sabato 19 aprile 2025

Mille resistenti ebrei non furono pochi


[...] Gli ebrei resistenti attivi furono circa un migliaio: in grandissima maggioranza combattenti partigiani, ma anche esponenti clandestini politici o militari, membri di missioni clandestine alleate nella penisola <7.
Alcuni di loro (come il piemontese Raffaele Jona) si impegnarono anche nel salvataggio e nell’assistenza degli altri ebrei. Resistenti attivi, pur se disarmati, furono inoltre coloro che si dedicarono unicamente a quest’ultima azione. Tra essi vi erano vari attivisti della Delegazione per l’assistenza agli emigranti - Delasem (diretta a Genova da Lelio Vittorio Valobra e poi da Massimo Teglio e animata a Roma da Settimio Sorani), nonché alcuni rabbini (come Nathan Cassuto e Riccardo Pacifici, poi arrestati e morti in deportazione). La rete della Delasem, sostenuta dall’indispensabile apporto di vari non ebrei, compresi alti esponenti cattolici, riuscì a garantire un certo afflusso di fondi dalla Svizzera e una loro distribuzione in varie località per l’acquisto di documenti falsi, generi alimentari, medicine, vestiario di lana, legna per il fuoco ecc. Tale opera permise la sopravvivenza e la permanenza in clandestinità di alcune migliaia di braccati, in particolare ebrei stranieri ed ebrei italiani poveri o totalmente soli.
Vi furono inoltre ebrei italiani che combatterono volontari su altri fronti europei. Infine, molti ebrei non italiani combatterono in Italia (spesso anch’essi quali volontari) sotto la divisa statunitense, inglese, ecc., compresi naturalmente i membri della Brigata Ebraica costituita in Palestina. Peraltro, il totale di un migliaio di resistenti in Italia comprende alcune decine di ebrei stranieri o apolidi <8.
Gli ebrei partecipanti alla lotta armata, operarono quasi sempre nelle formazioni partigiane; pochissimi furono quelli impegnati nelle azioni cittadine: la clandestinità imposta dalla Shoah era incompatibile con le necessità delle azioni clandestine urbane.
Alcuni ebrei ebbero importanti incarichi negli organismi dirigenti locali e nazionali della Resistenza: l’azionista Leo Valiani e il comunista Emilio Sereni furono nominati il 29 marzo 1945 membro effettivo e membro supplente per i rispettivi partiti nel Comitato esecutivo insurrezionale, incaricato dal Clnai di sovrintendere all’ormai imminente insurrezione <9. Nei convulsi giorni di fine aprile 1945 spettò a questi ultimi due, assieme al socialista Sandro Pertini, il compito di confermare la precedente decisione del Clnai di condannare a morte Benito Mussolini. Il comunista Umberto Terracini fu segretario della Giunta provvisoria di governo costituita nel settembre-ottobre 1944 nell’Ossola liberata. Eugenio Artom fu rappresentante del partito liberale nel Comitato toscano di liberazione nazionale. Vari altri svolsero la funzione di ‘commissari politici’ nelle singole formazioni partigiane. Queste presenze erano in qualche modo conseguenza automatica del maggior livello di istruzione del gruppo ebraico italiano <10. Allo stesso tempo ci segnalano la permanenza del ruolo ebraico di “educatore della nazione”, testimoniato per tutto il periodo storico dell’Italia unita, e ci indicano che nella complessa vicenda del passaggio dal fascismo all’antifascismo l’Italia fece di nuovo ricorso proprio anche al gruppo degli ex-perseguitati.
La maggior parte dei resistenti ebrei aderì al partito d’azione e a quello comunista, fece quindi parte delle formazioni “Giustizia e Libertà” o “Garibaldi” <11.
I caduti furono quasi cento, in maggioranza uccisi in combattimento o poco dopo l’arresto (come le triestine Silvia Elfer e Rita Rosani), ma anche nei campi dove erano stati deportati per motivi politici o perché riconosciuti come ebrei dopo l’arresto (come la torinese Vanda Maestro, arrestata assieme a Primo Levi) <12.
Tra i resistenti ebrei vi fu, rispetto all’insieme del movimento partigiano, una maggiore presenza delle classi di età meno giovani e un minore numero di donne combattenti <13; il primo dato segnala ancora una volta la radicalità del contributo ebraico, il secondo testimonia che sulle donne gravava maggiormente la sopravvivenza delle famiglie braccate e che proprio la loro condizione di clandestine impediva di impegnarsi nell’attività di “staffetta”.
Poco o nulla sappiamo intorno alla loro religiosità e ai mille problemi che i più osservanti di essi dovettero affrontare sulle montagne (anche se occorre dire che la maggioranza degli ebrei italiani seguiva relativamente poco le norme alimentari e le altre regole di vita dettate dall’ebraismo) <14.
Mille resistenti ebrei non furono pochi. I certificati di “partigiano combattente” rilasciati dopo la guerra sono, in tutta la penisola, oltre 233.000 <15. Se ipotizziamo che solo due terzi dei partigiani ebrei li abbiano ricevuti, il loro numero costituisce pur sempre il 2,8 per mille del totale dei partigiani italiani, ovvero tre volte la proporzione della popolazione ebraica nella penisola. Va poi tenuto presente che altri uomini abili alla lotta dovettero impegnarsi - al fianco di tante donne - nel proteggere dagli arresti o dalla morte per stenti i loro figli, i loro anziani, i loro malati. Mille furono insomma molti, tanti. Va aggiunto che i resistenti ebrei decorati di medaglia d’oro al valor militare furono sette (Eugenio Calò, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Sergio Forti, Mario Jacchia, Rita Rosani e Ildebrando Vivanti, tutti “alla memoria”) <16 su poco più di seicento. Si tratta di una percentuale notevole, che, seppure non può e non deve dare adito a confronti di tipo meccanico (il valore mostrato da uomini e donne di tutte le fedi è sempre superiore a quanto contabilizzato dai medaglieri), tuttavia concorre anch’essa a rendere legittima l’affermazione che gli ebrei italiani parteciparono in misura assai elevata (rispetto alle loro dimensioni numeriche e alla loro condizione specifica) alla liberazione di se stessi e dell'Italia tutta.
Si potrebbe osservare che ciò costituiva un fatto semplicemente ovvio, che gli ebrei non potevano far altro che difendersi combattendo. Questa considerazione è ovviamente vera, ma non esaustiva. Essa non spiega ad esempio perché vari ebrei rientrarono in Italia dai loro luoghi di rifugio o di emigrazione (come il sionista-socialista-pacifista Enzo Sereni, che, arruolatosi in Palestina, si fece paracadutare nell'Italia occupata, per essere però poi arrestato, deportato come politico e ucciso a Dachau). C'era quindi dell'altro e per illustrarlo consentitemi di proporvi le testimonianze dei compagni di lotta del partigiano Gianfranco Sarfatti, comunista, rientrato in Italia dopo aver accompagnato i genitori al sicuro, caduto in combattimento in Valle d’Aosta. A chi gli chiedeva: “Combatti i tedeschi e i fascisti perché sei ebreo?”, lui rispondeva “No, combatto i tedeschi e i fascisti perché spero di arrivare a dare al popolo italiano onore, benessere e dignità”. E ancora: “Ma tu prima di venire qua dov'eri?”, “Ero in Svizzera”, “E come mai sei venuto di qua? Avevi la vita più facile di là, no?”, “Si, ma vedi, ci sono degli ideali” <17.
[NOTE]
7 Sul numero degli ebrei resistenti vedi Michele Sarfatti, Ebrei nella Resistenza ligure, in La Resistenza in Liguria e gli Alleati. Atti del convegno di studi, Consiglio regionale della Liguria, Istituto storico della Resistenza in Liguria, Genova 1988, p. 76, nota 2. Sulla partecipazione degli ebrei alla Resistenza in Italia vedi anche Gina Formiggini, Stella d’Italia Stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Mursia, Milano 1970; Liliana Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, in «RMI», vol. XLVI, n. 3-4 (marzo-aprile 1980), pp. 132-46; Santo Peli, Resistenza e Shoah: elementi per un’analisi, in Saul Meghnagi (a cura di), Memoria della shoah. Dopo i “testimoni”, Donzelli, Roma 2007, pp. 35-46.
8 Klaus Voigt, Profughi e immigrati ebrei nella Resistenza italiana, in “La Rassegna Mensile di Israel”, vol. LXXIV, n. 1-2 (gennaio-agosto 2008), pp. 229-253.
9 Pietro Secchia, Aldo dice: 26 x 1: Cronistoria del 25 aprile, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 43-44.
10 Cfr. Michele Sarfatti, Gli ebrei cit. p. 45.
11 In Piemonte i partigiani ebrei scelsero per un terzo le prime e per un terzo le seconde, le quali invece raccolsero la metà di tutti i combattenti della regione. Cfr. Viviana Ravaioli, Gli ebrei italiani nella Resistenza. Prima indagine quantitativa sui partigiani del Piemonte, in Liliana Picciotto (a cura di), Saggi sull’ebraismo italiano del Novecento in onore di Luisella Mortara Ottolenghi, fascicolo speciale de “La rassegna mensile di Israel”, vol. LXIX, n. 2 (maggio-agosto 2003), p. 574.
12 Un primo elenco di 94 caduti è in Michele Sarfatti, Gli ebrei nella Resistenza, in “Bollettino della comunità ebraica di Milano”, a. L, n. 4 (aprile 1995), p. 26.
13 Michele Sarfatti, Gli ebrei cit. pp. 307-8.
14 Michele Sarfatti, Ebrei nella Resistenza cit., p. 87.
15 Lucio Ceva, Considerazioni su aspetti militari della Resistenza (1943-1945), in “Il presente e la storia”, n. 46 (dicembre 1994), p. 55.
16 Liliana [Picciotto] Fargion, Partecipazione ebraica alla Resistenza [Note biografiche dei decorati con medaglia d’oro], in Centro di documentazione ebraica contemporanea, Ebrei in Italia: deportazione, Resistenza, Tipografia Giuntina, Firenze 1974, pp. 47-51; Giuseppe Maras, Medaglie d’oro della guerra di liberazione, in Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi, Dizionario della Resistenza, vol. II, Einaudi, Torino 2001, pp. 735-64.
17 Testimonianze riportate in Michele Sarfatti, Gaddo e gli altri ‘svizzeri’. Storie della Resistenza in Valle d’Aosta, Istituto Storico della Resistenza in Valle d’Aosta, Aosta 1981, pp. 94-95.
Michele Sarfatti, La partecipazione degli ebrei alla Resistenza italiana, La rassegna mensile di Israel, v. LXXIV, n. 1-2 (gennaio-agosto 2008), pp. 165-72

