giovedì 1 luglio 2021

Lo sentivo fraterno, leggendolo

Francesco Biamonti e Lalla Romano - Fonte: undonet

Gli anni Ottanta-Novanta meritano un accenno per alcune importanti iniziative. Dopo la mostra retrospettiva in onore di Giuseppe Balbo del 1984, tre anni più tardi Bordighera dedica a Carlo Betocchi il primo convegno commemorativo. Gli interventi di poeti e critici importanti, da Giorgio Caproni, a Elio Gioanola, a Franco Contorbia, avvengono anche alla presenza di Francesco che, in quest’occasione, conosce il nipote di Carlo, Luigi Betocchi (è proprio lo zio a favorire in lui quella spiccata sensibilità per l’arte che tutt’oggi lo contraddistingue). Nell’aprile del 1987 Imperia ospita un importante convegno di studi su Mario Novaro alla cui tavola rotonda, accanto a Giuseppe Conte, Cesare Vivaldi, Gina Lagorio, Giorgio Caproni e Giovanni Cattanei, prende parte Biamonti. Dal 17 dicembre al 31 gennaio 1988 la città è di nuovo protagonista: al Centro Culturale Polivalente viene ricordata la vita e l’opera di Giovanni Boine con una mostra di immagini e documenti curata da Mariateresa Anfossi, Domenico Astengo e Franco Contorbia: Francesco porta la propria testimonianza. Nel novembre 1996, a dieci anni di distanza dal primo convegno, Sanremo ripropone due giornate di studi su Italo Calvino a cui Biamonti partecipa con un importante contributo sulla necessità di guardare le cose dall’“opaco” per coglierne la “giustezza” e la “visibililità”. Il mese successivo, nella città della palme, dopo più di trent’anni dall’ultimo premio di pittura, nasce la prima edizione del biennale “Premio di pittura Città di Bordighera”, con l’intento sia di ricordare e valorizzare la tradizione artistica del luogo sia di decifrare le nuove tendenze della pittura italiana. Biamonti, ormai noto scrittore, fa parte della commissione giudicatrice (anche nella seconda edizione del 1998). Un’ultima segnalazione: sempre nel 1996, dopo aver preso parte al convegno di studi Intorno a Lalla Romano svoltosi a Milano nel 1994, Francesco compone un affettuoso brano sulla scrittrice sentita “fraterna” per lo stile diamantino che restituisce la realtà nella sua purezza e per l’impegno morale che impone la stessa scrittura come forza etica capace di riconoscere la sacralità delle cose.
Mara Pardini, La cultura nel ponente ligure ai tempi di Francesco Biamonti: un accenno, Terra ligure

