giovedì 17 giugno 2021

La prostituzione sotto il fascismo e durante la guerra


«Venere vagante» è uno dei termini che le autorità italiane utilizzarono per indicare le prostitute irregolari. “Venere”, com’è noto, è l’etimo da cui deriva venereo, una locuzione con cui si indicavano le malattie sessualmente trasmissibili, mentre “vagante” designava le meretrici che si potevano muovere liberamente nella città, a differenza delle colleghe chiuse nelle case di tolleranza, le quali erano controllabili, soprattutto dal punto di vista sanitario.
[...]
Il contenimento coattivo della prostituzione clandestina fu una problematica affrontata anche negli anni della Grande guerra. In quella circostanza fu l’esercito che si occupò di predisporre e regolamentare i postriboli operanti nelle zone del fronte, con lo scopo di impedire che i soldati frequentassero le vaganti. La repressione nei confronti di quelle donne che non esercitavano all’interno delle strutture predisposte dalle autorità militari fu attuata già dall’estate del 1915 sia per le necessità, già espresse, di carattere igienico-sanitario, sia perché si temeva che tra di loro potesse nascondersi qualche spia. Per queste ragioni le meretrici finirono per ingrossare le fila di quella parte della popolazione civile che, proveniente dall’Isontino, dal Cadore, dal Trentino, venne internata con l’accusa di essere “austriacante”, sovversiva o delatrice e inviata in varie località della penisola, lontane dalle zone di guerra. I soggetti ritenuti più pericolosi e i sudditi nemici furono trasferiti in Sardegna. <1
È interessante notare che se le malattie veneree non dilagarono, come nelle precedenti guerre risorgimentali, fu merito dell’estensione all’esercito e, dunque, anche agli uomini, di quelle regole a cui, in tempo di pace, erano sottoposte soltanto le donne: schedatura, visita e cure forzate. Nei postriboli militari, tenuti sotto strettissima sorveglianza dai medici dell’esercito, oltre alle frequenti visite alle ospiti, si era predisposto uno speciale «gabinetto per la disinfezione postcoitum», nel quale i soldati erano obbligati a fermarsi all’uscita dal bordello. Nell’intento di contenere l’infezione di origine clandestina, simili gabinetti erano stati impiantati anche all’interno delle caserme e degli accampamenti, per essere a disposizione di chiunque ne facesse richiesta al rientro dalla libera uscita. <2
Questa profilassi, che pose un significativo freno all’espandersi delle infezioni, non fu però replicata durante il fascismo, il quale predispose una serie di norme incentrate principalmente sul controllo medico della prostituta e non del cliente. Quando una nuova guerra mondiale dilagò nel paese, si riproposero analoghe problematiche di ordine sanitario: "Mentre i nostri bravi combattenti compiono prodigi di valore in mezzo ai 1.000 sacrifici duri, che la guerra presente non risparmia, noi qui dobbiamo proteggere la razza, dobbiamo con qualsiasi mezzo e senza parsimonia combattere la immoralità, il diffondersi delle malattie celtiche, che per il capriccio per il lucro ed il lusso, minorenne, spose e ragazze, senza più pudore, calpestando ogni buon sentimento familiare infestano il popolo che deve battere la via dell'Ascensione e non della decadenza". <3
Questa missiva, fatta pervenire da un privato cittadino al Ministero dell’Interno nel giugno 1942, è esemplificativa dei timori che si coagularono intorno alla figura delle meretrici girovaghe durante la Seconda guerra mondiale, ma anche del modello femminile con cui venivano identificate, i cui tratti salienti emergono nell’epistola: "Serpe che avvelenano il genere umano, sfruttando una loro, più o meno durevole bellezza, o attraenza senza nessun amore, con cuore perfido avvincano, e come i vampiri succhiano avidamente il denaro rovinando le famiglie mandandole in miseria, con piccoli innocenti, privandole del più puro e sacro amore, portandovi il veleno, l’inferno, il delitto". <4
Lo stereotipo della messalina astuta, infima e pericolosa non rappresenta di certo una novità e a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fu rafforzato e legittimato scientificamente dalle teorie positiviste. Esemplare, in tal senso, furono le dottrine espresse nel noto volume che Cesare Lombroso, padre dell’antropologia criminale, scrisse nel 1893 insieme a Guglielmo Ferrero, intitolato La donna delinquente, la prostituta e la donna normale. Il lavoro,  stigmatizzando la prostituta come “naturalmente” portata a vendere il proprio corpo, individuava in essa l’equivalente femminile della criminalità maschile ponendola nel punto più basso della scala della devianza muliebre. La promiscuità sessuale delle meretrici, dunque, rappresentava un grave pericolo, esattamente come lo era il crimine maschile, di conseguenza la società doveva essere difesa da entrambi. <5
