venerdì 30 dicembre 2022

A volte l’organizzazione tentò pure di liberare i prigionieri ebrei nel trasporto da San Vittore ai treni convoglio diretti in Germania


La caccia all’uomo si era del resto subito palesata già all’indomani dell’occupazione tedesca del territorio italiano. Il 15 settembre, a Merano, furono arrestati e deportati 25 ebrei; il 16 prese il via il rastrellamento sul lago Maggiore che si concluse con l’assassinio di 49 israeliti; il 18 il comandante Muller emanò, a Borgo San Dalmazzo, il proclama contro gli stranieri chiaramente finalizzato all’arresto degli ebrei non italiani. Il 9 ottobre successivo, a Trieste, vi fu la prima massiccia retata contro gli ebrei cui seguì quella del giorno 16 nel ghetto di Roma, dove furono catturate e deportate 1007 persone, accompagnata da un’azione simultanea a Milano conclusasi con altri 200 arresti. Di fronte a tale furia agli ebrei rimanevano poche soluzioni: darsi alla lotta clandestina aggregandosi alle formazioni partigiane, tentare la fuga verso la Svizzera, oppure ricorrere alla clandestinità cercando ogni sorta di rifugio. Quanti presero la strada della lotta clandestina trovarono un ambiente pronto ad accogliere e valorizzare il loro apporto senza alcuna discriminazione di sorta tanto che, a differenza di ciò che avvenne negli altri paesi europei, in Italia non sorse alcuna formazione partigiana connotata in senso esclusivamente ebraico. Il popolo italiano, in pratica, “permise agli ebrei, italiani o meno, di sentirsi parte integrante della Resistenza nella sua lotta contro le forze del male” [3]. In tal modo, nella Resistenza, trovò la sua ricomposizione quella frattura del corpo nazionale provocata con il varo delle leggi razziali. Gli ebrei tornarono a sentirsi membri della nazione italiana e, in quanto tali, legarono nuovamente la propria sorte e le proprie speranze, com’era sempre avvenuto nel passato, ai destini del paese e dell’intera comunità nazionale. La Resistenza, oltre che affermare con vigore il principio dell’eguaglianza degli ebrei, invitò contemporaneamente la popolazione ad intervenire in loro favore e in loro aiuto. Di fronte ai terribili avvenimenti del ghetto di Roma, “L’Italia Libera”, giornale del Partito d’azione, si espresse nei seguenti termini:
“I tedeschi vorrebbero convincerci che costoro ci sono estranei, che sono d’un’altra razza; ma noi le sentiamo come carne nostra e sangue nostro: con noi hanno sempre vissuto, lottato e sofferto. Non solo gli uomini validi, ma vecchi, bimbi, donne, lattanti, tutti sono stati stipati in carrettoni coperti ed avviati così al loro destino. Non c’è cuore che non frema al pensiero di quel destino”.
Al giornale azionista fece eco l’appello lanciato dall’“Unità”:
“Non si deve tollerare che si ripeta in Roma l’orrendo misfatto di intere famiglie innocenti smembrate e deportate a morire di freddo e fame chi sa dove. C’è un senso di solidarietà umana che non si può offendere impunemente. Queste vittime infelici della bestiale rabbia nazifascista debbono essere non solo soccorse perché si sottraggano alle ricerche e alla cattura, ma anche attivamente e coraggiosamente difese” [4].
Tenendo fede a queste prese di posizione, durante tutto il periodo dell’occupazione tedesca, la Resistenza fu per gli ebrei d’Italia “un sostegno unico e insostituibile” [5]. Questo giudizio ha valore sia per ciò che riguarda il ruolo che essa assolse in forma indiretta, sia nel caso venga valutata la sua azione direttamente finalizzata all’aiuto e al soccorso della popolazione d’origine ebraica. Per ciò che riguarda il primo aspetto è facile intuire a quale scopo sarebbero state destinate quelle forze che invece furono impiegate nel contrastare la lotta partigiana.
[...] Un certo peso ebbero anche i Garal (Gruppi d’azione Repubblicani Antifascisti Lombardi), primo nucleo delle future Brigate “Mameli” e “Mazzini”, che costituitisi a Milano fin dal settembre 1943 inizialmente si erano posti come primo loro obiettivo l’aiuto agli ebrei e agli ex prigionieri di guerra in fuga [8]. L’attività maggiore in tale senso fu però svolta dall’Oscar (Organizzazione Soccorsi Cattolici agli Antifascisti Ricercati) additata dalle forze di Salò, assieme all’Azione cattolica, fra i peggiori nemici del regime.
Nata il 12 settembre sul nucleo dell’organizzazione scoutista delle cosiddette “Aquile Randagie”, raggruppava una quarantina di componenti, sacerdoti e laici, ed era composta da tre distaccamenti: Milano Crescenzago, Varese città e Varese zona. Gli animatori principali furono don Andrea Ghetti, definito dai fascisti “traditore da capestro” [9], don Enrico Bigatti, don Aurelio Giussani e don Natale Motta.
