Giuseppe Ungaretti e Carlo Bo |
La stessa letteratura ligure, splendidamente fiorita in questo secolo
sulle due coste (di ponente e di levante), dal tempo di “Riviera Ligure”
e dei primi accenti di Mario Novaro per venire a Sbarbaro, a Boine, quindi al primo Montale (il più ligure), a Barile, Grande, Descalzo, Caproni,
coi movimenti attivissimi di altre riviste come “Circoli”, come
“Maestrale”, e poi rinnovata dopo la guerra coi narratori della
resistenza (a Bordighera è Seborga)
e i giovani di questi anni, anch’essa ha agito con questi medesimi
caratteri, di assidua ripresa e cultura del tessuto della civiltà
letteraria nazionale che andava a marcire nel disfarsi dei vuoti
estetismi; e lo ha fatto quasi al margine, con una operazione
penetrante, col rimedio di una sanità, di una schiettezza senza riserve o
finzioni, sull’opera viva inserendo le sue migliorie, quasi in
cantiere, senza chiasso di demolizioni: quanto meglio, si osservi, tra
il ’15 e il ’30 dei suoi futuristi, o dello strapaesanesimo fiorito in
Toscana. La virtù ligure nasce lì, si fa riconoscere per tale, ma ha una
fioritura più diligente, se meno vistosa, una mira più lontana, dello
spiccato individualismo toscano di allora: e quasi si direbbe, più
pensiero delle basi su cui costruisce, di ciò che sarà, della eredità da
lasciare.
I suoi documenti hanno una precisione che alla lunga determina la validità della carica umana nel tessuto sociale, meno immodesto dei documenti toscani, più appropriata a una vita in continua trasformazione ma che va legalizzata puntualmente con appositi strumenti: e non a caso rammento, come la vidi vent’anni fa, l’antica e rispettata casa notarile di Sestri Levante dalla quale Carlo Bo è venuto ad essere uno degli spiriti più preziosi dell’Italia moderna: la cui informazione e documentazione, e le cui proposte per il futuro, sono fatte sul vivo d’una ricerca spirituale fondata su un patrimonio autentico, su dei beni reali. Ricordo, nell’anticamera dello studio notarile paterno, la buona gente che s’aspettava l’entrata, come usa, col pugno chiuso nell’altra palma aperta, la testa china, quasi stringendo nel gesto gli interessosi pensieri: e accompagnando Carlo più giovane, ma grande e grosso anche allora, per le strette vie dietro il porticciolo di Sestri, quel ricambio fitto ma schivo di saluti che lo accompagnava, sugo di conoscenza vecchia, di meritata stima e di familiare rispetto.
Carlo Betocchi, Rapporto ligure, febbraio 1957
[...] Se il rapporto fra Betocchi e Pasolini, come ha scritto Dario Bellezza, è stato «tutto sommato esiguo» <389, e quello fra Betocchi e Caproni è caratterizzato da una «poesia indimenticabile» <390, quello fra Bo e Betocchi è più che amichevole, viene più volte definito «fraterno» <391. Le lettere del loro carteggio, infatti, sono ricche di ringraziamenti per una frequentazione e un’intimità che, dagli anni fiorentini, li ha accompagnati fino a pochi mesi prima della morte di Betocchi, per questo preziose qui in esame, ma anche delle recensioni e degli scritti di Bo sul poeta fiorentino, puntualmente segnalati da quest’ultimo e commentati per lettera.
Negli anni in cui si conobbero, si frequentarono e continuarono a scriversi, Bo non perse mai di vista l’evolversi della figura poetica e umana di Betocchi. Molte sono, infatti, le lettere in cui Betocchi ringrazia l’amico per avergli dedicato l’uno o l’altro dei suoi scritti, per averlo onorato con il dono delle sue acute riflessioni e soprattutto per la fedeltà, l’amicizia sincera e profonda che gli ha sempre dimostrato continuando a seguirne i passi con affetto e dedizione.