Queste argomentazioni andarono a corroborare le idee espresse dai fautori del regime di regolamentazione – introdotto in Italia dal Decreto Cavour del 15 febbraio 1860 – in base al quale vennero istituite le case di tolleranza, con l’intento di salvaguardare due inderogabili capisaldi del vivere civile: la moralità e la salute dei cittadini. <6
Quello che rappresenta una novità nel documento citato è l’introduzione del concetto di protezione della «razza». Ai due principi cardine del regolamentismo, dunque, sembrerebbe aggiungersene un terzo, riferibile sempre alla tutela della sanità dei corpi, con cui, in alcuni casi si sovrappone, ma con una significativa variante: ad essere difesa non è più soltanto l’integrità fisica del cittadino ma la «razza italiana». Altrettanto indicativamente, questa nuova interpretazione sembrerebbe fare la sua prima comparsa nei documenti fascisti relativi alla prostituzione solo dopo il 1936, anno d’avvio dell’avventura coloniale. <7
Il concetto di tutela della razza riferito alla salute degli italiani fece la sua apparizione in ambito giuridico nel 1931, collocato autorevolmente nel codice penale fascista, che il tale anno entrò in vigore. Il codice Rocco, dal nome del suo principale artefice, il guardasigilli Alfredo Rocco, incluse nei suoi articoli anche quelli riguardanti i «Delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe» inquadrati nel Libro II, Titolo X. È stato notato che il Titolo X poteva indifferentemente essere denominato «Delitti contro l’integrità e sanità della razza» anziché della «stirpe», dal momento che il ministro Rocco utilizzava i due termini sostanzialmente come sinonimi nei suoi scritti. <8
[...] In quanto «massimi fattori di degenerazione della razza», i contagi venerei – di cui le prostitute, in particolar modo le clandestine, erano ritenute il principale veicolo –, avevano assunto, dunque, i connotati di delitto contro la razza già dal 1931, ma solo nel 1937 il tema comparve nelle questioni di pubblica sicurezza riguardanti il meretricio. <11
Fu quello l’anno in cui, con la proclamazione dell’Impero da parte di Mussolini, la questione razziale iniziò ad assumere maggiore rilievo e, in questa prima fase, riguardò principalmente i rapporti tra italiani e popoli colonizzati. Appartiene a questo periodo quello che può essere definito il primo provvedimento legislativo integralmente discriminatorio del regime. Ci si riferisce alla legge, approvata il 19 aprile 1937 (Regio decreto Legge n. 880 intitolato «Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi»), che vietava in Italia e nelle colonie le «relazioni d’indole coniugale», più note con il termine «madamato», tra un cittadino italiano e un suddito coloniale. <12
Già in data 20 gennaio 1937 il Ministero delle Colonie scriveva a quello dell’Interno che "La presenza in A.O.I. di oltre 200.000 nazionali e di circa 150.000 lavoratori ha posto il problema del soddisfacimento delle loro necessità fisiologiche. Problema non più a lungo dilazionabile e collegato a quello importantissimo della difesa della razza contro il pericolo di incroci e quello non meno grave della sua sanità e della degenerazione sessuale. Com’è noto, questo Ministero si è già occupato e preoccupato di siffatto problema, tanto che è recente il provvedimento legislativo che vieta la convivenza di nazionali con donne indigene. Senonché tale divieto non contempla che un solo lato del problema e non lo risolve da solo. Occorre non solo proibire, ma mettere i connazionali che già sono in A.O.I. in numero rilevante in condizione di non violare la legge. Ciò può essere fatto con la sola colonizzazione demografica […]. Di qui la necessità urgente di dar modo ai connazionali che vivono in A.O.I. di soddisfare alle loro necessità di ordine fisiologico senza loro nocumento fisico e morale e senza danni e senza danni irreparabili per la omogeneità della razza. Si è quindi pensato di provvedere i Reparti lavoratori della M.V.S.N. per l’A.O.I. […] di appositi servizi fisiologici posti sotto la direzione ed il controllo delle autorità sanitarie ed organizzati con donne bianche". <13
La lotta per la difesa della razza si accresceva di un nuovo e fondamentale elemento che segnava una nuova tappa della via italiana al razzismo: il pericolo degli «incroci» con le popolazioni autoctone nelle colonie, contro i quali si chiedeva di perseguire la «colonizzazione demografica», da realizzarsi anche attraverso la possibilità di avere «appositi servizi fisiologici» organizzati esclusivamente «con donne bianche».
