martedì 1 novembre 2022

Quando Montale fu polemico con Alvaro


Tra il 1945 ed il 1946 sul quindicinale «Il Mondo» <186, diretto in questo biennio da Alessandro Bonsanti, Arturo Loria, Eugenio Scaravelli ed Eugenio Montale, intercorse una polemica che ebbe per protagonisti il condirettore Montale, Carlo Emilio Gadda e Mario La Cava, entrambi collaboratori della rivista.
La controversia ebbe inizio con una lettera <187 aperta di La Cava a Montale, nella quale lo scrittore calabrese rispondeva ad alcune considerazioni sulla questione meridionale della quale Montale si era indirettamente interessato nel recensire il pamphlet di Corrado Alvaro 'L’Italia rinunzia?' (apparso nel 1944 a puntate su «Il popolo di Roma» e pubblicato in volume da Bompiani nel 1945 e nel 1986 da Sellerio <188) ed il volume di Sebastiano Aglianò intitolato 'Che cos’è questa Sicilia?' <189.
Nei loro rispettivi interventi apparsi nel 1945, nel drammatico contesto della guerra civile, Alvaro e Aglianò indicavano tempestivamente, attraverso argomentazioni diverse ma convergenti, i rischi del conservatorismo incombenti sul futuro politico dell’Italia liberata. In particolare Corrado Alvaro, denunciando il trasformismo della vecchia classe dirigente collusa con il regime fascista appena decaduto, metteva in guardia dai pericoli di una eventuale «restaurazione», di una «misera commedia degli accomodamenti» <190 che avrebbe inficiato ogni opera di rinnovamento sociale e culturale della nazione; mentre Sebastiano Aglianò, nell’evidenziare la fragilità del senso di unità nazionale continuamente logorato dalle vanità locali, definiva le spinte separatiste della Sicilia un goffo tentativo di frenare la modernizzazione di quella regione e ne prevedeva come conseguenza diretta l’isolamento, l’estromissione dalla cultura moderna europea e il ripiegamento entro i confini di un provincialismo esasperato, simile a quello che precedentemente il fascismo aveva imposto su scala nazionale.
La polemica sarebbe stata, dunque, indirettamente innescata dai suddetti testi, eppure gli interventi di Montale, Gadda e La Cava sono privi di riferimenti alle argomentazioni di Alvaro o a quelle di Aglianò e, sotto certi aspetti, ne disattendono anche l’appello alla coesione e alla solidarietà civile. Tale polemica costituisce anzi un riflesso della forte contrapposizione ideologica tra italiani del nord e italiani del sud che i disastri della guerra e della dittatura avevano inasprito. All’indomani del secondo conflitto mondiale erano sorti infatti nuovi motivi di contrasto fra gli italiani, dovuti alla diversità delle valutazioni inerenti il contributo militare profferto dalle singole regioni alla lotta armata, e proprio su questo punto le opinioni dei tre interlocutori furono particolarmente discordanti.
Nell’articolo-recensione al pamphlet di Alvaro, Montale mette in rilievo l’irregolarità espositiva del testo, considerandola, più che un difetto, una prova dell’autenticità di quell’intervento, non lineare, stilisticamente imperfetto, ma proprio per questo incalzante e vivo: "Del colore e della serietà morale del suo discorso non si meraviglierà chi conosceva da tempo in lui uno scrittore per cui il mondo storico e la polis esistono, per cui anzi, essi costituiscono addirittura le premesse di ogni possibile attività di un artista che sia italiano e non un calmucco o abitatore della luna, come certi manichini dipinti dai pittori contemporanei. Ciò non toglie che sia difficile riassumere il suo pensiero e risolverlo in una formula: il suo libretto è in un certo senso un monologo dello scontento, l’intimo sconforto di chi teme sfugga agli italiani l’occasione unica, irripetibile, ad essi offerta dalla loro recente storia. E come avviene a chi parla a se stesso in solitudine, affidandosi al filo delle proprie incertezze e adombrandosi ad ogni luce e ad ogni figura sospetta, il discorso non segue una linea rigorosa, ma si versa nelle pagine come un fiotto, si tinge di umori diversi, si addentra in apparenti contraddizioni, non rifiuta le sottolineature dell’enfasi; vuol essere prima di tutto lo sfogo di un animo esacerbato e poi l’opera di un giudice, di un cauterizzatore delle nostre vecchie piaghe nazionali". <191