In uno dei suoi scritti principali su Betocchi, l’introduzione all’edizione mondadoriana da lui curata delle Poesie scelte di Betocchi, del 1978, Bo scrive subito che «le stesse raccolte che hanno segnato a grandi intervalli il suo lavoro sono piuttosto il frutto dell’occasione» <392. L’espressione «frutto dell’occasione» potrebbe essere fraintesa, applicata alla poesia ‘oggettiva’ e insieme spirituale di Betocchi, se non si tornasse subito con la mente alla concezione di Bo contenuta in Letteratura come vita. Nell’introduzione sopra citata, infatti, Bo definisce Betocchi l’unico poeta a cui sia riuscito «il miracolo di identificare la propria vita nella poesia» <393, senza alcuna separazione o schermo. Anche negli anni successivi egli ripete questa sua convinzione, intitolando due scritti sull’amico poeta, rispettivamente, Betocchi: realtà che ha nome poesia e Betocchi, il poeta delle cose semplici <394. Ad essere delineata, in entrambi i casi, è la figura di un poeta che non ha mai dimenticato la prima raccolta, Realtà vince il sogno, ma che ha saputo conseguire con la propria maturazione «questa naturale soluzione poetica» <395. Con Betocchi, scrive Bo, «siamo di fronte ad un allargamento di visione, di intelligenza e di restituzione» <396: leggendo i suoi versi, e soprattutto leggendoli attraverso le raccolte, vediamo dispiegato «il miracolo di questo disporsi naturalmente dentro l’onda della poesia» <397.
Già nel 1940, quando pubblicava il saggio Misura di Orfeo, Bo descriveva la voce di Betocchi come quella «grave d’una partecipazione che oltre lo stato poetico raggiunge una intuizione non dominata dalla poesia» <398. Egli intendeva, con le sue parole, sottolineare come per Betocchi la poesia sia sempre stata un dono naturale, sebbene allo stesso tempo un dono, e una rivelazione, che egli ha dovuto accettare con umiltà e attenzione, percorrendo la strada libera e unica, ma faticosa, della propria chiarificazione.
Arrivato a scrivere poesie già piuttosto maturo, la prima raccolta di Betocchi, Realtà vince il sogno, voleva essere secondo Bo «piuttosto un saluto, un modo di dire che c’era anche la sua poesia rispetto ai grandi istituti consacrati dei poeti famosi» <399. Betocchi, fin dai suoi esordi, si distanzia dagli istituti consacrati del canone novecentesco italiano e anzi segue un cammino contrario ad essi, soprattutto nel modo di vedere la scrittura poetica e di rapportarsi al mondo. Se Betocchi dice di se stesso di voler essere soltanto un poeta, Bo lo definirà poi «un poeta di passo»: attraverso ogni poesia e ogni passo percorso, Betocchi è stato per la scrittura poetica «un operaio legato al ritmo della natura ma nello stesso tempo fedele a una disciplina interiore che costituisce l’altro aspetto della sua immagine» <400. La dimensione sottolineata sia dal poeta che dal critico, infatti, rimanda alla concezione betocchiana della scrittura poetica come un lavoro artigianale, da svolgere con fatica e assiduità nonostante sia spesso difficile, o quasi impossibile, trasferire sulla pagina la verità del proprio cuore <401.
Il 5 giugno 1938, poco prima dell’inizio del dibattito su Letteratura come vita, Betocchi scrive dunque a Bo:
"Tutto quello che dovevamo fare non è stato poi fatto […]. Tutto è difficile a questo mondo, per noi che siamo troppo soggetti al mondo; e s’ha paura di non mangiare. Restano sul limite delle cose possibili le cose amate; meglio sarebbe che decampassero verso le impossibili. Per questo il tuo Betocchi è un poeta morto, tutto strazio. Beate le soluzioni dettate dalla volontà e dall’ordinamento intellettuale, ma io amavo le felicità donate ed ero nato per scrivere quelle, l’essere naturale nella sua spontanea felicità. E capisco, capisco tutte le obiezioni; perché le capisco, e me le dico, perciò non sono felice" <402.
