La rappresentazione in chiave di commedia della sempre più penetrante presenza camorristica in città è quella proposta da "Così parlò Bellavista", esordio cinematografico (cosceneggiato assieme allo scrittore e attore Riccardo Pazzaglia) del popolarissimo ingegnere-scrittore Luciano De Crescenzo <193. Nel film, un gradevole mosaico di tipi e “fatterelli” di quotidiana napoletanità, troviamo - tra tanti altri - il personaggio di Core ’ngrato (Lucio Allocca), un ometto dal rassicurante aspetto impiegatizio che invece lavora come “esattore” per conto della camorra. Visto che il suo lavoro lo porta in giro per i negozi, Core ’ngrato arrotonda lo stipendio vendendo qualche prodotto scadente ai suoi “clienti” («accendini americani», orologi, ecc.). Quando si presenterà un camorrista (Nunzio Gallo) di un clan avverso a quello per cui lavora Core ’ngrato per chiedere la tangente legittima (perché quel numero civico spetta al suo gruppo), il protagonista, il professore Bellavista (interpretato dallo stesso De Crescenzo), ne approfitta per una perorazione a difesa del «napoletano d’amore» e all’insegna di un common sense partenopeo: «La notte mettete una bomba sotto una saracinesca, e vi sentite degli eroi! Magari al piano e sopra sta ’nu povero vicchiariello ca c’appizza ’a pelle! Ma a vuje che ve ne ’mporta, siete disoccupati, avete l’alibi morale. Siete napoletani e ammazzate Napoli. Eh già, perché ci sono i commercianti che falliscono, le industrie che chiudono, i ragazzi che sono costretti ad emigrare.., ah già, poi volevo dì un’altra cosa: ma tutto sommato, nun è che fate ’na vita ’e mmerda? Perché penso io: Gesù sì, fate pure i miliardi, guadagnate, però vi ammazzate tra di voi, poi anche quando non vi ammazzate tra di voi, ci sono le vendette trasversali, vi ammazzano le mamme, le sorelle, i figli, ma vi siete fatti bene i conti? Vi conviene?».
Spinge decisamente sul tasto dell’umorismo grottesco, spesso vacuamente sopra le righe, l’esordio alla regia del 1987 di Giancarlo Giannini (già protagonista - lo si ricorderà - del “seminale” "Mi manda Picone"). Il titolo del film è "Ternosecco", e la sceneggiatura è firmata dal giornalista Lino Jannuzzi. Il protagonista Mimì (lo stesso Giannini), esperto di lotto e della Smorfia, si trova alle prese con il superboss della camorra don Salvatore (George Gaynes), che vive in carcere circodato dal lusso e dai suoi tirapiedi (una probabile allusione al “personaggio” Raffaele Cutolo). Ancora nella commistione tra giallo (il film si apre con l’omicidio della fidanzata di Mimì, interpretata da Victoria Abril, un’altra presenza spagnola) e commedia, il film punta a una deformazione estrema della Napoli labirintica e promiscua già protagonista degli altri film citati, senza aggiungere molto all’immagine di una città tentacolare e popolata da un’umanità mostruosa, deformata, se non appunto in termini di esasperazione grottesca (date anche le generose incursioni nella realtà onirica del protagonista, non a caso sedicente interprete dei sogni altrui).