Se Montale dimostra di condividere le preoccupazioni di Alvaro sul pericolo di una nuova deriva politica dell’Italia <192, le sue posizioni divergono invece da quelle dello scrittore calabrese nei punti in cui quest’ultimo passa a considerare le cause del dislivello economico fra nord e sud Italia: "Leggendo 'L’Italia rinunzia?' si ha tuttavia l’impressione che Alvaro faccia troppo carico al nord dello stato in cui si trova il nostro mezzogiorno, che secondo lui sarebbe stato tenuto deliberatamente in condizioni coloniali per servire da mercato alle eccedenze dei prodotti industriali del nord. È cosi? Io non posso escluderlo né ho modo oggi di rifarmi alla questione del mezzogiorno quale essa fu impostata da Salvemini; ma voglio pregare Alvaro di dirmi a quali deleteri influssi settentrionali è possibile ascrivere quello spirito di omertà e di «comparizio» che rende quasi impossibile al sud un sano sviluppo della vita politica. Il caso del meridionale che non paga le tasse o ne paga meno del giusto perché l’agente delle tasse è un «paesano» è tanto noto che non occorre indugiarvisi. È ben vero che la Sicilia da sola potrebbe avere un florido bilancio con la sola esportazione dello zolfo e degli agrumi e che il «continente» se n’è servito per arrotondare i suoi bilanci lasciandola in quelle condizioni che tutti sanno; ma difficilmente si potrà ascrivere a congiure nordiste la tipica atmosfera balcanica, levantina, che si è sempre respirata a Roma, col fascismo o senza fascismo". <193
Pur preferendo non addentrarsi nel dibattito meridionalistico, né respingere in toto l’ipotesi di lettura della crisi economico-sociale del sud proposta da Alvaro <194, Montale conclude il proprio intervento invitando a una valutazione più obbiettiva delle responsabilità del settentrione riguardo al sottosviluppo del Mezzogiorno: nel clientelismo e nella cronica incapacità di agire secondo regole di convivenza civile che non siano espressione diretta di interessi privati egli individua alcune problematiche intrinseche alla società meridionale, impossibili da imputare all’azione di governi ostili o a impensabili «congiure nordiste».
[NOTE]
186 Per l’analisi della rivista nel periodo fiorentino, si veda: C. Ceccuti, «Il Mondo». Lettere, scienze, arti, musica 1945-1946. Antologia di una rivista della terza forza, Firenze, Edizioni Polistampa, 2004.
Gli articoli di La Cava apparsi sulla rivista nel biennio 1945-1946 sono: M. La Cava, Osservatore calabrese, I, n. 2, 21 aprile 1945, p. 16; Id., Non mandate imprecazioni, I, n. 7, 7 luglio 1945, pp. 14-15; Id., Favole, I, n. 9, 4 agosto 1945, p. 14; Id., A proposito della questione meridionale, I, n. 11, 1 settembre 1945, p. 2; Id., Osservatore calabro, I, n. 16, 17 novembre 1945, p. 2; Id., Calamandrei scrittore, II, n. 19, 5 gennaio 1946, p. 7.
187 M. La Cava, A proposito della questione meridionale cit.
188 In questa sede si farà riferimento all’edizione Donzelli del 2011: C. Alvaro, L’Italia rinunzia?, introduzione di M. Isnenghi, Roma, Donzelli, 2011.
189 S. Aglianò, Che cos’è questa Sicilia, introduzione di M. Mazzara, Palermo, Sellerio, 1996. Le recensioni di Montale cui si fa riferimento sono: E. Montale, L’Italia rinunzia?, in «Il Mondo», I, n. 4, 19 maggio 1945, p. 6; Id., Sicilia, in «Il Mondo», I, n. 7, 7 luglio 1945, p. 6, ora in Id., Auto da fé, in Id., Il secondo mestiere. II. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, pp. 38-42 e pp. 49-52. Esse si inseriscono all’interno di una terna di recensioni di interesse meridionalistico di cui fa parte anche quella intitolata Un pittore in esilio, dedicata al Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, ora in E. Montale, Auto da fé, in Id., Il secondo mestiere. II. Arte, musica, società cit., pp. 32-37.
190 C. Alvaro, L’Italia rinunzia? cit., p. 80.
191 E. Montale, L’Italia rinunzia? cit.
192 «Chi ricorda la solidarietà, l’aiuto, il patriottismo, la giustizia che il popolo italiano aveva saputo manifestare nei mesi dell’abbandono, rimane stupito che oggi, a liberazione avvenuta, in questa parte d’Italia, l’ambiente si sia nuovamente avvelenato, e l’odore di cadavere che ammorbò l’Italia per tanti anni, salga da tutta la vecchia classe dirigente morta e non rimossa dal Comitato di Liberazione, e che marcisce sulle sue poltrone, nei suoi palazzi, marcisce in piedi mentre parla, briga, discute, scrive. [...] Sì, all’intorno si parlava di libertà, di democrazia; ma al centro si era costituita nuovamente quella fortezza in cui la reazione degli alti gradi di ogni categoria dello Stato trovava il suo rifugio. La vita tornò, quella di prima; ma più scopertamente. Quella parte del paese che sembrava avesse dato la massima prova della sua avidità negli anni del fascismo, aveva ancora da fare. Alla fine lo stesso popolo finì col corrompersi. La storia dell’avvenire dirà fino a che punto la restaurazione dei fuggiaschi abbia impedito la ripresa dello spirito italiano, dell’economia e della vita italiana, e dello stesso sforzo di guerra italiano, frapponendosi, con le sue classi rimbaldanzite, in ogni seria opera di rinnovamento del paese». C. Alvaro, L’Italia rinunzia cit., p. 51, pp. 55-56.