sabato 12 aprile 2025

Il generale Vivalda non risparmiò alcune critiche agli Alleati


La storia di Lorenzo Vivalda è inevitabilmente connessa alle scelte operate dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Nell’aspro territorio montenegrino il generale guidò i reparti italiani in combattimento contro le truppe tedesche. In quel settore Vivalda fu protagonista delle operazioni della guerra partigiana dal 2 dicembre 1943 al 12 agosto 1944 con incarichi di comando nella Divisione italiana partigiana “Garibaldi”[1]. L’ufficiale non ebbe però la possibilità di tornare in patria con i suoi uomini poiché nel novembre del ’44 fu "rimpatriato dal Montenegro per esuberanza dell’organico dei reparti partigiani […] del Comando divisione italiana ‘Garibaldi’"[2].
Il lessico burocratico dello Stato di Servizio di Vivalda nasconde in realtà una questione di politica militare nota agli specialisti dell’argomento: l’opposizione del generale alla prigionia ad opera dei partigiani jugoslavi del tenente colonnello Ezio Stuparelli e del maggiore Bruno Monsani. Vivalda si spese in più circostanze per la loro liberazione, col risultato di risultare inviso ad alcuni influenti ufficiali dell’EPLJ[3].
Il presente contributo ambisce a diradare le nubi che avvolgono le fasi successive della carriera militare di Vivalda e che celano la storia delle unità ausiliarie del Regio esercito nella guerra di Liberazione[4]. Durante la Campagna d’Italia degli angloamericani numerosi reparti italiani, denominati appunto “unità ausiliarie”, collaborarono con gli Alleati in diverse funzioni al fine di facilitarne le operazioni belliche. Le attività svolte dalle truppe italiane furono innumerevoli: lavori effettuati per ripristinare la viabilità ferroviaria e stradale; rimozione di campi minati; ristrutturazioni di porti ed aeroporti; organizzazione e gestione di campi sosta per autocolonne grazie ad un lavoro di manovalanza costante. Con l’aumento considerevole delle unità e dei materiali sbarcati, divenne sempre più pressante l’organizzazione di nuove basi aeree, navali e logistiche. Era inoltre urgente l’impianto ed il ripristino di linee telegrafiche e telefoniche affiancato da servizi di protezione e guardia svolti per la sicurezza di depositi, delle strutture logistiche, dei ponti ed infrastrutture. Alle unità italiane era delegata la sicurezza delle retrovie e delle linee di operazioni alleate[5].
Il lungo elenco degli esercizi svolti non indica questioni squisitamente pratiche, bensì sottende nodi di ordine politico[6]. Tuttavia, la storia di quei soldati è rimasta per un lungo tempo in un cono d’ombra perché si è preferito analizzare le evoluzioni delle unità combattenti: il I Raggruppamento motorizzato[7], il Corpo italiano di liberazione ed i Gruppi di combattimento[8]. Carlo Vallauri ha rilevato la scarsa equità nel celebrare esclusivamente le glorie di quei tre segmenti delle forze armate italiane a scapito delle unità ausiliarie, quasi dimenticate:
"Da quanto è emerso nei rapporti dei comandi italiani e dalle stesse carte alleate, la funzione svolta ad opera di queste unità va considerata - sotto l’aspetto dell’impiego umano, logistico e del rischio - alla stregua di quella propria dei reparti operanti, in quanto interamente rivolta ad assicurare ai reparti direttamente combattenti al fronte le migliori condizioni di sicurezza, a prezzo di continui rischi. Compiti necessari, dalla manovalanza ai lavori agricoli o di trasporto a quello, pericoloso, dello sminamento. Né va sottovalutato il fatto che la presenza di militari italiani - pur in compiti subordinati - nei territori via via occupati dalle armate avanzanti determina nella popolazione la sensazione di non essere diventata esclusivamente oggetto di conquista da parte di eserciti stranieri. Queste forme di cooperazione sono utili al fine di stabilire, tra le unità inglesi o americane e gli appartenenti alle divisioni o altri nuclei dell’esercito italiano, relazioni di reciproca fiducia"[9].
L’esperienza degli “ausiliari” offre quindi diversi spunti di riflessione sulla fase della cobelligeranza. Bisogna infatti sempre tenere a mente che nel settembre del 1943 imperava l’acuta consapevolezza di una sconfitta militare che relegava le forze armate nazionali in uno stato di depressione morale e materiale. Nonostante le enormi incertezze, i reparti interessati al servizio ausiliario prestarono un indispensabile servizio al proseguimento della guerra alleata in Italia. Nelle settimane successive all’armistizio quelle unità del Regio esercito ricevettero immediati ordini operativi dagli Alleati. Alcuni comandanti dei reparti seppero superare lo sbandamento armistiziale abbracciando il nuovo indirizzo politico e militare. Solo grazie a questa granitica certezza - che Vivalda aveva già maturato in Montenegro - alcune divisioni riuscirono meglio a sopperire all’inattività pregressa[10].
Affidare il comando ad un generale che aveva già fatto esperienza della lotta all’ex alleato tedesco risultò un buon viatico anche agli occhi degli Alleati, tanto più che nel novembre del ’44 le relazioni fra le "popolazioni e gli angloamericani" non erano certo distese, ed anzi avevano
"subito un certo raffreddamento dovuto: 1° alla situazione politica internazionale venutasi a creare dopo le dichiarazioni fatte alla Camera dei Comuni da alte personalità politiche inglesi; 2° Alle requisizioni sempre crescenti di appartamenti da parte degli Alleati; 3° Agli atti di violenza sempre più frequenti commessi da militari Alleati a danno di militari e civili italiani.
Conclusione: Anche nel mese di novembre 1944 alto è stato il contributo dato alla Causa Alleata da tutti i dipendenti reparti ed intenso e fecondo di risultati il loro apporto. Comandanti e truppa, consapevoli dei loro doveri in questa ora grave per il nostro Paese, con volontà ferma e con spirito di sacrificio, hanno superato ostacoli e difficoltà d’ogni genere, sobbarcandosi ad ogni disagio, fermamente decisi a rendere apprezzabile e meritorio il nostro contributo alla Causa Alleata" [11].
Il generale Lorenzo Vivalda fu chiamato a gestire una situazione particolarmente complicata dal 20 novembre 1944 quando cessò "di essere destinato presso il Ministero della Guerra per incarichi speciali ed è nominato facente funzioni di comandante della 230^ divisione" costiera[12], anche perché l’impiego di tale unità non corrispondeva pienamente alle richieste dello Stato Maggiore italiano. Dalle alte sfere militari giungevano continue pressioni finalizzate ad una più incisiva presenza di unità italiane in prima linea, al fianco degli Alleati[13]. La costituzione delle unità ausiliarie fu il risultato di un compromesso tra le sollecitazioni italiane presso i comandi alleati - pressioni intese ad ottenere la partecipazione attiva di unità militari alla lotta contro i tedeschi - e la diffidenza degli Alleati, restii per comprensibili motivi ad accogliere le richieste italiane.
Un documento d’archivio a firma di Paolo Berardi, Capo di Stato Maggiore del Regio esercito, è utile per la ricostruzione della genesi del comando della 230ᵃ Divisione: "In conclusione, il comando militare Puglia-Lucania, provvederà: costituire sotto la data del 20 c.m. il comando 230^ divisione con sede in Bari; sciogliere i comandi raggruppamento lavoratori di Bari e Brindisi nonché l’ufficio lavoratori del presidio di Taranto, le cui funzioni saranno assunte dal nuovo comando di divisione"[14].
All’atto della sua costituzione, la 230ᵃ Divisione inquadrava le seguenti unità: il 403° rgt. pionieri ed il 992° reparto portuali (a Bari); il 404° rgt. pionieri ed il 924° reparto portuali (a Brindisi); il 406° rgt. pionieri ed il 923° reparto portuali (a Taranto); il Comando del 541° rgt. fanteria (ad Ortona) dal quale dipendevano diversi reparti  dislocati nelle province di Pescara, Chieti e Campobasso; il Comando italiano genio presso il II Distretto britannico in Bari[15]; i campi di riordinamento e transito di Bari e di Trani; il LII gruppo della 205ᵃ Divisione; il III btg. del 408° rgt. fanteria (Foggia e Ortona); il 921° reparto portuali (a Barletta); cinque battaglioni di sicurezza e guardia; altri piccoli reparti dei servizi.
Il quadro di battaglia della Divisione alla data del primo gennaio del 1945 era pressoché immutato rispetto a quello esposto. Quasi tutte le unità avevano mantenuto invariate le precedenti dipendenze operative dai vari enti e comandi britannici. Nei primi mesi di quel nuovo anno di guerra il generale Vivalda non risparmiò alcune critiche agli Alleati:
"L’appoggio dei comandi alleati è molto modesto e si limita alla saltuaria assegnazione di qualche automezzo per la vita dei reparti. Maggiore interessamento esplicano gli ufficiali alleati di collegamento che sono riusciti ad ottenere assegnazione di viveri di conforto per reparti che lavorano in disagiate condizioni. Nei confronti degli alleati occorre talvolta usare molto tatto per far comprendere alcune difficoltà insorgenti e l’impossibilità di aderire tempestivamente ad improvvise e pressanti richieste. Nessun incidente ha però, sinora, turbato i rapporti tra comandi alleati e comandi italiani.
Prestazioni eccessivamente onerose e lesive al decoro del soldato: In genere, le autorità alleate hanno sempre mantenuto il senso della misura nelle richieste di prestazioni d’opera. Solo a Brindisi era stato imposto per ragioni contingenti un turno di lavoro notturno di ben 11 ore, turno che in seguito a un mio personale intervento è stato ridotto a nove ore. Nessuna richiesta da parte degli alleati di prestazioni lesive al decoro del soldato" [16].
Durante i mesi invernali del 1945 e fino a tutto aprile ripresero i trasferimenti di diverse unità della Divisione, prevalentemente verso nord, motivati dal disimpegno britannico dalle zone delle retrovie nell’Italia settentrionale e conseguentemente dalle sempre crescenti esigenze di impiego di unità ausiliarie, soprattutto in Toscana e nelle Marche. In questa fase gli ausiliari furono indispensabili per le mansioni logistiche e di mantenimento delle comunicazioni. In mancanza dell’aiuto italiano, gli Alleati avrebbero dovuto gestire in proprio l’incombenza con un significativo aggravio in termini di forze. I principali movimenti riguardarono: i battaglioni guardia 502° e 503°, trasferiti ad Arezzo rispettivamente in data 3 febbraio e 10 gennaio; il Comando del I btg. del 404° rgt. pionieri ed alcune compagnie di tale battaglione, nonché il II btg. dello stesso rgt., accorpati alla 227ᵃ Divisione; il Comando del 406° rgt. pionieri, trasferito ad Arezzo il 2 aprile; il II btg. del 406° rgt. pionieri con quattro compagnie, trasferito ad Ancona il 4 aprile. In quella fase il Comando italiano genio per il II Distretto cambiò il proprio nominativo in 72° Nucleo italiano per Comando genio del II Distretto. Il 25 aprile arrivò a Brindisi da Frosinone il 524° btg. guardia.
Il successo dell’offensiva primaverile ed il dilagare nella pianura padana ed in tutto il nord d’Italia delle forze alleate comportarono alla fine di aprile ed ai primi di maggio mutamenti di giurisdizione e di dipendenze per quasi tutte le grandi unità ausiliarie. Per quanto concerne la 230ᵃ Divisione, fu disposto il trasferimento da Bari a Firenze del Comando della Divisione e l’inquadramento di tutti i reparti già da esso dipendenti nell’ambito della 227ᵃ. Il passaggio delle competenze fra i comandi delle due unità ebbe luogo il 4 maggio ed è registrato dallo stesso Vivalda:
"Il Comando 230^ Divisione si è trasferito tra il 5 e l’11 del mese di maggio da Bari a Firenze, secondo l’ordine […] ricevuto. I compiti e le attribuzioni ad esso devoluti nella zona di Bari, sono stati assunti, a partire dalle ore zero del 4 maggio, dal Comando 227^ Divisione […]. Per disposizioni del 2° Distretto, il Comando 230^ Divisione, giunto a Firenze, ha assunto alle sue dipendenze disciplinari ed amministrative i reparti BR-ITI [forze italiane che collaboravano con i britannici]" [17].
Il 10 maggio il Comando della 230ᵃ si sistemò definitivamente nella Caserma “Costa San Giorgio” a Firenze, già sede del Comando della 231ᵃ. Assunse alcuni reparti dislocati tra Firenze e Livorno, fra gli altri, il 22 maggio ricevette il I rgt. guardia ed il 412° rgt. pionieri, ed il 25 maggio riebbe alle proprie dipendenze il 72° Nucleo italiano per il Comando genio del II Distretto, anch’esso trasferitosi da Bari a Livorno. In sintesi, alla data del 31 maggio, dipendevano dalla Divisione (per un complesso di 205 ufficiali e di 3.890 sottufficiali e truppa): il I rgt. guardia, con tre btg. (502°, 503°, 519°), ciascuno su quattro compagnie; il Comando del 412° rgt. pionieri, con cinque compagnie pionieri e con il II btg. del 402° rgt. pionieri, su sette compagnie; il predetto 72° Nucleo italiano per il Comando genio del II Distretto. [...]
[NOTE]
[1] Cfr. Federico Goddi (a cura di), Lorenzo Vivalda, L’ 8 settembre in Montenegro: la relazione del generale Lorenzo Vivalda, prefazione di Annita Garibaldi Jallet, Firenze, ANVRG, 2017.
[2] Archivio Persomil, 1° originale dello Stato di Sevizio, numero di matricola 7377 “Vivalda Lorenzo”.
[3] Cfr. Carlo Vittorio Musso, Per la libertà dei popoli: memorie garibaldine. Penne nere allo sbaraglio: diario di guerra di Carlo Vittorio Musso, prefazione di Annita Garibaldi Jallet, [S.l.], A.N.V.R.G., 2008, pp. 112-126.
[4] A tal proposito si vedano le interessanti considerazione di Marco Ruzzi: "La storiografia, anche quella militare (o forse soprattutto quella militare) ha preferito stendere un manto di oblio sull’operato di questi soldati, sostanziandolo con treni scaricati, navi svuotate e strade riparate; traducendolo, nella letteratura, con simili affermazioni: ‘l’apporto - umile, ma altrettanto valido - delle unità ausiliarie, iniziato il 23 settembre 1943 con la manovalanza di alcune migliaia di uomini nel porto di Bari e ammontanti, a fine ostilità, ad una forza di 196.000 uomini’", in Marco Ruzzi, Gli Italian Pioneer nella guerra di liberazione: a fianco degli alleati dalla Puglia alla Venezia Giulia, 1943-45, Genova, F.lli Frilli, 2004, p. 184. Alle pagine 133-134 del volume è presente una breve biografia di Lorenzo Vivalda.
[5] Ministero della difesa [compilato da Luciano Lollio], Le unità ausiliarie dell’esercito italiano nella guerra di liberazione: narrazione, documenti, Stato maggiore dell’esercito - Ufficio storico, Roma, 1977, pp. 7-8.
[6] Il fattore di apparati logistici efficienti è fondamentale in qualsiasi esperienza bellica. L’importanza in tale settore durante la Campagna d’Italia è rintracciabile in un’analisi di Giorgio Rochat: La Campagna d’Italia 1944-1945: linee e problemi, in Giorgio Rochat - Enzo Santarelli - Paolo Sorcinelli (a cura di), Linea gotica 1944: eserciti, popolazioni, partigiani, Milano, F. Angeli, 1986, p. 22.
[7] Resta fondamentale nello specifico il volume di Giuseppe Conti, Il primo Raggruppamento motorizzato, Roma, Ufficio storico SME, 1984.
[8] Per il dibattito storiografico su queste unità combattenti si rimanda all’esaustivo saggio di Nicola Labanca, Militari e Resistenza. Le svolte della storiografia, in Nicola Labanca (a cura di), I gruppi di combattimento: studi, fonti, memorie, 1944-1945: atti del Convegno, Firenze, 15 aprile 2005, Roma, Carocci, 2006, pp. 21-62.
[9] Carlo Vallauri, Soldati: le forze armate italiane dall’armistizio alla Liberazione, Torino, UTET, 2003, pp. 287-288.
[10] In ordine temporale l’ultima tra le non molte ricostruzioni storiche sulle vicende delle truppe ausiliarie è di Giovanni Cecini, Le Unità ausiliarie, in Marco Maria Aterrano (a cura di), La ricostituzione del Regio esercito dalla resa alla liberazione 1943-1945, Roma, Rodrigo, 2018, pp. 113-161.
[11] AUSSME (Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito), DS (Diari storici), busta 4220, fascicolo “230ᵃ Divisione. Contributo dell’Italia alla causa alleata”, Comando militare della Puglia e Lucania. Stato Maggiore - Ufficio Operazioni [Periodo 1-30 novembre 1944], Il Generale Comandante Ismaele Di Nisio.
[12] Archivio Persomil, 1° originale dello Stato di Sevizio, numero di matricola 7377 “Vivalda Lorenzo”.
[13] Lo stesso Capo di Stato Maggiore, Paolo Berardi ha sottolineato nelle sue memorie l’importanza per gli alleati di poter disporre di divisioni attrezzate per la montagna. Cfr. Paolo Berardi, Memorie di un capo di Stato Maggiore dell’esercito, Bologna, O. D. C. U., 1954 , p. 73.
[14] AUSSME, DS, b. 4230, fasc. “Comando di Grandi Unità. 230ᵃ Divisione”, n. 8595/Ord. di prot., Oggetto: Costituzione comando, Roma, 12 novembre 1944, P. Berardi.
[15] Il territorio liberato era articolato in due fasce: la zona di operazioni sotto la giurisdizione del XV Gruppo di Armate e le retrovie divise in District britannici e Peninsular Base Section (PBS) statunitense. Cfr. Marco Ruzzi, cit., p. 110.
[16] AUSSME, DS, b. 4220, cit., P.M. 3800 (n. 846 Op.), Oggetto: Contributo delle truppe ausiliarie alla causa degli alleati, 8 febbraio 1945, Lorenzo Vivalda.
[17] Ivi,  n. 240/Ord. di prot., Oggetto: Contributo delle truppe ausiliarie alla causa degli alleati, 18 giugno 1945, Lorenzo Vivalda.
Federico Goddi, Il generale Lorenzo Vivalda al comando della 230ᵃ divisione nella campagna d’Italia (1944-1945), Numero 1 - 2018, Storia , Camicia Rossa  