Successivamente, l’utilizzo del termine razza si estese anche alla prostituzione in patria e venne utilizzato con lo specifico significato ad esso attribuito dal Titolo X del codice Rocco.
Ce ne fornisce un esempio la comunicazione che il 21 settembre 1937 il Ministero dell’Interno indirizzò ai prefetti dei capoluoghi siciliani, avente per oggetto la «difesa della razza» e nel cui contenuto si dichiarava: "È stato segnalato che varie compagnie di operetta e di prosa girano città secondarie e borghi della Sicilia, per dare delle inqualificabili rappresentazioni. Dette compagnie sono composte, in massima parte, di giovani donne, che esercitando su larga scala la prostituzione, e – quel che è veramente grave – lasciano una scia di infezioni blenorragiche e luetiche tra gli uomini del paese, i quali a loro volta infettano le proprie donne. Queste, per un istintivo pudore non si sottopongono a cure di sorta; dal che derivano danni seri alla loro capacità procreativa". <14
La comunicazione ipotizza, per altro, non uno ma due dei reati previsti dal Titolo X.
Insieme all’articolo 554, riguardante il contagio di sifilide e blenorragia, veniva a configurarsi anche il delitto di procurata impotenza alla procreazione, previsto dall’articolo 552 e riscontrabile nei «danni seri alla capacità procreativa» delle mogli dei frequentatori di prostitute. Per questo il Ministero dell’Interno ordinava ai prefetti di «provvedere con ogni energia, affinché l’inconveniente venga senz’altro eliminato». <15
Con la Seconda guerra mondiale che, si è detto, segnò il culmine del timore per l’espandersi delle malattie veneree, il richiamo alla «difesa della razza» si fece più frequente, sempre associato ad argomentazioni riguardanti la moralità e l’integrità familiare
[...] Il sistema vigente in Italia, dunque, si configurava secondo il governo fascista come una «terza via», <28 che prendeva atto dell’impossibilità di eliminare un fenomeno ritenuto naturale, ma lo controllava per contenerlo «entro certi limiti», a difesa della «pubblica salute e dell’igiene». I limiti, fissati dai vari regolamenti sopra richiamati, dovevano essere fatti rispettare in modo rigidissimo, esercitando la massima vigilanza sui bordelli «con criteri
quanto più possibile restrittivi nella concessione delle prescritte dichiarazioni per l’apertura di siffatti locali, e con la più rigida azione repressiva delle irregolarità e degli abusi che in materia venissero accertati». <29
[...] Quanto la severità di questi ordini fosse effettivamente recepita dagli organismi preposti ad applicarli è ancora da verificare. Si può già rilevare, tuttavia, un allentamento della stretta poliziesca sul finire degli anni Trenta e, ancor più, negli anni del secondo conflitto bellico. La guerra coloniale prima e quella mondiale poi amplificheranno i timori per la diffusione delle malattie celtiche, contro la cui espansione, si è già detto, la casa di tolleranza era considerata il più sicuro impedimento, dal momento che si riteneva che le prostitute che vi esercitavano, grazie ai controlli medici e polizieschi, erano sane, a differenza delle colleghe passeggiatrici, considerate il principale veicolo dell’infezione. Proprio per favorire l’inglobamento della prostituzione clandestina nella rete di controllo medica e poliziesca del postribolo il Tulps del 1926 con l’articolo 194 aveva stabilito che «le case, i quartieri e qualsiasi altro luogo chiuso dove si eserciti abitualmente la prostituzione sono dall’autorità locale di pubblica sicurezza, a richiesta dell’esercente o di ufficio, dichiarati locali di meretricio».
