lunedì 30 agosto 2021

La fortuna dei Precetti di Ugo Bernasconi presso artisti e critici di svariati orientamenti

Ugo Bernasconi, Il Monte Rosa - Fonte: Artsy

Se si voglia capire chi è Ugo Bernasconi, si apra il suo Precetti e pensieri ai giovani pittori. Il volumetto è del 1910, scritto nel primo decennio del secolo a Parigi, a Roma, a Firenze, da appunti presi nell’apprendimento dell’arte. Quello che colpisce di questo scritto è la sentenziosità, pur nel tono squillante e fresco dell’esperienza vissuta: sembra che il ‘giovane pittore’ (-scrittore) cerchi - e mostri ai suoi colleghi - una via di saggezza dove nessuno avrebbe mai pensato di trovarla: in alcuni semplici insegnamenti d’arte. «Voi non dovete dipingere ciò che vi sta davanti - ma ciò che vi sta dentro» <1, predica il precetto d’esordio.
Il Dizionario della critica d’arte di Luigi Grassi e Mario Pepe dà la seguente definizione del «precetto»: "Precetti. Norme, princìpi, insegnamenti d’ordine teorico e pratico inerenti alla cognizione sulle arti figurative. Si tratta, in altri termini, di quel patrimonio di esperienze, che dalle botteghe e scuole dei maestri della pittura scultura architettura è stato formulato in una successione di regole istituzionali, in base a diversi sistemi costitutivi dei trattati d’arte" <2.
 

Fonte: Inventario Archivio Ugo Bernasconi cit. infra

[...] Infatti, i contenuti del volumetto riguardano sì il fare pittura, ma la forma e la tecnica pittorica rimangono sullo sfondo e non costituiscono certo il centro dell’interesse dello scrittore.
Sono del tutto assenti istruzioni tecniche o ricette di colori, perché «in quanto alla materia - il meno è il meglio» e «la materia dell’opera non è che il tramite». Se alcune notazioni di tecnica pittorica si possono leggere fra le righe, sono quelle - sulla resa della luce, sul modo di «dedurre la figura dal fondo», sulla necessità di fare il bozzetto direttamente sulla tela, sull’uso del «color di zolla», del nero - ricavate dall’insegnamento di Eugène Carrière, più volte citato, come un ritornello: «C’est l’arabesque de la lumière qui constitue le tableau» <4. L’interesse dell’autore però è qui per la prima volta di carattere morale: egli stesso annota in un suo taccuino di appunti: «Essi fanno della pittura, della scultura, dell’architettura, della letteratura - dell’ingegneria - ma nessuno fa della moralità» <5, e avverte in un precetto: «Badate che in fondo ad ogni questione umana è sempre una questione di morale. Questo è il cominciamento di ogni intrapresa umana - il cominciamento e il fine. Voi non avrete sviscerato il problema finché non sarete arrivati a quel nocciolo». Il «nocciolo» è appunto una visione ‘attiva’ dell’arte: «Tu sei un uomo che vuole agire sugli altri uomini. Per questo fai dell’arte».
L’arte diventa una «profezia», un modo per disegnare un mondo, ricostruito nell’armonia della mente del pittore: «Né alcuno è veritieramente artista fin che non sente l’opera sua come una causa efficiente del mondo avvenire, ma solo come un inutile e fragile e ingombrante duplicato di ciò che è presente. Arte è profezia» <6.
 

Ugo Bernasconi, Senza titolo - Fonte: Metropolitan Magazine

Il fine stesso del libretto, che reca l’epigrafe «altrui con parole aggiunger vigore», è parenetico. Le varie tipologie formali dei precetti - la massima morale, la definizione, la citazione, il dialogo - confluiscono nell’esortazione: "Amate. Perocché ritroverete e nei fiori e nelle piante e nelle nuvole e negli uomini e perfino nei macigni e negli atti dei cani e di tutte le bestie, il riso e il pianto del vostro amore <7. Consideratevi come i primitivi di una pittura a venire. Siate instancabili incrollabili e fidenti. L’aria è satura di primavera. Lo sbocciamento dei grandi alberi è prossimo" <8.
 

Ugo Bernasconi e Ardengo Soffici a Milano, 1939 - Fonte: Inventario Archivio Ugo Bernasconi cit. infra

