lunedì 24 maggio 2021

Le variazioni Reinach

Léon Reinach (1893-1944) - Fonte: Musée des Arts Décoratifs

[...] La vede salire lo scalone e attraversare i saloni deserti e come una perfetta padrona di casa controlla ogni cosa, passa la mano sopra i ripiani delle commodes, scorre le dita tra gli intagli delle cornici, sistema col piede gli angoli dei tappeti arricciati e prima di lasciare ogni ambiente si volta per accertarsi che tutto sia in ordine e il suo sguardo ha un’espressione accigliata e fredda, in contrasto con i suoi sentimenti che sono di grande rimpianto e di profonda malinconia.
Ogni stanza le ricorda un evento che appartiene al passato irrecuperabile perché sa che ha ancora poco tempo a disposizione mentre avrebbe voluto spendere tutta la notte ricordando il tempo trascorso o forse ancora più tempo, magari una notte intera per ogni salone, una notte intera per ogni oggetto, per ogni ricordo, per ogni immagine e invece dovrà fare in fretta nei pochi minuti che durerà quest’ultima ricognizione che le sembra sempre più troppo frettolosa perché abbandona la sua casa come se avesse commesso un peccato anche se non è così e per questo è rigida e severa perché sta esaudendo la volontà di suo padre con un dolore profondissimo che le attanaglia il cuore.
Nel ricordo intravede i suoi figli correre per la galleria, scendere di corsa il grande scalone, ridere mentre giocano nel giardino e ritornano le voci della servitù sommesse a volte timorose e in qualche caso sguaiate mentre un rumore meccanico le rammenta il rassicurante procedere del montacarichi che portava le pietanze in sala da pranzo e l’innaturale voce di suo padre, quel suo accento orientale e il tono esagerato molto alto o impercettibile a volte, come se egli non sapesse modulare la voce e poi ricorda i pochi attimi d’intimità col marito legati ai primi tempi del matrimonio e si stupisce che siano quelli e non altri i ricordi che ricorda come le lunghe e interminabili sere quando lei, Léon e suo padre parlavano nel salone alternando grandi silenzi e ricorda il suono del pianoforte di suo marito, quelle melodie scheletriche, intellettuali ma molto romantiche, un poco artificiose che si perdono in quel palazzo troppo grande e troppo vuoto perché troppo distanti sono le memorie e le immagini e sa che non potrà mantenerle vive per il futuro che le si offre dinnanzi come un paesaggio sconfinato e nebbioso.[…]
Si dice, prima che tutto questo fosse cristallizzato e freddo, qualcuno qui ci ha abitato questa era una casa e monsieur le comte de Camondo probabilmente vi avrà dato feste e grandi soirèes per la Parigi che conta o forse sono i momenti di silenzio e solitudine quelli che intravede in quegli stati di straniamento e così riappare freddissima e tuttavia commossa Béatrice che passa in rassegna i saloni anche se la visione dura soltanto un attimo.[…]
Si china sul tavolo ma la vetrina manda riflessi fastidiosi e per un istante la sua immagine grande e scura si sovrappone a quei piccoli rettangoli di carta dagli angoli smussati che sono le foto un poco arricciate di Fanny e Bertrand, i nipoti di Moïse, i figli di Béatrice, seduti sulla bergère,un poco scomposti, come si addice a adolescenti di tredici e di dieci anni e sotto l’immagine c’è una didascalia con le date di nascita e di morte e si domanda perché due rampolli di una ricca famiglia ebrea di Parigi siano morti, in così giovane età forse tempi di guerra, dice tra sé e mentre si fa questa domanda anche il ragazzino italiano, sempre più importuno, entra nel guardaroba e si ferma al suo fianco per ammirare la bacheca così che il vetro riflette anche il suo viso e assieme osservano la spilla d’oro che Fanny si appuntava per sistemare il cachecol di seta quando montava a cavallo e assieme guardano un’latra fotografia di Fanny in sella a Florino e altre immagini di famiglia.
Almeno un paio di mesi dopo quel giorno l’archivista del museo gli spiegherà che quella bacheca viene rinnovata periodicamente e che è stato un caso che ci fossero quelle fotografie ed è stato anche un caso che ci fosse quel bambino, gli sarebbe venuto da pensare, che donava la vita a un posto morto, vita che doveva aver abitato quelle stanze e che sarebbe stato bello ritrovare.[…]
Quando termina la visita […] superano il portone d’ingresso passando distrattamente davanti alle lapidi che ricordano Nissim de Camondo morto per la Francia nel 1917 e Léon Reinach, sua moglie Béatrice de Camondo e i loro figli Fanny e Bertrand morti in deportazione.
da Filippo Tuena, Le variazioni Reinach, Roma, SuperBEAT, 2015, pp.7-11.