[...] Ma, l’ipotesi di arrestare il contagio con il solo rimedio del lupanare era in buona parte illusoria, come dimostrano le numerose case di tolleranza chiuse a causa di infezioni da sifilide <31 e quelle, forse più numerose, in cui la vigilanza medica era affidata a personale corrotto che per lucro consentiva a donne ammalate di continuare a lavorare. Valga, a titolo di esempio, la lettera che sei prostitute scrissero, in un italiano stentato, al Ministero dell’Interno per lamentarsi delle visite sanitarie: "Incominciano sin dal primo giorno di quindicina fino alla fine si è soggette a tutte queste visite fatte con abbastanza scrupolosità che poi finiscono a delle buffonate perché subentra la simpatia dei Dottori verso le ragazze. Di conseguenza una ragazza sana viene per capriccio dei Dottori viene mandata in ospedale […] e quelle malate rimangono fuori secondo il beneplacito del Dottore che passa la visita. […]. Oltre alle visite e controvisite locali, vi è la visita interprovinciale che viene fatta dal Prof. Di Vella di Bari, al quale possiamo dire che nella città dove lui risiede si verificano dei fatti positivi e cioè ragazze effettivamente malate pagano quello che lui vuole le rilascia il relativo certificato di sana in modo che pur essendo ammalate possono lavorare […]. Vi sono tanti fatti che si potrebbero citare, ma non si finirebbe mai non volendo annoiare l’Ecc. V. Ill.ma soltanto rivolgiamo all’Ecc. V. questo nostro appello affinché siano verso di noi derelitte più umani perché ognuna di noi è costretta a fare questa vita, avendo anche noi qualche responsabilità, perché non è detto che sol perché siamo prostitute non si è creature o esseri umani come tutte le altre perché anche noi abbiamo qualche persona da mantenere". <32
Durante la Seconda guerra mondiale l’onestà dei medici fu messa più volte in dubbio anche dalle autorità alleate. Una ispezione sanitaria disposta a Napoli nel giugno del 1945 rivelò che il 49% delle prostitute dichiarate sane dai medici visitatori era affetto da infezioni celtiche. <33
Anche i funzionari di PS si dimostrarono tutt’altro che ligi al dovere, dal momento che diversi furono quelli cacciati per aver consentito l’attività ai postriboli clandestini. <34
[...] Il controllo esercitato direttamente dall’esercito doveva estendersi alla maggior parte degli aspetti gestionali delle case di tolleranza, compresa la pattuizione delle tariffe riguardanti la prestazione sessuale. Anche l’indagine igienica doveva essere di competenza del personale sanitario militare ma non sembra che si ripeté quella che era stata l’innovazione, risultata decisiva ai fini del contenimento infettivo, introdotta nella precedente guerra mondiale e cioè la sottoposizione a visita obbligatoria anche dei maschi. In Italia la situazione fu più eterogenea. I postriboli continuarono ad essere affidati totalmente alla conduzione di privati cittadini ma la presenza dell’esercito tedesco determinò occasionali, quanto significative, modifiche di gestione. <41
Le truppe del Reich impegnate nel Paese potevano optare per l’allestimento di propri luoghi di meretricio con personale ingaggiato in loco, oppure, più frequentemente, chiedevano alle autorità italiane di mettere a loro disposizione in via esclusiva alcune case già esistenti.
Non era raro, inoltre, che i soldati degli eserciti italiani e tedeschi si trovassero a frequentare gli stessi bordelli. Di certo i combattenti di Hitler ne erano degli assidui frequentatori, tanto che il Ministero dell’Interno, nel raccomandare l’affissione in tutte le case chiuse di cartelli che intimavano i soldati a non diffondere informazioni di carattere militare, ne richiedeva la stesura in italiano e in tedesco. <42
Se si trattava di allestire un nuovo postribolo i comandi germanici chiedevano l’autorizzazione alle autorità superiori e successivamente si accordavano con le prefetture e la pubblica sicurezza, le quali, a loro volta, chiedevano il nulla osta al Ministero dell’Interno.
Queste ultime si occupavano in prima persona del reclutamento delle donne e tutte le altre questioni riguardanti la gestione della struttura; in altri casi, sollecitavano gli organismi italiani perché fossero loro a coordinare l’apertura di una nuova casa di meretricio ad uso esclusivo delle truppe tedesche. In questa circostanza, l’amministrazione del locale era affidata a civili italiani in accordo con l’autorità tedesca che, tra gli altri, si riservava il compito della vigilanza igienica delle prostitute. <43
Ma la circostanza più assidua era quella in cui venivano assegnate loro in via esclusiva delle case di meretricio già avviate. Anche in questo caso, era il personale germanico ad occuparsi dei controlli medici.
