domenica 15 agosto 2021
Quante volte guardai come uno scampo / i bastimenti ch’escono dal porto!
[...]
Dimentico di lor [scil. i libri] la chiusa stanza
all’aria della notte spalancavo
e mi sporgevo fuor della finestra
a bere il canto come un vino forte.
(Camillo Sbarbaro, Piccolo, quando un canto d’ubriachi, vv. 4-7)
[...]
Più d’una volta sulla fredda ardesia
al vento che passava nei capelli
alla pioggia che m’inzuppava il viso
io piansi delle lacrime insensate.
(Camillo Sbarbaro, Piccolo, quando un canto d’ubriachi, vv. 11-14)
[...]
Segue immediatamente una laconica constatazione dell’impossibilità che tale illusione possa aver luogo anche nel nunc dell’auctor: «Adesso quell’inganno anche è caduto. / Ora so quanto amara sia la bocca / che canta spalancata verso il cielo» (Camillo Sbarbaro, Piccolo, quando un canto d’ubriachi, vv. 15-17). <384
A conferma della fusione dei due campi semantici del vino e dell’illusione, nella chiusa del componimento la parola “ebbrezza” viene usata come vero e proprio sinonimo della parola “inganno” e significativamente connessa ancora una volta alla sfera semantica del pianto: «Rinnovare vorrei l’amara ebbrezza / e quel sottile brivido pel corpo, / e il ben perduto cui non credo più / piangere come allora…» (Camillo Sbarbaro, Piccolo, quando un canto d’ubriachi, vv. 24-27). Si noti infine che, nella descrizione del paradossale stupore residuo per l’esistenza delle «cose buone della terra» contenuto nel componimento conclusivo della raccolta, la constatazione dell’ormai impossibile rapporto con la Terra viene affidata nuovamente alla figura dell’ubriaco: «Con questo stupor sciocco l’ubbriaco / riceve in viso l’aria della notte» (Camillo Sbarbaro, Talora nell’arsura della via, vv. 9-10).
Il ruolo del vino come surrogato funzionale dell’oppio è poi ampiamente presente anche in un componimento più tardo e a cui abbiamo già sporadicamente fatto accenno: Lettera dall’osteria. Questo poemetto si presenta infatti come un “ponte”, un collegamento tanto dal punto di vista cronologico, <385 quanto dal punto di vista tematico tra il tempo di Pianissimo e quello dei primi Trucioli. Sbarbaro immagina infatti di scrivere una lettera in versi, indirizzata all’amico Silvio Volta, <386 nella quale il soggetto - presumibilmente seduto al tavolo di una bettola - trova l’occasione di esplicitare le conseguenze apportate in lui dall’ebbrezza provocata dal vino. Per prima cosa il vino si presenta come in grado - attraverso le sue «nebbie» - di assicurare all’io lirico uno «stato di grazia». <387
Tale condizione vede come conseguenza primaria un “alleggerimento” della modalità di rapporto con il mondo circostante: «Attaccare discorso con chi capita / vicino; a chi sorride / sorridere; volere a tutti bene» (vv. 9-11); «E uscire dalla bettola leggero / come la mongolfiera che s’invola» (vv. 14-15); «e voglia di cantare a squarciagola» (v. 18). L’effetto provocato dal vino viene infatti descritto sinteticamente con le seguenti parole: «scantonato dal Tempo e dallo Spazio, / guardare il mondo come un padreterno» (vv. 12-13).
È interessante notare sin da ora come Sbarbaro descriva un processo di evasione dall’hic et nunc della coscienza che presenta significativamente le stesse caratteristiche del temporaneo affrancamento garantito dal sonno: «Vieni, consolatore degli afflitti. / Abolisci per me lo spazio e il tempo / e nel nulla dissolvi questo io» (Sonno, dolce fratello della morte, vv. 9-11).
Non a caso, nell’esortazione finale rivolta all’amico Volta, Sbarbaro gli rivolge un invito rivelatore:
Io non ti chiederò di te di lei.
