lunedì 17 giugno 2024

Tentai un esperimento nel mio dialetto ligure


... riprendiamo una dettagliata analisi dello studioso e giornalista Franco Onorati sull’interesse di Pasolini per i dialetti, tradotto in pionieristici studi nel campo della letteratura dialettale, tra cui anche gli interventi critici nelle iniziative di Mario dell’Arco, che fu  collaboratore del poeta di Casarsa per il volume del 1952 Poesia dialettale del Novecento (Guanda).
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Presenze pasoliniane su “il Belli”
Come accennato, nel nome di Belli prende il via nel dicembre 1952, cioè stesso mese ed anno della più volte citata antologia dell’Arco-Pasolini, l’ennesima iniziativa dellarchiana: una rivista intitolata appunto “il Belli”, che nel fondo di apertura (anno I, n. 1, dicembre 1952) Trompeo definisce sinteticamente  “una rivista figlia delle Muse, che raccoglie il meglio della poesia in dialetto e il meglio della relativa critica letteraria”. Fin troppo evidente che tale impostazione valorizza il grande lavoro di preparazione che Pasolini e dell’Arco avevano affrontato per la loro antologia: quel lavoro prosegue sulla nuova testata e spalanca al lettore panorami di inaspettata vitalità e vastità del fenomeno dialettale, affrontati con metodo critico e filologico.
La rivista durerà quattro anni (dicembre 1952-novembre 1955)
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Le risposte dei poeti
Premesso che le tre domande rivolte ai poeti erano
1.Perché scrivi in dialetto anziché nella lingua letteraria?
2.La tua poesia (secondo te) fa parte della letteratura italiana o di una letteratura regionale?
3.Supponi che ci siano delle speciali istanze di impegno sociale nell’uso del dialetto?
riproduco nell’ordine le risposte dei poeti
Il Belli Anno I, n.1 - dicembre 1952
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Le tre domande sono a mio [Cesare Vivaldi] parere e per quanto mi riguarda così strettamente collegate che non posso non coordinarle in una unica risposta. Proprio la terza domanda infatti è quella che, almeno per il sottoscritto, fornisce la chiave della altre due. Né d’altra parte è possibile considerare il questionario che mi viene sottoposto come qualcosa volto ad un semplice soddisfacimento di curiosità, o come una indagine statistica cui si possa rispondere anche soltanto con affermazioni o negazioni, bensì come un serio invito ad una autocritica, nei limiti di spazio concessi, la più approfondita e serena possibile. Debbo premettere che la mia opera di scrittore in versi si è prevalentemente esplicata in “lingua” e con obiettivi spiccatamente “sociali”, nel senso preciso che a questo aggettivo si dà parlando della poesia del nostro Risorgimento o, per fare un esempio più alto, di quella di un Petofi. Ma poiché i risultati raggiunti erano molto lontani - a motivo della loro “aulicità” e della loro lontananza dalla vita popolare, dal linguaggio e dalla realtà popolari - dal soddisfarmi, e poiché capivo che il problema di un nuovo realismo non poteva essere affrontato che partendo ab imis (e cioè da un punto diverso di visuale, più concreto, più umile, se vogliamo, di fronte alle contraddizioni della realtà, colte non tanto nei loro “gesti”, e quindi nella loro “retorica”, ma nella loro “quotidianità”), mi accorsi che questo non avrebbe potuto avvenire se non a prezzo di un mutamento radicale, mutamento nel quale anche la questione del linguaggio si poneva in termini nuovi.
Ciò avvenne nel 1951, ed appunto in quell’anno tentai un esperimento (lo chiamo così perché fallito nei suoi scopi principali) nel mio dialetto ligure. Furono otto poesie che pubblicai in volume nello stesso 1951 e che, prescindendo da ogni valutazione estetica, non portarono a grandi risultati. Anziché un approfondimento del linguaggio in senso popolare non ne sortì infatti che una serie di figure e paesaggi della nostalgia. In altri termini il poeta, anziché dominare il linguaggio dell’infanzia, ne era stato dominato. La cosa fu molto chiara quando, scrivendo nuovamente in “lingua”, mi avvidi di ricadere nei vecchi difetti. Ed oggi, sulle soglie del 1953 il problema è  sostanzialmente rimasto nei suoi vecchi termini. Come risolverlo non posso dire perché io stesso lo ignoro. Ma se può interessare dirò che dopo la già fatta esperienza, mi propongo di tornare, con diverso impegno, all’uso del dialetto.
Ma con ciò mi avvedo di aver risposto alle due domande principali, la prima e la terza, e non alla seconda. Dal tenore del mio scritto penso però che i lettori non dureranno fatica a trovare la risposta mancante; comunque, per risparmiare loro una fatica, dirò che considero anche quanto ho scritto in dialetto come facente parte non di una letteratura regionale ma della letteratura nazionale, dato che non può essere dissociato dal complesso della mia opera quanto occorre  al suo divenire.
Cesare Vivaldi
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Franco Onorati, Pasolini dialettologo, Centro Studi Pier Paolo Pasolini, 4 gennaio 2015


Se Delfini non trova posto tra gli umoristi, il suo nome è però incluso pochi anni dopo nell’antologia "Poesia satirica nell’Italia di oggi", a cura di Cesare Vivaldi, Guanda, Parma, 1964. Nella sua introduzione, Vivaldi non manca di esprimere le ben note perplessità sullo stile di Delfini, la cui pagina scritta «spesso, non è che immediato sfogo sentimentale, letterariamente sordo». Sottolinea tuttavia come «nonostante i loro limiti le "Poesie della fine del mondo" sono state però, a mio avviso, un caso letterario non abbastanza valutato dalla critica; e la rovente materia cara all’ultimo Delfini (l’insulto, la scatologia, perfino la coprofilia) in parecchi versi si trasfigura, si schiarisce in una sorta di stralunata, lucente fissità».
Sempre nella prefazione, Vivaldi ci tiene ringraziare Giambattista Vicari, sottolineando come «senza la consultazione assidua delle annate del suo ‘Caffè’ l’antologia non avrebbe potuto essere compilata» (p. XXVIII).
Anna Palumbo, «Quanto conta la memoria nella storia». Antonio Delfini 1951-1963, Tesi di perfezionamento, Scuola Normale Superiore di Pisa, Anno accademico 2021-2022