giovedì 24 novembre 2022

A conti fatti, niente come la collaborazione con «Il Contemporaneo» imprime una svolta così decisiva all'esistenza di Luciano Bianciardi


Dieci opere tra romanzi e saggi, una trentina di racconti e un migliaio di scritti giornalistici, oltre a pagine di diari giovanili e corrispondenza varia. Questo è quanto resta di Luciano Bianciardi e della sua visione del mondo, «un  mondo che va dal Dopoguerra al Boom, dalla provincia dei minatori al vetrocemento dei grattacieli, dalla luce della sua radiosa impazienza alla debolezza delle rinunce, al buio della solitudine finale» <1.
La carriera di Bianciardi, durata circa un ventennio, abbraccia un periodo cruciale per la formazione della nuova Italia uscita dalla Seconda Guerra Mondiale. Leggere Bianciardi vuol dire confrontarsi con il mutamento della società, avvenuto negli anni Cinquanta e Sessanta, gli stessi anni in cui il capitalismo passava da un modello produttivo agricolo-industriale ad uno industriale-finanziario. Anni nei quali cambiano definitivamente i modi di  vita,  i  rapporti   umani e la condizione dell’intellettuale. Nasce  la letteratura “industriale”, che assume come tematica privilegiata l’ambiente della fabbrica con i suoi sistemi di lavoro, ad esempio la razionalizzazione del cottimo, la misurazione  “scientifica” dei tempi di produzione e l’introduzione di metodi psicologici di valutazione e controllo del personale, con annesse le ripercussioni sulla vita quotidiana dei lavoratori. L’operaio si trova di fronte un lavoro coercitivo,  solo meglio retribuito di quello del contadino, ma ugualmente subalterno; inoltre deve affrontare la crisi delle lotte sindacali e la distruzione della coscienza di classe. Infatti il maggiore benessere raggiunto si accompagna subito a nuovi modelli  piccolo-borghesi, che cancellano le speranze nell’Unione Sovietica (travolte peraltro dai fatti di Ungheria) generando sfiducia nella politica e abbandono della militanza, cui si contrappongono fuochi di rabbia accesi da nostalgie resistenziali e dall’insofferenza per un sistema produttivo sempre più spersonalizzante.
L’intellettuale vive uno sradicamento continuo: fa parte di un meccanismo che non lo rappresenta, è lontano dal luogo di origine e non può familiarizzare con l’operaio, al  quale è accomunato dalla situazione reale.  
Bianciardi è esattamente in questa condizione come dice lui stesso in una lettera all’amico Galardino Rabiti: «Sempre esilio è questo mio a Milano. Chissà se riuscirò a trovare la strada di Itaca, un giorno? Con Grosseto ho un debito enorme, e prima o poi dovrei pagarlo, non ti pare? [...] Le formiche milanesi continuano a scarpinare, mosse da una furia calvinista per il lavoro e per la grana, e io non riesco proprio a capirle, mi sento infedele e terrone, anche se lavoro più di tutti» <2.
Bianciardi si trova in mezzo a due figure, l’operaio e l’intellettuale, vivendone i drammi più dolorosi: non sente l’adesione morale e psicologica al suo lavoro (come fa l’intellettuale impegnato) e allo stesso tempo non ha la  possibilità di esserne veramente alienato, come l’operaio. Trovandosi di fronte a questa situazione insanabile una volta giunto nella grande città, decide di spostare lo sguardo sul consumatore, nuova categoria di cittadini, operai ma   non solo, non necessariamente. Un nuovo macroinsieme che democraticamente distrugge e rimescola le classi sulla base dei bisogni.
Bianciardi scaglia i suoi strali contro la nuova società, quella società che oggi  definiamo liquida, resa dalla comunicazione pubblicitaria dei consumi, contro la nuova industria culturale e tutte le altre industrie che lavorano  l’acciaio e l’anima.
Nel 1952 su Belfagor aveva scritto: «Ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra, quelli che lavorano nell’acqua  gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto  terra, consumano giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio». <3
Due anni dopo, con l’arrivo a Milano, entra in contatto con un altro tipo di lavoro salariato, quello dell’industria, meno legato alla terra ma non meno duro e spersonalizzante. Per di più la vita in città non ha più quella socialità che la provincia ancora mantiene e della quale lo scrittore sente la mancanza; una mancanza acuita dalla sensazione di tradimento, con tanto di fuga all’alba senza una spiegazione, da lui stesso commesso. In veste di intellettuale,  Bianciardi è spiazzato dalla nuova realtà che si trova ad affrontare: credeva di trovare un terreno fertile per nuove idee, invece deve affrontare la realtà della produzione quale unico ideale. Come traduttore viene pagato un tanto a cartella, lavoro che deve fare per poter pagare i conti della modernità. Solo la domenica può essere dedicata alla stesura dei suoi libri. Di fronte a tutto questo Bianciardi reagisce, non si ritira, da intellettuale, nei salotti a  parlare di cultura ma resta nel suo di salotto a guardare la televisione, a studiare la pubblicità, a cogliere insomma tutti quegli aspetti del degrado moderno che stanno trasformando gli individui in consumatori, in spettatori della vita. Osserva e mette alla berlina anche gli operatori di quella immensa truffa che si rivela essere la “Grande impresa” per la quale era giunto a Milano; mostra per la prima volta ciò che si cela dietro alla produzione (termine non  casuale) di un libro, che non ha niente a che vedere con la cultura.