Trent’anni più tardi, nella Confessione preliminare al Sacco dell’Orco, Giovanni Papini <9 si lamenta che, esclusa la fortuna delle raccolte postume, gli unici libri di aforismi di autori viventi ad avere un certo successo siano quelli di due artisti (e cita il Giornale di Bordo di Ardengo Soffici e il Pittore volante di Anselmo Bucci). L’affermazione è senza dubbio eccessiva, ma vale a ricordare due aspetti degni di nota: la difficoltà del genere aforistico, e il formarsi di un pubblico ‘curioso’ - per non dire attento - di leggere sulle riviste e poi in volume gli appunti intermittenti degli artisti, le loro confessioni ed opinioni talvolta sarcastiche, i pettegolezzi su altri artisti, gli insegnamenti, infine e soprattutto, contenuti in tali scritti, al confine - ma senza l’autorità della disciplina - fra estetica, letteratura e filosofia, politica e giornalismo <10.
I lettori di aforismi - che spesso condividono con l’autore la superiorità intellettuale di una «aristocrazia delle grandes-âmes» <11 - vi possono trovare la conferma al proprio pensiero, come ricorda Prezzolini («Gli aforismi sono vasi che il lettore riempie con il suo vino. Bisogna perciò farli ornati di immagini, con ricchi festoni di antitesi. Ci piacciono perché li possiamo scegliere, senza guastare l’opera» <12), l’invito alla personale riflessione filosofica, all’introspezione, lo stimolo - nella brevità erede della stagione dei manifesti delle avanguardie - all’azione. La perentorietà del messaggio trasmesso in una-due righe si addice tanto ai contenuti programmatici del futurismo quanto alle formulazioni parenetiche dei precetti bernasconiani. Sebbene, si vedrà, del futurismo decisamente rifiuti gli esiti, Bernasconi ne condivide le radici lombarde (la polemica artistica erede degli interventi grubiciani).
 

Ugo Bernasconi, Vangatori, 1949-50 - Catalogo del patrimonio culturale dell'Emilia-Romagna

La non adesione al futurismo - esplicita nella sua collaborazione alla rivista antilacerbiana «Il Vaglio» - non dovrà dunque essere vista in contraddizione con i suoi rapporti con gli stessi redattori di «Lacerba» - Papini e Soffici in primis: l’interesse di Bernasconi va al di là dei movimenti artistici e delle polemiche di carattere critico ed estetico, mantenendosi su «questioni di ordine generale» <13, come conferma la fortuna dei suoi Precetti presso artisti e critici di svariati orientamenti.
[...] L’arte dello scrivere, come quella di lavorare il marmo, ha le sue regole di «divina sobrietà» tanto per il Bernasconi scrittore di lucidi e misurati aforismi («la retorica io la voglio bandita dalle parole, come tu la vuoi bandita dal marmo» <116), quanto per lo scultore teso fino all’estremo alla politezza del materiale che lavora.
 

Giovanni Papini, ritratto fotografico con dedica a Ugo Bernasconi - Fonte: Inventario Archivio Ugo Bernasconi cit. infra

Giovanni Papini, ritratto fotografico con dedica a Ugo Bernasconi - Fonte: Inventario Archivio Ugo Bernasconi cit. infra

