"16 settembre 1943
Viene segnalata l'esistenza sulle alture a sud di Boves e pendici di Monte Bisimanda di nuclei di militari sbandati già del XV° corpo d'armata, della guardia alla frontiera e delle divisioni costiere della 4a Armata, che si appoggiano all'abitato di Boves per vettovagliamento ed in parte per ricovero.
Un maggiore dei bersaglieri, accompagnato da due centurioni della milizia forestale, si presenta al comando della zona per parlamentare col comando germanico. Dal generale Salvi egli viene accompagnato al comando germanico dove chiede libero transito per i militari di cui sopra perché possano ritornare alle loro case.
Il comando tedesco rifiuta e ordina invece l'immediata presentazione di tutti senza condizioni. Il maggiore non aderisce a tale imposizione e ritorna tra i suoi soldati sulle alture a sud di Boves."
Le annotazioni nel diario storico si interrompono qui per due giorni. Riprendono il 19 settembre 1943 con una drammatica descrizione del massacro, il cui tono rivela una chiara condanna del comportamento dei tedeschi: si sottolinea infatti che la popolazione era stata falciata mentre cercava scampo nella fuga, si contesta implicitamente l'equiparazione degli sbandati ai ribelli, fatta dal comando tedesco, e si usa il condizionale nel riferirne le giustificazioni:
"Il comando germanico ordina il bombardamento e la distruzione mediante incendio dell'abitato di Boves, nonché delle frazioni di S. Giacomo e di Rivoira.
La popolazione di Boves che cerca scampo fuggendo dalle case incendiate viene mitragliata dalle truppe tedesche (22 morti fra la popolazione civile. Da parte tedesca un soldato morto e cinque feriti).
A giustificazione di tale azione il comandante tedesco dichiara che la popolazione civile di Boves ha sempre tenuto contegno favorevole agli sbandati (che il comando germanico considera ribelli) somministrando loro viveri e fornendo alloggio.
Inoltre nelle case di Boves sarebbero state anche trovate bombe a mano. Aggiunge ancora che al momento della cattura dei due ostaggi tedeschi la popolazione ha applaudito l'atto battendo le mani e schernendo e sputacchiando i due militari tedeschi."
Il comportamento di Salvi dopo la strage conferma questa condanna del comportamento tedesco: egli si recò infatti a Boves per soccorrere i superstiti, e cercò di risolvere il problema degli sbandati, consentendo loro di raggiungere le loro case, mentre i tedeschi intendevano catturarli e deportarli, come gli altri:
"21 settembre 1943
Il comando zona ottiene dal comando tedesco la concessione di trecento coperte di lana per gli scampati civili di Boves (donne e bambini).
Il comando zona invia un autocarro a disposizione del comune di Cuneo per il seppellimento dei morti di Boves.
In seguito a trattative intercorse tra il maggiore Testa comandante del gruppo carabinieri di Cuneo ed il maggiore dei bersaglieri comandate delle truppe sbandate della zona montana di Boves, queste ultime hanno consentito a deporre le armi e ad abbandonare la zona per raggiungere le loro case."
"22 settembre 1943
Il generale comandante della zona insieme col Prefetto si reca a Boves per constatare i danni arrecati dagli incendi del giorno 19 e prendere le disposizioni che seguono:
1°) autorizza le famiglie rimaste senza tetto ad occupare locali nella caserma guardia alla frontiera di Boves;
2°) ordina all'ufficio del genio militare di Cuneo di provvedere alla ricostruzione dei tetti delle case bruciate;
3°) effettua la distribuzione di indumenti vari e coperte alla popolazione." <20
Il generale Salvi scontò ben presto questo suo atteggiamento antitedesco. A un mese da questi fatti, il 23 ottobre, venne sostituito nell'incarico: deportato in Germania, morì nel campo di Flossenbürg.
[NOTE]
19 Salvi venne fortemente criticato in seguito dal gen. Vercellino per aver lasciato in libertà le truppe dei depositi da lui dipendenti. Commenti sulla figura di Salvi ricorrono più volte nei saggi raccolti nel volume pubblicato dall'ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA IN CUNEO E PROVINCIA, 8 settembre. Lo sfacelo della quarta armata, Torino, Book-Store, 1979, in particolare: RINALDO CRUCCU, La 4a armata e l'armistizio, pp. 65-91, qui pp. 87 s; PIERO BURDESE, MICHELE CALANDRI, ARTURO OREGGIA, 8 settembre 1943 e scioglimento della 4a armata nella provincia di Cuneo, pp. 149-180. qui pp. 168 nota 51, 178, 180 nota 75; NUTO REVELLI, La verità di allora, pp. 285-290, con una esplicita difesa di Salvi a p.288.
20 B. 8, 2° Comando Militare Provinciale: Diario storico - militare dal 9 settembre 1943 al 31 marzo 1944 XXII.
Luigi Cajani, Il Carteggio Repubblica Sociale Italiana conservato nell'Archivio dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, ISRAL, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria "Carlo Gilardenghi", 2018
L’eccidio di Boves, cittadina di circa diecimila abitanti in provincia di Cuneo, viene compiuto dai nazisti in due momenti: il 19 settembre 1943 (è la prima strage nazista di civili compiuta in Italia) e poi tra il 31 dicembre 1943 ed il 3 gennaio 1944.