Per rispondere - in un video curato da Ria - alla irrinunciabile domanda «cos’ha significato per te scrivere?», Romano chiude gli occhi, per fastidio della luce e concentrandosi, tace a lungo. Infine sospira: «Scrivere è stata la mia maniera di essere». Frase che spiega più di molte esegesi critiche. Colpisce sino a commuovere come da quella spossatezza, da quella fatica del corpo e della mente, l’asserzione riesca a risultare energica, potente. E colpisce, in ogni frase da lei scritta o detta, l’austerità. L’espressione del volto mantiene sempre un tratto severo, e più ancora nella vecchiaia: forse anche per via dei capelli bianchissimi, ha scritto una volta Nico Orengo, «come le nevi del suo Monviso».
Vale d’altronde per alcuni autori più che per altri, una stretta corrispondenza della scrittura al paesaggio della loro esistenza. Non è semplice questione di “ambientazioni” o di scelte linguistiche. Nel Novecento italiano, viene da pensare subito a Francesco Biamonti, un altro scrittore del silenzio (Il silenzio è un suo titolo postumo)
[...] I libri dell’83
Per primo voglio ricordare L’angelo di Avrigue di Francesco Biamonti (Einaudi). Singolare romanzo, che ha una luce e un odore: quelli delle montagne e del mare, il mare di Liguria. Lo sentivo fraterno, leggendolo, e ignoravo che anche i miei scritti erano fraterni all’autore, come poi lui stesso mi rivelò.
Drammi (e tragedia) vi sono non analizzati e nemmeno descritti, ma soltanto intravisti, con pudore: la vita è troppo intensa.
[...] Biamonti
27.1.98
L’uomo delle mimose
Di questo nuovo romanzo di Francesco Biamonti ci si può domandare: è massiccio come una montagna o leggero come una foglia? É un tour de force o un sogno? Forse è - per usare un suo termine preferito, quasi inventato da lui - un amalgama.
Ad apertura di Le parole la notte (Eianudi) una paginetta senza titolo presenta un antefatto. Il protagonista sta per lasciare l’ospedale e un medico lo fa firmare con una certa solennità; gli ricorda che non avevano creduto alla sua spiegazione: aveva detto di essere caduto sul dente di una zappa.
Gli avevano sparato, e sapremo anche da chi e perché. Ma, come nei poemi o meglio nella vita vista dai poeti, i fatti sono simbolici. Eppure sono concreti e plausibili; legati alla Storia, non solo all’animo, al carattere delle persone.
La prima espressione (tra virgolette, cioè interna) dell’uomo è «Che ombra leggera!». Era l’ombra degli alberi del pepe che amano «le sabbie portate dal mare». Nella pagina seguente, la sua casa e il suo uliveto.
L’uomo si taglia un bastone da un sorbo, aggira la rupe e va a guardare il mare. Al riparo del crinale fioriscono ancora le «rose d’autunno nel vento del largo». Per i lettori di Biamonti è una particolare emozione. Vento largo era il titolo del suo secondo romanzo (un capolavoro). Guarda le case che ricordava diroccate: dunque viene da lontano. «Ben tornato, Leonardo», viene salutato. Così sappiamo il suo nome. «- Voi ve ne siete andati e noi abbiamo invaso le vostre case», dice il professore, un francese; e Leonardo: «- Non è colpa vostra» e pensa: «Sembra un dialogo tra gente che non c’è già più».
Nello stile rapido ma composito di questo libro conosciamo i pensieri del protagonista tra virgolette. Quando nel romanzo compare una persona femminile, quella che veramente conta, sappiamo per prima cosa come la vede Leonardo: «É marmo il biondo cenere dei suoi capelli, quasi severa l’armonia del suo corpo». Questa donna ha un nome molto intonato a lei: Veronique, nome un po’ misterioso e solenne. É la moglie del professore francese Alain. Leonardo una volta dice di lei che «nei barlumi della luna, sui sassi della strada, era riposo e sogno».
Cominciamo a sapere qualcosa di lui, quando «si fermò ad ascoltare: un tordo cantava sopra un ulivo, voce d’organo che sapeva di grandi boschi lontani. “Che sei venuto a fare dall’Asia centrale o dalla Scandinavia? Dappertutto ti aspettano per spararti”». Dunque Leonardo viene da molto lontano.
Una volta che è interrogato sulle mimose, Leonardo è proprio Francesco Biamonti, coltivatore di mimose.
Vorrei citare questa piccola conversazione: «- Che cosa resta a un contadino sconfitto?, chiese Alain. - “C’è una promessa d’immortalità per l’uomo amalgamato al suolo: non che una parte di lui non torni affatto alla terra, ma che non ne sia mai veramente uscito”. - Ma che risposta è?. - “Ti ho risposto come potevo”».
In Attesa sul mare Biamonti si era misurato con la Storia; qui lo fa a ogni passo. Ma c’è un «amalgama», per dirla come lui. Quello che ho chiamato tour de force consiste in questo: accompagnare persone, vicende e destini singoli a tu per tu con lo stravolgimento di un mondo che si mescola e si riversa sull’Europa attraverso la frontiera.
Leonardo trova nella sua casa l’uscio aperto, che aveva chiuso: qualcuno l’aveva aspettato. Ma le minacce che lo perseguitano non sono disgiunte per lui da quelle sparse sui sentieri. Si accorge che il sentiero è pieno di lacci per le volpi. Li disfa a uno a uno. Nel querceto trova tagliole per l’usignolo, le raccoglie e le butta nel pozzo. Dunque il significato del suo personaggio è un messaggio amoroso.
Si susseguono dialoghi, conversazioni sull’attualità col professore francese e sua moglie. Però per me le più belle sono le piccole conversazioni locali. « - E lei dove abita?», una domanda a Leonardo. « Hai
mai sentito parlare di Beragna? - “Veniva su a Rocchetta un uomo di Beragna. Veniva ai tordi.” - Che cane aveva? - “Un cane bianco e nero”. - Era mio padre, e il cane era un setter. - “Gran brav’uomo”. - Dicono. - “Lei non lo sa?” - Non ci si parlava».
Compaiono anche personaggi particolarmente interessanti, come Albert Corbières, che era stato in quei posti come «liberatore o conquistatore». Un personaggio anche tragico perché è tornato, come si saprà alla fine, per morirci.
Leggerete un libro ricco, storico e poetico, la cosa più rara che ci sia. Ma lo dovete leggere così come è stato scritto, cioè centellinandolo.
Amo troppo Biamonti poeta per non esserne gelosa. Di chi? Ma di lui, quando è troppo bravo. La spia è, come sempre, il linguaggio. Ci sento qua e là D’Annunzio. Ho trovato interi versi. E con questo? É stato un suo nutrimento.
Personalmente ho un rammarico, che forse dovrei tenere per me. Ma è importante. Il libro, voglio dire l’oggetto libro, è splendido. Ma il titolo non doveva essere questo, che potrebbe esserlo anche per altri libri. Quando Francesco venne a trovarmi a Bordighera quest’estate, mi disse nient’altro che il titolo. Era: Vairara. Lo trovate, più volte, questo nome: era l’antico nome di “Case a occidente”. In una delle prime pagine Alain domanda: « - Come si chiama questo posto, voglio dire come si chiamava prima di “Case a occidente”? Aveva un nome?». Leonardo risponde: « Era l’unica cosa che aveva. Vairara».
Suono e pensiero troppo biamonteschi per non riferirli.
Paolo Di Paolo, La scrittura critica di Lalla Romano, Tesi di laurea, Università degli Studi Roma Tre, 2012