L’immagine sarà rievocata anni più tardi da un anziano e quasi cieco Giovanni Papini, che, in dialogo stretto con l’amico pittore, la riprenderà per accostarla, significativamente, al frammentismo delle sue ultime schegge, esito finale di un lavoro di ‘sbozzatura’ durato un’intera esistenza: «Paragonando l’arte mia a quella dello statuario mi è venuto fatto di vedermi dinanzi ai piedi quelle schegge o scaglie di marmo tolte via dal blocco per trarne fuori una libera, vera immagine» <117.
[NOTE]
1 U. Bernasconi, Precetti e pensieri ai giovani pittori, Malnate (Milano) 1910, 3.
2 L. Grassi-M. Pepe, Dizionario della critica d’arte, II, Torino 1978, 424.
4 Bernasconi, Precetti cit., 21, 24, 34, 38-39, 46, 83, 85, 95-96.
5 Taccuino fiorentino, 1907-1908 (AB, M4).
6 Bernasconi, Precetti cit., 89, 91, 108.
7 Cfr. E. Carrière, Écrits et lettres choisies, Paris 1907, 11: «L’amour des formes extérieures de la nature est le moyen de compréhension que la nature m’impose».
8 Bernasconi, Precetti cit., 3, 19, 60.
9 G. Papini, Il sacco dell’orco, Firenze 1933, 19.
10 Per comprendere il ruolo di primo piano rivestito dagli artisti nella letteratura aforistica novecentesca è sufficiente sfogliare l’antologia curata da Gino Ruozzi (Scrittori italiani di aforismi, vol. II, Milano 1996), in cui figurano tra gli altri, oltre a Bernasconi, Ardengo Soffici, Mino Maccari, Anselmo Bucci, Carlo Belli, Arturo Martini, Fausto Melotti, Lalla Romano. Sull’aforisma d’artista nel Novecento, si veda soprattutto G. Ruozzi, Forme brevi. Pensieri, massime e aforismi nel Novecento italiano, Pisa 1992, 401-409 e da ultimo, ma marginale, il saggio di E.M. Davoli, Esiste una via figurativa all’aforisma?, in Configurazioni dell’aforisma. Ricerca sulla scrittura aforistica diretta da Corrado Rosso, II, a cura di G. Ruozzi, Bologna 2000, 149-162.
11 Cfr. C. Rosso, La «Maxime». Saggi per una tipologia critica, Bologna 2001 (ma 1968), 88: «Un’identica “superiorità” intellettuale, un’identica “attività” devono accomunare l’autore e il lettore delle massime: altrimenti il genere decade a un tipo di consumazione preferito dai lettori pigri e mediocri».
12 G. Prezzolini, Il Centivio, Milano 1906, 8.
13 Si veda, in una lettera a Pancrazi (Cantù, 24 novembre 1928, AB, 020.053, pubblicata in Lettere di Ugo Bernasconi, a cura di A. Della Torre, A. Longatti, prefazione di E. Travi, Cantù 1991, 54) quello che UB scrive a proposito del suo manoscritto di Paragrafi, poi pubblicato postumo (1987) con il titolo Parole alla buona gente: «Questo mio libro, a cui attendo da molti anni, si intitola Paragrafi, perché i pensieri, di forma spesso aforistica, vi sono raggruppati in brevi capitoletti, non tanto secondo la materia che trattano, ma piuttosto secondo il tono sentimentale da cui nacquero. Infatti la prima idea era di intitolare il libro Diario Sentimentale - ma poi non mi piacque, e come ambiguo, ed anche non veridico, non essendo mai questione qui dentro - come usa nei Diari - della persona mia o comunque de’ casi miei, ma sempre di questioni e di pensieri d’ordine generale».
116 Lettere di Ugo Bernasconi cit., 122. Cfr. la lettera di Wildt a Giovanni Scheiwiller, 26 luglio 1915 (cit. in P. Mola, Dramma, simbolo e astrazione nella scultura di Wildt, in Scultura italiana del Novecento, Milano 1993, 90): «Lei sa benissimo come gli artisti in genere rifuggano la penna, ed in particolare modo il suo amico Wildt che non sa scrivere che nel marmo».
117 G. Papini, La felicità dell’infelice. Le ultime «Schegge», Firenze 1956, 3.
Margherita d’Ayala Valva, Moralismo e «disegnar giusto» nei Precetti di Ugo Bernasconi in L'Archivio Ugo Bernasconi, Carteggi, Manoscritti, Documenti a stampa (1874-1960). Inventario, Carteggi: elenco dei corrispondenti, a cura di Margherita d’Ayala Valva, Edizioni Scuola Normale Superiore Pisa, 2005

