Dopo la grande battaglia di Montefiorino, che terminò il 2 agosto 1944, visto anche l'atteggiamento equivoco della missione alleata nei nostri confronti, io [n.d.r.: Mario Armando Ricci] decisi di portare le mie forze nella zona di monte Penna - Rocchetta. Gli alleati non avevano mantenuto gli impegni né prima, né durante la battaglia: infatti non avevano paracadutato, come si era annunciato, il battaglione della «Nembo» per favorire l'arrivo del quale avevamo costruito persino un piccolo campo di aviazione nella «Repubblica». Si pensi che avevano già paracadutato il materiale, le armi e anche gli zaini e che avevano impedito persino la distribuzione delle armi e del materiale richiesto da centinaia di contadini che volevano combattere contro i tedeschi per difendere la zona libera di Montefiorino. Arrivarono addirittura a far distuggere le armi e il materiale destinato alla «Nembo» con cariche di tritolo, anche per impedire che cadesse in mano ai tedeschi che avanzavano velocemente.
Inoltre, durante la battaglia, non avevano fatto intervenire l'aviazione, nemmeno quando i tedeschi erano in campo scoperto, malgrado i miei appelli: si pensi che i campi di aviazione li avevano in Toscana e in un quarto d'ora gli aerei potevano essere sull'obiettivo.
Io non avevo più fiducia nel fatto che gli alleati volessero aiutarci; secondo me volevano impegnarci in un'azione di logoramento senza sbocco, resistendo ad oltranza a Montefiorino. Da tempo mi ero accorto che non gradivano vedere i fazzoletti rossi che molti portavano. In poche parole temevano la presenza di tanti partigiani classificati in blocco come comunisti e certo era loro sgradito anche che il comandante fosse un comunista e per di più un garibaldino di Spagna.
Della cosa parlai sia col comandante inglese sia con quello americano della Missione; mi opposi al loro piano e decisi di salvare le forze partigiane, naturalmente dopo aver combattuto (si pensi che i tedeschi ebbero in totale quasi duemila uomini messi fuori combattimento, fra morti e feriti) e di tornare all'origine della strategia partigiana, operando con gruppi mobili. La Missione alleata allora passò le linee aiutata da un gruppo di partigiani che conoscevano bene la zona e io ordinai lo spostamento.
Attorno a Rocchetta e a monte Penna cominciai a riunire le forze: all'inizio circa 600 partigiani che poi aumentarono fino a duemila. Altri uomini erano rimasti in zona o si erano sganciati verso il Reggiano. Iniziò un periodo di guerriglia lungo le strade (in conformità con un ordine del CUMER di metà agosto) che durò per tutto il mese. I primi di settembre, invece, non ritenni giusto di aderire alle richieste del CUMER di trasferire le mie forze nella città (io dovevo andare a Bologna con mille uomini) e altri dovevano scendere a Modena e in altri punti strategici della pianura. Io non credevo che gli alleati avessero continuato ad avanzare verso Nord e nei colloqui con la Missione aveva già capito che intendevano passare l'inverno nella «linea Gotica», secondo un loro preciso piano politico che forse era quello di indebolire la Resistenza nel Nord. D'altra parte, anche l'esperienza che avevo fatto a Madrid, alla Casa del Campo nella città universitaria, a Puerta del Sol (io, infatti, ero andato con la Repubblica nel 1936, partendo dalla Francia, dove ero esiliato dal 1931), mi aveva detto che le forze volontarie, in particolar modo i giovani e i contadini, che non conoscevano la città, si trovavano in questi tipi di battaglia in condizioni di inferiorità. È mia convinzione che se fossi andato nelle città indicate avremmo finito per essere annientati e avremmo perso così una grande forza che potevamo invece mantenere efficiente e che poi, in effetti, ha contribuito a liberare vaste zone appenniniche e partecipare all'offensiva finale.
Dopo un mese e mezzo di combattimenti alla partigiana, quasi sempre lungo le strade, nella zona fra l'Appennino modenese, reggiano e bolognese, mi spostai verso il porrettano. Quando gli alleati si attestarono sulla «linea Gotica», cioè verso la fine del settembre 1944, i tedeschi sgombrarono in gran parte le loro truppe e anche le artiglierie pesanti, creando così una vasta zona di «terra di nessuno».