Perché sottopone la memoria “proustiana” alla verifica del trauma storico
Strutturato in cinque parti suddivise in brevi capitoli (102 in tutto) il cui titolo riprende il termine musicale “variazione”, il “romanzo” mette in cortocircuito il trauma della Shoah e «la difficoltà di narrare Auschwitz» con i frammenti memoriali di un destino generazionale (S. Ricciardi, Filippo Tuena: Le variazioni Reinach: l’inferni del lager dalla musica del niente in Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale in http://www.italianisticaultraiectina.org/publish/articles/000080/article.pdf - Data dell’ultima consultazione 7 febbraio 2017).
A partire da una visita privata dello scrittore al Museo Nissim de Camondo di Parigi e grazie alla suggestione delle foto lì osservate, Tuena ricostruisce con caparbia acribia la vicenda delle ricche famiglie ebree Reinach e Camondo, l’una di origine tedesca, l’altra di origine greca. Nella Parigi di primo Novecento il matrimonio tra Léon Reinach e Béatrice de Camondo unisce le sorti di una stirpe di banchieri di origine tedesca con quelle dei nobili Camondo, il cui capofamiglia, Moïse,ha cresciuto i propri figli nel medesimo ambiente dei salotti mondani narrati da Marcel Proust. In particolare Léon, compositeur de musique morto ad Auschwitz con la moglie Béatrice con i figli Fanny e Bertrand, diviene protagonista di un affresco dell’alta borghesia francese semita, incredula fino all’ultimo che la Storia possa abbattersi proprio su di lei. Il testo, che porta la dicitura “romanzo”, è  un rilevante esempio di biofiction in cui la ricostruzione biografica, per quanto realizzata con l’ausilio di documenti e testimonianze, è rielaborata dall’immaginazione di chi la trascrive.
Perché affianca in modo congetturale le immagini alla scrittura.
Nel testo, secondo il modello di Sebald, si accostano alla narrazione riproduzioni di foto, di lettere, di verbali. Costituiscono parte portante del testo anche le frequenti riflessioni metanarrative: Tuena interviene spesso in terza persona parlando di sé come de “lo scrittore”, ingaggiando una sorta di corpo a corpo con la quête che ha avviato
[...] Perché attesta le risorse della finzione  in un racconto documentario.
Se la memorabilità dei personaggi e la possibilità di penetrare nel «reale invisibile» (V. Baldi) della loro mente sono elementi costitutivi di un romanzo, si deve riconoscere allora anche al racconto documentario di Tuena lo statuto di finzione narrativa. Léon, Béatrice, Bertrand, Fanny inghiottiti da Auschwitz e condannati all’oblio rivivono mediante i pensieri, gli stati d’animo, le emozioni che Tuena attribuisce loro. Nella pagina del «cercatore di storie» le persone divengono personaggi e nel passaggio dal documento alla narrazione si svela un mondo interiore: basti, per la sua esemplarità, la “Variazione sul tema dei ricordi da non cancellare” dedicata a Béatrice de Camondo (Ivi, pp. 290-292).
Perché grazie alla quête di Tuena rivivono Léon Reinach e la sua musica.
Fin dall’inizio della sua indagine  Tuena conosce la sorte della famiglia Reinach, ossia la deportazione, ma solo poco a poco viene a conoscenza - seppur sommariamente - dei dettagli che la riguarda. Trasferita ad Auschwitz su convogli diversi dal campo francese di Drancy  - il n. 62 del 20 novembre 1943 per Léon, Fanny e Bertrand; il 69 del 7 marzo 1944 per Béatrice – lo scrittore apprende solo quando la sua ricerca è in fase avanzata che, dell’intero nucleo familiare, sarà il «compositeur de musique» - quindi l’intellettuale, contrariamente a quanto ha sostenuto Jean Amery - a sopravvivere più a lungo, ossia fino al 12 maggio del 1944. Intuisce, a questo punto, che solo la musica può aver preservato Léon dalla morte dal momento che «Chi suona nell’orchestrina ha molti vantaggi perché può ottenere cibo più abbondante alloggio migliore e soprattutto l’esenzione dai lavori più gravosi che si svolgono all’aperto con qualunque clima e che in frequenti casi conducono alla morte» (Ivi, p. 327). È per questa ragione che l’autore non si rassegna alla «congiura del silenzio» che grava sulla musica di Léon [...]