Nel loro rapporto Bo è sempre l’amico e l’uomo migliore dei due, secondo Betocchi, quello che riesce ad orientarsi nella vita attraverso «le soluzioni dettate dalla volontà e dall’ordinamento intellettuale»: eppure, lo stesso Bo si congratula più volte con Betocchi per il suo percorso poetico che si è «irrobustito ma sempre al di fuori delle norme e delle ragioni di opportunità. Betocchi è rimasto fedele alla sua poetica d’istinto […]. In tutto il libro della poesia del Novecento non ci sono altri esempi di una simile felicità» <403.
Nonostante il poeta dichiari di non essere felice, la sua condizione è quella di una felicità diversa, dell’allegria dovuta alla certezza di aver svolto il proprio dovere. Non è, quindi, la felicità da ‘letterati’, del bel verso dannunziano, o quella decisa talvolta a tavolino, inquieta e smaniosa di essere riconosciuta: Betocchi ha seguito la sua vena poetica dell’aria aperta, ha cantato la purezza dell’alba e saputo conservare negli anni la pazienza. A non cambiare, poi, è stata la sua volontà di fondersi, attraverso la scrittura poetica, al cuore degli altri e al mondo intero delle creature terrestri. Ciò che conta, in Betocchi, è dunque ancora una volta la perfetta corrispondenza tra vita e poesia: partendo dalla sua esperienza di uomo <404, ogni testo in versi è un nuovo lavoro da ricominciare, non vale di più delle pietre della strada o di un sasso per il quale prova pietà come per tutte le altre creature terrestri <405.
[...] Se nella lettera del 19 novembre 1937 Bo assicurava Betocchi che, non appena pubblicata la sua nuova, e più concreta raccolta, Altre poesie, l’avrebbe presentata sul «Frontespizio», in realtà egli pubblicherà Misura di Orfeo solo nel 1940, per poi inserirlo nei Nuovi studi del 1946 <407. Commentando il lavoro di preparazione ad Altre poesie e gli esiti dei versi pubblicati, Bo sottolinea allora, come negli anni più tardi, che la voce di Betocchi attesta sempre la sua partecipazione alla realtà rappresentata. I simboli naturali, come l’acacia che ondeggia, il vento, la terra e i fili d’erba, vengono sì dalla realtà ma poi, con un movimento circolare e costante, vengono anche ricondotti ai sentimenti dell’inquieto cuore del poeta. La sua poesia, infatti, conosce «un metro insospettato di vita e una forma di ricchezza» che insegna, ai lettori, ai critici e agli altri poeti, «la forza della coscienza critica applicata a una vita larga della poesia, a una delle più vive vene dei nostri giorni» <408.
In risposta al saggio di Bo, il 4 agosto 1940 Betocchi scrive all’amico una lunga lettera che, anche solo leggendone la prima parte, testimonia come la dimensione della sua poesia sia inestricabile da quella umana e dalla fraternità con «spiriti seri» <409 come quello di Bo:
"Caro Carlo,
ti ringrazio della prova di affetto che mi hai dato col tuo Misura di Orfeo in «Incontro» <410. Poiché ciò che una volta ci era noto per vie più semplici e immediate oggi abbiamo appreso la necessità di certificarcene. Così è per l’affetto che, prova e riprova, è fatto di attenzioni scrupolose e a guardarci bene sarebbe come la forma onesta dell’invidia: che non dimentica nulla. Tu intanto sei tornato su quel libretto rosa <411 e ne hai detto ciò che per me era essenziale. Tu sei sempre il padre di codesti tuoi numerosi allievi, caro Bo, ed è peccato persino che tanti facciano senza sapere ciò che tu invece, prima sai, quindi dici. Ecco come, ricontemplando le mie poesie hai potuto liberamente svincolarti da ciò che alcuni dei tuoi seguaci non riescono a dimenticare, e cioè l’elaborazione solitaria non dei testi, ma dei miti che se ne sollevano, sempre quelli, o siano letterari, o siano di mondi desiderati e reconditi, e tanto desiderati da finire per essere colpevoli: mentre tu, io potrei dire che mi hai guardato secondo che io mi sono sentito e sono, principalmente un uomo. Il tuo articolo è così spiritualmente importante per me, e mi ha offerto l’occasione a tali reazioni e meditazioni, che io mi sono invogliato di seguirlo passo per passo con osservazioni scritte le quali ora ti rimando soprattutto perché non saprei come ripagarti della tua fatica se non con un’altra mia fatica: ed anche perché è cosa proba e così celeste aprirsi confidenzialmente con l’amico".