Mi attestai così in quella zona, occupandola, per impedire che i tedeschi ritornassero e anche per stimolare gli alleati ad avanzare, tanto più che per loro non c'era alcun pericolo. Fu così che le forze della Divisione occuparono le zone di Porretta, Lizzano e Gaggio Montano e i tedeschi, una volta eliminati da parte nostra i residui delle retroguardie, non riuscirono più a ritornare, malgrado numerosi attacchi, nelle zone da noi controllate. Purtroppo, però, si diedero ai massacri delle popolazioni inermi, come a Cà Berna e a Ronchidos.
Io presi contatti con gli alleati nelle colline pistoiesi, a Signorino, e, dopo una quarantina di giorni, reparti alleati vennero nella zona da noi controllata, che comprendeva anche i centri di Porretta, Lizzano e Gaggio Montano. Si presentò di nuovo il problema dei nostri rapporti, problema reso complesso dal fatto che esisteva un accordo tra governo italiano e alleati sulla consegna delle armi. Cominciarono col dire che non volevano i commissari, e poi dissero che eravamo in troppi e che loro avrebbero rifornito di vitto e armamento solo circa 350 partigiani e gli altri li avrebbero mandati nelle retrovie. Era una proposta assolutamente insufficiente, ma formalmente molto importante perché, per la prima volta, le armi non solo non vennero ritirate, ma si prevedeva addirittura il riarmo e l'utilizzazione di una regolare formazione partigiana: infatti, io fui riconosciuto come comandante della Divisione. Il comando l'avevo sistemato in una casa di Lizzano.
Non accettai le proposte alleate sulla limitazione delle forze e dissi loro che nessun partigiano voleva andare via; infatti quelli che furono mandati a Pracchia erano tornati a piedi dal fronte. I rapporti divennero tesi.
Per discutere questioni militari e anche i rapporti fra partigiani e alleati io andai al comando dell'OSS, a Castelluccio. Loro dissero subito che, visto che i miei uomini combattevano ed erano forze sicure e davano un aiuto sostanziale, io dovevo assumere il comando di tutte le forze partigiane, comprese quelle di «Giustizia e Libertà» del capitano Pietro e quelle socialiste della «Matteotti». Io dissi che non volevo sottomettere alla mia direzione forze partigiane che avevano i loro comandanti e i loro orientamenti. Allora risposero che avrebbero messo me e i miei partigiani in campo di concentramento. Ricordo che risposi così: «Noi combattiamo da tanti mesi per dare un contributo alla lotta comune, e voi fate queste proposte! Se voi insistete io ripasso le linee, torno a combattere nelle zone occupate dai tedeschi e dirò ai partigiani e alla popolazione chi siete: cioè non dei liberatori ma degli oppressori!». Loro insistettero sul campo di concentramento. Urlavano come matti. Subito passarono alle minacce personali e io allora estrassi la rivoltella. La situazione era molto grave. Poteva succedere tutto. Io capivo che dal punto di vista militare avevano ragione, però non accettavo il loro modo di trattare i partigiani. Alla fine dissi che comandavo solo i miei e in più quelle forze che spontaneamente accettavano il mio comando. Così ci lasciammo e qualche settimana dopo i rapporti migliorarono poiché gli alleati poterono valutare i fatti: frattanto i partigiani delle brigate «GL» e «Matteotti» avevano accettato la mia direzione.
In novembre e dicembre la Divisione fu impegnata severamente, in coordinamento con gli alleati, in tre successive azioni su monte Belvedere e nell'ultima di queste, il 12 dicembre, trovò la morte il capitano Toni, comandante della «Matteotti». Un'altra brillante azione fu compiuta il giorno di Natale, dalla nostra brigata Costrignano, comandata da Filippo Papa, che, operando da sola, sfondò le linee tedesche a Piansinatico, presso l'Abetone.