martedì 24 agosto 2021

Circa Olga Signorelli


Alla base di questa ricostruzione della vita di Olga Signorelli <1 e del ruolo da lei avuto nella cultura italiana della prima metà del Novecento sta la raccolta di lettere che in prevalenza compone il suo archivio, della cui consistenza e dislocazione si è detto nell’introduzione al volume. Si tratta di una fonte sui generis, poiché la voce della protagonista vi risuona in maniera indiretta, mediata da quella dei corrispondenti, e la sua figura vi compare riflessa nelle parole a lei indirizzate da coloro che, in maniera duratura o occasionale, con contenuti comunicativi scarni e irrilevanti oppure diffusi e sostanziosi, sono stati con lei in contatto anche epistolare. Ma la relazione testimoniata dalle lettere parla per sua natura di entrambi i soggetti che le hanno dato vita. Si compone così, attraverso il discorso altrui, un ritratto articolato in molteplici punti di vista complementari, e arricchito dalla presenza della personale scrittura di Olga in pochi casi significativi: essenzialmente, tra i corrispondenti italiani, si tratta delle lettere ad Angelo Signorelli e a Giovanni Papini (perdute quelle a Eleonora Duse e a Giovanni Cavicchioli, che dovevano essere senz’altro i due corpora più importanti oltre ai primi due).
A questo epistolario si farà qui frequente ricorso. Per quanto riguarda i carteggi in lingue diverse dal russo la scelta (a parte due eccezioni, la corrispondenza con Papini e le lettere della Duse) è stata quella di ‘distillare’ dalla massa delle lettere una serie di citazioni significative che si inframmezzano al racconto storico-biografico e ne costituiscono eloquenti tasselli.
È una scelta che vuole riconoscere il ruolo peculiare della scrittura epistolare nella prima metà del Novecento (“un’epoca caratterizzata dalla parossistica crescita della comunicazione scritta colta” <2) e vuole valorizzare questa preziosa documentazione senza però incorrere in uno di quei casi che Carlo Dionisotti, alludendo ironicamente alla moda della pubblicazione indiscriminata di carteggi intellettuali otto-novecenteschi, definisce come “mole che di gran lunga eccede l’importanza”. <3
In altre parole, è apparso congruo descrivere il vasto intreccio degli interessi culturali ed emotivi di Olga Signorelli servendosi di un materiale, quello epistolare, che “trattiene l’impronta della sua forma originaria, la ‘conversazione’, quindi la dimensione dell’oralità, della comunicazione orale-aurale”, <4 in maniera da conservare qualcosa di quella causerie insieme cordiale, intima, colta, mai vuotamente mondana, che era - a dire dei suoi innumerevoli frequentatori ed estimatori - la cifra essenziale dello stile comunicativo di Olga.
Sullo sfondo delle vicende personali, in virtù di quella “complessa, talvolta scivolosa percorribilità, al confine tra storia e intima biografia, […] che contraddistingue i territori dischiusi dagli archivi letterari e, in particolare, da quelli la cui consistenza sia di prevalente natura epistolare”, <5 si intravedono i contorni di quel pezzo di cultura italiana novecentesca che Olga ha attraversato. Di questa vengono qui dati per risaputi molti aspetti, indugiare sui quali avrebbe finito per dare a questo studio un inopportuno carattere enciclopedico; ma alcuni si è ritenuto di doverli richiamare brevemente all’interno della ricostruzione, per inserire nella necessaria prospettiva molti particolari che altrimenti sarebbero risultati insignificanti. La vita e la biografia intellettuale di Olga Resnevic Signorelli sono qui raccontate, infatti, con un certo grado di dettaglio: sono state omesse le circostanze più private, ma in generale si è cercato di includere tutto quanto appariva utile a inserire la vicenda personale di Olga Signorelli nello sfondo storico-culturale al quale appartiene. Lo sfondo è quello della cultura italiana nella prima metà del Novecento e del suo interscambio con quella russa, ricchissimo di episodi ben noti eppure ancora suscettibile di nuove acquisizioni, sempre che lo si accosti con la dovuta, puntuale attenzione. Scomodiamo Benjamin per dirlo, “il cronista che enumera gli avvenimenti senza distinguere tra i piccoli e i grandi tiene conto della verità che nulla di ciò che si è verificato va dato perduto per la storia”. <6