Di fronte all’affetto di Bo, e alle parole che gli ha dedicato, Betocchi risponde con una sincera e dettagliata riesamina del suo scritto e con l’affermazione di un intenso legame spirituale, basato sulla gioia della condivisione e sulla riconoscenza per la presenza dell’amico, che ha saputo dare nome e luce al suo povero lavoro accanto ai sicuri poeti e maestri del canone novecentesco italiano <412.
In una pagina del suo Diario aperto e chiuso, del novembre 1941, Bo nomina infatti Betocchi insieme a Ungaretti, Luzi e Montale, i poeti che con «l’importanza e la magia della loro strada» resteranno negli anni della memoria i protagonisti del «tempo di una vivissima sollecitazione» <413. La bellezza della loro poesia, scrive Bo, "nasceva dietro al risultato delle domande, dopo il moto di speculazione che aprivano nella nostra coscienza. […] la loro poesia ci ha persuaso a individuare un dominio intatto eterno della poesia, quel silenzio staccato in verbo che ci sorprende come un altro segno, la misura di una certezza" <414.
Anche se questo atteggiamento fiducioso di Betocchi sembra essere messo in crisi dal sopraggiungere della vecchiaia, dolorosa, e segnata dalla malattia, secondo Bo «la misura della certezza» resta. A mutare con gli anni e le prove della vita, scrive il critico sestrese, non è il cuore, ma semplicemente "il poeta è diventato vecchio, alla gioia è subentrato un sentimento più composto, la tentazione di vivere ogni minuto della propria esistenza ha lasciato il posto a una tentazione più insidiosa e dolorosa, fare un bilancio. Sono mutate le condizioni, il rapporto per quanto riguarda il suo cuore resta sempre lo stesso, di qui una riduzione delle voci e dei colori ma una crescita e una diversa disposizione del discorso" <415.
[...] Le lettere del carteggio, dunque, rappresentano per Bo e Betocchi quello che il critico stesso definisce «il mezzo più probabile per la nostra formulazione interiore». Betocchi, ringraziando spesso Bo della sua vicinanza e dell’attenzione intelligente, mette in risalto soprattutto il privilegio che essi hanno avuto di vivere e lavorare insieme. In questa prospettiva umana e spirituale, il lavoro condiviso ha permesso di testimoniare anche «ai tanti che ne restano ignari» la bellezza di una stagione e di un lungo discorso in cui la letteratura era «un lavoro continuo e il più possibile assoluto di noi in noi stessi, una coscienza interpretata quotidianamente».
Nella lettera del 7 marzo 1978, il poeta fiorentino scrive a Bo: «il tuo discorso è stato bellissimo, perché mi ha parlato della mia vita, […] e ciò che davvero conta è l’Essere, e il Fare, in carità sterminata d’amore fino alla morte, che ci rimanda al futuro». Il passato vissuto e raccontato da Bo e Betocchi, dunque, sottolinea anche per il futuro come la letteratura, e soprattutto la scrittura epistolare, possano continuare ad essere centrali nel rapporto fra l’uomo, la propria coscienza e la società in cui egli vive quotidianamente. e a quello che ci aspettiamo dalla letteratura, dalla sua capacità di parlarci e raccontare le nostre vite. Bo, accentuando l’importanza della lettura, interpreta leggere come «imparare a riconoscersi» e, insieme, guardare al futuro sperando in un cambiamento.