Morena Marsilio, Perché leggere questo libro: Le variazioni Reinach di Filippo Tuena, laletteraturaenoi, 11 febbraio 2017
 



Le variazioni Reinach
è un libro assai originale. Racconta di due giovani vittime della Shoah in Francia, appartenenti a due famiglie dell’alta società parigina, celebri per le donazioni che hanno reso possibile la creazione di due meravigliose case-museo, ammirate oggi da migliaia di turisti di tutto il mondo: il Museo Nissim de Camondo a Parigi, rue de Monceau, la Villa Kérilos a Beaulieu.
L’estetismo è nella natura della vicenda narrata, si dirà. La formazione culturale dei protagonisti, lo scenario entro cui si muovono, fra ville lumière e Costa Azzurra, le case che abitano, le letture e gusti artistici sono indiscutibilmente il riflesso di una cultura di fine secolo che, fra echi del processo Dreyfus e miti estetici ottocenteschi, ha svolto funzione di preambolo ad una tragedia non annunciata.
Tuena ricostruisce la biografia dei due innamorati risalendo indietro nella storia di più di un secolo: peccato che insista, forse troppo, nei toni decadentistici: la scelta del titolo, in primo luogo, sottolinea la tessitura musicale che si confonde con segreto nascosto in una trama armonica - le variazioni, appunto - che rende il finale piuttosto prevedibile e allenta la tensione.
Léon Reinach è un musicista: pare abbia composto un solo spartito misterioso, suonando il quale pare abbia cercato di scuotere i fili spinati dei lager. Lo spartito si pensava fosse perduto per sempre e invece, grazie alle prodigiose risorse del web, alla fine rispunta e viene suonato da una delicata mano femminile che si prende una rivincita contro la disumanità del nazismo. Il virtuosismo si prolunga fuori del romanzo, con l’avviso di una nota d’autore che ci informa di un cd oggi disponibile con la prima registrazione dello spartito perduto.
Vita e letteratura s’intrecciano in ogni pagina, ed anche fuori, come si vede: Tuena s’introduce dans son histoire con un eccesso di zelo che talora deborda, rendendo faticosa la lettura e nuocendo alla meraviglia di una storia, che non avendo bisogno di supplementari orpelli incanta di per sé.
Tipograficamente il romanzo si giova di interventi iconografici intertestuali resi con molta sobrietà ed eleganza e dalla sovrapposizione di materiali di provenienza diversa: foto dall’album di famiglia, dattiloscritti di corrispondenze private, trascrizioni di carteggi per e mail, riproduzioni anastatiche di documenti di polizia, di cui ci vengono fornite lunghe didascalie.
La ricerca è originale, confortata da una utile bibliografia e da note testuali che si segnalano per rigore. Poiché le “variazioni” sono più propriamente delle didascalie il romanzo si presenta come un lavoro a più strati. E, fra l’altro, un resoconto di un’indagine storiografica su due innamorati che sono oggi postumamente uniti dalla trasformazione di tutte le loro dimore in una casa-museo.
Di museificazione e di politiche della memoria si discorre molto oggi in Europa.
Léon e Béatrice sono un caso da manuale per chi s’interroga sulle possibilità di un museo di storia del Novecento, non solo della Shoah.
Anche l’enorme campo di Drancy, dove Léon e Béatrice, che si erano lasciati, si ritrovano, è oggi, a suo modo, una casamuseo: l’envers du décor delle lussuose dimore dei Camondo e dei Reinach, scrive Tuena notando questo stridente contrasto, in uno dei passaggi più efficaci del libro.
Per la sovrapposizione di materiali e il gusto per la variazione stilistica, non esente da riflessioni autobiografiche, si direbbe che uno dei modelli letterari di questo romanzo, più di Proust, sia Georges Perec e il suo “souvenir d’enfance”, ma il rilievo che il romanziere francese avrebbe potuto offrire intorno ad una possibile soluzione del problema dello “scrivere sulla Shoah” avrebbe potuto essere maggiore se Tuena non si fosse stato prendere la mano dall’estetismo. E’ un’osservazione che non vuole suonare severa, per un romanzo di notevole significato, anzi, fra i pochi consigliabili in Italia per chi voglia affrontare il tema assai arduo della letteratura su Auschwitz.
Alberto Cavaglion, Il futuro della memoria: cinema e letteratura in AA.VV., Capire gli stermini. Per una didattica della Shoah, Dispense, Summer School per gli insegnanti degli istituti di istruzione secondaria di secondo grado della Toscana, Pisa, 29 agosto - 3 settembre 2010, Regione Toscana