domenica 6 aprile 2025

In montagna c’era già Bisagno


Biografia:
Edilio Leveratto (Genova, 1927-2002) è stato un antifascista e combattente per la libertà. Dal 1943 fino alla fine della guerra è stato a fianco del comandante Aldo Gastaldi (Bisagno) nelle file dei partigiani della “III Divisione Garibaldina Cichero”. Nell’aprile del 1945 ha subito ferite multiple e la perdita di un occhio nel tentativo di sminare un campo in prossimità di Torriglia (Genova). In seguito gli è stato riconosciuto lo status di Grande Invalido di Guerra.
[...] Testimonianza di Edilio Leveratto [Biondo] del 14 luglio 1999, dal libro “Recco 1940-1945”
Io ero un garibaldino; ero l’aiutante di Bisagno. Sono entrato nella Garibaldi nel dicembre del 1943…Io sono di Sturla, mi sono trasferito a Recco in seguito, venti, trenta anni fa. Subito dopo l’8 settembre eravamo un gruppo di partigiani, anzi non c’erano ancora i partigiani, ma noi c’eravamo già. A Calvari c’era un campo di concentramento dove c’erano gli americani, dopo l’8 settembre questi qui sono scappati e sono andati un po nei partigiani. Dopo gli ufficiali superiori hanno desiderato ritornare e allora sono stati imbarcati e sono stati portati in Corsica; questo io lo so perché prima di andare nei partigiani ero nella formazione OTTO, di Ottorino Balduzzi. L’organizzazione OTTO aveva tutte le radio della zona e il compito che aveva non era grande ma era importante, doveva dare notizie agli alleati, li hanno aiutati ad andare via. C’ero io, Pomodoro, Rizzo, che è morto in questi giorni. L’hanno caricati su un gozzo e li hanno portati in Corsica, dopodiché sono andato via dalla OTTO perché è successo un fatto: a De Ferrari, da Porta Soprana, stavamo portando dei manifesti, io ed un certo “Milan” Franchi. Sennonché ci ha fermato il pattuglione dei tedeschi, sparando siamo riusciti ad andare via tutti e due. Ovviamente abbiamo lasciato lì i manifestini, erano pacchi grossi. Poi ci hanno consigliato di andare via; siccome noi ne abbiamo ammazzato un paio, le pattuglie andavano in giro per la città a vedere se vedevano se c’era qualcuno che conosceva questi due, che avevano sparato. Milan poi è morto, ha preso una fucilata in una gamba, poi gli è andata in cancrena. Io sono andato a Torriglia con un gruppetto di quindici persone. Quando Bisagno è venuto a Rovegno, a disarmare una banda che era lì, c’era una colonia dove ci andavano i figli dei fascisti. Non c’era nessuno e l’hanno usata come sede; quando Bisagno li ha disarmati, ci si è messo lui lì. Ed io in motocicletta in quei giorni sono andato da lui a dire che eravamo un gruppo e che ci saremmo messi con lui. Aveva spostato la Brigata Oreste in Val Trebbia. Quando sono arrivato in montagna era la vigilia di Natale del 1943. In montagna c’era già Bisagno che era andato in montagna da un’altra parte, era entrato nell’entroterra di Chiavari, in un paese che si chiama Cichero e aveva costituito lì il primo gruppo. Io invece sono andato dalle parti di Torriglia, poi però Bisagno ha creato dei comandanti e ha fatto dei distaccamenti e uno di questi è venuto in Val Trebbia, e Torriglia è sul confine con la Val Trebbia e io sono andato direttamente con loro. Prima mi ero messo da solo, poi da soli è difficile stare; anzi proprio da solo non ero, eravamo un gruppetto di una quindicina di persone. Poi è arrivato Bisagno con i suoi, anzi è arrivato Croce, e allora sono andato da Bisagno e gli ho detto che eravamo queste poche persone e mi ha messo con la “volante”che era il primo distaccamento che avrebbe funzionato e lo comandava Sandro. Sandro era un ragazzo di Corso Sardegna e comandava questa volante ed io, dopo un mese che ero lì, sono diventato il vice-comandante. Dopo, più avanti, questa volante ha preso un po’ di presunzione, nel senso che voleva fare un po`quello che voleva, perché si ritenevano in gamba e lo erano; in conclusione ci sono stati problemi con Croce, che era il comandante della zona ed era il comandante di una brigata di Bisagno. Noi, essendo in quella zona lì eravamo sotto Croce; ecco, Croce ha dato l’ordine di disarmarci, perché facevamo cose fuori regola, cioè fuori comando. Inizialmente erano tre le Brigate: Oreste, Arzani e Coduri e tutte erano Cichero. La Garibaldi Coduri operava nel sestrese ed era lontana, però era sempre della divisione Cichero, sennonché a due o tre mesi dalla fine della guerra si è creata una scissione fra i comandi e a questo punto hanno creato la divisione Pinan-Cichero, che era quella che operava verso Tortona, e la Divisione Coduri e la Divisione Cichero, che operava in Val Trebbia. E’ successo questo perché comandava su tutti Bisagno; hanno tentato di levargli il comando e l’unico modo per fargli perdere il comando, il potere, era dividere tutti. Allora di una ne hanno fatte tre ma Bisagno è rimasto a comandare perché oltre che essere comandante della Cichero, era il vice comandante della zona, di conseguenza praticamente comandava sempre tutto lui. Sandro, che era il comandante della volante, poi è andato con Giustizia e Libertà. La Garibaldi avevano disarmato quelli della GL; dicevano perché avevano fatto delle prepotenze, ma anche ammettendo questo, non era il caso di disarmarli, erano partigiani anche loro. Hanno disarmato le brigate GL, che poi le hanno rifatte, però secondo il mio parere erano cose dette tanto per ottenere il disarmo. Poi i rapporti si sono appianati ma non facevamo azioni insieme perché non era il caso, eravamo già in difficoltà da soli. Qui c’era il comandante di una Brigata Nera che era a Camogli, Di Martino, e di conseguenza siccome lo rispettavamo tutti lo lasciavamo stare, non siamo mai venuti a seccarlo. Lui voleva che i suoi uomini lasciassero i fucili a casa e che operassero con le mani. A Recco non ci sono state grandi azioni, però ha tanti partigiani; nella mia formazione c’è per esempio “Santo” (Elvezio Massai). C’era una buona zona antifascista ad Uscio. Nella zona di Uscio, a Pannesi, c’era un nostro distaccamento che lo comandava Scrivia, il comandante dell’Oreste, che poi è diventato comandante della Pinan Cichero. L’avevano messo lì perché poteva puntare su Genova. Poi l’hanno trasferito nel tortonese, dall’altra parte dell’Antola, perché hanno ingrandito la divisione. La divisione è fatta di tre brigate, le tre brigate sono la Jori, la Berto, e la Coduri: la Jori la comanda Croce, Banfi comanda l’Oreste e la Coduri la comanda Virgola, che finita la guerra muore schiacciato da un camion. Parlo dell’inizio. Banfi opera qui nell’entroterra di Chiavari, Croce comanda la Jori che opera su Torriglia e la Coduri. Ognuna di queste tre brigate ha 5 o 6 distaccamenti; Croce ha quello di Santo, che si chiama distaccamento Alpino, Guerra, che lo comanda Scalabrino, il Bellucci, che lo comanda Gino e in un certo periodo l’ho comandato io perché lui era in ospedale, perché gli è venuta la scabbia, e poi Mandorli, che lo comanda un carabiniere di cui non ricordo il nome. I distaccamenti erano 4 o 5 ma i distaccamenti sempre operanti erano Guerra, il Bellucci…Poi hanno fatto una volante che operava su Genova e la comandava Gino che attualmente è un comandante della polizia. La Cichero era più grande rispetto alla GL e molto ben armata: le armi venivano dagli scontri coi tedeschi. Le brigate si sono spostate a secondo della necessità e nella zona più prossima a Recco c’era Banfi, c’era la Brigata Oreste, era S.Stefano come zona e di conseguenza picchiavano loro su Recco. Noi picchiavamo più su un’altra parte, da Sturla parlando di Genova, si scendeva dal Montefasce, e da Bolzaneto dove c’era la brigata Balilla, che era un distaccamento per la verità comandato da questo Gino…E questa Brigata operava su Genova. Combattimenti ne sono successi a Barbagelata, dappertutto…tutte le volte che ci scontravamo con i tedeschi. Spiotta faceva dei rastrellamenti, però i rastrellamenti veri e propri l’ha fatti la divisione Monterosa degli alpini; i rastrellamenti di Spiotta erano roba piccola, roba da quindici, venti uomini, però il grosso rastrellamento l’ha fatto la Monterosa. Ma non ha dato nessun danno, sono riusciti tutti a scappare. Però incendiavano villaggi, hanno incendiato la Scoffera, e ci sono stati degli scontri anche. Poi è successo che la Monterosa mi ha preso prigioniero nell’ottobre del 1944 ed ho operato in maniera che una parte della divisione passasse coi partigiani ed è passata ai partigiani. Poi mi hanno liberato perché mi sono messo d’accordo con un tenente, (Ten. Ebner), gli ho detto di venire con noi, che la guerra stava per finire. Qui c’era praticamente solo la GL, come organizzazione, c’era Ivo, (Manuelli), poi è andato in montagna anche lui e qui non c’era rimasto nessuno, perché gli altri erano già in montagna. La Garibaldi con Recco non ha fatto nulla, per lo meno fino agli ultimi giorni prima della Liberazione, quando sono venuti giù, allora è venuto giù Santo e su Recco ci è sceso lui col distaccamento “Alpino”, lui è l’unico che è venuto giù. Ad Uscio, che era una buona base, nel senso che i ragazzi fornivano viveri, c’erano Umberto e Santo e poi sono venuti giù. Quando io sono stato ferito a Torriglia il 20 aprile mi hanno portato a San Martino il 22, Santo era già sceso a Recco. Gli alleati intanto avevano sbagliato strada; da Chiavari sono andati nella Fontanabuona, lì c’è stato qualche piccolo scontro poi sono arrivati a Recco anche loro passando da Uscio ma a Recco sono arrivati prima quelli di Umberto e quelli di Massai, poi sono arrivati gli alleati, che poi hanno proseguito verso Genova. Ma nel frattempo sono venuti anche di sotto dalla statale…Mi sono domandato perché la chiamavano “terza” brigata Garibaldi; per quel che ne so, era una brigata in Spagna, allora si rifaceva a quella. Dal marzo del 1945 hanno cominciato i lanci, ma noi eravamo già armati, Avevamo messo via molte armi che noi ritenevamo vecchie; siccome la nostra era una guerra un po’ ravvicinata, normalmente avevamo bisogno di automatici leggeri, mentre quello che riuscivamo a catturare dai tedeschi erano molti fucili, ma servivano a poco. Poco prima della fine della guerra hanno buttato anche le divise, ci hanno messo in divisa per venire a Genova.
14 luglio 1999
A cura di Yuri Leveratto, figlio di "Biondo".
Redazione, Testimonianza del partigiano Edilio Leveratto (Biondo), Tuttostoria.net, 29 dicembre 2014