Nel 1943, dopo l’8 settembre, data dell’armistizio di Badoglio, una brigata partigiana si rifugia sulle montagne che sovrastano Boves. È composta da fuoriusciti dall’esercito italiano e li comanda un ex ufficiale veneziano, Ignazio Vian.
Il 16 settembre, con un proclama, il maggiore delle SS Joachim Peiper comunica che i fuoriusciti dall’esercito italiano, saliti in montagna sono considerati banditi e verranno uccisi. La stessa sorte sarebbe toccata a chi li avesse aiutati. Peiper recatosi a Boves, minaccia di bruciare il paese se tutti i soldati non si presenteranno.
Il 19 settembre, domenica, un gruppo di partigiani, recatosi a Boves per fare provviste, trova davanti a sé, in Piazza Italia, un’auto con sopra due tedeschi delle SS. I partigiani li catturano, senza che i due oppongano resistenza e li conducono prigionieri nel loro rifugio, in Val Colla. Lì, i due nazisti vengono interrogati sulla loro presenza a Boves. Neppure un’ora dopo la cattura, arrivano a Boves due grandi automezzi tedeschi, pieni di militari. Abbandonati gli automezzi, proseguono a piedi. Alle 12 inizia la battaglia con i partigiani, che li costringono a indietreggiare. Alle 13, le SS tornano a Boves, lì incontrano il grosso dei militari guidato da Peiper, che minaccia una rappresaglia se i partigiani non consegneranno i due prigionieri. Il tedesco assicura che se i due soldati nazisti saranno liberati, Boves non verrà distrutta. Con un’auto e una bandiera bianca il parroco, don Bernardi, e un industriale, Vassallo, per ordine di Peiper, raggiungono i partigiani in montagna. Convincono a riconsegnare le due SS e l’auto. Malgrado ciò, venendo meno alla parola data, Peiper dà inizio all’eccidio, incendiando 350 case del paese. I tedeschi uccidono 25 persone, tra esse il parroco e Vassallo, che vengono bruciati vivi. Viene ucciso pure il viceparroco, il ventitreenne don Mario Ghibaud [...]
Gianni Zanirato, Massacri nazifascisti a Boves (CN), Piazza Di Vittorio, 31 dicembre 2017
[...] Boves non ha neanche 10 mila abitanti, tra paese, frazioni e cascine sparse sui monti cuneesi. Non li aveva nemmeno il 19 settembre 1943.
Era un posto poverissimo, di contadini che lavoravano fazzoletti di terra strappati alla montagna. Molti emigravano. Gli altri, fossilizzati da un isolamento secolare, vedevano lo Stato come una entità lontana. Quel tragico settembre “era buono per i funghi. Il padrone del caffè Cernaia imbottigliava il dolcetto arrivato da Dogliani; nella calzoleria Borello si preparavano gli zoccoli, per i giorni di fango e di neve. Le cose di sempre in un villaggio piemontese che non aveva capito la guerra e neppure la confusione, dopo la disfatta; vissuto per secoli nel suo quieto sogno di alberi, di fontane, di vicende e di commerci minimi; costretto ora a esprimere in poche ore, in una luce rossastra, tutta la capacità umana di soffrire”, si legge sul sito dell’Associazione partigiani di Lissone (Monza).
Ma se i bovesani stanno chiusi nelle loro cascine e nella loro povertà, giù a valle, le cose avevano cominciato a muoversi. A pochi chilometri c’è Cuneo, il capoluogo. E a Cuneo c’è Duccio Galimberti, medaglia d’oro per la resistenza, morto per le sevizie dei fascisti che lo avevano catturato, nel 1944. Già il 26 luglio 1943, il giorno dopo la caduta di Mussolini, Galimberti (da tempo militante clandestino del Partito d’azione) avverte i suoi concittadini, in un comizio improvvisato, che “La guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco e alla scomparsa delle ultime vestigia del fascismo”. Arrestato e rilasciato dopo tre settimane, comincia da subito a reclutare le brigate partigiane di Giustizia e Libertà, il braccio armato dell’omonimo movimento politico fondato a Parigi dai fratelli Carlo e Nello Rosselli . Quando arriva l’8 settembre, Galimberti, dunque è già pronto.
Ma tutto il Piemonte, all’immediato indomani dell’armistizio è in fermento. “Il fiume di sbandati che arrivavano dalla Francia dopo aver valicato le Alpi - scrive Giovanni De Luna in 'La Resistenza perfetta' - si mischiò con i mille ruscelli che sgorgavano della dissoluzione dei reparti, numerosissimi, acquartierati sulle restanti montagne e vallate delle Alpi occidentali e nella pianura piemontese”. Non solo. Tutta la regione era piena di soldati, perché - come ha scritto Gianni Perona in Le Alpi come posta in gioco - quelle montagne, dopo essere state trasformate “in una ridotta potentemente fortificata” non era stata troppo coinvolta dalla devastazioni della prima guerra mondiale come era successo invece nelle Alpi orientali. “Per quella stessa ragione, il Piemonte diventò una immensa riserva di soldati specializzati, gli alpini, addestrati alla guerra di montagna” (Perona). E, a parte quelli che erano stati spediti in Russia, moltissimi scelgono di stare contro i nazifascisti. C’era anche chi, come i soldati meridionali, con l’Italia divisa in due, non riesce a tornare a casa e trova rifugio nelle vallate del cuneese. Nasce così una resistenza spontanea, spesso travolta della reazione tedesca. Come a Boves.
