mercoledì 25 gennaio 2023

Il partito nuovo togliattiano, dunque, si presentava come un partito di massa con una vocazione specificamente nazionale


Il primo decennio che affronteremo è quello più critico e forse il più importante per il Partito comunista. Gli anni di questo periodo furono densi di eventi fondamentali, tanto che in effetti si potrebbe pensare a un'ulteriore segmentazione in due parti: prima e dopo il 1948, come suggeriscono ad esempio Martinelli e Gozzini, i due storici che hanno ripreso la monumentale opera di Spriano sulla storia del Pci (Martinelli 1995; Gozzini & Martinelli 1998). Il contesto nazionale è quello della ricostruzione del paese dopo il ventennio fascista e la guerra, e in tale ambito anche il partito si sottopose ad una epocale opera di rifondazione il cui principale artefice fu, indubbiamente, Palmiro Togliatti. Sono gli anni dello stalinismo e del mito dell'Urss, ma anche del radicamento sociale e culturale del Pci, che nel giro di pochi anni - guidato dalla strategia della “via italiana al socialismo” - si affermò come il più grande partito comunista del mondo occidentale.
La data del 25 aprile 1945 si impone quasi naturalmente come spartiacque ed inizio dell'arco storico che vogliamo prendere in considerazione, anche se - per quanto riguarda la storia del Pci nello specifico - il momento decisivo per la definizione della nuova identità del partito risaliva in effetti ad un anno prima, in corrispondenza della cosiddetta “svolta di Salerno”. Fino ad allora, infatti, il Pci era rimasto un partito di quadri con poche migliaia di aderenti, collegato fin dall'origine all'Unione Sovietica tramite la partecipazione al Comintern e operante in clandestinità dalla promulgazione delle leggi eccezionali del 1926. Dopo il crollo del fascismo, esso assunse un ruolo di crescente importanza all'interno della Resistenza, affermandosi come forza trainante sul piano politico-militare e cominciando quindi ad espandersi a livello organizzativo, fino a raggiungere, alla fine del '44, il mezzo milione di iscritti - di cui 90.000 nelle regioni ancora occupate (Ghini 1982). In questo quadro, le nuove direttive per il partito che Togliatti espose dopo il suo rientro a Napoli il 27 marzo 1944 preannunciavano, appunto, una svolta epocale: il Pci si preparava a diventare un partito “nuovo”, pronto ad abbandonare qualsiasi obiettivo di conquista violenta del potere e a collaborare con le altre formazioni politiche alla guerra di liberazione per edificare infine un'«Italia democratica e progressiva» (Togliatti in Spriano 1975, pag. 389).
Il partito nuovo togliattiano, dunque, si presentava come un partito di massa con una vocazione specificamente nazionale, il cui fine di lungo periodo era quello di creare una società socialista per vie democratiche, tramite alleanze ed accordi politici con gli altri partiti, in particolare il Partito socialista e la Democrazia cristiana. L'adesione dei militanti, come poi fu sancito dallo statuto approvato al V congresso, cominciò ad essere approvata sulla base della semplice accettazione del programma politico, «indipendentemente dalla razza, fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche» (Martinelli 1982, pag.68): fu un passaggio fondamentale, testimone del processo di laicizzazione intrapreso dal Pci e che avrebbe favorito il grande afflusso di nuovi iscritti arrivati dopo la Liberazione. Infatti, dal '44 al '46 il numero di tesserati quadruplicò, arrivando a superare i due milioni. Si trattò di un incremento enorme che pose evidentemente una serie di problemi urgenti ai dirigenti comunisti, primo fra tutti la trasformazione di questa “folla” - come venne definita in quel periodo da Longo (in Martinelli 1995, pag. 19) - in un'organizzazione articolata, efficiente e politicamente preparata.
Inoltre, il Pci doveva essere inserito a pieno titolo nella vita democratica del paese, eliminando qualsiasi residuo delle tendenze insurrezionalistiche ancora presenti in alcune frange. Accanto alla creazione di strutture in grado di orientare e raccogliere gli iscritti fu dunque necessaria un'azione ad un livello più astratto che riuscisse a rendere omogeneo il partito anche dal punto di vista culturale. Questo processo fu condotto, come rileva Guido Liguori, a partire dalla costruzione di un passato comune, che definisse l'identità dei comunisti italiani:
«[Vi era] la necessità di dare un passato al Pci, a un partito in pochi mesi giunto da cinque o seimila militanti del luglio 1943 al milione e settecentomila iscritti del dicembre 1945, con tutti i problemi insiti nel passaggio da partito di quadri a partito di massa, senza una tradizione storica e teorica unificante. Accanto a ciò, la necessità di ribadire la peculiarità del comunismo italiano» (Liguori 1996, pag.30).
Venne quindi intrapresa una grande operazione di educazione e “nazionalizzazione” delle masse comuniste - condizione indispensabile per la realizzazione della cosiddetta via italiana al socialismo - che passava attraverso l'elaborazione di una storia condivisa ed originale rispetto a quella del movimento internazionale a cui il partito rimaneva legato. Da questo momento in poi, dunque, azione culturale e azione politica proseguirono affiancate come parti egualmente importanti di uno stesso progetto, come potremo osservare analizzando le tappe principali di questo percorso (cfr. Gundle 1995).
