venerdì 27 novembre 2020

Il mio incontro con Totò


Mi è sempre piaciuto molto passeggiare. Da ragazzo, mi facevo certe scarpinate da fare invidia a un maratoneta.
A volte, all’uscita da scuola, mi veniva una gran fame ed allora correvo dal pizzaiolo all’angolo e, con gli ultimi spiccioli destinati al biglietto dell’autobus, compravo una focaccia calda e la divoravo in tre bocconi. Poi, per tornare a casa, ero costretto a farmi otto chilometri a piedi, ma la cosa non mi pesava troppo e compivo il tragitto allegramente, chiacchierando del più e del meno con Eugenio, un amico d’infanzia, mio compagno di classe, che abitava nel mio stesso quartiere e condivideva il mio interesse sia per le pizze che per il movimento.
Il giorno in cui avvenne l’incontro con Totò mi trovavo proprio con quest’amico.
Era un pomeriggio d’autunno, splendeva il sole, l’aria era mite, l’atmosfera pigra e sonnacchiosa, tipica del meridione dove, dopo mangiato, tutti quelli che possono si concedono volentieri un pisolino.
Solitamente Eugenio ed io andavamo a zonzo senza meta, fin dove ci portavano le gambe.
Quel giorno, quasi senza accorgercene, percorremmo un bel tratto: partimmo da Fuorigrotta, superammo la collina di Posillipo ed arrivammo sino a Marechiaro.
Da lì, com’è noto, si gode un panorama mozzafiato. Tra le varie attrattive, c’è la “fenestella”, che invogliò Salvatore di Giacomo a scrivere le parole della celeberrima canzone: “Quanno sponta la luna a Marechiaro / pure li pisci nce fanno l’ammore / Se revotano ll’onne de lu mare / pe’ la priezza cagnano culore…”
Una volta arrivati, Eugenio ed io ci fermammo su una terrazza sul mare, dove spira incessantemente un’aria di gerani e di salsedine. Stemmo circa mezz’ora a chiacchierare di sport e di ragazze, mentre lo sguardo seguiva affascinanto il morbido profilo della costa, scorrendo, in un’ampia carrellata, il Vesuvio, Sorrento, Massalubrense e Capri, per perdesi infine all’orizzonte.
Napoli è una città difficile e tormentata, ma possiede degli aspetti luminosi e stupendi, come l’animo dei suoi figli migliori.
Terminata la visita, Eugenio ed io pensammo di far ritorno a casa e anziché seguire la rotabile, ci incamminammo per le scale, una comoda scorciatoia che porta a via Posillipo.
Qui, ogni rampa è intercalata da un ampio ballatoio, sul quale a volte s’affacciano piccole case, circondate da giardini.
Io e il mio amico salivamo a passo lento, la stanchezza cominciava a farsi sentire.
A un tratto, su uno di questi ballatoi, scorgemmo due signori che parlottavano fra loro. Uno armeggiava con una grossa cinepresa, come se fosse intento a ripararla. L’altro reggeva un “ciak”, la tipica tavoletta di legno che dà l’avvio alle riprese cinematografiche.
Arrivati all’ultimo gradino e superato l’angolo di un edificio, scorgemmo alla nostra sinistra un uomo vestito di nero, che teneva in mano un cappello a bombetta.
Costui portava dei grandi occhiali scuri e se ne stava addossato alla parete, come aspettando un segnale da parte degli altri due. Quell’uomo, nientedimeno, era Totò!
Eugenio ed io lo riconoscemmo subito, ma non dicemmo una parola, ci guardammo con aria interrogativa, come per dire: “Sognamo o siamo desti?” Quando capimmo che era tutto vero, i nostri visi sbiancarono. Totò, il divo dello schermo, l’asso del comico, l’attore prediletto, stava dinanzi a noi. La sagoma di luce era divenuta realtà!
In quel momento non c’era la schiera di addetti ai lavori che di solito segue le riprese di un film. La troupe era ridotta al minimo e non c’era neppure la folla di curiosi che si assiepa ai bordi di un set.
A parte l’operatore ed il ciacchista, Eugenio ed io eravamo gli unici presenti, testimoni di un evento per noi elettrizzante. Infatti, ce ne stavamo lì, impietriti, shoccati, ad ammirare il nostro beniamino. Sembravamo dei bimbi che all’improvviso vedono materializzarsi l’eroe del loro racconto preferito.
Totò non si era accorto di noi. Fissava il vuoto con un’espressione seria, pensosa, persino malinconica. Noi ci saremmo aspettati di vederlo sorridere, scherzare, improvvisare battute, come faceva sempre nei suoi film, e invece niente. Se ne stava immobile, tranquillo, come godendosi l’ultimo raggio di sole, prima che si dileguasse in fondo al mare.
Chissà cosa gli frullava per la testa. Forse stava raccogliendo le idee per girare la sua scena; oppure stava ripensando al passato, quando si presentava in teatro ed era accolto da un uragano di applausi e da grida di gioia e gratitudine.
Può darsi che la sua espressione amareggiata fosse dovuta alle stroncature della critica più intransigente, che lo accusava di fare sottocultura con i suoi film leggeri e “disimpegnati”. Taluni intellettuali avrebbero voluto che Totò agitasse la bandiera della contestazione. Costoro però dimenticavano che egli, più che un artista, era un prodigio della natura e non poteva interpretare altro che se stesso, ovvero lo scugnizzo irriverente, l’omino buffo e disarticolato, che con le sue battute surreali sapeva divertire le platee di tutto il mondo.
Un talento come Totò nasce una volta ogni mille anni e pertanto non è assoggettabile ad un’ideologia o a un progetto politico. Totò era una maschera vivente, un fuoco pirotecnico, un autentico artefice di comicità. E la comicità non ha bandiere, è già rivoluzionaria in sé, perché è libertà, strumento catartico, dunque l’antitesi della violenza e della sopraffazione.
L’intuito e la spiccata inventiva di Totò gli permisero di creare un linguaggio nuovo, corrosivo e dissacratorio, che mise in discussione il conformismo di certi benpensanti. Ciò avrebbe dovuto indurre i suoi denigratori a rivedere le proprie posizioni, riconoscendo in lui un innovatore, un progressista in senso lato, cosa che avvenne, ma soltanto dopo la sua morte.
 