Domani da questi ricordi, dalla memoria di tali convenienze letterarie così fragili e trasparenti chi sa che non ci venga un aiuto per definire il colore comune d’un’epoca, il peso delle voci vere, lo sforzo che hanno dovuto sostenere gli spiriti veri di quel tempo e ancora potrebbe giovarci nel riconoscere certa ripetizione d’immagini spirituali in un libro recentissimo, in un libro dello stesso valore, ma soltanto mascherato e tradotto in un’altra luce di linguaggio.
Nell’epistolarità è ancora possibile, oggi, cogliere l’importanza viva e sentita dei ricordi di Bo e Betocchi.
389 D. Bellezza, I rapporti tra Betocchi e Pasolini, in Stefani (a cura di), Carlo Betocchi, cit., p. 204.
390 Cfr. Caproni, Betocchi, Una poesia indimenticabile, cit.
391 Betocchi, nella lettera a Bo del 3 settembre 1950 [114], gli scrive: «a te voglio bene e tanto, e se mi credi ti voglio un bene da fratello per quel che anche tu hai aiutato a mantenere vivo nella mia anima».
392 C. Bo, Introduzione, in C. Betocchi, Poesie scelte, a cura di C. Bo, Mondadori, Milano, 1978, p. IX
393 Ibidem.
394 Si tratta di due articoli degli anni 1984-1985: cfr. C. Bo, Betocchi: realtà che ha nome poesia, «Corriere della Sera», 7 agosto 1984; C. Bo, Betocchi, il poeta delle cose semplici, «Gente», 1° novembre 1985, pp. 124, 127-128.
395 Bo, Betocchi: realtà che ha nome poesia, cit.
396 Ibidem.
397 Ibidem.
398 C. Bo, Misura di Orfeo [1940], in Nuovi studi, cit., p. 123.
399 Bo, Introduzione, cit., p. IX.
400 Ivi, p. X.
401 È stata già citata la domanda incessante di Betocchi, fatta a Bo per lettera, «ma quando mi scapperà dal cuore quello che io vorrei?» (cfr. Betocchi, 4 gennaio 1935 [13]).
402 Betocchi, 5 giugno 1938 [54].
403 Bo, Betocchi, il poeta delle cose semplici, cit., p. 127.
404 Cfr. Betocchi, Ciò che occorre è un uomo, in Tutte le poesie cit.
405 Si veda l’intervista di Betocchi del 21 maggio 1983 in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 162: «Perché non vedo differenza tra un uomo e un sasso, non vedo differenza di sorta tra me stesso e quella qualsiasi altra cosa che risiede nell’universo […]».
407 C. Bo, Misura di Orfeo, «Incontro», n. 9, a. I (1940), p. 2, poi in Nuovi studi. Prima serie, Vallecchi, Firenze, 1946, pp. 119-127.
408 Ivi, pp. 126-127.
409 Betocchi, 12 dicembre 1937 [50].
410 Nel suo saggio Misura di Orfeo cit., Bo affronta il percorso compiuto da Betocchi fra Realtà vince il sogno ed Altre poesie, confermando che le ultime poesie «confrontate con le prime attestano questa riduzione, una scienza stabilita nell’estenuazione d’eco dei propri oggetti» (ivi, p. 121). I testi della raccolta del 1939, infatti, rappresentano dei frammenti, degli echi diversi della realtà, ma frutto di «una composizione assoluta delle sue voci verso una voce che vuol essere restituita al suo più alto limite» (ibidem).