I principali centri di raccolta erano la parrocchia di Crescenzago e il Collegio San Carlo dove venivano preparati tutti i documenti falsi necessari alla sopravvivenza dei ricercati. In genere i perseguitati erano condotti alla stazione Nord e a quella di Porta Nuova per essere poi accompagnati da incaricati sicuri a Varese; con mezzi pubblici, infine, erano raggiunte le zone di confine dove si poteva espatriare. Saltrio, Clivio, Ligurno, Rodero, il fiume Tresa, le Alpi Retiche, il lago d’Emet e la Val di Lei erano i luoghi solitamente usati per i passaggi in Svizzera. Oltre a questa attività, che doveva contare su una rete nei pressi del confine di persone fidate disposte ad ospitare i fuggiaschi in transito, l’Oscar possedeva anche un’efficiente servizio informazioni all’interno della polizia che consentiva di prevenire gli arresti e di sviare le ricerche. A volte l’organizzazione tentò pure di liberare i prigionieri nel trasporto da San Vittore ai treni convoglio diretti in Germania, tentativi che però furono sempre destinati dall’insuccesso.
Più efficaci si rivelarono invece i “rapimenti” di ebrei ricoverati negli ospedali aggredendo la custodia o cercando di aggirarla con astuzia. Emblematico a riguardo fu il salvataggio di un bambino di quattro anni, Gabriele Balcone, che, ricoverato presso la casa S. Giuseppe di Varese, avrebbe dovuto seguire la madre deportata in Germania. L’Oscar riuscì prima a farlo ricoverare presso l’Ospedale di Varese con la scusa di un intervento operatorio e poi, dopo tre tentativi andati a vuoto, ad introdursi nella struttura e ad impossessarsi del bambino per portarlo in salvo e affidarlo a una famiglia della provincia. L’impegno dell’Oscar permise ben due mila espatri mentre tre mila furono i documenti falsi rilasciati; un lavoro arduo che costrinse le persone più in vista dell’organizzazione come don Ghetti e don Motta a darsi alla latitanza o, nel caso di don Giussani, a prendere la strada della montagna per unirsi ai partigiani in Romagna.
L’assistenza operata da questi uomini spesso si scontrava contro la paura e la prudenza degli stessi vertici ecclesiastici tanto da portare don Enrico Bigatti, anch’egli arrestato per la sua attività, a scrivere nel suo diario: “Ne ho piene le tasche della prudenza! Chi non ha paura?! Datemi aiuto e carità” [10].
L’impegno assunto dalla Resistenza in favore degli ebrei trova conferma anche in una serie di azioni militari condotte contro alcuni campi di internamento provinciali. Il 3 maggio del 1944, dietro sollecitazione della Resistenza marchigiana, gli Alleati bombardarono il campo di Servigliano permettendo così la fuga di numerosi prigionieri fra cui una cinquantina di ebrei. L’8 giugno successivo il campo fu nuovamente attaccato dai nuclei partigiani della zona che riuscirono a liberare tutti gli internati. In questo secondo attacco furono sottratti alla deportazione 44 ebrei. Un’altra decina furono liberati in conseguenza delle azioni condotte contro i campi di Scipione, Salsomaggiore e Pollenza [11].
Sul finire del mese di novembre dello stesso anno il Clnai, su iniziativa del Partito d’azione della Svizzera, comunicava inoltre a tutti i Cln provinciali l’istituzione di un fondo per l’assistenza agli ebrei invitando ogni struttura a nominare un proprio fiduciario con il compito di raccogliere informazioni sullo stato degli ebrei bisognosi e di trasmettere al Comitato centrale le richieste di assistenza. [12]
[NOTE]
[3] M. Michaelis, La Resistenza israelitica in Italia, in ‘Nuova Antologia’, ottobre dicembre 1980, p. 244. Per il ruolo degli ebrei nella Resistenza si vedano anche G. Formiggini, Stella d’Italia Stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Milano, Mursia, 1970 nonché Cdec ( a cura di), Ebrei in Italia: deportazione Resistenza, Firenze, La Giuntina, 1975.
[4] I due testi sono tratti da M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione,Torino, Einaudi ,2000, p.280, n.152.
[5] M. Sarfatti, Dopo l’8 settembre: gli ebrei e la rete confinaria italo-svizzera, in ‘La rassegna mensile di Israel’, Roma Vol XLVII, n.1-2-3-, gennaio giugno 1981.
[8] Cfr. G. Bianchi, Dalla Resistenza. Uomini, eventi, idee della lotta di Liberazione in provincia di Milano, Provincia di Milano, 1975, p. 108.
[9] G. Barbareschi ( a cura di), Memorie di sacerdoti ribelli per amore, Milano, Centro di Documentazione e Studi Religiosi, 1986, 202.
[10] E.Bigatti , …Che il sale non diventi zucchero, Milano, Stefanoni, 1971, pp.175-176.
[11] Cfr. M.Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, cit., p. 269.
Massimiliano Tenconi, La guerra silenziosa per salvare gli ebrei, Storia in network, 1 maggio 2014