Infine, occorre premettere qualche precisazione sulla struttura di questa esposizione: questo racconto termina con la seconda guerra mondiale, esclude la figura di Eleonora Duse e tratta di sfuggita o addirittura ignora molteplici aspetti dell’attività della Signorelli come punto di riferimento della comunità russa di stanza o di passaggio a Roma. La scelta è dovuta al fatto che altri contributi qui presentati affrontano questi temi. Il periodo che va dalla seconda guerra mondiale alla morte rientra nel contributo di Patrizia Veroli; la ‘divina’ Duse come oggetto di amicizia e di studio è l’argomento della pubblicazione di Maria Ida Biggi; infine, i rapporti con esponenti della cultura russa sia émigré sia sovietica sono ampiamente trattati nel terzo volume.
Anche altre parti dei due volumi in italiano (la Bibliografia, l’Elenco dei corrispondenti, le Memorie) vanno lette in maniera complementare a questa esposizione, sicché è dall’insieme dell’opera che il ritratto della protagonista emerge a tutto tondo.
Verosimile, ma non direttamente spiegato nelle memorie, lacunose in questo punto, è il motivo per cui Olga da Berna - dove conduceva una vita intensa e stimolante, dividendosi tra studi di medicina, passioni letterarie e frequentazione di gruppi di fuoriusciti politici russi - dopo soli due anni, nel novembre 1904, si trasferisce a Siena. La tradizione familiare <7 vuole che sia stata la lettura di una biografia di Santa Caterina a eccitare la sua immaginazione, accendere le sue inclinazioni spiritualiste e attirarla verso la città toscana, che Olga visita nell’estate 1904 prima di prendere la decisione di proseguirvi gli studi. Nelle memorie leggiamo: “mi trasferii dunque a Siena, dove trovai quel che inconsciamente avevo desiderato. Mi sembrava che fra il mio sogno e la realtà in cui mi trovavo non ci fosse ora nessuna interruzione”.
Il “sogno” era, con ogni evidenza, quel mito che per gli intellettuali di cultura russa ha sempre rappresentato l’Italia, percepita come locus in cui retaggio dell’antichità, secolare tradizione artistica e bellezza naturale concorrono a creare un’immagine ideale di “paradiso in terra”.
A Siena come a Berna, la vita di Olga ruota attorno a due principali interessi, che sono poi facce diverse di una concezione della vita ispirata a forte idealismo e impulsi altruistici: la preparazione alla professione medica, nella quale individua - e poi così sarà - la forma pratica del suo umanitarismo, e l’attività di gruppi di ispirazione socialista. Usare la parola ‘militanza’ sarebbe forse eccessivo per descrivere una partecipazione che somiglia più a una comunanza di intenti e di sentire che al coinvolgimento nell’azione politica: questo dicono, in sostanza, le Memorie di Olga a proposito della vicinanza al movimento social-rivoluzionario dei fuoriusciti russi nel periodo bernese, e questo descrivono le poche testimonianze epistolari relative ai contatti con il movimento dei socialisti locali nella fase senese. Nella quale le figure fondamentali sono Rosetta Pittaluga, anche lei studentessa di medicina, e Guido Angelotti, animatori del gruppo socialista attivo tra Montepulciano e Siena; Angelica Balabanova, forse conosciuta già in Svizzera; e Angelo Signorelli, futuro compagno di vita di Olga.
1 I cui antecedenti sono: M. Signorelli, Prefazione, in Carteggio Papini-Signorelli, a cura di M. Signorelli, Milano, Quaderni dell’Osservatore, 1979, pp. 5-11; Una russa a Roma. Dall’Archivio di Olga Resnevic Signorelli, a cura di E. Garetto, Milano, Cooperativa Libraria I.U.L.M., 1990; E. Garetto, Olga Resnevic Signorelli, in I Russi e l’Italia, a cura di V. Strada, Milano, Scheiwiller, 1995, pp. 203-210.
2 A. Petrucci, Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, Bari, Laterza, 2008, p. 171.
3 C. Dionisotti, Appunti sul carteggio D’Ancona, in Ricordi della scuola italiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998, p. 331.
4 A. Chemello, Premessa, in Alla lettera. Teorie e pratiche epistolari dai greci al Novecento, a cura di Adriana Chemello, Milano, Guerini e Associati, 1998, p. VIII.
5 F. Merlanti, “Silenzio dopo le tue lettere”. Lucia Rodocanachi tra arte e letteratura, in Lucia Rodocanachi. Le carte, la vita, a cura di F. Contorbia, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2006, p. 9.
6 W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, con un saggio di F. Desideri, Torino, Einaudi, 1995, p. 76.
7 M. Signorelli, Prefazione, in Carteggio Papini-Signorelli, cit., pp. 5-6.