sabato 22 marzo 2025

Michele Sindona entra per la porta principale nell'azionariato dell'Unione


Una delle ultime pagine del Libro dei soci della Banca privata finanziaria riferisce che il primo marzo del 1974, su richiesta della Banca Unione di Milano, 7 milioni e mezzo di azioni, che rappresentano l'intero capitale sociale della Banca sono stati trasferiti a nome della Banca unione <23. Di fatto Privata finanziaria è stata venduta o “incorporata“ nella Banca Unione. In seguito a questo provvedimento seguono altri riferimenti inerenti gli annullamenti di azioni sotto vincolo di cauzione degli ex amministratori o dei consiglieri dell'istituto di via Santa Maria Segreta. La fusione tra i due istituti bancari è l'avvisaglia dell'imminente crack. In seguito alla crisi della valuta statunitense Sindona vede implodere il suo sistema bancario ed è costretto a chiedere la fusione dei due istituti.
L'acquisto della Banca Unione è più tardivo rispetto alla Privata che era già controllata nel '61. Nonostante una carriera prodigiosa, bisogna aspettare il '68 per assumere il controllo della Banca Unione, istituto che per certi versi ricorda la Privata (anche in questo caso si tratta di una banca mista <24) ma con una clientela più selezionata e con una storia che inizia sul finire del secondo decennio del Novecento.
La nascita dell'istituto è legata alla famiglia Feltrinelli e all'attività economica che si era andata sviluppando sul finire dell'ultimo decennio dell'Ottocento con la fondazione della Banca Feltrinelli assieme alla famiglia Colombo, prima, grazie ai proventi del commercio e della lavorazione dei legnami, poi per merito dell'operazione di salvataggio della Edison, che lega indissolubilmente la figura di Carlo Feltrinelli alla prima azienda Elettrica d'Italia e al mondo della produzione dell'industria elettrica <25.
Banca unione viene fondata il 27 ottobre 1919, la prima assemblea si svolge presso i locali della Banca Feltrinelli <26 con un capitale di 20 milioni di lire <27, la famiglia Feltrinelli controlla il 15 per cento del capitale azionario <28, altra importante quota azionaria è controllata da imprese di costruzione (la cui presenza tradisce la transizione da Banca Feltrinelli a Banca Unione, all'interno delle attività della famiglia Feltrinelli). Il maggior azionista (25 per cento) è il Credito Italiano. A partire dal '57 è direttore Enrico Marchesano <29.
Un radicale cambiamento nella composizione del portafoglio azionario è registrato in un dei tre Libri dei soci ancora consultabili <30 che si apre <31 il 13 novembre 1968 con il trasferimento di 56.787 azioni intestate alla signora Antonella Feltrinelli d'Ornesson trasferite alla Moizzi e C di Ernesto Moizzi in via Verdi 7 a Milano.
Da questo momento <32 iniziano a comparire trasferimenti alla Common Market Securities SA domiciliata in Lussemburgo (Comarsec). Nella primavera del '69 continuano le girate, stavolta direttamente alla Banca privata finanziaria <33.
A partire da quest'operazione Michele Sindona entra per la porta principale nell'azionariato dell'Unione, prendendo il posto dei discendenti del fondatore dell'Istituto, liberando il Vaticano dalla scomoda convivenza con l'editore di sinistra Giangiacomo Feltrinelli <34.
La cessione dei titoli da parte di Carlo Feltrinelli è stata oggetto di speculazioni <35 ma il carteggio con Cesare Merzagora, amico della coppia, già in rapporti con Sindona, getta luce sulle modalità con le quali l'avvocato di Patti entrò nel capitale di Banca Unione.
I rapporti di Merzagora con l'entourage di Banca unione sono stretti e lontani nel tempo come dimostra la consistenza documentale di carteggi presenti nel suo archivio con varie personalità legate all'istituto ma anche ad azionisti come nel caso dei d'Ormesson <36.
[NOTE]
23 Libro dei soci di Banca privata finanziaria, 1 marzo 1974, Archivio Banca privata italiana, f.62, b. 15. p. 24.
24 Come recita l'articolo 2 dello statuto della banca “la Società ha per oggetto l'esercizio del Credito. Essa potrà quindi compiere con l'osservanza delle disposizioni di legge vigenti, sia per conto proprio che per conto terzi, tanto in Italia che all'Estero, qualsiasi operazione bancaria, mobiliare ed immobiliare, prestare fideiussioni, avalli, cauzioni, interessarsi e partecipare sotto qualsiasi forma in altre Società, Ditte, Aziende priva ed in qualsiasi affare finanziario, commerciale o industriale.” Statuto della Banca Unione, Archivio Banca Privata Italiana, fascicolo 36, scatola 7 presso Archivio Camera di Commercio di Milano.
25 cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-feltrinelli_%28Dizionario-Biografico%29/ e Carlo Feltrinelli, Senior Service, Milano, Feltrinelli 1999.
26 Libro verbale Assemblea dei soci dal 27.10.19 al 17,02.32, Archivio Banca privata italiana, fascicolo 36, scatola 7, presso Archivio Camera di Commercio di Milano. Lo statuto parla di filiali nelle colonie, questo ad indicare i campi d'azione di una banca (il cui carattere è racchiuso nel motto presente nello stemma dell'istituto “In unione fortitudo”, suggerendo che nella complessità vi è la forza dell'istituto). La durata della società è fissata in avanti, al 31 dicembre del 2000. Viene contemplata la possibilità di aumenti di capitale ma è esclusa “di massima” l'emissione di azioni privilegiate ad aventi diritti diversi da quelli delle precedenti azioni”, ripresa chiaramente quando afferma che “ogni azione dà diritto ad un voto”.
27 Il consiglio di amministrazione è formato da Federico Ettore Bulgarotti, Carmine Albino, Carlo Feltrinelli, Giacomo Feltrinelli, Francesco Pasquinelli, Giovanni Prestini, Federico Tobbler. (alla data della fondazione dell'istituto Carlo Feltrinelli è ancora solo commendatore, nella fondazione di Banca privata finanziaria è grande ufficiale).
28 con 6000 azioni. Il portafoglio è costituito da: Bulgarotti (100 azioni), Carmine Albino (100), Carlo Feltrinelli (6000), la Società anonima “Cantieri milanesi” (2000), Società di costruzioni e di imprese fondiarie (2000), Società costruzioni moderne (2000), Giuseppe Feltrinelli (8000), Società anonima G. Gorio per afffari coloniali (6400), Federico Tobbler (200), Francesco Pasquinelli (500), Giovanni Prestini (1000), Augusto Rovigli (500), Credito Italiano (10.000).
29 cfr, http://www.treccani.it/enciclopedia/enrico-marchesano_%28Dizionario-Biografico%29/
30 Sfortunatamente l'Archivio della Camera di Commercio non possiede tutti i Libri dei soci, manca il secondo e il terzo, ma il quarto ci consente di ricostruire l'entrata di Sindona sino alla dissoluzione del capitale sociale e azionario che porta al crack e al commissariamento (atto questo con cui si chiude il successivo registro).
31 Libro dei soci di Banca Unione, volume n. 4, dal 13/11/1968 al 29/12/1970, Archivio Banca Privata Italiana, fascicolo 33, scatola 6. La stessa cartella contiene un appendice documenti fino al 1982.
32 ibidem, annotazione del 20 marzo 1969 su un passaggio di 3840 azioni, cui segue annotazione in stessa data per 1200 azioni trasferite dalla Moizzi e C di Moizzi Ernesto alla Comarsec.
33 annotazione del 2 maggio (per 200 titoli), 9 Maggio (66 azioni), cui si aggiungono nella stessa data altre 67, e ulteriori 67 azioni, il 28 maggio 200 azioni (forse riconducibili all'entourage di Merzagora).
34 Paolo Panerai-Maurizio De Luca, Il crack: Sindona, la DC, il Vaticano e gli altri amici, Milano, Mondadori, 1975, p. 81. La presenza di Giangiacomo Feltrinelli nell'azionariato dell'istituto era causa di disagio per la Santa Sede legata da lungo periodo alla famiglia per via dei titoli azionari. L'ambasciatore della Santa Sede d'Ormesson, discendente dell'aristocrazia nera francese, si era sposato con Antonella Feltrinelli.
35 Alberto Statera riporta la testimonianza di Massimo Spada: «La Banca Unione era controllata dalla famiglia Feltrinelli. Ma nel 1961 l'istituto per le Opere di Religione, al termine di una trattativa fra l'avvocato Enrico Marchesano e me, aveva acquistato dalla Montecatini una partecipazione inferiore al 20 per cento. A un certo punto, il gruppo Feltrinelli e il gruppo d'Ormesson - un d'Ormesson aveva sposato una Feltrinelli - decisero di vendere le loro quote all'avvocato Sindona». Statera conclude che era stato il Vaticano a chiedere di comprare quelle azioni, cui poi aggiunse quelle rilevate dalla Bastogi, perché si trovava in grandissimo imbarazzo per avere come socio l'extraparlamentare di sinistra Giangiacomo Feltrinelli. Alberto Statera, Storia di preti e di palazzinari, L'Espresso 1977, p. 67-68. Questa tesi è ripresa da Ori che sostiene che attraverso i d'Ormesson viene persuasa la sorella di Giangiacomo Feltrinelli a cedere il suo pacchetto d'azioni a Michele Sindona. Ori sostiene altresì che Sindona rileva il pacchetto della Bastogi e mette insieme il 53% togliendo d'incomodo l'imbarazzante personaggio ai finanzieri vaticani. Angiolo Silvio Ori, I faraoni di Milano, Bologna, 1970, p. 30. In, Benny Lai, Finanze vaticane. Da Pio XI a Benedetto XVI, Soveria Mannelli, Rubettino, 2012, p. 126, riporta una Conversazione del cardinale Vagnozzi nella quale il prelato dichiara: «S'è supposto che il Vaticano fosse grato a Sindona per averlo liberato da una scomoda convivenza societaria con i parenti dell'editore dell'ultrasinistra. Non è vero. Lo Ior aveva sempre rifiutato di vendere la quota dell'Unione acquistata da Massimo Spada nel 1960, una quota pari al 16 per4 cento». La testimonianza di Bagnozzi avvalora maggiormente la lettera di Merzagora di cui sopra, se non vi fosse stato l'intervento del senatore, Sindona non sarebbe arrivato all'Unione. Il disagio della Santa Sede nel coinvolgimento dello Ior e di Spada a tutta la vicenda del banchiere è più un problema giornalistico che storico. Quel che conta è la stima di Merzagora che gli consente di impossessarsi del pacco dei Feltrinelli attraverso il quale controlla l'istituto.
36 La corrispondenza esaminata nell'Archivio Merzagora, conservato presso L'archivio Storico della Presidenza della Repubblica, copre un arco temporale che va dal finire degli Cinquanta alla metà degli anni Ottanta, decennio ancora non consultabile.
Ottavio D'Addea, Michele Sindona e l'economia italiana, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2016

sabato 15 marzo 2025

Tutto è piatto, uguale

Amsterdam. Foto: Gian-Maria Lojacono

Amsterdam è come nei film: i canali, i ponti, i suonatori di strada, le donne esposte nei sexy shops.
 

Den Haag (L'Aia). Foto: Gian-Maria Lojacono

Altre cose in Olanda mi hanno attirato soprattutto nei paesi: gli zoccoli di legno, il gioco dei bambini col cerchio, i villaggi-canale con le barche ormeggiate da anni, con i gerani rossi e le tendine di pizzo alle finestre.
 

Den Haag (L'Aia). Foto: Gian-Maria Lojacono

I mulini a vento che pompano ancora acqua per prosciugare le campagne, i banchetti di fiori di mille colori e, più di ogni cosa, le biciclette.
Ci sono da noi paesi padani dove tutti hanno una bicicletta.
 

Amsterdam. Foto: Gian-Maria Lojacono

Ma in Olanda c'è qualcosa di più: ci sono enormi parcheggi per biciclette vicino alle stazioni, ma anche box su misura coperti e con serratura e agli incroci semafori per le piste ciclabili con le biciclette rosse e verdi.
 

Den Haag (L'Aia). Foto: Gian-Maria Lojacono

E ci sono biciclette per famiglie numerose dove i posti per i bambini sono almeno due; si capisce perché la classica bici da città si chiama olandese.
 

In una pinacoteca di Den Haag (L'Aia). Foto: Gian-Maria Lojacono

Le dighe dello Zuiderzee chiudono bracci di acqua che erano mare e quasi oceano; le barche a vela ormeggiate danno ancora l'idea del mare in tempesta.
Quando ghiaccia, tutto diventa una enorme pista di pattinaggio, soprattutto per i bambini.
Tutto è piatto, uguale; le colline più alte sono i cavalcavia.
Capisco van Gogh scappato verso il sole di Arles, i suoi girasoli e le ciucche di assenzio.
Arturo Viale, Viaggi, Alzani - Pinerolo, 1993, pp. 51,52 

Altre pubblicazioni di Arturo Viale: I sette mari. Storie e scie di navi e di naviganti e qualche isola, Book Sprint Edizioni, 2024; Punti Cardinali. Da capo Mortola a capo Sant'Ampelio, Edizioni Zem, 2022; La Merica...non c'era ancora, Edizioni Zem, 2020; Oltrepassare. Storie di passaggi tra Ponente Ligure e Provenza, Edizioni Zem, 2019; L'ombra di mio padre, 2017; ViteParallele, 2009; Quaranta e mezzo; Storie&fandonie; Ho radici e ali; Mezz'agosto, 1994.
Adriano Maini

domenica 9 marzo 2025

Anche la destra “impolitica” aveva creduto di poter godere dell’indiscriminato appoggio degli Usa