[NOTE]
1 Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, Milano, I tascabili BCDe, 2008, cit. p.VII.
2 M. C. Angelini, Luciano Bianciardi, Firenze, La Nuova Italia, 1980, cit. p. 10.
3 Nascita di uomini democratici, in «Belfagor», Firenze,VII, 4, 31 luglio 1952; ora in L’antimeridiano, Opere complete, Volume secondo, Milano, Isbn, 2008, cit. p. 37.
Gianluca Ciucci, Luciano Bianciardi: lo sguardo, la malinconia, l'insofferenza, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Perugia, Anno Accademico 2007/2008

Tra il 1953 e il 1954 una serie di circostanze della vita di Luciano Bianciardi, in origine del tutto slegate tra loro, convergono e ne segnano il destino, tanto personale quanto artistico e lavorativo.
Il suo matrimonio con Adria Belardi si rivela presto un fallimento, e ciò contribuisce a rendergli soffocante l'aria della provincia; l'incontro con Maria Jatosti nel 1953, a margine della riunione annuale della Federazione dei circoli del cinema, pare dar luogo solo a una passione estemporanea, e i due non si sentiranno di nuovo finché l'esplosione nella miniera della Montecatini la farà tornare in mente, senza apparente motivo, a Bianciardi. La Jatosti rappresenta a quel punto la via di fuga ideale da quella quotidianità che gli è insopportabile, segnata da una famiglia che non vuole più e dal sangue di Ribolla; è per vedere lei che nella primavera del 1954 viaggia spesso verso Roma dove la donna, organica al Pci, lavora prima nella segreteria dei Circoli del cinema e poi nell'ufficio stampa della CGIL, ed è tramite lei e il suo ambiente di riferimento che spunta l'occasione di scrivere su «Il Contemporaneo» fin dal primo numero della rivista. Sono quindi due dei tre direttori del settimanale, Carlo Salinari e Antonello Trombadori, a segnalarlo al partito, al quale si è rivolto il giovane Giangiacomo Feltrinelli che, a Milano, vuole aprire una casa editrice dandole una più che marcata identità politica che ne rifletta il proprio orientamento. Un colloquio a Roma, e poi la chiamata nel capoluogo lombardo, destinazione via Fatebenefratelli, sede della «grande iniziativa» del ricchissimo milanese. Parrebbe, piovuta dal cielo, la soluzione a tutti i mali: un'occasione "ufficiale" e irrinunciabile per lasciare a Grosseto moglie e due figli e per vivere con meno ansie la relazione con la Jatosti; in aggiunta, sembrerebbe una nuova possibilità di combattere il nemico, la Montecatini, lì dove ha il suo vero centro, dopo che il lavoro da intellettuale, sul campo, non è servito a evitare il disastro in Toscana.
A conti fatti, niente come la collaborazione con «Il Contemporaneo» imprime una svolta così decisiva all'esistenza di Luciano Bianciardi: a uno sguardo distratto sono solo undici articoli, ma si rivelano per lui invece un secondo inizio e, al contempo, l'inizio della fine.
È proprio su questa testata che viene pubblicato "Lettera da Milano", il 5 febbraio del 1955 <51. È uno dei bilanci che Bianciardi affronta periodicamente, uno di quei bilanci cui di volta in volta (almeno nelle intenzioni) dà l'impressione di aggrapparsi per mettere un punto fermo, chiudere un vecchio capitolo di vita e aprire il seguente: è successo con l'esperienza della guerra ("Ancora un bilancio", che inaugura i Diari di guerra), poi con l'adesione al Partito d'azione ("Bilancio provvisorio", apparso il 22 novembre del 1952 su «La Gazzetta»), succede ora con l'arrivo a Milano. E succederà ancora, ai tempi delle critica televisiva, e poi molto più avanti, nel 1970, con un pezzo dedicato ai figli, leggero in superficie quanto profondamente doloroso a rileggerlo oggi che se ne conoscono i retroscena.
"Lettera da Milano" comincia così:
"Carissimi,
dovevo proprio raccontarvi una volta o l'altra, quel che ho visto e quel che ho capito, in questi primi sei mesi milanesi, soprattutto sentivo e sento il bisogno di esporvi, di questo bilancio, la parte negativa, la più grossa, di dirvi insomma quel che non ho capito, o addirittura non visto". <52
Appena metà anno, e il saldo è già infelice: «In questi sei mesi la parola problema è quella che più di tutte ho sentita dire. Mi è capitato, dopo ore di discussione collettiva, di sentire un collega intervenire osservando: "Io penso che il problema sia un altro". Esiste insomma persino il problema del problema. Cioè esiste, soprattutto, una notevole confusione.»
