Il romanzo di Fonzi
si ambienta sulla riviera ligure, dove un gruppo di ricchi sfaccendati
recita - fra partite di tennis, cene e mondanità - una commedia
imprevedibile che si rovescia in dramma.
Redazione, Bruno Fonzi, Tennis, Einaudi, 1973, Antro di Ulisse
[...] Ricordo che quando veniva a trovarmi a Bordighera dimostrava un attaccamento a quei luoghi e ad un comune amico in particolare, lo scrittore Guido Seborga,
l’Hess della Resistenza e dell’impegno socialista all’Avanti che aveva
poi abbandonato per dedicarsi alla pittura e alla scrittura
nell’immediato entroterra bordigotto. Attorno al mitico locale “Che
Louis” in Corso Italia si trovavano intellettuali come lui, Betocchi,
Navarro (affezionatissimo di Bordighera e di Venezia per le sue
vacanze) e Bruno Fonzi che a Bordighera dedicò il romanzo Tennis. Ero un
giovane universitario ed ho potuto partecipare di quel clima solo attraverso i suoi epigoni, notandone le profonde inquietudini
esistenziali che non bastavano più bevute a rasserenare. Hess,
sicuramente il più affascinante e libero, era profondamente deluso e si
poteva cogliere con immediatezza. Massimo Novelli ha scritto di lui in
modo raffinato, cogliendone l’arte e il travaglio interiore profondo
[...]
Pier Franco Quaglieni, Quelle vacanze nella Liguria torinese, Lo Spiffero, 3 agosto 2015
Il
mio primo rapporto con Bruno Fonzi risale al dicembre del 1974.
Nell’aprile di quell’anno aveva pubblicato, nei “Nuovi Coralli” di
Einaudi, I pianti della liberazione, quel racconto suo bellissimo che
faceva parte della prima raccolta Un duello sotto il fascismo del ’61.
Il due dicembre mi scrisse per ringraziare dell’articolo dedicatogli.
S’avviò così un’amicizia durata poco meno di due anni, ma intensissima e
profonda. “Come se ci conoscessimo da molto”, diceva. Ci vedemmo di lì a
poco a Milano per un breve incontro tra due librerie, la casa Garzanti,
un ristorante. Portava la sua eleganza come il colore degli occhi e
l’andatura nobile che lo contrassegnava. Era nato a Macerata nel 1914. A
Macerata era rimasto fino al ’26 quando la famiglia si era trasferita a
Torino. Dopo la laurea in Scienze Economiche e Commerciali, negli anni
Quaranta sarà a Roma dove intreccerà amicizie che si interromperanno con
il suo spegnersi: Moravia, Elsa Morante, Giorgio Bassani, Giacomo
Debenedetti, Ennio Flaiano, Niccolò Gallo, Mario Pannunzio, che lo
chiamerà a collaborare, per circa un decennio, a “Il Mondo”. Nel ’49
fissa la residenza definitiva a Torino, dove sposerà Ada Fosco, e sarà
chiamato, da Cesare Pavese, ad occuparsi della collana di narrativa
inglese e nordamericana. Poco prima della morte, nel giugno del ’76,
lascerà l’Einaudi per Garzanti. Le insidie dell’intelligenza si era
intitolato il seminario di studi presso l’Università di Urbino, Istituto
di Filologia Romanza, tenutosi il 10 e 11 maggio 1988, a cura di
Gualtiero De Santi e al quale parteciparono Gina Lagorio, Mario
Santagostini, Donatella Marchi, Massimo Raffaeli, Fabrizio Adanti, Maria
Lenti e il sottoscritto.
A oltre dieci anni dalla sua perdita,
tornava l’identità di scrittore e di traduttore superbo che era passato
attraverso le regioni più intense e impervie della letteratura che gli
premeva: il Sartre de La nausea (1947) e l’Hemingway di Un addio alle
armi (’45), il Teatro di Arthur Miller (’59) e quello di O’Neill (1962),
La fortezza di Singer (’72) e le Memorie di una maitresse americana
della Kimball (’75), Ragtime di Doctorow (’76) e I libri della mia vita
di Henry Miller (’76), per citarne alcuni. Scese ad Ancona, provenendo da
Firenze, nel marzo del ’76, per presentare alla Biblioteca “Benincasa”
la raccolta dei suoi racconti di una vita, Equivoci e malintesi, che
Einaudi aveva pubblicato poco prima. Poggiata la valigia da certi suoi
parenti di Via Villarey, risalimmo in auto per raggiungere Portonovo e
rammentare le pagine di Musil ne “Il viaggio in paradiso”, appendice de
L’uomo senza qualità, nel quale quella baia è toccata dalla grazia della
scrittura e dei sensi. Ripercorremmo l’itinerario della sua infanzia
per la città ferita ancora dal terremoto del ’72 e con le tracce aperte
dell’ultima guerra europea: la via delle carceri, i palazzi del Guasco,
di San Pietro, l’arcivescovado, il porto.