Dopo il mancato raggiungimento del premio di maggioranza nel 1953 - che naturalmente avrebbe evitato problemi di allargamento della base democratica - il risentimento degli Stati Uniti nei confronti della Dc aumentò esponenzialmente. Troppo soft nella lotta al comunismo, troppo succube della Chiesa cattolica e poco saldo nel difendere il libero mercato dalle tentazioni stataliste, il partito di De Gasperi e Fanfani era ormai lontano dai successi del ’48. I contatti dell’ambasciata con la destra vanno letti nel quadro della generale delusione provocata dalla Dc.
Al centro dei colloqui con Covelli e Lauro c’era la possibilità di costruire una destra democratica, occidentale ed europeista. Il voto di fiducia e il sostegno a provvedimenti decisivi come la Ced ne avrebbero accelerato l’evoluzione. Come si è visto, l’ambasciatrice Clare Boothe Luce tentò a più riprese di favorire i consensi del Pnm per i traballanti governi centristi o di favorire, con la dovuta cautela, la nascita di un nuovo partito alla destra della Dc. Tuttavia, un’apertura alla destra monarchica così com’era - nostalgica, antimoderna e visceralmente ostile al quadripartito - non interessava <11.
La mancata evoluzione in senso democratico ed europeista del Pnm, timoroso di perdere il proprio elettorato nostalgico, indispettì i funzionari dell’ambasciata. I monarchici, inoltre, erano irritati per la scarsa attenzione ricevuta dagli Usa, sia dal punto di vista finanziario che propagandistico. Secondo Lauro e Covelli, gli Stati Uniti avrebbero dovuto essere entusiasti di sostenere e sponsorizzare un partito connotato da un acceso anticomunismo.
Dopo la scissione del 1954, com’è noto, il potere contrattuale delle due formazioni diminuì. E l’approccio degli Usa si fece più pragmatico. Esaurite le speranze di una destra di ampio respiro - sia territoriale che ideale - monarchici (e missini) tornavano utili solo per intercettare voti estremisti. Dovevano rimanere, quindi, confinati al Sud e rimarcare la propria nostalgia della Corona e del passato regime. Analizzando la copiosa documentazione prodotta dall’ambasciata, si può dire che i contatti coi monarchici fossero volti a cercare una maggiore stabilità e non, semplicemente, a riacutizzare lo scontro <12.
Insomma, né l’idea di destra monarchica che aveva l’ambasciata, né l’idea di America che avevano i monarchici corrispondevano alla realtà. Entrambe le prospettive non avevano tenuto conto di tutti i fattori e impedivano, in fondo, di comprendere chi c’era dall’altra parte.
Tutto ciò non fece che acuire la frustrazione degli Usa e l’attesa di forze nuove in campo. Su questo un possibile terreno d’intesa sembrò concretizzarsi con la destra “carsica”, lontana dalle logiche di Palazzo e dalle lotte tra partiti. La comunanza di vedute tra l’ambasciatrice e Montanelli, per esempio, è impressionante. In particolare, tra il 1953 e il 1954, traspariva l’insofferenza per la Dc e i suoi alleati, così come l’avanzata delle sinistre suscitava viva preoccupazione. Ma era l’intero arco dei partiti erede del Cln a destare perplessità.
Più complesso era trovare una soluzione condivisa che non fosse una generica attesa di “forze sane”. La predisposizione di una destra culturale, di alcuni imprenditori e di settori della burocrazia a sacrificare la democrazia in nome dell’anticomunismo non nascose una fedeltà atlantica ben superiore alla lealtà costituzionale.
Proposte del genere, mai sostenute dal governo italiano, non incontrarono i favori degli Stati Uniti. D’altra parte, lo stesso Montanelli riconosceva che le «pregiudiziali democratiche» americane erano troppo forti <13. In più occasioni, Clare Boothe Luce aveva affermato che si trattava di un problema interno e che gli Usa avevano fatto già molto. Del resto, gli industriali italiani non godevano di buona fama presso l’ambasciata. A parte gli amici personali, Cini su tutti, la classe imprenditoriale venne più volte accusata di riproporre la mentalità del ventennio e di ostacolare il cammino della libera impresa. Emblematico è il fatto che a muoversi fossero solo imprenditori con un background fascista, nonostante l’insistenza americana verso tutta la categoria.
Dunque, anche la destra “impolitica” - in questo simile a monarchici e missini - aveva creduto di poter godere dell’indiscriminato appoggio degli Usa. Da qui una serie di fraintendimenti e delusioni, derivanti dalle proposte irricevibili formulate dagli italiani e dalla convinzione che l’anticomunismo fosse il criterio e non un criterio con cui gli americani si rapportavano al nostro Paese.
Naturalmente, tale convinzione era assai radicata anche a sinistra. L’idea prevalente era che ogni anticomunismo fosse destinato «alla fine a rivelarsi funzionale al fascismo, a diventare fascismo» <14. In quest’ottica, l’operato degli Stati Uniti non poteva che essere interpretato come una dannosa ingerenza. Tanto che nell’Inchiesta sull’anticomunismo del ’54 gli americani venivano perfino incolpati dell’attentato a Togliatti: «neanche l’hitlerismo era arrivato a una forma così diretta e clamorosa di intervento nella vita di altri Stati e di incitamento al delitto». E ancora: "Ciò che gli imperialisti americani soprattutto hanno assimilato e fatto proprio, completamente e senza residui, è il metodo hitleriano di fondare apertamente sull’anticomunismo tutta una politica estera, la quale tende ad assoggettare al loro dominio tutti i popoli e dare agli Stati Uniti la direzione suprema degli affari e delle ricchezze dell’universo intiero" <15.
La realtà era ben diversa. Tenendo conto dei vari limiti interpretativi richiamati, il lascito dell’azione statunitense - in termini di richieste, pressioni e rifiuti - nei confronti della destra è positivo. Se ne può concludere che la presenza degli Stati Uniti ha influito, peraltro molto meno di quanto comunemente creduto, sia sul nostro antifascismo che sul nostro anticomunismo.
I tentativi di stemperare i caratteri più ideologici dell’antifascismo - ossia l’anticapitalismo e la percezione di una perenne minaccia fascista - si sono declinati da un lato nella proposta di una destra europeista e democratica e, dall’altro, nell’accento sulla libera impresa. Piuttosto scarse sono state le risposte dei partiti politici e della società di fronte a queste sollecitazioni <16.
Per quel che riguarda l’anticomunismo del blocco centrista, «non produsse mai l’attenuarsi o il venir meno nel partito cattolico e nei suoi alleati di una larga, effettiva, pregiudiziale antifascista» <17.
Va ricordato che gli Usa non premettero mai per la legittimazione della destra nostalgica. Grazie alla fermezza di Washington, chi aveva cercato di percorrere strade alternative non ha trovato una sponda all’ambasciata. Sicché l’anticomunismo italiano, puntellato ma non estremizzato da quello americano, ha scoraggiato improbabili soluzioni autoritarie che avrebbero minato i fondamenti della nostra giovane democrazia. Anzi, ne ha preservato l’essenza stessa lottando, oltre che col comunismo, con la discutibile equivalenza tra democrazia e antifascismo.
[NOTE]
11 È opinione anche di una personalità certo non vicina alle posizioni dell’ambasciata come Colby, si veda W. Colby, La mia vita nella Cia, Mursia, Milano, 1996, p. 86.
12 Su questo punto adottiamo una chiave interpretativa diversa da quella proposta da Nuti, secondo cui l’approccio dell’ambasciata - e in particolare della Luce - non era volto ad allargare la maggioranza, ma a mantenere l’avversario
sotto pressione, si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 18.
13 Così Montanelli descriveva l’atteggiamento degli Usa il 20 maggio 1954, si vedano S. Gerbi, R. Liucci, Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, Einaudi, Torino, 2006, p. 300; S. Lupo, Partito e antipartito, cit., p. 110.
14 Il riferimento principale è L. Lombardo Radice, Fascismo e anticomunismo. Appunti e ricordi 1935-1945, Einaudi, Torino, 1947. Si veda E. Galli della Loggia, La perpetuazione del fascismo e della sua minaccia, cit., p. 233.
15 Inchiesta sull’anticomunismo, «Rinascita», a. XI, n. 8-9, agosto-settembre 1954, p. 524. Il paragrafo è significativamente intitolato "L’anticomunismo americano continua e perfeziona Mussolini e Hitler".
16 Sulla diffusione del modello americano in Italia resta insuperata l’analisi di P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 319-322. Per approfondimenti si veda D. Ellwood, A. Lyttelton (a cura di), L’America arriva in Italia, «Quaderni storici», a. XX, n. 58, aprile 1985.
17 E. Galli della Loggia, La perpetuazione del fascismo e della sua minaccia, cit., p. 242.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009-2010

lunedì 3 marzo 2025

L’evolversi delle vicende belliche del secondo conflitto mondiale portò quindi l’Abruzzo a ritrovarsi proprio lungo la «linea del fuoco» fino al giugno 1944