Nel passo che segue, c'è già in nuce La vita agra: lo stare naturaliter dalla parte dei badilanti e dei minatori contro i latifondisti, e la scelta di trasferirsi al Nord pensando che «la lotta», lassù, si possa «condurre con mezzi migliori, più affinati, e a contatto diretto con il nemico.»
"Mi pareva anzi che quassù il nemico dovesse presentarsi più scoperto e visibile. A Niccioleta la Montecatini non ha altra faccia se non quella delle guardie giurate, povera vera gente che cerca di campare, o quella del direttore, un ragazzo della mia età, che potrebbe aver fatto con me il liceo, o giocato a pallone. A Milano invece la Montecatini è una realtà tangibile, ovvia, cioè si incontra per strada, la Montecatini è quei due palazzoni di marmo, vetro e alluminio, dieci, dodici piani, all'angolo fra via Turati e via della Moscova. A Milano la Montecatini ha il cervello, quindi dobbiamo anche noi spostare il nostro cervello quassù, e cercare di migliorarlo, di farlo funzionare nella maniera e nella direzione giusta. Così ragionavo, e per questo mi decisi".
Non c'è traccia di operai, nella grande città: solo di quei ragionieri che ne fanno «il tono umano», con la borsa di pelle sotto il braccio e il bicchiere di grappa alle 9 del mattino. «[…] nessuno di loro, fra l'altro, è milanese»: tutti lì dalla provincia più o meno lontana alla ricerca di «grana», o «pan» che dir si voglia. Non ci sono neanche i preti, continua Bianciardi, ma soprattutto non ci sono "gli intellettuali. Li ho visti, s'intende, e li vedo ogni mattina, come singoli, ma mai come gruppo. Non riescono a formarlo, e ad influire come tale sulla vita cittadina. L'unico gruppo in qualche modo compatto è quello che forma la desolata «scapigliatura» di via Brera. Gli altri fanno i funzionari d'industria, chiaramente. Basta vedere come funziona una casa editrice: c'è una redazione di funzionari, che organizza: alla produzione lavorano gli altri, quelli di via Brera, che leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta, come braccianti per le «faccende» stagionali. Vi ho detto che persino quel che mi pareva chiaro, la posizione del nemico nei palazzoni di dieci piani, fra via Turati e via della Moscova, a Milano non mi è parso più tanto chiaro. Perché qui le acque si mischiano e si confondono. L'intellettuale diventa un pezzo dell'apparato burocratico commerciale, diventa un ragioniere".
È per evitare di trasformarsi anche lui in un intellettuale ragioniere che tre anni dopo Bianciardi si fa licenziare dalla Feltrinelli (per scarso rendimento) e diventa un traduttore free-lance. Ancora non può saperlo, ma nelle ultime due righe della precedente citazione c'è già scritto il suo futuro: pagine e pagine in inglese di narrativa, manuali e testi scientifici da tradurre in italiano, lo stesso numero ogni giorno per far tornare i conti e poter pagare bollette, sigarette e alcol. Un ragioniere a tutti gli effetti, lo si potrebbe definire. Nel 1962, da ultimo, con la pubblicazione da parte di Rizzoli del suo romanzo più venduto e famoso, l'anarchico arrabbiato si mischia e si confonde definitivamente nelle acque dell'industria, il nemico che in origine avrebbe dovuto contrastare. In quel febbraio del 1955 però gli ideali non risultano ancora del tutto sconfitti: compito degli intellettuali, sostiene Bianciardi in chiusura, è tentare la composizione tra chi ha il capitale, e comanda, e la piccola borghesia e la classe operaia, ovvero le parti che i comandi li prendono. Altrimenti, «se le cose continuano così, là dalle mie parti i badilanti continueranno a vivere di pane e cipolla, i minatori a morire di silicosi o di grisou»:
"Io vorrei proprio che voi, amici romani, mi spiegaste, più semplicemente che potete, come si deve fare. Vorrei che me lo spiegassero gli amici milanesi, soprattutto. E che non mi rispondessero, per carità, cominciando a dire che il «problema è un altro». No, il problema è proprio questo. Ogni volta che torno a Niccioleta mi convinco che è proprio così".
[NOTE]
51 L'articolo era già uscito, con delle varianti, su «La Frusta».
52 Questa e le quattro citazioni che seguono sono tratte da: Luciano Bianciardi, L'antimeridiano. Opere complete. Volume secondo, pp. 700-705.
Alessandro Salvatore Marongiu, La produzione giornalistica di Luciano Bianciardi e di Anthony Burgess: motivi, occasioni, stile, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Sassari, Anno accademico 2009/2010