Daniela Rizzi, Olga Signorelli nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento in Archivio Russo-Italiano VI, Olga Signorelli e la cultura del suo tempo, a cura di Elda Garetto e Daniela Rizzi, con il contributo della Fondazione Giorgio Cini di Venezia e dell'Università di Salerno, Europa Orientalis, 2010

 

domenica 15 agosto 2021

Quante volte guardai come uno scampo / i bastimenti ch’escono dal porto!


[...]
Dimentico di lor [scil. i libri] la chiusa stanza
all’aria della notte spalancavo
e mi sporgevo fuor della finestra
a bere il canto come un vino forte.

(Camillo Sbarbaro, Piccolo, quando un canto d’ubriachi, vv. 4-7)
[...]
Più d’una volta sulla fredda ardesia
al vento che passava nei capelli
alla pioggia che m’inzuppava il viso
io piansi delle lacrime insensate.

(Camillo Sbarbaro, Piccolo, quando un canto d’ubriachi, vv. 11-14)
[...]
Segue immediatamente una laconica constatazione dell’impossibilità che tale illusione possa aver luogo anche nel nunc dell’auctor: «Adesso quell’inganno anche è caduto. / Ora so quanto amara sia la bocca / che canta spalancata verso il cielo» (Camillo Sbarbaro, Piccolo, quando un canto d’ubriachi, vv. 15-17). <384
A conferma della fusione dei due campi semantici del vino e dell’illusione, nella chiusa del componimento la parola “ebbrezza” viene usata come vero e proprio sinonimo della parola “inganno” e significativamente connessa ancora una volta alla sfera semantica del pianto: «Rinnovare vorrei l’amara ebbrezza / e quel sottile brivido pel corpo, / e il ben perduto cui non credo più / piangere come allora…» (Camillo Sbarbaro, Piccolo, quando un canto d’ubriachi, vv. 24-27). Si noti infine che, nella descrizione del paradossale stupore residuo per l’esistenza delle «cose buone della terra» contenuto nel componimento conclusivo della raccolta, la constatazione dell’ormai impossibile rapporto con la Terra viene affidata nuovamente alla figura dell’ubriaco: «Con questo stupor sciocco l’ubbriaco / riceve in viso l’aria della notte» (Camillo Sbarbaro, Talora nell’arsura della via, vv. 9-10).
Il ruolo del vino come surrogato funzionale dell’oppio è poi ampiamente presente anche in un componimento più tardo e a cui abbiamo già sporadicamente fatto accenno: Lettera dall’osteria. Questo poemetto si presenta infatti come un “ponte”, un collegamento tanto dal punto di vista cronologico, <385 quanto dal punto di vista tematico tra il tempo di Pianissimo e quello dei primi Trucioli. Sbarbaro immagina infatti di scrivere una lettera in versi, indirizzata all’amico Silvio Volta, <386 nella quale il soggetto - presumibilmente seduto al tavolo di una bettola - trova l’occasione di esplicitare le conseguenze apportate in lui dall’ebbrezza provocata dal vino. Per prima cosa il vino si presenta come in grado - attraverso le sue «nebbie» - di assicurare all’io lirico uno «stato di grazia». <387
Tale condizione vede come conseguenza primaria un “alleggerimento” della modalità di rapporto con il mondo circostante: «Attaccare discorso con chi capita / vicino; a chi sorride / sorridere; volere a tutti bene» (vv. 9-11); «E uscire dalla bettola leggero / come la mongolfiera che s’invola» (vv. 14-15); «e voglia di cantare a squarciagola» (v. 18). L’effetto provocato dal vino viene infatti descritto sinteticamente con le seguenti parole: «scantonato dal Tempo e dallo Spazio, / guardare il mondo come un padreterno» (vv. 12-13).
È interessante notare sin da ora come Sbarbaro descriva un processo di evasione dall’hic et nunc della coscienza che presenta significativamente le stesse caratteristiche del temporaneo affrancamento garantito dal sonno: «Vieni, consolatore degli afflitti. / Abolisci per me lo spazio e il tempo / e nel nulla dissolvi questo io» (Sonno, dolce fratello della morte, vv. 9-11).
Non a caso, nell’esortazione finale rivolta all’amico Volta, Sbarbaro gli rivolge un invito rivelatore:
Io non ti chiederò di te di lei.
Spingerò verso te colmo il bicchiere
perché in silenzio con l’amico beva
l’oblio.
<388
Con un processo di sostituzione che si pone al confine tra il metaforico e il metonimico (la causa per mezzo dell’effetto), il poeta mette in esplicita correlazione il vino e la principale conseguenza benefica che ne discende, ovvero il momentaneo «oblio» della propria condizione esistenziale. Ciò permette al poeta di evadere dalla realtà, immaginando mondi e vite puramente immaginari, nei quali il protagonista si rifugia, trovando un parziale risarcimento delle sofferenze patite («In questo mi rifaccio, amico Volta», v. 25).
Quante volte guardai come uno scampo
i bastimenti ch’escono dal porto!
New York, Calcutta, Londra: nomi immensi.
Perdermi là sognavo, essere un altro,
dimenticarmi sino il mio nome.
<389
Segue però subito l’immediata constatazione dell’illusorietà anche di questo tentativo di fuga dalla consapevolezza senza scampo apportata dagli «occhi chiari»: l’ebbrezza del vino è semplicemente un altro rimedio solamente momentaneo, al pari del sonno e del dolore. Non è infatti un caso che Sbarbaro denunci la natura illusoria di un rimedio come l’ubriachezza con un altro calco leopardiano, estremamente simile a quello già utilizzato nel poemetto di Pianissimo dedicato al canto degli ubriachi: «Anche questa illusione ora è caduta». <390
L’ennesimo riferimento al poeta recanatese non sembra tuttavia casuale, se è vero che il tema dell’ebbrezza arrecata dal vino subisce un trattamento analogo a quello sbarbariano nello Zibaldone di pensieri: «Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore». <391
In conclusione, ritornando per un attimo a considerare la fonte leopardiana da cui abbiamo preso le mosse, è possibile infine qualificare la risposta fornita dal Genio familiare all’interrogativo di Torquato Tasso circa i possibili rimedi contro il sentimento della noia («Il sonno, l’oppio, e il dolore») come una mirabile e - ci si passi il termine - profetica sintesi dell’intero orizzonte esistenziale all’interno del quale si muove il personaggio protagonista della vicenda di Pianissimo.
[note]
384 Dell’evidente precedente leopardiano sul quale è esemplato il verso 15, si è già detto in precedenza.
385 Se infatti i testi di Pianissimo vedono la luce tra il marzo del 1910 e il marzo del 1913, Lettera dall’osteria è invece riconducibile all’estate del 1913.
386 Silvio Volta, uno dei promotori della colletta che rese possibile la pubblicazione di Resine, fu compagno di scuola e tra gli amici più cari di Sbarbaro fino dagli anni del liceo. Gina Lagorio lo descrive con queste parole: «La sua intelligenza di tipo cartesiano lo faceva più congeniale a Sbarbaro che non Barile; non faceva prediche, amava la buona tavola, non sdegnava né Bacco né Venere» (GINA LAGORIO, Sbarbaro. Un modo spoglio di esistere, cit., p. 107).
387 «Stato di grazia: ché non so più grande / bene, di contemplare / tra la nebbia del vino i paesaggi / di cui rozz’arte ornò all’intorno i muri» (Lettera dall’osteria, vv. 14-15, in CAMILLO SBARBARO, L’opera in versi e in prosa, cit., p. 86).
388 Lettera dall’osteria, vv. 57-60, in Ivi, p. 88.
389 Lettera dall’osteria, vv. 28-32, in Ivi, p. 87.
390 Lettera dall’osteria, v. 33, in Ibidem. Ricordiamo nuovamente anche il verso che compare in Piccolo, quando un canto d’ubriachi, v. 15: «Adesso quell’inganno anche è caduto».
391 GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, edizione critica a cura di Giuseppe Pacella, vol. 1, cit., p. 263 [324].
Matteo Zoppi, "Dare forma all'anima nascosta": la retorica della comparazione in Camillo Sbarbaro, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014