In Abruzzo «tra l’11 e il 20-25 settembre, i tedeschi assunsero dunque il controllo di molte località della regione e di tutti i maggiori centri di comunicazione» <46 mentre in assenza di ordini, tutti gli apparati militari italiani - sia la flotta che le sessanta divisioni dell’esercito con 1 milione e 700 mila uomini <47 - «si sciolsero con fulminea rapidità; le caserme e gli acquartieramenti furono abbandonati in massa da ufficiali e soldati, molti dei quali si vestirono da civili e con un’unica preoccupazione: raggiungere le proprie case. Chi non aveva lasciato le postazioni venne affrontato, disarmato e catturato dai tedeschi: cominciò la loro odissea sui carri bestiame che li avrebbe condotti nel lager tedeschi» <48. In questo stesso periodo, si risolse anche la polemica a distanza tra Rommel <49 e Kesselring <50 in merito alla strategia da adottare per contrastare l’avanzata alleata. Il primo riteneva che «convenisse ai tedeschi ritirarsi sulla linea Pisa-Rimini, la più breve come larghezza dell’intera penisola, facilmente difendibile potendosi appoggiare agli Appennini tosco-emiliani» <51. Kesselring invece, che aveva visto sperimentare «in Sicilia la tattica di una ritirata graduale tutto sommato redditizia, non aveva alcuna intenzione di abbandonare l’Italia meridionale e centrale, che offrivano altrettante possibilità di valida difesa grazie a fiumi e catene montuose disposte trasversalmente lungo le direttrici dell’avanzata alleata» <52. A prendere la decisione finale fu Hitler in persona che il 2 ottobre ordinò che «la linea Gaeta Ortona (posizione B) [… doveva essere] «difesa con decisione». Questo orientamento [… venne] poi ribadito da successive disposizioni dello stesso tenore e infine, nella seconda metà di novembre, dal richiamo di Rommel in Germania, con il conseguente passaggio della Wehrmacht in Italia agli ordini del solo Kesselring» <53. Nei fatti, per l’Artese, «Hitler rimase tuttavia titubante fino all’ultimo se affidare o meno a Kesselring l’incarico di comandante delle forze tedesche in Italia» e solo «il 21 novembre gli affidò i pieni poteri su tutte le truppe delle tre armi della Wermacht e delle Waffen S.S. impegnate come forze di terra, sulle forze navali impegnate nelle operazioni, e sulle parti dell’organizzazione Todt impegnate in Italia» <54. Mentre Rommel «fu richiamato dall’Italia e destinato alla difesa del «Vallo atlantico» in allestimento sulle coste nordorientali francesi. Kesselring diventava così l’incontrastato «signore della guerra» <55.
La strategia del Feldmaresciallo, approntata il 12 di settembre e resa operativa il 30 dello stesso mese, era incentrata su di «un vero e proprio sistema difensivo (su cui attestare le forze della 10a Armata tedesca <56). Esso consisteva in una successione di linee tattiche ritardatrici, coincidenti in gran parte con le vallate di alcuni fiumi appenninici. Le linee erano designate da postazioni fortificate e punti topografici e indicavano la direzione di importanti terreni tattici: su di esse - a seconda delle necessità - sarebbero state realizzate fortificazioni leggere da campagna o più articolati dispositivi organizzati di difesa. La condotta tedesca in Italia, stabilita da Kesselring il 2 ottobre e poi definita dalla [sic!] direttive di Hitler del 4 ottobre, perseguiva ora come obiettivo principale l’arresto dell’offensiva alleata a sud della linea Gaeta-Ortona; con una relativa elasticità di azione, determinata dai possibili mutamente della situazione tattica. E i massicci montuosi dell’Appennino centro-meridionale, incisi da anguste valli sovente trasversali alla catena, offrivano in quel momento un eccellente terreno di difesa, senza dubbio il migliore lungo la penisola italiana» <57. Scrisse Kesselring: «la «linea Gustav» venne notevolmente rafforzata nei settori soggetti prevedibilmente ad attacchi e trasformata in un sistema di fortificazioni in profondità a compartimenti successivi, per renderla atta a sostenere qualsiasi prova» <58.
In quel periodo il Molise ebbe il triste primato di essere attraversato da tutte le linee ritardatrici e da quella difensiva costruite nel Sud dai tedeschi. Questa situazione costrinse la popolazione a vivere «tra due fuochi», da una parte gli occupanti teutonici e dall’altra gli alleati che tentavano la risalita verso Nord <59. Delle provincie abruzzesi, due si ritrovarono ad essere attraversate dalla Gustav lungo «la dorsale del bacino Sangro-Aventino e successivamente dell’Alento» <60: l’area a sud est della provincia aquilana a ridosso di Roccaraso e l’area centrale della provincia di Chieti da Palena fino ad Ortona.
A favorire l’attestamento delle truppe tedesche e il mantenimento delle posizioni per i mesi successivi, concorsero senza dubbio alcune caratteristiche morfologiche del territorio - i massicci montagnosi, le gole impervie, i torrenti impetuosi - nonché le condizioni meteo di una stagione invernale particolarmente inclemente - l’aggettivo usato da Churchill fu «infame» <61 - con piogge insistenti, nevicate a media quota e nebbie fitte che «si susseguono per giorni e giorni da novembre a febbraio, avvolgendo uomini e cose in un’atmosfera grigia, oppressiva ed inospitale» <62. Annotò ancora Churchill nelle sue memorie che dopo «un anno di ritirate quasi ininterrotte in Africa, in Sicilia e nell’Italia meridionale, le truppe tedesche furono liete di voltarsi e cominciare a combattere» <63.
L’evolversi delle vicende belliche del secondo conflitto mondiale portò quindi l’Abruzzo a ritrovarsi proprio lungo la «linea del fuoco» <64, fino al giugno 1944: dal cielo i bombardamenti alleati, da terra «le ben più devastanti distruzioni germaniche» <65 e le loro severissime disposizioni alle popolazioni occupate, avallate e troppo spesso sostenute, come già detto, dalle forze italiane fasciste della Repubblica di Salò. Fu proprio l’individuazione di un duplice nemico - tedesco e fascista - che caratterizzò la Resistenza italiana che, come scrisse Bobbio, fu "«un movimento di liberazione non solo dallo straniero, ma anche da un regime che aveva […] da vent’anni […] soppresso tutte le libertà costituzionali, e infine gettato l’Italia disarmata e nolente nel rogo dell’incendio nazista. Nella maggior parte dei paesi in cui si sviluppò un movimento di resistenza, questo fu esclusivamente un momento patriottico di guerra allo straniero. In Italia la Resistenza fu insieme un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno; ebbe il duplice significato di lotta di liberazione nazionale (contro i tedeschi) e politica (contro la dittatura fascista), per la riconquista dell’indipendenza nazionale e della libertà politica e civile. Fu contemporaneamente una lotta su due fronti, contro due avversari, che mirava contemporaneamente a due risultati: restituire l’Italia all’indipendenza, non diversamente da quel che fu il compito della Resistenza olandese o danese, e restaurare il regime democratico che il fascismo aveva soppresso»" <66.
Tornando all’Abruzzo, Costantino Felice scrisse che venne «a trovarsi a ridosso del fronte nel momento in cui dai supremi comandi alleati - stando a quanto dichiarato dal capo dell’aviazione americana - si [… decise] di far entrare in azione «con tutta la sua potenza» la flotta aerea statunitense, bombardando la penisola in modo da «scompigliare il flusso di rifornimenti e di rinforzi ai tedeschi e di isolare le comunicazioni ferroviarie e stradali» <67. Il 27 agosto, Sulmona - «importante nodo ferroviario sulla linea Pescara-Roma, oltre che sede di rilevanti servizi militari e di un’industria bellica» <68 - subisce il primo attacco. Quattro giorni più tardi è la volta di Pescara che riportò «centinaia di morti e feriti» nonché ingenti distruzioni materiali <69. In breve tempo a subire bombardamenti furono tutti i centri abruzzesi di una qualche rilevanza strategica - come Avezzano nella cui vicina Massa d’Albe si stabilì il comando delle 10a armata tedesca - ma anche centri più defilati come Teramo, nonché «una infinità di paesetti montani e collinari» <70. Devastanti le ripercussioni sulla popolazione che oltre all’impatto di morte, distruzioni e terrore, conobbero anche una «condizione psicologica inscrivibile, nelle sue grandi linee, in quel quadro di «disperata angoscia mortale» ben noto in psicopatologia» <71.
Dal canto loro le forze tedesche misero in atto, la tattica della «terra bruciata»: «non solo abbattere ponti, strade, ferrovie, porti, per creare ostacoli e difficoltà alla marcia del nemico, ma annientare ogni possibile condizione di vita, radere al suolo centri abitati e casolari di campagna, azzerare qualunque fonte di sostentamento, col proposito deliberato di non lasciare dietro di sé che macerie e campi minati. Interi paesi e villaggi di montagna una volta divenuti indifendibili, [… vengono] minati e fatti saltare in aria» <72. Detto metodo fu applicato nelle forme più «esasperate e brutali» <73, sui paesi rientranti nell’ampia fascia a ridosso della Gustav tra i quali l’ordine di evacuazione dei civili, - il cui primo ordine venne emanato il 24 ottobre dal prefetto di Chieti su disposizione di Kesselring. Questa disposizione indicava di liberare dalla «presenza dei civili una fascia di territorio profonda dieci chilometri «al di qua della linea di combattimento principale» e altri cinque aldilà di essa, nonché ulteriori cinque chilometri lungo la costa» <74. «Sennonché» - scrive Costantino Felice - «la quasi totalità dei comuni chiamati in causa, 16 per la precisione <75, risponde che il piano è inattuabile, mancando, per una tale massa di persone, i mezzi di trasporto e di sostentamento. Vengono proposti in alternativa sfoltimenti limitati e scaglionati. Le autorità tedesche insistono. Alla data però dell’8 novembre, ultimo giorno fissato per la partenza, soltanto un terzo di quanti hanno ricevuto il foglio di via si è realmente allontanato» <76. Non sopportando più ulteriori ritardi, vengono allora inviate dal comando tedesco «le pattuglie della Wehrmacht che armi in pugno costringono, spesso nel giro di poche ore, intere comunità all’abbandono totale delle proprie case, trasformate poi in macerie dalle mine»77. Decine di migliaia di persone furono così costrette, prive di ogni bene, a lasciare le proprie abitazioni e «ad avventurarsi in lunghe e incerte peregrinazioni alla ricerca di un rifugio; secondo gli approssimativi calcoli delle autorità ecclesiastiche chietine, per esempio, oltre 200 000 nella zona dei combattimenti e altre 100 000 nelle immediate retrovie» <78.
Al contempo venne diramata una direttiva in base alla quale le truppe dovevano sostentarsi «esclusivamente a spese del paese» e la campagna doveva «essere completamente depredata soprattutto di carne ed ortaggi». L’ordine prevedeva anche l’imperativo: «Agire senza scupoli!» <79. Come ribadito da Kesselring, la Wehrmacht doveva raggiungere «una quasi completa autarchia» <80. Ne conseguirono «interminabili e odiose razzie di viveri e di altri generi» <81. «Particolarmente nefaste» - scrive Costantino Felice - «sono le conseguenze delle razzie nel settore zootecnico, principale e spesso unica fonte di sostentamento in ampie zone dell’Abruzzo montano. A un certo momento se ne preoccupano le stesse autorità repubblicane, che pure normalmente - in questo campo forse più che in altri - sono prone ai comandi tedeschi. Il questore di Pescara, ad esempio, si lamenta che le requisizioni di bestiame avvengano senza alcun criterio né censimento preventivo. E qui si parla di quelle ufficiali, giacché le arbitrarie, al di fuori persino di ogni normativa di guerra, erano ben più gravi e depauperanti. In provincia di Teramo si calcola che il «prelievo» mensile potesse aggirarsi sui 650 bovini e 2000 ovini. Significativo è poi quanto riferisce il prefetto dell’Aquila: prima dello «sfascio» seguito all’armistizio in provincia si contavano 522.222 pecore, di cui 274 000, transumanti, di proprietà dei grossi armentari, e le rimanenti, a carattere stanziale, appartenenti a piccoli allevatori; quando egli scrive (24 marzo 1944) non ne restavano che 100000, con migliaia di pastori e altri addetti nell’«indotto» finiti miseramente sul lastrico. Nella sola cittadina di Castel di Sangro (circa 4500 abitanti) nel giro di tre giorni - ricorda l’arciprete Francesco Catullo - vengono razziati ben 400 suini, cui poi ne seguono altri 700 ancora» <82.
