repressivo composto da prefetti, polizia e informatori dell’OVRA, dall’altro le forze armate e soprattutto la loro base gerarchica, composta nella stragrande maggioranza di richiamati e militarizzati, prime pedine inviate in guerra e da essa travolte, e dunque tra i primi ad allontanarsi dal fascismo e da quella che, erroneamente ma talvolta in maniera inconsapevole, veniva considerata la “sua” guerra. Il primo fronte di questa frattura intestina era quindi rappresentato da figure come quelle dei prefetti, che relazionavano al capo della polizia circa gli episodi avvenuti nelle Marche, raccomandando punizioni esemplari per i soldati delle scorte che, «mentre la Patria in armi compi[va] supremi sforzi di volontà e di sacrificio», si erano dimostrati «di una incoscienza senza pari», al punto da non sentire «neppure il dovere di difendere la dignità della divisa che indossa[va]no». <583 O dallo stesso capo della polizia che, dal suo canto, scriveva al gen. Sorice, sottosegretario al ministero della Guerra, raccontandogli gli episodi marchigiani e commentando che «se [era] vero e non si fucila[va] questa gente, sar[ebbe stato] bene andarcene a spasso». <584 Il secondo fronte era quello, appunto, dei militari di scorta e delle sentinelle dei campi, sempre più lontane dallo Stato e sempre più vicine, con il passare dei mesi, ai prigionieri che sorvegliavano. Indosso ad alcuni di questi ultimi furono rinvenuti, nell’aprile 1943, gli indirizzi di militari italiani di ogni grado, e tale rinvenimento fu interpretato, probabilmente a ragione, come un segnale della «riprovevole e dannosa familiarità o dimestichezza tra il personale dei campi di concentramento ed i pg.». <585
Una frattura insanabile, dunque, tra due parti dello Stato. Al centro, l’abisso in cui era precipitato il paese, mentre il peggio doveva ancora venire. La strange alliance <586 tra prigionieri di guerra e civili italiani che sarebbe scattata, da lì a qualche settimana, con l’armistizio - una forma di solidarietà nata quasi naturalmente tra persone che si riconobbero come simili e tesero spontaneamente all’aiuto reciproco - ebbe senza dubbio parte della sua origine ai bordi dei campi di prigionia e nei distaccamenti di lavoro. Lo dimostra, tra i tanti esempi, ciò che accadde dopo l’8 settembre al campo di Mortara, che stava per cadere nelle mani dei tedeschi. L’ufficiale italiano che lo comandava aveva però già preparato i propri prigionieri, che furono pronti a raggiungere le fattorie dove avevano lavorato fino a pochi giorni prima, e a trovarvi riparo e aiuto. <587 Come attesta Absalom, la fuga armistiziale di molti degli alleati impiegati nei distaccamenti di lavoro settentrionali fu organizzata e spesso personalmente guidata proprio da comandanti e sentinelle italiani. <588 Quella forma di resistenza, civile e non solo, non nasceva dal nulla.
[NOTE]
575 Absalom, L’alleanza inattesa, p. 352. Lo studioso aggiunge: «Questo quadro quasi idilliaco è confermato da un’altra testimonianza ufficiosa: […] il memoriale del campo PG 103/6, scritto da Arthur Douglas, raffigura, per lo più attraverso schizzi e vignette, una vita abbastanza spensierata, trascorsa tentando di sottrarsi al lavoro e prendendo in giro le guardie italiane» (ivi, pp. 352-353).
576 Tra virgolette nel testo, qui e di seguito.
577 ACS, MI, DGPS, A5G, II GM, b. 118, f. 59, Nota anonima stilata a Roma il 25 giugno 1943. Il prefetto di Novara smentì tutte le dicerie: Ivi, il prefetto di Novara Ballero, «Prigionieri di guerra in provincia. Trattamento alimentare e rapporti con mondine del luogo», nota al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 30 luglio 1943.
578  Ivi, il prefetto di Udine U. Mazzolani, «Rapporti fra prigionieri di guerra inglesi e popolazione», relazione al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 18 agosto 1943. Tra le prove del rapporto tra la ragazza e il prigioniero vi erano un biglietto amoroso, una fotografia e, soprattutto, un disco con l’incisione del suono di fisarmonica e di una nenia in boero prodotte da Visser e incise da Sabidussi.