411 Con l’espressione «libretto rosa» Betocchi si riferisce alla sua raccolta Altre poesie cit., la cui prima edizione aveva infatti la copertina in cartoncino rosa.
412 Betocchi, 29 luglio 1975 [386]: il poeta ringrazia Bo del suo La strada della poesia, «Corriere della Sera», 29 Luglio 1975, p. 3, sul rapporto fra poeti e lettori liberi, in cui il critico aveva segnalato Betocchi accanto a Sinisgalli, Caproni, Luzi, Cattafi, Raboni, Sala.
413 Bo, Diario aperto e chiuso, cit., p. 314.
414 Ivi, p. 315.
415 Ibidem.
Annalisa Giulietti, «Una preziosa testimonianza» tra vita e letteratura. Il carteggio inedito Bo-Betocchi (1934-1985), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2019
Fonte: Ediz. S. M. G. cit. infra |
“La parola ha una vita che si consuma sulla carta e vale per il suo margine ideale: per quest’eco che può avere nella nostra coscienza”.
E’ così che Carlo Bo, scrittore, critico e saggista definisce il principio della letteratura, quel sentore primo in grado di scuotere anima e penna.
La letteratura come corpo vivo e pensante, come unica ragione d’essere è il fulcro dell’attività di critico di Bo. Lo scrittore non può scrivere per diletto o professione ma deve essere guidato da una cieca necessita, da un bisogno quasi viscerale d’espressione. Queste tesi, lette per la prima volta al Quinto convegno degli scrittori cattolici tenutosi a San Miniato nel 1938 da un Carlo Bo neanche trentenne, suscitarono nella critica del tempo e nell’Italia prossima alla tragedia bellica pareri d’ogni sorta. “Letteratura come vita” venne addirittura etichettato da alcuni come manifesto dell’ermetismo; invece Mario Alicata, autorevole critico del tempo, mosse pesanti critiche all’opera tanto da definirla “paurosamente vicina al divertissement”.
La critica assume nelle tesi dell’autore la valenza di opera stessa, ogni atto umano è atto narrativo e la coscienza d’ogni poeta non è in nulla diversa da quella d’ogni uomo. Il trionfo del valore del linguaggio, il significato prorompente d’ogni parola e l’insaziabile ricercare dell’animo sono mezzi fondamentali per comprendere a pieno il significato ed il valore degli scritti di Bo.
“D’altronde per un letterato non c’è che un’unica realtà, quest’ansia del proprio testo verso la verità: il resto è stata materia nobile e ormai abbandonata.”
Non esiste una professione nello spirito, non esiste mestiere tanto pratico da ingabbiare l’enormità del sentire. La letteratura dev’essere atto d’amore dell’anima nei confronti dell’intelletto, azione e reazione, atto e giudizio: il valore di un testo per Bo dipende dal suo “grado di vita”, dalla sua capacità di rispettare la nostra unica realtà.
La parola non può e non deve essere marmorea, deve potere agire come perenne incremento di vitalità a chi se ne serve, deve essere mezzo per un’avventura ideologica sul fondo del linguaggio, serve a potere trovare attraverso il linguaggio stesso una primaria ragione di verità: quasi introspezione dell’introspezione. Questo convincimento è radicato nell’attitudine critica di Bo che si dona nell’assistere il poeta nella sua scommessa tra il nulla ed il tutto, la lucidità prorompente è arma primaria nella ricerca della vitalità d’un testo.
“Parlare di Carlo Bo vuol dire per me riandare ad un interlocutore primario, essenziale, nel suo dire non meno che nei suoi significative silenzi”.
E’ così che Mario Luzi, in un intervista rilasciata al Secolo XIX il 22 Marzo 2001, rende omaggio all’amico Carlo Bo, unendo nella sua voce di poeta gli omaggi di tutta la poesia italiana e Genovese del tempo.
Redazione, Carlo Bo, un “umile scribacchino ligure”, Edizione San Marco dei Giustiniani, Genova, 21 luglio 2020