Nel febbraio 1945 la lotta politica fra noi e gli alleati si inasprì ancora. Qualche progresso si era fatto sul piano militare, anche se le scarpe che ci mandavano erano vecchie e rotte e le razioni - elevate a 650 - per noi erano la metà del fabbisogno. Cominicai ad insistere per prender contatti col mio governo e in particolare col ministro Casati e il sottosegretario Palermo. Loro tergiversarono e in realtà non volevano questo contatto. Il governo, d'altra parte, aveva mandato a Lizzano degli ufficiali di Stato maggiore guidati dal colonnello Sampò, per fare, probabilmente, un rapporto al Ministro. Io avevo chiesto, tramite il generale Cerica, che rimase a lungo con noi, dei rinforzi di truppa e infatti arrivarono dei reparti alpini e someggiati e anche un tenente addetto agli alloggi: non un gran che, ma era un riconoscimento.
Tutto questo gli alleati non lo gradivano. D'accordo con gli ufficiali italiani io partii per Firenze, per poi raggiungere Roma. Non mi accorsi che si stava preparando un altro attentato contro di me (ad un primo attentato ero già sfuggito, in agosto, ad Acquaria, dopo lo sganciamento da Montefiorino). Infatti, quando giunsi, con la macchina messa a mia disposizione, sulle rampe del passo della Collina, fui intossicato dai gas del tubo di scappamento che era stato messo in modo che sfogasse dentro alla macchina, sotto il cuscino posteriore. Fortunatamente l'autista, anch'egli intossicato dal gas, ma un po' meno, riuscì a deviare la macchina contro il parapetto di destra, mentre a sinistra c'era uno strapiombo. Fummo soccorsi subito e inviati in un ospedale da campo alleato, a Pistoia. Io però non mi accorsi di niente perché rimasi a lungo senza conoscenza. Quando cominciai a capire qualcosa mi trovavo all'Ospedale di Firenze, dove mi avevano trasferito vista la gravità delle mie condizioni. Qui mi piantonarono perché nessuno mi vedesse. Qualche giorno dopo venne il Ministro Scoccimarro e poi venne anche Renato Giorgi, capo di stato maggiore della Divisione, e altri compagni di Lizzano. Io non ho mai saputo chi abbia organizzato quell'attentato che mi è sembrato di «stile americano», con metodo gangsteristico.
Appena in piedi, insistetti per ritornare al fronte. Gli americani volevano ritardare il mio rientro. Non avevano più bisogno - ritenevano - dei partigiani e così volevano impedire che le forze della Divisione partecipassero alla liberazione delle città. Ma io andai su egualmente, anche perché i partigiani, che già sapevano dell'attentato, erano in grande agitazione e si era diffuso un grave malcontento.
Prima di ripartire partecipai a Roma, insieme a Bulow, il 18 febbraio, alla solenne cerimonia di consegna della medaglia d'oro alla bandiera del Corpo Volontari della libertà.
Appena a Lizzano ci fu subito bisogno dei partigiani per una azione a Siila. I tedeschi, infatti, attestati sulle colline di Bombiana, avevano sferrato un attacco per tagliare il nodo stradale di Siila allo scopo di isolare Lizzano. Il generale americano comandante della zona mi chiamò e mi disse che mi dava il comando dell'intera zona per un contrattacco. Io accettai e il contrattacco riuscì. I tedeschi furono cacciati al di là delle posizioni di partenza ed ebbero molti morti, feriti e prigionieri.
Poi i rapporti con gli americani cominciarono a chiarirsi, anche se continuavano a tergiversare sul problema del riconoscimento formale della Divisione. Eravamo però sempre in linea e pian piano si resero conto dell'importanza del nostro contributo. Assai spesso io fui chiamato anche al comando americano per discutere dei piani offensivi e partecipai pure all'elaborazione del piano generale dell'offensiva finale di primavera, che cominciò il 19 aprile. La Divisione ebbe il compito più difficile, e cioè quello di sfondare le linee tedesche nel sistema del Cimone e ciò, credo, anche per impedire di essere fra i primi a giungere a Modena. La nostra Divisione sfondò le linee tedesche, si impossessò di fondamentali caposaldi e aprì agli alleati la strada verso la pianura. Occupammo Fanano, Sestola, Pavullo, Montecreto, giungendo fino ai margini della pianura e fummo egualmente fra i primi a giungere in città fra le popolazioni che ci attendevano.