lunedì 9 agosto 2021

E questo gioco comincia a fare tanti nuovi proseliti


Il Ministero emette il 19 luglio 2018 un francobollo ordinario appartenente alla serie tematica “lo Sport” dedicato alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, nel 120° anniversario della fondazione, relativo al valore della tariffa B.
Il francobollo è stampato dall'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A., in rotocalcografia, su carta bianca, patinata neutra, autoadesiva, non fluorescente; grammatura: 90 g/mq; supporto: carta bianca, autoadesiva Kraft monosiliconata da 80 g/mq; adesivo: tipo acrilico ad acqua, distribuito in quantità di 20 g/mq (secco); formato carta: 40 x 30 mm; formato stampa: 40 x 26 mm; formato tracciatura: 46 x 37 mm; dentellatura: 11 effettuata con fustellatura; colori: tre più oro; tiratura: ottocentomila esemplari.
Bozzetto: a cura del Centro Filatelico della Direzione Officina Carte Valori e Produzioni Tradizionali dell'Istituto Poligrafico e Zecca Dello Stato S.p.A.
La vignetta, delimitata da due bande orizzontali, riproduce il logo del 120° anniversario della fondazione della Federazione Italiana Giuoco Calcio, nata a Torino nel 1898. [...]
Redazione, Comunicato - Emissione francobollo dedicato alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, nel 120° anniversario della fondazione, Ministero dello sviluppo economico, 10 Luglio 2018