Laddove, dunque, i postriboli erano frequentati da avventori dell’esercito tedesco la profilassi sanitaria era sempre di pertinenza del loro personale, in alcuni casi in collaborazione con quello italiano. I medici germanici  sottoponevano a controllo e sanificazione, non solo le prostitute, ma anche i loro militari che, all’uscita dal postribolo, dovevano obbligatoriamente sostare dai sanitari per essere visitati e igienizzati prima di potersene andare. Inoltre, affinché le autorità potessero «più facilmente vigilare sulla adozione, da parte dei frequentatori tedeschi, delle misure profilattiche contro il contagio venereo» era tassativamente vietata la visita a bordelli che non fossero quelli stabiliti. <44
Tali consuetudini non subirono variazioni dopo la costituzione della Repubblica sociale italiana. Da La Spezia, ad esempio, il Capo della provincia «invocava» l’apertura di una nuova casa di tolleranza lamentando che «dei 7 locali di meretricio esistenti in questo comune, tre sono a disposizione del Comando Militare Germanico e non vi possono accedere che militari tedeschi, tre sono riservati ai civili ed uno ai soli militari italiani». Gli ulteriori elementi che venivano esposti nella missiva ci sono ormai noti: "L’affluire dei militari italiani in questa città, in seguito ad arruolamento volontario o per chiamata, ha provocato un accentuato risveglio della prostituzione clandestina, con pregiudizio della moralità dell’ordine della salute pubblica, per cui viene invocata, e si rende necessaria, l’apertura di un nuovo locale di meretricio, che potrebbe essere attivato in un fabbricato esistente nella stessa zona, dove trovansi già sei case di tolleranza e propriamente nelle immediate adiacenze di esse". <45
La comunicazione porta la data 12 marzo 1944. Il giorno successivo, analoga epistola venne inviata, nella parte opposta dell’Italia, dal Ministero dell’Interno del Regno d’Italia al Prefetto di Taranto.
[...] È interessante notare come da parte delle autorità italiane ci fosse un continuo richiamo all’offesa del «sentimento etico» del Paese, tanto più che intorno al mondo del meretricio si affollava un’umanità varia, fatta di bambini, anziani e ragazze che facevano da ruffiani guidando gli avventori presso le loro sorelle, madri, figlie. Particolarmente preoccupante risultava essere la situazione dei fanciulli che «laceri e sudici popolano le strade in stato di totale abbandono, ed avvicinano militari delle Forze Alleate, sia per indicare case dove donne di facili costumi esercitano su vasta scala la prostituzione clandestina, o vengono vendute bevande alcoliche, sia per chiedere dolciumi, caramelle, sigarette, ecc. offrendo così uno spettacolo penoso, che suona offensivo alla dignità della persona». <49
Anche a Napoli furono requisite delle case di tolleranza da adibire ad uso esclusivo delle truppe; i soldati avevano il permesso di frequentarne soltanto undici su trentaquattro esistenti in città, con varie distinzioni riguardanti non solo il grado dei militari ma anche la loro appartenenza razziale. A partire dal 6 marzo 1944, per operare un’ulteriore stretta repressiva sul comportamento dei coscritti, fu reso illegale l’ingresso in tutti i bordelli regolamentati, compresi quelli che erano stati destinati unicamente alle truppe, ma anche i risultati di questa risoluzione furono piuttosto deludenti. La politica dell’off limits, tuttavia, divenne maggiormente applicata via via che l’armata alleata risaliva la penisola. <50
Particolarmente difficile dal punto di vista della prostituzione fu anche la situazione che si venne a creare a Livorno, città che nell’ultimo anno del conflitto assunse il ruolo di principale scalo bellico per gli americani nel Mediterraneo. Qui si concentrarono centinaia di donne giunte da fuori per prostituirsi con i soldati, in gran parte di colore, caratteristica che contribuì a dare a Tombolo – pineta boscosa che ospitò i magazzini alleati e scenario nel quale le meretrici offrivano le loro prestazioni sessuali – la fama di “paradiso nero”. <51
La Seconda guerra mondiale segnò l’apice dell’allarme associato alle veneri vaganti e il crepuscolo del bordello come luogo al quale delegare la salvaguardia della salute e della moralità degli italiani [...]
1 Cfr. E. Franzina, Casini di Guerra. Il tempo libero dalla trincea e i postriboli nel primo conflitto mondiale, Udine, Gaspari, 1999; M. Emacora, Le donne internate in Italia durante la Grande guerra. Esperienze, scritture e memorie, «DEP. Deportate, esuli, profughe», 7, 2007, pp. 1-32.
2 Cfr. G. Gattei, La sifilide: medici e poliziotti intorno alla «Venere politica», in Storia d’Italia, Annale VII, Malattia e medicina, Torino, Einaudi, 1984, pp. 741-798, p. 790.
3 Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero dell’Interno (MI), Direzione generale pubblica sicurezza (DGPS), Divisione polizia amministrativa e sociale (DPAS), b. 337, fasc. Prostituzione clandestina. Affari generali, Lettera al Ministero dell’Interno (firma autografa in calce del mittente non riconoscibile), 28 giugno 1942.