579 Ivi, PNF-Direttorio Nazionale, Scorza, «Segnalazione. Rapporti tra prigionieri inglesi e popolazione», nota al capo della polizia Chierici, 8 maggio 1943.
580 Ivi, il prefetto di Ancona F. Scassellati Sforzolini, «Incidenti verificatisi fra militari italiani e prigionieri di guerra inglesi e americani», nota al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 12 luglio 1943.
581 Ivi, Commissariato di PS di Ancona, vicequestore A. Ayroldi, «Incidente tra il personale ferroviario e prigionieri di guerra di transito S. Benedetto del Tronto», nota al MI-DGPS e Div. Polizia frontiera e trasporti, 30 giugno 1943. Ayroldi indagò su questo e sugli altri «fatti incresciosissimi», e sostenne che essi fossero «in parte provocati dagli elementi preposti alla vigilanza ed alla scorta dei prigionieri, ed in parte determinati dal totale assenteismo ed incomprensione della scorta stessa». Tali eventi avevano provocato nei presenti, a suo dire, «una vera demoralizzazione e commenti e critiche nelle forme più varie e più spinte»: Ivi, Id., «Trasporto prigionieri di guerra», relazione al MI-DGPS e Div. Polizia frontiera e trasporti, 1° luglio 1943. Una versione diversa di tale relazione è conservata nello stesso fascicolo e riporta il timbro «visto dal Duce».
582 Ivi, il prefetto di Ascoli Piceno G. Broise, «S. Benedetto del Tronto. Transito prigionieri di guerra», nota al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 3 luglio 1943. A Cupra Marittima un soldato e un prigioniero erano stati visti passeggiare insieme, e il primo aveva appoggiato «confidenzialmente una mano sulla spalla» del secondo (ibidem).
583 Ivi, minuta a mano, su carta intestata del prefetto di Ancona Scassellati Sforzolini, a Chierici. Non è dato sapere se la lettera fu poi trasmessa. Il prefetto suggeriva di utilizzare, per le scorte, «più idonei robusti nuclei di autentici squadristi».
584 Ivi, Lettera di Chierici al gen. Sorice, 1° luglio 1943. Qualche giorno dopo, l’ufficio prigionieri dello SMRE emanò una circolare che ricordava le «Norme» per il trasferimento dei prigionieri, per ovviare a «le seguenti principali manchevolezze: superficialità delle perquisizioni alle quali ven[iva]no sottoposti i pg. prima del trasferimento; rilassatezza e trascuratezza del personale di scorta […]; scarsa efficienza del materiale rotabile impiegato e mancata adozione nelle stazioni di adeguate misure di ordine»: AUSSME, M7, b. 3131, f. 1, SMRE-UPG, Manca, «Norme per trasferimento di pg., perquisizioni, personale di scorta, materiale ferroviario», nota allo SMRE-Direzione superiore trasporti e ad altri, 12 agosto 1943.
585 AUSSME, N1-11, b. 1243, DS dello SMRE-UPG-Segr., mesi di marzo-aprile 1943, all. 143, Manca, «Nominativi e recapiti di militari addetti in campi di concentramento in possesso di pg.», 19 aprile 1943. L’ufficio prigionieri dello SMRE ordinò ai comandi dipendenti di comunicare agli addetti ai campi che in nessun caso tali recapiti dovevano essere resi disponibili ai prigionieri, che potevano usarli «come attendibile riferimento a pretesi maltrattamenti subiti dai prigionieri», oppure «per munire agenti al soldo nemico, che dovessero agire nel Regno, di falsi documenti che, per loro riferimento a connazionali realmente esistenti, sarebbero [stati] con maggiore difficoltà identificabili», o ancora essere «indicati quali mittenti nella spedizione di opuscoli sovversivi o di propaganda antinazionale clandestinamente introdotti nel Regno».
586 L’espressione fu utilizzata da Noel Charles in un discorso ai coadiuvanti tenuto a Roma nel maggio 1946, così come riferito da Absalom, che l’ha utilizzata per il titolo del suo libro A Strange Alliance, tradotto in italiano vent’anni dopo con il titolo L’alleanza inattesa: si veda, in questa edizione, a p. 11.
587 TNA, TS 26/95, Brig. Venable, Director of PW Sub Commission, «Conduct. General Massena», rapporto al DPW, 15 novembre 1943.
588 Absalom, L’alleanza inattesa, p. 177 e passim.
Isabella Insolvibile, I prigionieri alleati in Italia. 1940-1943, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno accademico 2019-2020