Alvaro si dimostra scarsamente fiducioso anche nei confronti dei partiti politici italiani e nell’intervento degli Alleati, poiché vede i primi persistere «nell’atteggiamento di chi abbia qualcosa da salvare dal passato», al punto da accettare la presenza politica «degli uomini che condussero alla catastrofe», ed i secondi esprimere un atteggiamento ambivalente nei confronti del fascismo, del quale essi sembravano contrastare unicamente le mire espansionistiche ed accettare la politica interna: «Ma dunque, antifascisti e fascisti, sarebbero tutti della medesima pasta? Ma dunque anche i liberatori, i rappresentanti delle libere democrazie, i paladini della libertà, possono tollerare che il nostro paese si accomodi con questa rassegnazione sulla catastrofe [...]. Infine, sotto il nome di libertà e di democrazia, il fascismo non fu battuto in quanto tirannia dell’uomo ma in quanto pericolo imperialista? Insomma, i liberatori accetterebbero del fascismo la pratica politica interna e i suoi uomini, ciò che ripugnava agl’italiani, e ne rifiuterebbero quell’espansionismo che era il solo aspetto che gl’italiani accettavano come una soluzione al loro lavoro e al loro numero? Questi sono i quesiti che ogni coscienza onesta oggi si pone. E i dubbi che domani, dopo una tale pratica di vita, si abbia a creare nuovamente il mito dell’imperialismo italiano che in qualche modo riscatti perfino la fama di quella dittatura». Ivi, pp. 62-64.
193 E. Montale, L’Italia rinunzia? cit.
194 In realtà, la riflessione di Alvaro sui reflussi dell’economia nazionale non si risolve nella mera attribuzione di responsabilità del degrado del meridione a fattori esterni. Lo scrittore tenta una definizione della natura della crisi, individuandone l’origine anzitutto nel progressivo depauperamento della vitalità produttiva della provincia, definita il vero motore propulsore dell’economia italiana. L’assalto alle città e la ricerca affannosa dei titoli di studio finalizzata esclusivamente all’ottenimento di un impiego di tipo burocratico avevano logorato il sistema economico delle province meridionali, senza però creare le condizioni di un nuovo sviluppo, e anzi fomentando l’assalto parassitario al bene pubblico, ovvero quella degenere tendenza popolare che Alvaro definisce «funzionarismo». C. Alvaro, L’Italia rinunzia? cit., p. 40. L’analisi di Alvaro supera, in sostanza, l’antitesi nord-sud basata sulla reciproca attribuzione di colpe e di responsabilità. Le sterili diatribe interne alla comunità nazionale italiana perdono consistenza dinnanzi alla gravità di una piaga sociale contro cui lo scrittore prospetta come unica soluzione una riforma culturale ancor prima che economica: «ci vorrà, a lavorare sul serio, almeno un ventennio per estirpare il fascismo dall’Italia, cioè la somma di tutti i difetti e mancanze e deviazioni del carattere italiano. Occorre una riforma che restituisca alla cultura il suo carattere disinteressato, la sua abnegazione che fa uomini e cittadini, e non postulanti, una riforma che alle troppo numerose scuole classiche sostituisca in determinate regioni, specie in quelle più arretrate, scuole di avviamento, tecniche, industriali, agricole, le quali forniscano alla nazione, povera di risorse ma con capacità d’ingegno, di applicazione ingegnosa, di tecnica, piccole e grandi élites le quali abbiano la fierezza del lavoro [...]. Con una radicale riforma dell’economia italiana, e dell’assetto italiano, si frenerà la fuga dalla provincia verso gl’impieghi e il parassitismo e il perpetuo turbamento della vita pubblica, quando ogni provincia avrà in sé il suo nucleo e focolare di vita, con le sue industrie naturali, e tornerà ad essere quella ricca riserva di uomini e di spiritualità che già fu. L’Italia meridionale, che è il più grave problema della vita italiana, finito il suo patriarcalismo, tramontata la veneranda età dell’oro dei nostri padri, riacquisterà il senso civile e il senso dell’uomo, al contatto col lavoro moderno. Al mito del diploma bisogna sostituire la virtù della tecnica». Ivi, pp. 18-19.
Eleonora Sposato, Oltre le cose, la sostanza che non muta. Mario La Cava. La figura e l'opera, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Calabria, 2013