In effetti inizialmente, subito dopo la Liberazione, il cosiddetto “lavoro culturale” era concepito essenzialmente in termini di propaganda (Martinelli 1995) e dedicato alla diffusione delle posizioni politiche del partito e dei testi fondamentali su cui era basata la sua ideologia. Il Pci si fece quindi “partito editore” (Betti 1989) e cominciò un'intensa attività di pubblicazione per supplire alle esigenze di formazione della base: vennero inaugurate collane come 'La piccola biblioteca marxista', poi sostituita da 'I classici del marxismo' - destinate a rendere “popolare” la dottrina di riferimento - e soprattutto fu potenziato il sistema della stampa comunista che si ampliò a comprendere, oltre alle quattro edizioni locali de L'Unità, una vasta scelta di periodici e riviste differenziati nei contenuti e nella forma a seconda dei destinatari (Gundle 1995; Martinelli 1995). Furono proprio queste riviste, in particolare quelle dirette agli strati popolari del partito - come Il Calendario del Popolo, Vie Nuove o Noi Donne - a costituire il veicolo principale per la divulgazione dei principi del marxismo e della storia d'Italia tra la base secondo l'impostazione pedagogica che in questo momento era predominante nell'approccio del Pci alla dimensione culturale (Bellassai 2000).
Lo stesso spirito, unito alla necessità di formare in breve tempo una fascia di quadri di livello basso ed intermedio, guidò l'apertura delle scuole di partito (Boarelli 2007) e dei corsi nelle sezioni: dal 1945 al 1950 il numero di corsi complessivamente tenuti fu di 2.010, per un totale di 58.634 allievi (Ghini 1982, pag.248).
L'opera di diffusione del marxismo fu quindi perseguita in questi primi anni come una priorità politico-istituzionale e rappresentò uno degli elementi di raccordo più forti tra il Pci e il movimento comunista internazionale. Tuttavia, a fianco di questo lato sicuramente essenziale della politica culturale del partito, si trovava anche, come abbiamo detto, la volontà di costruire un'identità specificamente nazionale per le masse di nuovi militanti, oltre ad un'attenzione particolare al rapporto con gli intellettuali che portò il Pci ad allontanarsi dal settarismo più rigido ed ortodosso:
«In questo senso, la cultura del “partito nuovo” è nello stesso tempo il sensibilissimo termometro che registra su un terreno determinato gli effetti delle scelte politiche concrete e dei vincoli organizzativi e ideologici, così come, inversamente, il fattore che ci permette di comprendere - per la molteplicità di livelli e la possibilità di unificare correnti e tradizioni diverse - la capacità del Pci di contemperare le istanze ideologiche di fondo con l'adesione alla realtà culturale del paese, e la sua resistenza a forme eccessive di chiusura e monolitismo» (Martinelli 1995, pag.296).
Questa doppia valenza della dimensione culturale si rivelava, ad esempio, nella forma che presero le feste di partito (Ridolfi 1997). Già dal 1945 il Pci cominciò ad organizzare un calendario rituale che prevedeva una serie di occasioni di aggregazione, all'interno delle quali le attività di svago e socialità si affiancavano alla propaganda politica e all'autoaffermazione simbolica del partito. Queste feste vennero però spesso sovrapposte ai preesistenti riti festivi popolari e folclorici (Bertolotti 1991) considerati uno strumento eccezionale di penetrazione del consenso, in modo molto simile a quanto aveva fatto il regime fascista prima della guerra. Tuttavia, mentre il fascismo aveva posto l'accento sulle differenze regionali, la festa comunista ambiva invece «a ricondurre la pluralità delle storie territoriali ad un comune spirito di italianità e patriottismo» (Ridolfi 1997, pag. 101). Infatti, soprattutto nei primi anni dopo la guerra, le feste furono associate ad alcune date fondamentali, che, se da un lato erano tese a rafforzare l'identità “di parte” comunista tramite la costruzione di una memoria collettiva - ad esempio con la celebrazione della fondazione del Pci il 21 gennaio e della Rivoluzione sovietica il 7 novembre - dall'altro si trovavano invece in diretta competizione con il calendario “sacro” della nazione, che proprio in quegli anni si cercava di affermare.
È il caso del 25 aprile, la data che più di ogni altra avrebbe dovuto rappresentare l'idea di unità nazionale, fornendo un correlativo simbolico e commemorativo a quel “paradigma antifascista” (Baldassarre 1986) che costituiva la base della legittimazione del nuovo Stato costituzionale. Di fronte al tentativo debole e fallimentare da parte della classe politica dirigente di costruire intorno a questo fulcro rituale una vera pedagogia patriottica ed unitaria, si consolidarono invece le «ritualità “di parte”, che aspiravano ormai ad uno spazio sovralocale, con la prefigurazione di un'identità nazionale polarizzata e l'emergere dei richiami simbolico-rituali delle diverse “Italie” politiche» (Ridolfi 1997, pag. 82).
Queste divisioni sarebbero diventate ancora più profonde, poi, dopo la fine dell'alleanza antifascista: nel 1955, in occasione del decimo anniversario della Liberazione, il Consiglio dei ministri deliberò che che i comunisti fossero esclusi dalle celebrazioni (Crainz 1996, pag. 158), sancendo così il passaggio, avvenuto nel frattempo, dal paradigma antifascista a quello anticomunista come collante ideologico della classe al governo (Flores 1986).
Il Pci, quindi - così come accade anche per la Dc, seppure in forme diverse - si sostituì alle istituzioni con la propria “politica della festa”, che riuscì ad oltrepassare i confini ideologici e ad assumere carattere nazionale.
Claudia Capelli, Memoria comunista e memoria del comunismo in Italia dopo il 1989: il caso dei militanti bolognesi, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2009-2010