Il decennio si chiude con un’altra rappresentazione della criminalità mediata dal filtro del genere e dell’immancabile repertorio della napoletanità, anche se nel frattempo appare ormai esaurito il filone del giallo partenopeo. Si tratta di "Scugnizzi", la cui sceneggiatura è cofirmata, insieme con il regista, dall’ormai immancabile Elvio Porta <194. Si tratta di una sorta di musical d’impegno civile la cui azione si svolge intorno all’allestimento di uno spettacolo realizzato dall’impresario teatrale squattrinato Fortunato Assante (Leo Gullotta) con un gruppo di ragazzi detenuti del carcere minorile di Nisida. Alle scene delle prove e della rappresentazione al teatro San Carlo davanti alle famiglie dei detenuti, si inframmezzano numerosi flashback che raccontano le storie dei singoli giovani: c’è chi ha rubato per fame, chi è stato irretito dalla malavita organizzata, chi ha commesso uno sgarro alla camorra che pagherà con la propria vita. Assante, all’iniziale interesse puramente economico con cui inizia la sua impresa sostituirà man mano un sentimento di solidarietà e affetto per i ragazzi, essenzialmente vittime di un mondo di violenza, di miseria, e dell’indifferenza di una città la cui «magnifica gente» (come sentiamo in uno dei brani musicali più noti del film, quello che chiude lo spettacolo) sembra più interessata alla finale di coppa Uefa che al destino dei suoi figli più sfortunati. L’opposizione, come molte altre cose del film, appare in fondo forzata. La camorra vi è rappresentata come una sorta di diavolo adescatore (si veda il tentativo di assoldamento di un piccolo e truffaldino venditore ambulante da parte di un boss) per una gioventù che, in fin dei conti, non sembra avere molta scelta: «La camorra è il mestiere del futuro, è roba per i giovani!», grida un poveraccio dalla porta del basso. E quando vi rimangono invischiati, questi giovani finiscono ovviamente per soccombere. Tra femminielli che adottano orfani, il ragù della mamma, disoccupati suicidi e un inno ai topi di fogna, alle «zoccole» che popolano la città e condividono gli angusti e malsani spazi con gli uomini, senza traumi, "Scugnizzi" rinnova l’iconografia della città dolente ma vitale, disperata e però sempre capace di sopravvivere a se stessa <195. Rimane un senso di malinconia, che forse è la nota più originale del film, una malinconia che è anzi, probabilmente, uno dei comuni denominatori di alcuni dei film che abbiamo passato in rassegna.
Quello che pare prevalere è infatti un senso di rassegnazione, un sentimento di impotenza a cui i napoletani rispondono con il loro armamentario di stereotipi, dal culto della maternità al canto liberatorio, atavico e, almeno in parte, catartico.
[NOTE]
193 Su De Crescenzo, abilissimo “fabbricatore” di best sellers, spesso declinati secondo una napoletanità garbata e spiritosa e che si tradurrà anche in qualche sortita cinematografica, cfr. il giudizio di Palermo (1995, p. 18), che accosta questo scrittore al vecchio Marotta: anche in questo caso si tratterebbe di un successo «non effimero eppure inspiegabile».
194 La musica è composta da Claudio Mattone, il quale poi, insieme con Enrico Vaime, scriverà il musical teatrale di grande successo "C’era una volta… Scugnizzi", andato in scena per la prima volta nel 2002 all’Augusteo di Napoli e poi più volte replicato nel corso degli anni.
195 Il prodotto successivo del sodalizio tra Loy e Porta sarà proprio un “carosello” di truffe, raggiri e imbrogli, "Pacco, doppiopacco e contropaccotto" (1993), vero e proprio panegirico di una supposta genialità napoletana votata alla sopravvivenza, e tutta tesa a “fare fesso” il gonzo di turno.
Paolino Nappi, La camorra immaginata. La criminalità napoletana tra letteratura, teatro e cinema dall'Unità agli anni Ottanta del Novecento, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Valencia, 2014
Spinge decisamente sul tasto dell’umorismo grottesco, spesso vacuamente sopra le righe, l’esordio alla regia del 1987 di Giancarlo Giannini (già protagonista - lo si ricorderà - del “seminale” "Mi manda Picone"). Il titolo del film è "Ternosecco", e la sceneggiatura è firmata dal giornalista Lino Jannuzzi. Il protagonista Mimì (lo stesso Giannini), esperto di lotto e della Smorfia, si trova alle prese con il superboss della camorra don Salvatore (George Gaynes), che vive in carcere circodato dal lusso e dai suoi tirapiedi (una probabile allusione al “personaggio” Raffaele Cutolo). Ancora nella commistione tra giallo (il film si apre con l’omicidio della fidanzata di Mimì, interpretata da Victoria Abril, un’altra presenza spagnola) e commedia, il film punta a una deformazione estrema della Napoli labirintica e promiscua già protagonista degli altri film citati, senza aggiungere molto all’immagine di una città tentacolare e popolata da un’umanità mostruosa, deformata, se non appunto in termini di esasperazione grottesca (date anche le generose incursioni nella realtà onirica del protagonista, non a caso sedicente interprete dei sogni altrui).