4 Ibidem.
5 Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia. 1860-1915, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 163. Si vedano M. Gibson, Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica, Milano, Bruno Mondadori, 2004, in particolare il capitolo dal titolo La donna delinquente; L. Azara, La prostituta tra innatismo e acquisizione. Una questione insoluta nell’Italia repubblicana, in L. Azara, L. Tedesco (a cura di), La donna delinquente e la prostituta. L’eredità di Lombroso nella cultura e nella società italiane, Roma, Viella, 2019, pp. 193-215.
6 Cfr L. Azara, Lo stato lenone. Il dibattito sulle case chiuse in Italia (1860-1958), Milano, Cens, 1997; G. Gattei, Controllo di classi pericolose. La prima regolamentazione prostituzionale unitaria (1860-1888), in M. L. Beltri, A. Gigli Marchetti (a cura di), Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo, Milano, Franco Angeli, 1982, pp. 762-796; M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia.
7 La ricerca avente per oggetto la prostituzione e il fascismo è ancora in corso e qui se ne presentano alcuni, parziali, risultati che andranno verificati alla luce di ulteriori acquisizioni documentarie che facciano riferimento anche al dibattito medico-scientifico sulla problematica razziale e la prostituzione, ambito nel quale la questione venne affrontata prima che giungesse ad essere di rilievo anche per la pubblica sicurezza.
8 Cfr. I. Pavan, Una premessa dimenticata. Il codice penale del 1930, in M. Caffiero (a cura di), Le radici storiche dell’antisemitismo. Nuove fonti e ricerche, Roma, Viella, 2009, pp. 129-157, p. 142.
11 All’interno del codice Rocco i delitti riguardanti specificamente la prostituzione furono inseriti nel Titolo IX, denominato «Delitti contro la morale pubblica e il buon costume». Si veda il saggio di F. Serpico, A difesa della
«sanità morale della Nazione». Prostituzione e controllo sociale nell’Italia fascista, nel presente fascicolo.
12 Sul madamato si vedano G. Gabrielli, La persecuzione delle unioni miste (1937-1940) nei testi delle sentenze pubblicate e nel dibattito giuridico, «Studi piacentini», 20, 1997, pp. 83-140; Un aspetto della politica razzista
nell’impero: il «problema dei meticci», «Passato e Presente», 41, 1997, pp. 77-105; G. Barrera, Madamato, in V. De Grazia, S. Luzzatto, Dizionario del Fascismo, II, Torino, Einaudi, 2003, pp. 69-72.
13 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 331, fasc. Prostituzione nei territori dell’Impero, Comunicazione del Ministero delle Colonie al Ministero dell’Interno, 20 gennaio 1937. Per un approfondimento si veda G. Barrera, Sessualità e segregazione nelle terre dell’impero, in R. Bottoni (a cura di), L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 393-414.
28 L. Schettini, Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali (1890-1940), Roma, Biblink, 2019, pp. 169-174.
29 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 331, fasc. Locali di meretricio, Appunto del Ministero dell’Interno per la Direzione generale di pubblica sicurezza, 22 novembre 1926.
31 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 324, fasc. Locali di meretricio chiusi.
41 Ringrazio Carlo Gentile per avermi messo a parte di informazioni che confluiranno nel progetto di ricerca Le stragi nell’Italia occupata (1943-1945) nella memoria dei loro perpetratori (https://judaistik.phil-fak.unikoeln.de/forschung/forschungsprojekte/le-stragi-nellitalia-occupata-1943-1945-nella-memoria-dei-loroperpetratori?no_cache=1#c188079)
42 ASC, MI, DGPS, DPAS, b. 331, fasc. Prostituzione. Affari generali, Comunicazione del Ministero dell’Interno a prefetti e a questori, 1° maggio 1943. L’ipotesi che le prostitute fossero delle potenziali spie, oltre ad essere uno stereotipo molto diffuso, è anche una delle ragioni per cui alcune di loro durante il conflitto furono internate nei campi di concentramento fascisti. Cfr. A. Cegna, «Per esigenze di moralità». L’internamento delle prostitute nei campi di concentramento fascisti (1940-1943), in A. Cegna, N. Mattucci, A. Ponzio (a cura di), La prostituzione nell’Italia contemporanea. Tra storia, politiche e diritti, Macerata, Eum, 2019, pp. 29-52.
43 Cfr. ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 319, fasc. Messina, Comunicazione della Prefettura di Messina al Ministero dell’Interno, 12 dicembre 1941.
44 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 331, fasc. Prostituzione. Affari Generali, Comunicazione del Prefetto di Livorno al Ministero dell’Interno, 16 aprile 1943.
45 ASC, MI, DGPS, DPAS, b. 319, fasc. La Spezia, Comunicazione del Capo della Provincia di La Spezia al Ministero dell’Interno, 12 marzo 1944.