Mario Armando Ricci. Nato a Pavullo nel 1908. Comandante della Divisione «Modena» (1943-1945). Medaglia d'oro al valore militare. (1971). Risiede a Pavullo.
(a cura di) Luigi Arbizzani e Nazario Sauro Onofri, Dizionario biografico. Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel Bolognese (1919-1945), Vol. V, Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna "Luciano Bergonzini", Istituto per la Storia di Bologna, Comune di Bologna, Regione Emilia Romagna, 1998
Inoltre, durante la battaglia, non avevano fatto intervenire l'aviazione, nemmeno quando i tedeschi erano in campo scoperto, malgrado i miei appelli: si pensi che i campi di aviazione li avevano in Toscana e in un quarto d'ora gli aerei potevano essere sull'obiettivo.
Io non avevo più fiducia nel fatto che gli alleati volessero aiutarci; secondo me volevano impegnarci in un'azione di logoramento senza sbocco, resistendo ad oltranza a Montefiorino. Da tempo mi ero accorto che non gradivano vedere i fazzoletti rossi che molti portavano. In poche parole temevano la presenza di tanti partigiani classificati in blocco come comunisti e certo era loro sgradito anche che il comandante fosse un comunista e per di più un garibaldino di Spagna.
Della cosa parlai sia col comandante inglese sia con quello americano della Missione; mi opposi al loro piano e decisi di salvare le forze partigiane, naturalmente dopo aver combattuto (si pensi che i tedeschi ebbero in totale quasi duemila uomini messi fuori combattimento, fra morti e feriti) e di tornare all'origine della strategia partigiana, operando con gruppi mobili. La Missione alleata allora passò le linee aiutata da un gruppo di partigiani che conoscevano bene la zona e io ordinai lo spostamento.
Attorno a Rocchetta e a monte Penna cominciai a riunire le forze: all'inizio circa 600 partigiani che poi aumentarono fino a duemila. Altri uomini erano rimasti in zona o si erano sganciati verso il Reggiano. Iniziò un periodo di guerriglia lungo le strade (in conformità con un ordine del CUMER di metà agosto) che durò per tutto il mese. I primi di settembre, invece, non ritenni giusto di aderire alle richieste del CUMER di trasferire le mie forze nella città (io dovevo andare a Bologna con mille uomini) e altri dovevano scendere a Modena e in altri punti strategici della pianura. Io non credevo che gli alleati avessero continuato ad avanzare verso Nord e nei colloqui con la Missione aveva già capito che intendevano passare l'inverno nella «linea Gotica», secondo un loro preciso piano politico che forse era quello di indebolire la Resistenza nel Nord. D'altra parte, anche l'esperienza che avevo fatto a Madrid, alla Casa del Campo nella città universitaria, a Puerta del Sol (io, infatti, ero andato con la Repubblica nel 1936, partendo dalla Francia, dove ero esiliato dal 1931), mi aveva detto che le forze volontarie, in particolar modo i giovani e i contadini, che non conoscevano la città, si trovavano in questi tipi di battaglia in condizioni di inferiorità. È mia convinzione che se fossi andato nelle città indicate avremmo finito per essere annientati e avremmo perso così una grande forza che potevamo invece mantenere efficiente e che poi, in effetti, ha contribuito a liberare vaste zone appenniniche e partecipare all'offensiva finale.
Dopo un mese e mezzo di combattimenti alla partigiana, quasi sempre lungo le strade, nella zona fra l'Appennino modenese, reggiano e bolognese, mi spostai verso il porrettano. Quando gli alleati si attestarono sulla «linea Gotica», cioè verso la fine del settembre 1944, i tedeschi sgombrarono in gran parte le loro truppe e anche le artiglierie pesanti, creando così una vasta zona di «terra di nessuno».
