giovedì 26 novembre 2020

La locanda di palazzo Cicala


Era passato su di un lungo cavalcavia rivestito di pannelli color verde-scuro mentre sotto scorreva il traffico di metà mattina, s’era mosso per stanze e corridoi di un edificio pubblico. Era sceso infine per strada tra i banchi di un mercatino che ripeteva le sue merci all’infinito: stoffe, bigiotterie, dolciumi, cassette musicali, video. La sera era entrato in un locale tra tavoli di formica e giocatori di carte immersi nei loro formulari: certamente una clientela abituale, com’era abituale la donna impellicciata in coppia con l’uomo avvolto in una sciarpa multicolore che s’era alzato a sostituire la sedia e poi rivolto a
un punto imprecisato della sala aveva chiesto conferma di un “colpo” da compiere la sera stessa con un tono di voce che aveva subito smontato il paradosso delle sue parole. E il suo muoversi aveva interrotto per alcuni istanti il fare degli altri, presi nel gioco, protetti dall’ambiente che sembrava sorvegliare ogni loro gesto, di fragili figure accomodate nello scorrere del tempo, prese nello stillicidio dei minuti. Una difesa desiderata in quel locale dal finto legno delle pareti da cui pendevano fotografie di guerra, di uomini armati immobili nella posa, e dietro strade e palazzi in posa nella loro rovina. La solida barriera dei tavoli, delle sedie (un arredo già menzionato, di un materiale dozzinale), delle carte, delle regole, delle parole smorzate, del piccolo calice ormai vuoto davanti a lui, del compenso ritirato da manimaniche rimboccate a pulire il bancone. E la porta con l’insegna già perse al suo sguardo, con la commistione di oggetti e presenze non più osservabili, ora là sciolti nella poca luce del quartiere che rivela un’unica figura appoggiata nell’angolo, racchiusa nel suo personale sintagma: donna di strada.
È giunto ora in una piazzetta che dà respiro a un intrico di vicoli, in parte delimitata dalla curva di un’abside e dalla parete di un edificio, con su murata la scritta
QUESTE ERANO LE CASE DI
LANFRANCO CICALA
CONSOLE LEGISTA E POETA
C’è una locanda al pianterreno: “La Locanda di Palazzo Cicala” un locale di pochi tavoli coi coperti sull’incerata, coi movimenti lenti della cena, di un guardare-non guardare. Si è seduto in un angolo. Schiene piegate gli coprono altri avventori. Osserva quel composto remare: una ripetizione di gesti che gonfia le presenze, che offre un senso d’angoscia, un che di senza sbocchi, ma anche il suo senso opposto: un tranquillo ritrovarsi (sulla soglia avevano colto la sua incertezza, era stato invitato a entrare: “Qui è come una volta” gli avevano detto indicando uno sgabello di legno che spuntava da sotto un tavolo). Ha scorto una vecchia radio sopra una mensola. È forse lì a mostrare il-tutto-che-non-è-quel-la-radio, lì a far sentire la sua assenza. È forse accesa su musi-che e voci che sembrano mostrare il-tutto-che-non-èquelle-musiche-e-voci, col nome ricordato di un cantante: Ariodante Dalla tornato dall’abisso degli anni. E gli si apre la straniata realtà di quel posto, con gli avventori, capelli radi, grigi, disposti in una condizione assordante (come un richiamo di cicala): già pronti a non esserci più.
 

Giorgio Terrone in fogli di via, numero 19-20

Giorgio Terrone è stato collaboratore di "Nuova Corrente", la longeva rivista genovese fondata nel 1954 da Mario Boselli e Giovanni Sechi (oggi diretta da Stefano Verdino) che ha affiancato, ma in totale indipendenza, le principali correnti culturali che si sono affacciate in Italia negli ultimi sessant'anni. Terrone ha pubblicato poesie e romanzi (si ricordano Storia di Mirandola, Geiger 1977, e Andrea o delle ricchezze disperse, Nuove Scritture 1985) fogli di via