49 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 337, fasc. Prostituzione clandestina. Circolari, Comunicazione del Ministero dell’Interno ai prefetti del Regno, 30 marzo 1944.
50 Cfr: S. Cassamagnaghi, Operazione Spose di guerra.
51 Cfr. Ivi, pp, 106-115; C. Fantozzi, L’onore violato. Stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno 1944-47), «Passato e presente», 99, 2016, pp. 88-111.

Annalisa Cegna, Venere vagante. La prostituzione tra ventennio fascista e seconda guerra mondiale, Giornale di storia, 34 (2020), ISSN 2036-4938

Fonte: Fondo Poggiali cit. infra

Fonte: Fondo Poggiali cit. infra

Fonte: Fondo Poggiali cit. infra

Fonte: Fondo Poggiali cit. infra

[...] La questione dell’arrivo in colonia di prostitute è un altro interessante indicatore di questa ulteriore discriminazione. Se la loro presenza è considerata necessaria per limitare i contatti con le donne locali, essa al tempo stesso rischia di sminuire l’immagine della donna italiana agli occhi dei colonizzati. Il primo espediente a cui si cerca di ricorrere è quello dell’”importazione” di prostitute straniere. Poggiali, nel suo diario, racconta la storia di un gruppo di prostitute francesi inviate nell’Etiopia italiana. Il gruppo è bloccato a Gibuti dalle autorità francesi e rinviato in Francia per evitare che nuoccia all’immagine nazionale all’estero. Poggiali è scandalizzato da questa reazione, che pure è esattamente parallela a quella italiana, tanto da commentare: “La Francia che pure, per vecchia tradizione, riforniva delle sue etere tutti i lupanari del mondo, senza farsene alcuno scrupolo, ma anzi disciplinando quella materia come qualsiasi altra materia mercantile di alto reddito, volle fare la schizzinosa nei confronti dell’Italia e della sua nuova colonia.”[19] Vi si legge, senza dubbio l’eco delle polemiche sulle sanzioni imposte all’Italia ma anche la tendenza a distinguere tra “le nostre donne” e “le donne degli altri”. Le contingenze, tuttavia, possono cambiare e, il giornalista racconta il seguito della vicenda: “Si attese che una vita discretamente normale si fosse organizzata nei centri maggiori dell’Impero, che la femminilità italiana vi avesse già fatto prestigiosa comparsa nelle sue forme elette ed oneste, perché anche l’altra femminilità, meno edificante ma che rappresentava una ineluttabile necessità, vi figurasse alla sua volta.”[20] In ogni caso, non mi risulta che rimanga una traccia fotografica dell’arrivo e dell’attività di queste donne italiane in colonia.
Di fronte a questa scarsissima rappresentazione delle donne bianche in colonia, assistiamo, invece, a una fortissima esposizione delle donne africane. Lo squilibrio è del tutto evidente nelle immagini pubblicate ma la situazione non cambia nelle immagini dei fondi privati dei militari che abbiamo indicato. Anche esaminando il fondo Poggiali, la situazione è solo leggermente più bilanciata. Sul totale delle 476 immagini conservate nel suo fondo sull’Aoi, solamente il 14% presenta dei soggetti femminili; la percentuale si riduce drasticamente se consideriamo le donne bianche di origine europea che compaiono solamente in nove fotografie, cioè l’1,8% del totale.
Nonostante l’abbondante presenza di immagini di donne africane, tuttavia, i modelli rimangono limitati, facilmente individuabili e ricorrenti. Si possono far rientrare, sostanzialmente, in due tipologie: l’immagine pornografica e l’immagine etnografica. Le immagini sessualmente esplicite di donne nere, che si possono collocare all’incrocio tra i due stereotipi della “Venere nera” e dell’immaginario orientalista, sono largamente diffuse in epoca coloniale; si ritrovano praticamente in tutti i fondi personali. Conseguenza anche della produzione di vere e proprie serie di cartoline che vengono distribuite tra i soldati in partenza per la guerra. Immagini pornografiche espressamente prodotte e diffuse attraverso un canale pubblico. Queste immagini contribuiscono a diffondere l’idea di una terra popolata da donne bellissime e disponibili, pronte ad essere possedute dal virile uomo italiano.[21] Vengono sfruttate come allettamento alla conquista per giovani uomini abituati alla rigida morale dell’Italia dei primi decenni del novecento e finiscono per innescare una serie di reazioni a catena. Anzi tutto, creano un clima in cui la violenza e l’aggressività dell’uomo bianco verso la donna nera sono considerati del tutto accettabili. Nei fondi privati non mancano immagini di militari in pose ammiccanti o sessualmente aggressive accanto a donne etiopi chiaramente terrorizzate. La riduzione delle donne africane a corpi disponibili per il conquistatore italiano è costruita su uno squilibrio di potere in cui razza, genere e classe creano un intreccio dal quale è estremamente difficile liberarsi.