Mi attestai così in quella zona, occupandola, per impedire che i tedeschi ritornassero e anche per stimolare gli alleati ad avanzare, tanto più che per loro non c'era alcun pericolo. Fu così che le forze della Divisione occuparono le zone di Porretta, Lizzano e Gaggio Montano e i tedeschi, una volta eliminati da parte nostra i residui delle retroguardie, non riuscirono più a ritornare, malgrado numerosi attacchi, nelle zone da noi controllate. Purtroppo, però, si diedero ai massacri delle popolazioni inermi, come a Cà Berna e a Ronchidos.
Io presi contatti con gli alleati nelle colline pistoiesi, a Signorino, e, dopo una quarantina di giorni, reparti alleati vennero nella zona da noi controllata, che comprendeva anche i centri di Porretta, Lizzano e Gaggio Montano. Si presentò di nuovo il problema dei nostri rapporti, problema reso complesso dal fatto che esisteva un accordo tra governo italiano e alleati sulla consegna delle armi. Cominciarono col dire che non volevano i commissari, e poi dissero che eravamo in troppi e che loro avrebbero rifornito di vitto e armamento solo circa 350 partigiani e gli altri li avrebbero mandati nelle retrovie. Era una proposta assolutamente insufficiente, ma formalmente molto importante perché, per la prima volta, le armi non solo non vennero ritirate, ma si prevedeva addirittura il riarmo e l'utilizzazione di una regolare formazione partigiana: infatti, io fui riconosciuto come comandante della Divisione. Il comando l'avevo sistemato in una casa di Lizzano.
Non accettai le proposte alleate sulla limitazione delle forze e dissi loro che nessun partigiano voleva andare via; infatti quelli che furono mandati a Pracchia erano tornati a piedi dal fronte. I rapporti divennero tesi.
Per discutere questioni militari e anche i rapporti fra partigiani e alleati io andai al comando dell'OSS, a Castelluccio. Loro dissero subito che, visto che i miei uomini combattevano ed erano forze sicure e davano un aiuto sostanziale, io dovevo assumere il comando di tutte le forze partigiane, comprese quelle di «Giustizia e Libertà» del capitano Pietro e quelle socialiste della «Matteotti». Io dissi che non volevo sottomettere alla mia direzione forze partigiane che avevano i loro comandanti e i loro orientamenti. Allora risposero che avrebbero messo me e i miei partigiani in campo di concentramento. Ricordo che risposi così: «Noi combattiamo da tanti mesi per dare un contributo alla lotta comune, e voi fate queste proposte! Se voi insistete io ripasso le linee, torno a combattere nelle zone occupate dai tedeschi e dirò ai partigiani e alla popolazione chi siete: cioè non dei liberatori ma degli oppressori!». Loro insistettero sul campo di concentramento. Urlavano come matti. Subito passarono alle minacce personali e io allora estrassi la rivoltella. La situazione era molto grave. Poteva succedere tutto. Io capivo che dal punto di vista militare avevano ragione, però non accettavo il loro modo di trattare i partigiani. Alla fine dissi che comandavo solo i miei e in più quelle forze che spontaneamente accettavano il mio comando. Così ci lasciammo e qualche settimana dopo i rapporti migliorarono poiché gli alleati poterono valutare i fatti: frattanto i partigiani delle brigate «GL» e «Matteotti» avevano accettato la mia direzione.
In novembre e dicembre la Divisione fu impegnata severamente, in coordinamento con gli alleati, in tre successive azioni su monte Belvedere e nell'ultima di queste, il 12 dicembre, trovò la morte il capitano Toni, comandante della «Matteotti». Un'altra brillante azione fu compiuta il giorno di Natale, dalla nostra brigata Costrignano, comandata da Filippo Papa, che, operando da sola, sfondò le linee tedesche a Piansinatico, presso l'Abetone.