Camminava nell’impermeabile
scuro tutto abbottonato e raccontava una storia di brevi capitoli
lasciando che crescesse il ritratto del ragazzino che era stato, occhi
vivi e veloci, in quei luoghi tra l’Anfiteatro e Piazza San Francesco.
Salendo per la Cattedrale gli dicevo che lungo quel percorso - e più
sotto - Visconti aveva girato, nel ’42, le scene anconetane di
Ossessione, con Girotti, la Calamai, Juan De landa, Elio Marcuzzo. Anche
le vie di quel film erano, in gran parte, scomparse con i disastri dei
bombardamenti. Poi Villa Bosdari verso il Trave, dove cenammo, da soli,
nel conforto di una conversazione che durava da ore e che avrebbe
occupato gran parte della notte. Sulla spiaggia di Portonovo mi parlò di
Pavese, degli anni einaudiani. Consegnava figure e fatti oltre il mito e
la leggenda, nell’asciutta evidenza delle cose. Non condivideva la
pubblicazione de Il mestiere di vivere, il diario d’esistenza che si
chiuderà con il suicidio dello scrittore nell’agosto del 1950, a
quarantadue anni.
Appoggiati a una barca rovesciata vicino alla Torre
De Bosis affrontammo i suoi libri. Ironico, discreto, attento,
sfogliava le sue pagine e le pagine dell’Italia con la stessa andatura
esatta della scrittura. Le Marche, per lui, erano elegia e memoria. Un
suo romanzo del ’64, Il maligno, era stato ambientato “in quella zona
dell’Italia centrale imprecisa e ibrida quant’altre mai, dove confinano
l’alto Lazio, l’Umbria e le Marche” (Giorgio Bassani). La presentazione
del giorno dopo, affollatissima e che gli piacque proprio per il
carattere di imprevedibile festa composta, si chiuse in un ristorante di
Piazza del Plebiscito. Poi uscimmo a camminare fino al Porto che ancora
consentiva la passeggiata sulle banchine libere, tra bitte e gomene e
l’odore d’acqua morta. Il giorno dopo raggiungemmo Recanati e Macerata,
senza malinconia. La coscienza vigile del reale l’avvisava ogni volta
degli smottamenti e dei rischi dell’emozione. Seppi, la mattina del 5
giugno, da un pie' di pagina de “Il Giorno”, della sua improvvisa morte a
Milano. La civiltà laica e l’educato anarchismo tacquero all’improvviso
come la civile gentilezza, la pazienza dignitosa, la raffinata
intelligenza. Nel suo lavoro di autore e nelle scelte del traduttore non
c’è mai stata la volontà di piegare il reale, ma l’esigenza di
approssimarsi alla verità delle immagini sensibili, delle situazioni,
per “restituire ciò che abbiamo preso dal granaio della vita” secondo
l’Henry Miller da lui stesso “doppiato” in italiano. L’abitava il
bisogno di dire quel che aveva in testa mediante la forma più vicina a
“come” lo sentiva. L’universo delle idee e degli sguardi: così si
compone il giuoco di macchine linguistiche e di posizioni stilistiche
del più controverso romanzo suo del ’73, Tennis. Dopo trentuno anni la
voce morbida suggerisce: “Che lo scrittore sia interprete della società
mi pare indubbio. Altrettanto indubbia mi pare la sua nessuna influenza
sull’andamento delle cose: […] quasi sempre la sua testimonianza - e
magari, quando c’è, il suo messaggio - vengono recepiti a posteriori.
Troppo tardi”
Francesco Scarabicchi, Love in Translation: Bruno Fonzi, Le parole e le cose 2