Spingerò verso te colmo il bicchiere
perché in silenzio con l’amico beva
l’oblio. <388
Con un processo di sostituzione che si pone al confine tra il metaforico e il metonimico (la causa per mezzo dell’effetto), il poeta mette in esplicita correlazione il vino e la principale conseguenza benefica che ne discende, ovvero il momentaneo «oblio» della propria condizione esistenziale. Ciò permette al poeta di evadere dalla realtà, immaginando mondi e vite puramente immaginari, nei quali il protagonista si rifugia, trovando un parziale risarcimento delle sofferenze patite («In questo mi rifaccio, amico Volta», v. 25).
Quante volte guardai come uno scampo
i bastimenti ch’escono dal porto!
New York, Calcutta, Londra: nomi immensi.
Perdermi là sognavo, essere un altro,
dimenticarmi sino il mio nome. <389
Segue però subito l’immediata constatazione dell’illusorietà anche di questo tentativo di fuga dalla consapevolezza senza scampo apportata dagli «occhi chiari»: l’ebbrezza del vino è semplicemente un altro rimedio solamente momentaneo, al pari del sonno e del dolore. Non è infatti un caso che Sbarbaro denunci la natura illusoria di un rimedio come l’ubriachezza con un altro calco leopardiano, estremamente simile a quello già utilizzato nel poemetto di Pianissimo dedicato al canto degli ubriachi: «Anche questa illusione ora è caduta». <390
L’ennesimo riferimento al poeta recanatese non sembra tuttavia casuale, se è vero che il tema dell’ebbrezza arrecata dal vino subisce un trattamento analogo a quello sbarbariano nello Zibaldone di pensieri: «Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore». <391
In conclusione, ritornando per un attimo a considerare la fonte leopardiana da cui abbiamo preso le mosse, è possibile infine qualificare la risposta fornita dal Genio familiare all’interrogativo di Torquato Tasso circa i possibili rimedi contro il sentimento della noia («Il sonno, l’oppio, e il dolore») come una mirabile e - ci si passi il termine - profetica sintesi dell’intero orizzonte esistenziale all’interno del quale si muove il personaggio protagonista della vicenda di Pianissimo.
[note]
384 Dell’evidente precedente leopardiano sul quale è esemplato il verso 15, si è già detto in precedenza.
385 Se infatti i testi di Pianissimo vedono la luce tra il marzo del 1910 e il marzo del 1913, Lettera dall’osteria è invece riconducibile all’estate del 1913.
386 Silvio Volta, uno dei promotori della colletta che rese possibile la pubblicazione di Resine, fu compagno di scuola e tra gli amici più cari di Sbarbaro fino dagli anni del liceo. Gina Lagorio lo descrive con queste parole: «La sua intelligenza di tipo cartesiano lo faceva più congeniale a Sbarbaro che non Barile; non faceva prediche, amava la buona tavola, non sdegnava né Bacco né Venere» (GINA LAGORIO, Sbarbaro. Un modo spoglio di esistere, cit., p. 107).
387 «Stato di grazia: ché non so più grande / bene, di contemplare / tra la nebbia del vino i paesaggi / di cui rozz’arte ornò all’intorno i muri» (Lettera dall’osteria, vv. 14-15, in CAMILLO SBARBARO, L’opera in versi e in prosa, cit., p. 86).
388 Lettera dall’osteria, vv. 57-60, in Ivi, p. 88.
389 Lettera dall’osteria, vv. 28-32, in Ivi, p. 87.
390 Lettera dall’osteria, v. 33, in Ibidem. Ricordiamo nuovamente anche il verso che compare in Piccolo, quando un canto d’ubriachi, v. 15: «Adesso quell’inganno anche è caduto».
391 GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, edizione critica a cura di Giuseppe Pacella, vol. 1, cit., p. 263 [324].
Matteo Zoppi, "Dare forma all'anima nascosta": la retorica della comparazione in Camillo Sbarbaro, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014
Etichette:
Camillo Sbarbaro,
canto,
Matteo Zoppi,
oblio,
poesia,
porto,
Silvio Volta,
ubriachi,
vino