Nel febbraio 1945 la lotta politica fra noi e gli alleati si inasprì ancora. Qualche progresso si era fatto sul piano militare, anche se le scarpe che ci mandavano erano vecchie e rotte e le razioni - elevate a 650 - per noi erano la metà del fabbisogno. Cominicai ad insistere per prender contatti col mio governo e in particolare col ministro Casati e il sottosegretario Palermo. Loro tergiversarono e in realtà non volevano questo contatto. Il governo, d'altra parte, aveva mandato a Lizzano degli ufficiali di Stato maggiore guidati dal colonnello Sampò, per fare, probabilmente, un rapporto al Ministro. Io avevo chiesto, tramite il generale Cerica, che rimase a lungo con noi, dei rinforzi di truppa e infatti arrivarono dei reparti alpini e someggiati e anche un tenente addetto agli alloggi: non un gran che, ma era un riconoscimento.
Tutto questo gli alleati non lo gradivano. D'accordo con gli ufficiali italiani io partii per Firenze, per poi raggiungere Roma. Non mi accorsi che si stava preparando un altro attentato contro di me (ad un primo attentato ero già sfuggito, in agosto, ad Acquaria, dopo lo sganciamento da Montefiorino). Infatti, quando giunsi, con la macchina messa a mia disposizione, sulle rampe del passo della Collina, fui intossicato dai gas del tubo di scappamento che era stato messo in modo che sfogasse dentro alla macchina, sotto il cuscino posteriore. Fortunatamente l'autista, anch'egli intossicato dal gas, ma un po' meno, riuscì a deviare la macchina contro il parapetto di destra, mentre a sinistra c'era uno strapiombo. Fummo soccorsi subito e inviati in un ospedale da campo alleato, a Pistoia. Io però non mi accorsi di niente perché rimasi a lungo senza conoscenza. Quando cominciai a capire qualcosa mi trovavo all'Ospedale di Firenze, dove mi avevano trasferito vista la gravità delle mie condizioni. Qui mi piantonarono perché nessuno mi vedesse. Qualche giorno dopo venne il Ministro Scoccimarro e poi venne anche Renato Giorgi, capo di stato maggiore della Divisione, e altri compagni di Lizzano. Io non ho mai saputo chi abbia organizzato quell'attentato che mi è sembrato di «stile americano», con metodo gangsteristico.
Appena in piedi, insistetti per ritornare al fronte. Gli americani volevano ritardare il mio rientro. Non avevano più bisogno - ritenevano - dei partigiani e così volevano impedire che le forze della Divisione partecipassero alla liberazione delle città. Ma io andai su egualmente, anche perché i partigiani, che già sapevano dell'attentato, erano in grande agitazione e si era diffuso un grave malcontento.
Prima di ripartire partecipai a Roma, insieme a Bulow, il 18 febbraio, alla solenne cerimonia di consegna della medaglia d'oro alla bandiera del Corpo Volontari della libertà.
Appena a Lizzano ci fu subito bisogno dei partigiani per una azione a Siila. I tedeschi, infatti, attestati sulle colline di Bombiana, avevano sferrato un attacco per tagliare il nodo stradale di Siila allo scopo di isolare Lizzano. Il generale americano comandante della zona mi chiamò e mi disse che mi dava il comando dell'intera zona per un contrattacco. Io accettai e il contrattacco riuscì. I tedeschi furono cacciati al di là delle posizioni di partenza ed ebbero molti morti, feriti e prigionieri.
Poi i rapporti con gli americani cominciarono a chiarirsi, anche se continuavano a tergiversare sul problema del riconoscimento formale della Divisione. Eravamo però sempre in linea e pian piano si resero conto dell'importanza del nostro contributo. Assai spesso io fui chiamato anche al comando americano per discutere dei piani offensivi e partecipai pure all'elaborazione del piano generale dell'offensiva finale di primavera, che cominciò il 19 aprile. La Divisione ebbe il compito più difficile, e cioè quello di sfondare le linee tedesche nel sistema del Cimone e ciò, credo, anche per impedire di essere fra i primi a giungere a Modena. La nostra Divisione sfondò le linee tedesche, si impossessò di fondamentali caposaldi e aprì agli alleati la strada verso la pianura. Occupammo Fanano, Sestola, Pavullo, Montecreto, giungendo fino ai margini della pianura e fummo egualmente fra i primi a giungere in città fra le popolazioni che ci attendevano.
Mario Armando Ricci. Nato a Pavullo nel 1908. Comandante della Divisione «Modena» (1943-1945). Medaglia d'oro al valore militare. (1971). Risiede a Pavullo.