Il lavoro di ricerca [quello di Paolo Di Paolo] nell’archivio di Lalla Romano (Milano, Via Brera) ha consentito di ricostruire una bibliografia complessiva dei suoi scritti di carattere critico (compresi fra il 1947 e il 2001): accanto all’attività di poetessa e pittrice prima e di narratrice poi, Romano ha costantemente collaborato con riviste e periodici. Per lunghi periodi è stata titolare di rubriche di recensioni e ha avuto quindi modo di analizzare un vasto numero di opere di autori suoi contemporanei. Dall’analisi dei testi pubblicati e dei rispettivi appunti preparatori, minute ecc., è possibile verificare come gli aspetti più peculiari - su un piano perfino di struttura sintattica - della sua scrittura “creativa” siano fondanti anche della sua scrittura critica. La recensione diventa, per Romano, un “diario di lettura” che risponde agli stessi criteri di un qualunque altro suo testo in prosa e che soprattutto non si piega alle esigenze giornalistiche (interessanti sono gli scambi epistolari con capiredattori e direttori di testata), rivendicando un assoluto stilistico senza deroghe. Gli scritti critici di Lalla Romano consentono di tratteggiare una sorta di “biografia intellettuale” della scrittrice piemontese, che evidenzia - accanto alle relazioni con i protagonisti della cultura italiana di oltre mezzo secolo - la vastità dei suoi interessi, il gusto severo e l’anticonformismo con cui affrontava le scritture altrui. Nel laboratorio di lettrice e critica entrano in gioco anche i numerosi testi - pubblicati o inediti - attraverso i quali Lalla Romano si confrontava con sé stessa e con la propria scrittura nel corso degli anni: prefazioni, note, conferenze che la portano a ripensare i propri stessi libri, a precisarne anno per anno gli intenti e il senso, a definire con consapevolezza un itinerario di coerenza estrema. L’intento dello studio - articolato in due parti (la prima che consiste nella trattazione e la seconda che offre i materiali ricostruiti, laddove possibile, in tutte le fasi di redazione d’autore) - si conferma quello di mettere meglio a fuoco la personalità di un’autrice che - come ha scritto Giulio Ferroni - “con la sua vita, con la sua scrittura […] ha riscattato tutto ciò che di prezioso ha trovato nel mondo e nel secolo che ha attraversato”. Ne risulta anche l’opportunità di un’ulteriore discussione del rapporto problematico tra scrittura e vissuto, centrale nell’opera di Lalla Romano e rispetto alle odierne tendenze delle letterature internazionali.
Arcadia UniRoma