Se il principe De Curtis non nascose mai le proprie simpatie monarchiche, il suo alter ego Totò usò la propria vis comica per stigmatizzare tic e difetti della borghesia e del potere, divenendo persino un elemento dirompente rispetto allo “statu quo”.
Quel pomeriggio, sulle scale di Marechiaro, il tempo sembrava essersi fermato e tutto si era condensato nell’immagine di due tredicenni imbambolati di fronte al loro mito.
A un tratto, vinsi l’esitazione e mi avvicinai a Totò. Da vicino riuscivo a distinguere bene i tratti del suo viso: mi parve stanco e provato dagli anni e dagli acciacchi.
Quell’uomo mi era così familiare, che sentii il bisogno di toccarlo, perciò allungai la mano e gli tirai la manica della giacca. Eugenio sgranò gli occhi e mi disse fra i denti: “Ma sei pazzo!”
Già mi ero pentito di quel gesto, quando improvvisamente Totò si girò lentamente verso di me, si tolse gli occhiali e fece uno sforzo tremendo per mettermi a fuoco.
Fremevo, mi aspettavo un rimprovero; lui invece distese le labbra e sfoderò un sorriso, paterno, bonario, dal quale traspariva tutta la sua umanità.
Eugenio, intanto, cercava di trascinarmi via, prima che qualcuno della troupe si accorgesse di noi e ci allontanasse. Per quanto svogliatamente, ripresi a salire le scale, ripensando all’incontro, un incontro che non avrei scordato tanto facilmente e che avrebbe contribuito a cambiare il corso della mia vita, anche se in quel momento non potevo sapere ancora che un giorno avrei scelto di dedicarmi al teatro.
Avevamo percorso mezza rampa di scale, quando sentimmo il caratteristico suono del “ciak”; ci voltammo e vedemmo Totò che si era tolto gli occhiali ed aveva indossato la sua inseparabile bombetta. Stava sempre addossato al muro della casa, ma adesso gesticolava, parlava, faceva smorfie e sembrava distinguere tutto intorno a sé, come se la vista gli fosse tornata di colpo.
Fu così che vedemmo compiersi il prodigio, la metamorfosi: l’uomo che cede il posto all’attore, all’omino che è in sé; la persona che rinunzia a se stessa per diventare maschera, strumento di buonumore, riuscendo così a divertire gli spettatori e ad onorare l’Arte.
 

Antonio Magliulo

Commediografo, nonché autore di articoli e saggi vari, Antonio Magliulo è nato a Napoli, da genitori musicisti, entrambi diplomati al locale Conservatorio. Terminato il consueto percorso di studi, entra nella scuola come insegnante di Arti Visuali. La passione per il palcoscenico sboccia piuttosto presto, perché in famiglia si “respira” un’aria fatta di arte. I suoi genitori sono infatti, oltre che musicisti, anche grandi estimatori di prosa e gli trasmettono la propria passione. Tredicenne, comincia a recitare nella filodrammatica di quartiere, sotto la guida di Oreste d’Amato, noto attore e regista partenopeo. Nello stesso periodo, ha la gradita sorpresa d’incontrare Totò, impegnato nella lavorazione del suo ultimo film, e rimane talmente colpito da quest’evento, che decide di dedicarsi anima e corpo al palcoscenico. Così, frequenta altri corsi teatrali ed entra a far parte di diverse compagnie cittadine. Più tardi, però si accorge che, al ruolo di attore, preferisce quello di autore e regista, e comincia a scrivere i suoi primi copioni ed a seguire dei corsi di regia. Nascono, una dopo l’altra, opere comiche ed impegnate, che vengono messe in scena dalla sua Compagnia "Maschere Nude", incontrando un crescente consenso di pubblico e critica. Ha all'attivo diverse pubblicazioni sul teatro e sul cinema. Da citare pure la sua collaborazione con i giornali: "Affari Italiani"; "Napoli.com"; "Fucine Mute", etc dove si occupa prevalentemente di arte e letteratura. Sino ad oggi A.M. ha scritto circa cinquanta copioni (tutti regolarmente depositati alla SIAE) di cui una dozzina per i più giovani. Uno dei più recenti: "Viva il Teatro", edito dalla Youcanprint e diretto agli allievi in età tra gli otto e i quindici anni. Ha pubblicato inoltre diversi saggi per varie case editrici e ha diretto circa settecento spettacoli, alcuni su testi di Shakespeare, Beckett, Ionesco, Pirandello, Eduardo, etc. Numerosi i riconoscimenti ottenuti. Attualmente è libero docente di storia del teatro all'Unitre. Mail to: antonio-magliulo@libero.it

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