(a cura di) Luigi Arbizzani e Nazario Sauro Onofri, Dizionario biografico. Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel Bolognese (1919-1945), Vol. V, Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna "Luciano Bergonzini", Istituto per la Storia di Bologna, Comune di Bologna, Regione Emilia Romagna, 1998
Mario Ricci, il leggendario comandante “Armando” della Repubblica di Montefiorino, nasce a Pavullo, in provincia di Modena, nel 1908. Giovanissimo, intraprende la dura via dell’emigrazione e si reca in Francia, dove lavora per cinque anni come cameriere e ha il primo incontro con gli esuli italiani antifascisti. Nel 1937 si arruola in Spagna, dove combatte in difesa della Repubblica nella XII Brigata Internazionale. Rientrato in Francia, viene incarcerato a Tolone e poi internato in un campo di prigionia. Rimpatriato nel 1941, il tribunale fascista lo condanna a cinque anni di confino a Ventotene, ma viene liberato nell’agosto 1943 per essere arruolato nell’esercito italiano.
L’8 settembre 1943 lo coglie a Maranello, in provincia di Modena, e lì si trova a sostenere il primo scontro armato con le truppe tedesche; da quel momento si dedica all’organizzazione della guerra partigiana sulle alture appenniniche a sud di Modena. L’afflusso continuo di uomini (nel giugno 1944 diventeranno addirittura 8.000) e il rafforzamento delle formazioni partigiane permette di concepire e di iniziare un’audace azione militare per liberare stabilmente un ampio territorio dove costituire una zona franca. Sarà la Repubblica di Montefiorino. Ispirata da lui e dal suo commissario politico Osvaldo Poppi, “Davide”, l’abile politica condotta nei confronti dei contadini – piccoli proprietari e mezzadri – della zona, cche si concreta nell’aiuto per i lavori agricoli e stradali, nell’organizzazione collettiva della trebbiatura, nell’assistenza sanitaria gratuita per tutti, guadagna alla Repubblica e al partigianato le simpatie della maggior parte della popolazione.
Una realtà che inoltre guardava già avanti, oltre la guerra, come afferma “Armando” in un’intervista rilasciata nei primi anni 60° Giancarlo Gatti: “Nella zona liberata era nell’aria, nella vita di tutti i giorni, uno slancio, un fervore densi di significato, in quanto espressione della volontà e della consapevolezza di operare per dare inizio alla costruzione di qualche cosa di nuovo, E il pensiero era rivolto al mondo di domani, al mondo per il quale si lottava.” Una realtà che colpisce anche gli Alleati, i quali riforniscono la zona libera con lanci di rifornimenti e di armi leggere, che peraltro saranno insufficienti per la difesa, di fronte al poderoso attacco nazifascista.
Dopo la caduta della repubblica di Montefiorino, Ricci continua a combattere sull’alto Appennino, dove poi si unisce alla V Armata statunitense e continua la lotta armata in qualità di “cobelligerante”, con una forza di 1.500 uomini.
Dopo la Liberazione viene eletto deputato al Parlamento italiano nella prima e nella seconda legislatura.
Muore nel 1994.
Redazione, Mario Ricci, 1944 - Le Repubbliche Partigiane
L’8 settembre 1943 lo coglie a Maranello, in provincia di Modena, e lì si trova a sostenere il primo scontro armato con le truppe tedesche; da quel momento si dedica all’organizzazione della guerra partigiana sulle alture appenniniche a sud di Modena. L’afflusso continuo di uomini (nel giugno 1944 diventeranno addirittura 8.000) e il rafforzamento delle formazioni partigiane permette di concepire e di iniziare un’audace azione militare per liberare stabilmente un ampio territorio dove costituire una zona franca. Sarà la Repubblica di Montefiorino. Ispirata da lui e dal suo commissario politico Osvaldo Poppi, “Davide”, l’abile politica condotta nei confronti dei contadini – piccoli proprietari e mezzadri – della zona, cche si concreta nell’aiuto per i lavori agricoli e stradali, nell’organizzazione collettiva della trebbiatura, nell’assistenza sanitaria gratuita per tutti, guadagna alla Repubblica e al partigianato le simpatie della maggior parte della popolazione.