Il decennio si chiude con un’altra rappresentazione della criminalità mediata dal filtro del genere e dell’immancabile repertorio della napoletanità, anche se nel frattempo appare ormai esaurito il filone del giallo partenopeo. Si tratta di "Scugnizzi", la cui sceneggiatura è cofirmata, insieme con il regista, dall’ormai immancabile Elvio Porta <194. Si tratta di una sorta di musical d’impegno civile la cui azione si svolge intorno all’allestimento di uno spettacolo realizzato dall’impresario teatrale squattrinato Fortunato Assante (Leo Gullotta) con un gruppo di ragazzi detenuti del carcere minorile di Nisida. Alle scene delle prove e della rappresentazione al teatro San Carlo davanti alle famiglie dei detenuti, si inframmezzano numerosi flashback che raccontano le storie dei singoli giovani: c’è chi ha rubato per fame, chi è stato irretito dalla malavita organizzata, chi ha commesso uno sgarro alla camorra che pagherà con la propria vita. Assante, all’iniziale interesse puramente economico con cui inizia la sua impresa sostituirà man mano un sentimento di solidarietà e affetto per i ragazzi, essenzialmente vittime di un mondo di violenza, di miseria, e dell’indifferenza di una città la cui «magnifica gente» (come sentiamo in uno dei brani musicali più noti del film, quello che chiude lo spettacolo) sembra più interessata alla finale di coppa Uefa che al destino dei suoi figli più sfortunati. L’opposizione, come molte altre cose del film, appare in fondo forzata. La camorra vi è rappresentata come una sorta di diavolo adescatore (si veda il tentativo di assoldamento di un piccolo e truffaldino venditore ambulante da parte di un boss) per una gioventù che, in fin dei conti, non sembra avere molta scelta: «La camorra è il mestiere del futuro, è roba per i giovani!», grida un poveraccio dalla porta del basso. E quando vi rimangono invischiati, questi giovani finiscono ovviamente per soccombere. Tra femminielli che adottano orfani, il ragù della mamma, disoccupati suicidi e un inno ai topi di fogna, alle «zoccole» che popolano la città e condividono gli angusti e malsani spazi con gli uomini, senza traumi, "Scugnizzi" rinnova l’iconografia della città dolente ma vitale, disperata e però sempre capace di sopravvivere a se stessa <195. Rimane un senso di malinconia, che forse è la nota più originale del film, una malinconia che è anzi, probabilmente, uno dei comuni denominatori di alcuni dei film che abbiamo passato in rassegna.
Quello che pare prevalere è infatti un senso di rassegnazione, un sentimento di impotenza a cui i napoletani rispondono con il loro armamentario di stereotipi, dal culto della maternità al canto liberatorio, atavico e, almeno in parte, catartico.
[NOTE]
193 Su De Crescenzo, abilissimo “fabbricatore” di best sellers, spesso declinati secondo una napoletanità garbata e spiritosa e che si tradurrà anche in qualche sortita cinematografica, cfr. il giudizio di Palermo (1995, p. 18), che accosta questo scrittore al vecchio Marotta: anche in questo caso si tratterebbe di un successo «non effimero eppure inspiegabile».
194 La musica è composta da Claudio Mattone, il quale poi, insieme con Enrico Vaime, scriverà il musical teatrale di grande successo "C’era una volta… Scugnizzi", andato in scena per la prima volta nel 2002 all’Augusteo di Napoli e poi più volte replicato nel corso degli anni.
195 Il prodotto successivo del sodalizio tra Loy e Porta sarà proprio un “carosello” di truffe, raggiri e imbrogli, "Pacco, doppiopacco e contropaccotto" (1993), vero e proprio panegirico di una supposta genialità napoletana votata alla sopravvivenza, e tutta tesa a “fare fesso” il gonzo di turno.
Paolino Nappi, La camorra immaginata. La criminalità napoletana tra letteratura, teatro e cinema dall'Unità agli anni Ottanta del Novecento, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Valencia, 2014