In secondo luogo, la larghissima circolazione di questo materiale crea un contesto comunicativo fortemente erotizzato, all’interno del quale vengono lette anche immagini femminili più neutre, come i ritratti di stampo etnografico.
La creazione di un immaginario così sessualmente caratterizzato ha una forte presa tanto da persistere anche quando la propaganda, preoccupata dal proliferare di relazioni tra italiani e donne nere e dalla questione del meticciato, spinge verso un cambio di rotta. “Faccetta nera” viene messa al bando e l’invito è a descrivere gli aspetti meno attraenti delle donne dei paesi conquistati. Se la nuova linea viene applicata negli scritti del periodo, le immagini presentate sui rotocalchi continuano ad enfatizzare la bellezza dei corpi femminili africani[22]
 

[Foto 8] “Illustrazione italiana”, 18 maggio 1941, p. 749.

[...] e non c’è motivo di ritenere che la circolazione delle cartoline pornografiche, ormai ampiamente diffuse in colonia e nella madrepatria, sia cessata. Le conseguenze sono di lungo periodo e risultano nella costruzione, nel corso di un periodo che travalica quello del colonialismo fascista, di modelli fortemente imbevuti di razzismo e ideologia patriarcale rivelatisi estremamente tenaci e duraturi.
Se infatti è ben noto come la guerra crei una situazione particolarmente difficile per le donne, instaurando un clima di violenza e di sopraffazione e spezzando i tradizionali vincoli familiari e sociali che funzionano anche da rete protettiva per i soggetti più deboli, bisogna, tuttavia, rilevare come la spiccata erotizzazione delle donne africane non sia venuta meno con il passare del tempo e il ritorno alla pace. Anzi, essa si dimostra uno degli stereotipi più aggressivi e persistenti. Cito, ad esempio, almeno i titoli di due articoli comparsi rispettivamente su “Tempo” e “L’Europeo” negli anni settanta. In un reportage in più puntate intitolato Etiopia - Trentacinque anni dopo, un articolo su Le donne dell’impero ha come occhiello: La donna etiopica è chiamata, con pieno diritto, la svedese d’Africa: evoluta e disinvolta, prende l’iniziativa anche in campo sentimentale[23]; e Viaggio nell’Africa sconosciuta. Tutto il potere alle donne. I costumi matriarcali dell’Alta Etiopia hanno anticipato di cinque secoli il movimento di emancipazione femminile: matrimoni senza obbligo di fedeltà sessuale, libero aborto, divorzio”[24]. Titolo, quest’ultimo, sia detto per inciso, che è assai interessante anche per il modo in cui un periodico come “L’Europeo” riassume gli obiettivi del movimento di emancipazione femminile. Ma anche le immagini pubblicitarie continuano ad essere veicolo dei più triti stereotipi razzisti.[25] Si tratta, insomma, di una rappresentazione che ha radici molto antiche nel tempo[26] e che, attraverso le narrazioni degli esploratori e degli antropologi ottocenteschi prima e quelle delle vicende coloniali liberali e fascista poi, è arrivata sino a noi. [...]
[NOTE]
[19] Ciro Poggiali, Albori dell’impero, Milano, Fratelli Treves, 1938, p. 525.
[20] Ibid., corsivo mio.
[21] In parallelo, la pubblicistica costruisce un’immagine dell’uomo africano come poco virile e scarsamente interessato all’aspetto erotico dell’esistenza.
[22] Si veda, ad esempio, l’immagine di due “donne watussi” di cui la didascalia sottolinea la “perfezione del corpo”, apparsa su l’“Illustrazione italiana” del 18 maggio 1941, p. 749, significativa anche perché indica come fondamentale canone di bellezza la snellezza, a dispetto della coeva propaganda contro la donna crisi.
[23] Le donne dell’impero, in “Tempo”, 7 marzo 1970, pp. 57-59.
[24] Carlo Matteotti, Tutto il potere alle donne, in “L’Europeo”, 09 maggio 1974, p. 70.
[25] Per una riflessione e qualche esempio, si veda l’interessante blog di Sonia Sabelli, http://sonia.noblogs.org/?p=1106.
Monica Di Barbora, Donne in Aoi: fotografie tra sguardo pubblico e privato, OS Officina della storia, 30 marzo 2013