Sulle pendici della Bisalta, il monte che sovrasta Boves, si costituiscono subito le prime bande. Una delle più importanti è quella guidata da Ignazio Vian, un ex sottotenente della Gaf (la Guardia alla frontiera, la polizia di confine del regime) di 26 anni che nemmeno un anno dopo, nel luglio 1944, sarà catturato, torturato e impiccato dai fascisti a Torino. Sarà una delle prime a muoversi con i sabotaggi ed i combattimenti contro le SS. Motivo per il quale già dal 16 settembre c’era stato un proclama nazista per comunicare alla popolazione che i fuoriusciti dall’esercito italiano saliti in montagna, sarebbero stati liquidati come banditi, e che chiunque avesse dato loro aiuto o asilo sarebbe stato perseguito. Sempre il 16, il maggiore Joachim Peiper va a Boves, fa riunire in piazza tutti gli uomini e minaccia di bruciare il paese se tutti i soldati alla macchia non si presenteranno.
Tre giorni dopo, il 19 settembre , una Fiat 1100 con due SS arriva in paese alle 10 del mattino e incrocia un gruppo di partigiani che li raggiungono, li disarmano e li catturano senza che questi oppongano resistenza, e li trasportano in Val Colla, sopra Boves. Verso mezzogiorno un reparto di SS attacca le posizioni della formazione di Vian, ma viene respinto e in meno di un quarto d’ora le truppe tedesche sono costrette a indietreggiare. Restano sul campo un marinaio genovese, Domenico Burlando, e un soldato tedesco, il cui cadavere viene abbandonato dai commilitoni in ritirata.
Alle 13 arriva a Boves il grosso del reparto tedesco, comandato proprio da Peiper: sono le SS appartenenti alla divisione corazzata Leibstandarte Adolf Hitler, nata dall’espansione della guardia del corpo Fuhrer. I più nazisti dei nazisti, irriducibili e feroci.
Peiper vuole parlare con il commissario prefettizio, ma questi è sparito e allora convoca il parroco Don Giuseppe Bernardi e un industriale della zona, l’ingegnere Antonio Vassallo. Li incarica di andare dai partigiani e farsi restituire i due soldati prigionieri, l’auto e anche il cadavere del caduto. Solo così si potrà evitare la rappresaglia nei confronti del paese. I due chiedono un impegno scritto, ma il maggiore SS replica sprezzante che la parola d’onore di un ufficiale tedesco vale più degli scritti di tutti gli italiani.
Il parroco e l’ingegnere non possono fare altro che chinare il capo e rispondere “va bene”. Alle 14 partono e assolvono la loro missione: i due soldati, cui non è stato torto un capello, vengono riconsegnati e così l’auto e la salma del tedesco morto. Alle 15 e 15 circa sono di nuovo a Boves. I cittadini tirano un sospiro di sollievo: è finita! Ma non è così. Parte la rappresaglia: piccoli gruppi di SS percorrono la città bruciando e uccidendo. Per fortuna molti uomini sono già fuggiti. Chi in montagna con i partigiani, chi si è nascosto nella valli impervie, chi già da tempo, spinto dalla povertà, era andato a lavorare a valle. Boves, in quel momento, è una cittadina di vecchi, donne, bambini e malati. Non sono potuti scappare e muoiono tutti. Alla fine le vittime saranno 25, compreso il viceparroco Antonio Ghibaudo, ucciso mentre sta dando l’assoluzione ad un anziano morente. Don Bernardi e Vassallo addirittura, vengono portati in giro per le strade e costretti ad assistere alla distruzione del paese. E poi bruciati vivi. Anche se ad onor di verità qui le versioni divergono. C’è chi dice che prima siano stati ammazzati a colpi di mitra e poi bruciati. Fatto sta che i loro cadaveri saranno ritrovati carbonizzati. Intanto Peiper bombarda con l’artiglieria le posizioni partigiane.
Nonostante ciò le bande rimarranno attive in zona e nelle altre valli del Cuneese fino alla fine della guerra. Tanto che Boves tra il 31 dicembre 1943 ed il 3 gennaio 1944 subirà una seconda ondata di violenze: in questo caso l’esercito tedesco mette in atto alcuni rastrellamenti nelle montagne, piene di cascine abbandonate e di nascondigli naturali, per coprire la propria ritirata ed evitare gli attacchi dei partigiani. Il paese, soprattutto nelle frazioni montane, verrà di nuovo dato alle fiamme: 59 i morti tra civili e partigiani [...]
Stefania Conti, Boves: la prima strage nazista dopo l’8 settembre, Moondo, 19 settembre 2020