Una realtà che inoltre guardava già avanti, oltre la guerra, come afferma “Armando” in un’intervista rilasciata nei primi anni 60° Giancarlo Gatti: “Nella zona liberata era nell’aria, nella vita di tutti i giorni, uno slancio, un fervore densi di significato, in quanto espressione della volontà e della consapevolezza di operare per dare inizio alla costruzione di qualche cosa di nuovo, E il pensiero era rivolto al mondo di domani, al mondo per il quale si lottava.” Una realtà che colpisce anche gli Alleati, i quali riforniscono la zona libera con lanci di rifornimenti e di armi leggere, che peraltro saranno insufficienti per la difesa, di fronte al poderoso attacco nazifascista.
Dopo la caduta della repubblica di Montefiorino, Ricci continua a combattere sull’alto Appennino, dove poi si unisce alla V Armata statunitense e continua la lotta armata in qualità di “cobelligerante”, con una forza di 1.500 uomini.
Dopo la Liberazione viene eletto deputato al Parlamento italiano nella prima e nella seconda legislatura.
Muore nel 1994.
Redazione, Mario Ricci, 1944 - Le Repubbliche Partigiane
Il montanaro partigiano, disegno di Gino Covili *, cm. 35 x 25. Fonte: Luciano Bergonzini, op. cit. infra |
[...] esperienze diverse di formazioni partigiane di varia estrazione (comunista, socialista, «azionista», cattolica), nonché di unità locali minori, operanti tutte in quella vasta area collinare e montana che, seguendo il percorso del fiume Reno tra Sasso Marconi e l'alto Porrettano e Lizzanese, si prolunga fino al tracciato della «linea Gotica» nel sistema del Belvedere e del Cimone. Nella parte alta le formazioni attive sono dapprima costituite da piccole unità d'impianto locale fino alla creazione, in giugno, delle Brigate «Giustizia e libertà» e «Matteotti», comandate entrambe da ufficiali dell'esercito e cioè dal capitano Pietro Pandiani (Pietro) e dal capitano Antonio Giuriolo (Toni). Ad iniziare dalla fine del settembre 1944 confluirono nella zona anche notevoli forze già facenti parte della «Divisione Modena», al comando di Armando (Mario Ricci). Nella parte collinare, attorno a Sasso Marconi, è invece attiva la Brigata «Santa Justa», comandata da Pino Nucci, anch'egli ufficiale dell'esercito. Dopo una serie d'azioni in parte coordinate, che consentirono alle forze partigiane di liberare numerosi centri di rilevante interesse strategico in una vasta area montana in precedenza controllata alternativamente dai tedeschi e dagli alleati, si potè giungere nell'alto Porrettano ad una riorganizzazione delle varie unità partigiane e all'insediamento di un comando operativo a Lizzano in Belvedere, il quale, pur tra prolungati contrasti, anche assai aspri, con l'OSS e il comando operativo della 5^ Armata americana, riuscì ad ottenere, con gradualità, una specie di riconoscimento alleato di fatto che consentì di svolgere durante l'inverno un'intensa attività coordinata di logoramento dello schieramento tedesco, fino alla partecipazione, per molti aspetti determinante, allo sfondamento del sistema difensivo tedesco e alla liberazione.
Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti. Volume V, Istituto per la Storia di Bologna, 1980
Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti. Volume V, Istituto per la Storia di Bologna, 1980
* Gino Covili, nato a Pavullo nel 1918, fu partigiano nella Divisione Modena, comandata da Mario Ricci (Armando), e dopo il congiungimento con gli alleati continuò a combattere con la stessa formazione partigiana, aggregata alla V^ Armata americana, nella zona dell'alto Porrettano. L'esperienza partigiana fu determinante nella sua formazione di artista. Il suo mondo, infatti, è stato fin dall'inizio e rimane tuttora, quello dei contadini della montagna cui le sue opere costantemente si ispirano. Luciano Bergonzini, Op. cit.