Non bastasse, i tedeschi avviarono fin da subito il rastrellamento di uomini in considerazione del fatto che «le barriere offerte dalla natura, per quanto solide e sicure, non bastano: occorrono, […] fortificazioni e difese artificiali. […] Ecco allora le continue richieste di braccia - fatte sempre attraverso le autorità e gli uffici italiani - per i cosiddetti servizi del lavoro» <83. Il primo bando in questo senso «(per tutti gli uomini dai 18 ai 33 anni obbligo tassativo di presentarsi entro cinque giorni ai comandi militari […]), firmato dallo stesso Kesselring, è datato 18 settembre 1943» <84. Del 26 settembre 1943 quello emanato dal prefetto di Chieti <85, con tanto di minacce ai disobbedienti, che avrebbero subito il trattamento secondo le «leggi germaniche di guerra»86. «Le normali vie amministrative dei bandi e degli avvisi pubblici non ottengono però che scarsissimi risultati. E dunque, di fronte alla resistenza popolare, per avere manodopera a scopi paramilitari» non rimasero che compiere «atti di forza» e «razzie». Non venne «risparmiato nessuno, anche se inadatto o addirittura inabile». La promessa poi, di salari più elevati rispetto ai normali, spinse alcuni a «presentarsi spontaneamente» alla chiamata <87.
Un «ulteriore indicatore delle condizioni psicologiche e materiali in cui il popolo subisce l’occupazione tedesca e il dominio nazifascista è dato dal diffuso rifiuto di arruolarsi nell’esercito e negli altri servizi della Repubblica sociale. Anche questo settore di coercizione con il tempo andrà facendosi progressivamente più cupo e persecutorio, coinvolgendo non soltanto i singoli renitenti ma anche i loro familiari: genitori, mogli, figli e parenti in genere. Le forme di pressione e ricatto [… furono] molteplici: confisca dei beni, ritiro di licenze commerciali, chiusura di esercizi, arresto, deportazione, fino alla pena di morte (decreto 18 febbraio 1944)» <88. Il rifiuto a combattere per Hitler e per Mussolini, «sebbene non sempre frutto di una consapevole scelta antifascista, diventa anche in Abruzzo, come nel resto d’Italia […], un fenomeno di massa» <89.
È in questo contesto che si formano le bande partigiane abruzzesi «senza un disegno prestabilito, solo per rispondere a elementari bisogni di sopravvivenza e autodifesa». La grandissima maggioranza degli uomini, rifiutando di servire la Rsi e al tempo stesso «consapevoli dei patimenti e dell’incerto destino cui si sarebbe andati incontro con i servizi del lavoro», preferirono «darsi alla fuga» abbandonando i centri abitati e «a gruppi o singolarmente, si disperdono per i boschi e le campagne, rincontrandosi poi, nottetempo, in qualche luogo precedentemente designato. È in queste circostanze, alla macchia, che molto spesso si pone ineludibile l’esigenza di doversi organizzare e difendere, visto anche che in scontri con i tedeschi c’è chi ci rimette la vita» <90.
[NOTE]
46 Giovanni Artese, La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944. Le battaglie del Biferno, del Trigno e dell’Alto Volturno. L’avanzata dell’8a Armata fino al fiume Sangro, Vol. I, Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, 1993, pp.83-84.
47 Cfr. Rick Atkinson, Il giorno della battaglia. Gli alleati in Italia 1943-1944, Mondadori, Milano, 2008, p. 231.
48 Gianni Rocca, L’Italia invasa 1943-1945, cit., p. 98. «Con la dissoluzione dell’esercito e la fine della breve illusione di uscire dal conflitto e di schierarsi tempestivamente dalla parte degli angloamericani, togliendosi di dosso il marchio di nemico sconfitto, l’intero paese fu abbandonato alla violenta vendetta dei tedeschi, che repressero sanguinosamente ogni tentativo di reazione da parte dell’esercito italiano e punirono con la deportazione e l’internamento in Germania circa 750.000 militari italiani», Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando 8 settembre 1943, il Mulino, Milano, 2003 [prima ed. 1993], p. 25.
49 Allora a capo del gruppo di armate stanziatisi nel nord Italia.
50 Allora capo delle forze tedesche nell’Italia Meridionale. «Gli Alleati conoscevano bene il feldmaresciallo Albert Kesselring. Come comandante tedesco di grado più elevato nel Mediterraneo, di fatto la controparte di Eisenhower, era l’uomo che aveva impedito agli anglo-americani di conquistare rapidamente la vittoria in Tunisia […]. In apparenza Kesselring dipendeva dagli italiani (era il contentino concesso a Mussolini nel 1939, alla firma del Patto d’acciaio, per lusingarne il senso di proprietà sul Mediterraneo), ma in realtà riservava la sua lealtà a Hitler, «il salvatore della Germania dal caos», e aveva imparato da tempo a chiudere gli occhi davanti agli aspetti meno piacevoli del regime nazista. […] Cinquantasettenne, Kesselring aveva un sorriso smagliante, espressione della sua bonomia bavarese: i soldati lo chiamavano «Albert il sorridente». «Kesselring è un inguaribile ottimista» aveva detto Hitler il 20 marzo «e noi dobbiamo fare attenzione a che l’ottimismo non lo accechi». […] La sua strategia era imperniata sull’idea di tenere la guerra il più lontano possibile dalla Germania: da aviatore sapeva benissimo quali sarebbero state le conseguenze per Monaco, Vienna, Berlino se gli anglo-americani avessero conquistato delle basi in Italia. A differenza di molti altri generali tedeschi, compreso il rivale Erwin Rommel, Kesselring riteneva che si potesse difendere tutta l’Italia, se gli italiani avessero fatto la loro parte. E pensava che l’avrebbero fatta, anche se la sua italofilia era temperata dal sarcasmo. «Gli italiani si accontentano facilmente» diceva. «In realtà hanno soltanto tre vere passioni: il caffè, le sigarette e le donne». Quanto ai militari, non erano «soldati nell’anima». Già verso la fine della primavera Kesselring aveva definito «d’argilla» le difese siciliane», Rick Atkinson, Il giorno della battaglia. Gli alleati in Italia 1943-1944, cit., p. 111.
51 Gianni Rocca, L’Italia invasa 1943-1945, cit., pp. 77-78.
52 Ibidem.
53 Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., pp. 3-4.
54 Giovanni Artese, La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944. Le battaglie del Sangro. La battaglia del Moro e di Ortona. I combattimenti nell’area a nord di Venafro, Vol. II, Edigrafital Edizioni Grafiche Italiane, Teramo, [1994?], p. 9.
55 Gianni Rocca, L’Italia invasa 1943-1945, cit., p. 117.
56 «Al 1[°] ottobre 1943, la 10a Armata tedesca non disponeva che di 8 divisioni, per un totale di 60.443 combattenti, “compresi quelli momentaneamente assenti”. Il XIV Panzerkorps contava 917 ufficiali, 6220 sottufficiali e 26.636 soldati, per un totale di 33.773 uomini; il LXXVI Panzerkorps 672 ufficiali, 4342 sottufficiali e 19.763 soldati, per un totale di 24.777 uomini; e l’Oberkommando della 10a Armata 57 ufficiali, 256 sottuficiali e 1580 uomini di truppa, pari a 1893 in totale», Giovanni Artese, La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944, Vol. I, cit., p. 99.
57 Ivi, pp. 95-96. «Le maggiori linee tattiche ritardatrici previste per l’autunno-inverno 1943-44, erano note alla 10a Armata tedesca di von Vietinghoff con i nomi di Viktor, Barbara e Bernhard. La linea Viktor seguiva generalmente i fiumi Volturno, Calore e Biferno. Essa correva attraverso la penisola da Castel Volturno, sulla costa occidentale, per Guardia-S. Giuliano-Campodipietra-Casacalenda-Guglionesi; e raggiungeva la costa orientale circa due chilometri a sud di Termoli. La linea Barbara, più a nord, correva da Mondragone, sulla costa ovest, verso Teano-Presenzano-Colli a Volturno-Sessano e quindi, seguendo il corso del fiume Trigno, giungeva a San Salvo, sulla costa est. Entrambe queste linee erano state progettate per sostenere un’azione di retroguardia di breve periodo, in vista del rafforzamento della linea Bernhard. Quest’ultima correva da vicino Minturno, sulla costa occidentale, lungo il basso Garigliano e poi attraverso Mignano-Venafro-Castelnuovo a Volturno-Alfedena-Roccaraso; quindi, superando il piano delle Cinquemiglia e il massiccio della Maiella, essa raggiungeva la costa orientale a nord del Sangro, nei pressi di Fossacesia. Sorta come semplice linea ritardatrice, la Bernhard, in seguito allo sviluppo degli avvenimenti, sarebbe stata rafforzata fino a divenire la più importante del sistema difensivo tedesco. Durante l’inverno 1943-44, caduti i bastioni avanzati, essa fu approfondita con le posizioni della linea Gustav (Garigliano-Cassino-Alfedena-Stazione di Palena-Maiella-Guardiagrele-Orsogna-Ortona) e, sul solo versante tirrenico, dalla linea Hitler o Senger (Fondi-Pontecorvo-Monte Cairo-S. Biagio-Alfedena). L’intero complesso venne poi più semplicemente indicato dagli alleati con il nome di “Winter Line” (Linea invernale tedesca). Le speranze di Kesselring erano riposte soprattutto nella linea Bernhard, che avrebbe dovuto essere messa in stato di difesa non prima del 1[°] novembre. Egli riteneva che la 10a Armata potesse mantenerla a lungo fino al nuovo anno, ciò che avrebbe consentito di creare solide fortificazioni sulla linea Gustav, concepita per la resistenza ad oltranza. Era chiaro tuttavia che la Bernhard poteva essere mantenuta ad una sola condizione: che le forze tedesche tenessero il passo di Mignano e la Quota 1170, perno dell’intero sistema», ivi, pp. 96-97.
58 Albert Kesselring, Memorie di guerra, cit., p. 218.
59 Giovanni Cerchia, Lungo la linea Gustav, in Id. (a cura di), Il Molise e la guerra totale, Cosmo Iannone editore, Isernia, 2001, pp. 34 e ss.
60 Costantino Felice, Guerra Resistenza Dopoguerra in Abruzzo, cit., p. 104.
61 Winston Churchill, La Seconda guerra mondiale. La morsa si stringe. La campagna d’Italia, Parte V, Vol. I, Mondadori, Milano, 1951, p. 258.
62 Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., pp. 4-5,
63 Winston Churchill, La Seconda guerra mondiale. La morsa si stringe. La campagna d’Italia, cit., p. 257.
64 Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 8. «Il fronte sarebbe tornato a spostarsi, per poi fermarsi di nuovo sulla «Gotica», solo con l’offensiva del giugno 1944», ibidem.
65 Ivi, p. 12.
66 Norberto Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza in Italia, Einaudi, Torino, 2015, pp. 58-59.
67 Costantino Felice, Guerra Resistenza Dopoguerra in Abruzzo, cit., p. 105.
68 Ibidem. Soprattutto la «Dinamite Nobel nella vicina Pratola [Peligna] che con la guerra acquista crescente importanza», Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 9.
69 Costantino Felice, Guerra Resistenza Dopoguerra in Abruzzo, cit., pp. 105-106.
70 Ivi, p. 106.
71 Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 12.
72 Costantino Felice, Guerra Resistenza Dopoguerra in Abruzzo, cit., p. 121.
73 Ibidem.
74 Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 66.
75 Lanciano, Ortona a Mare, Francavilla al Mare, San Vito Chietino, Rapino, San Martino sulla Marrucina, Orsogna, Castelfrentano, Poggiofiorito, Frisa, Rocca San Giovanni, Fossacesia, Treglio, Filetto, Guardiagrele e Mozzagrogna. A questi paesi, soggetti allo sgombero totale, se ne aggiungevano altri otto - San Giovanni Teatino, Miglianico, Torrevecchia Teatina, Tollo, Arielli, Crecchio, Casacanditella e Pretoro - interessati solo per una porzione più o meno ampia del loro territorio. Cfr. ibidem.
76 Ibidem.
77 Costantino Felice, Guerra Resistenza Dopoguerra in Abruzzo, cit., pp. 122-123.
78 Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 67.
79 Gianni Rocca, L’Italia invasa 1943-1945, cit., p. 116.
80 Albert Kesselring, Memorie di guerra, cit., p. 218. Il 12 settembre Kesselring, capo allora del settore Sud, emana un’ordinanza in cui l’area è definita «territorio di guerra» soggetto alle «leggi di guerra tedesche», Costantino Felice, Guerra Resistenza Dopoguerra in Abruzzo, cit., p. 108, n. 183.
81 Ivi, p. 108.
82 Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., pp. 59-60.
83 Costantino Felice, Guerra Resistenza Dopoguerra in Abruzzo, cit., p. 109.
84 Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., pp. 61-62.
85 Cfr. Costantino Felice, Guerra Resistenza Dopoguerra in Abruzzo, cit., p. 109.
86 Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 62.
87 Ibidem.
88 Ivi, p. 50.
89 Ibidem.
90 Ivi, p. 65.
Fabrizio Nocera, Le bande partigiane lungo la linea Gustav. Abruzzo e Molise nelle carte del Ricompart, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2017-2018