Il gioco del calcio l’hanno “inventato” gli inglesi, i primi calci, in Italia, a quello strano coso che si chiama pallone li hanno dati i genovesi, ma il calcio organizzato, il calcio ufficiale, il calcio con regole e misure è una faccenda tutta nostra, tutta torinese. Venite a leggere.
E’ strano che per svolgere una storia del calcio in Piemonte e nella Valle d’Aosta, si debba parlare, innanzi tutto, di ginnastica, poi di canottaggio (arte remiera, s’usava dire!) e solo dopo di foot-ball. Già, la ginnastica… il canottaggio… il foot-ball, scritto con il trattino a dividere o unire i due vocaboli, termini che sembrano voler raccontare una storia bislacca ed invece sono accumunati dal medesimo destino.
E’ successo proprio così, la disciplina del mens sana in corpore sano aveva attecchito, nel diciannovesimo secolo, in diverse località della nostra penisola, poi si era tramutata nel gioco del calcio per merito, quasi esclusivo, degli equipaggi di diverse navi del Regno Unito, dove era stato inventato il gioco, e, in considerazione del fatto che le navi attraccano ai moli dei porti marini e… ben difficilmente ai piedi di una montagna, Genova, Napoli, Livorno possono vantare la primogenitura di qualche partita estemporanea, al solito giocata tra marinai inglesi e frequentatori di quel ben determinato porto, mentre se vogliamo parlare di ufficialità, anche di “nobiltà”, ma soprattutto di organizzazione dobbiamo puntare diritto verso le prime anse della valle del Po, verso quella Torino che è stata fucina di ogni tipo di innovazione e, per non smentirsi, anche della regolamentazione del gioco del calcio in Italia.
Se si vuole essere cronisti corretti di un evento che si è sviluppato enormemente nel tempo non si può non raccontare come tutto ciò che sa di ufficialità sia partito da Torino. E’ risaputo, infatti, che il calcio organizzato bene, fine, con metodo e cognizione è nato nella città sabauda in un freddo mese di marzo dell’anno 1898. E’ meno conosciuto il fatto che i tanti personaggi legati a questa disciplina, gente dedita, prima di tutto, al proprio lavoro e, soltanto dopo, all’hobby dello sport, provengano da altre latitudini, da altre esperienze, da altri ambienti ma, comunque, impregnati di quell’humus piemontese in generale e torinese in particolare che ne hanno contraddistinto i gesti e, perché
no, le gesta. Per tracciare il cammino di questa nuova disciplina non possiamo non accennare a qualche episodio che ha finito per diventare una sorta di icona nel periodo iniziale del gioco del calcio e che ne caratterizza la stessa crescita esponenziale avvenuta in seguito.
[...] Le prime gare furono organizzate sui prati di Piazza d’Armi (sino ai primi anni ottanta del secolo scorso il campo esisteva ancora e chi ci giocava, quasi esclusivamente la domenica mattina, usava gli spogliatoi situati sotto le tribune dello Stadio Comunale, con ingresso dal cancello situato sotto la Torre Maratona e attraversamento, svestiti e sudati, del Corso Sebastopoli), poi al Valentino, quindi anche in Piazza della Cittadella e al velodromo di Corso Re Umberto e, infine, ma parecchio dopo, nel famoso “Stadium”, l’enorme, invivibile impianto sportivo piazzato, grosso modo, alle spalle dell’attuale Politecnico.
E questo gioco comincia a fare tanti nuovi proseliti. Anche le squadre, perché in undici si gioca, cominciano a proliferare. Con le maestranze di un’industria torinese di ottica che, in massa, chiedono di partecipare, i tanti nobili che non disdegnano, anzi, di correre su un prato e i vecchi amici di Bosio vengono formate altre squadre. Una di queste è il Football Club Torinese e, nel 1897, anche la Reale Società Ginnastica dà corpo ad una squadra di calciatori.
Ma accanto a questi famosi “undici”, c’erano le tante combriccole di ragazzotti che in qualsiasi spiazzo libero si davano da fare come dannati con un pallone (la palla di cuoio era ormai diventata il “pallone”) raccattato chissà dove. Questi “ragazzotti” di cui, purtroppo, non conosciamo alcun nome o “casato” sarebbero scesi in campo, negli anni seguenti, sotto l’egida di denominazioni come “Amatori”, “Audace”, “Cavour”, “Minerva”, “Pastore”, “Petrarca”, “Piemonte” e “Vigor”. Il calcio cominciava a diventare di massa, anche se una massa limitata: che siano stati loro i veri, unici, autorevoli, primi calciatori dilettanti?
Questo è un vocabolo che, all’epoca, manco era pronunciato in quanto del professionismo non esisteva neanche l’ombra e pertanto o si era giocatori di calcio o, come dicevano gli snob, footballers.
Come a Torino, seppur in misura minore in relazione alla quantità, anche in altre città del nord Italia il calcio aveva attecchito. Dapprima a Genova, era la capostipite, poi a Treviso, Udine, Milano e in altre località minori. Ma, sia chiaro, in ogni dove si giocavano delle gare cosiddette “amichevoli” (a volte neanche molto amichevoli, in quanto già all’epoca avvenivano scazzottature niente male sia tra soli giocatori che tra pubblico e gli stessi atleti o tra il solo pubblico che ancora non veniva chiamato “tifoso”, tanto che molto sovente, prima di incominciare, veniva chiamata la “forza pubblica” a far da… garante dell’incolumità generale, pur se occorreva pagarne il “servizio”!). Tutto era
improvvisato, dettato dalla voglia di agitarsi, sgranchirsi le membra e il vocabolo sopra indicato, scapestrati, era il titolo più comune con il quale venivano additati i giocatori del calcio dalla gente comune e dalle stesse autorità amministrative, militari o istituzionali che fossero.
[...] Con il proposito di fondare la F.I.F. (Federazione Italiana del Football) si riunirono a Torino i dirigenti delle quattro società sopradette allo scopo di organizzare metodicamente le attività calcistiche e di garantire il rispetto delle regole del gioco. Così avvenne il 16 marzo del 1898.
La sede della F.I.F. fu stabilita a Torino, in Piazza Castello (sotto i portici, nel tratto tra Via Roma e Via Accademia delle Scienze) presso l’emporio di Adolfo Jourdan, negozio specializzato nella vendita di «scarpe, cappelli, chincaglierie in generi di lusso, finticolli, polsini, cravatte e camicie».
Presidente, il primo della storia, fu nominato Mario Vicary, mentre, quale segretario, fu indicato lo stesso Adolfo Jourdan, motivo per cui si spiega l’alloggiamento della sede sociale presso la sua azienda.
Le cronache del tempo non accennano al luogo in cui si tenne la riunione decisiva, anche se negli atti della Reale Società Ginnastica, ospitata dalla sua fondazione in Via Magenta, appare uno scritto che riporta pochi elementi di una riunione tra appassionati footballers.
Gli stessi giornali dell’epoca, per tutti La Gazzetta del Popolo, non fanno cenno alla nascita ufficiale di una nuova disciplina sportiva, ma, per rimarcare gli ambienti, lo spirito e la compostezza dei torinesi, è gradevole osservare che, su quel famoso quotidiano, appariva in bella evidenza, il 4 marzo 1898, quindi poco prima della fondazione della F.I.F., un articolo che ricordava il Cinquantenario dello Statuto Albertino (emanato, appunto, il 4 marzo 1848) e che quello stesso Statuto era stato sostenuto da un certo Camillo Benso, conte di Cavour, descritto, cinquant’anni prima, in tal maniera: “V’era in Torino un uomo, ben maturo per senno e per metodici studi alla vita politica,”.
Quindi cenni di storia, abbozzi di politica e molte cronache dai distretti piemontesi, ma niente di sport o, per lo meno, di sport organizzato.
A questo punto e in considerazione del fatto che soltanto a Torino si poteva parlare di calcio ufficiale (pochi mesi dopo, precisamente l’8 maggio dello stesso anno 1898, si sarebbe disputato il primo Campionato di calcio italiano, sul prato del velodromo Umberto I, vinto dal Genoa dopo una semifinale e una finale disputatesi nello stesso giorno), non è artificioso annunciare che nel capoluogo piemontese era stato istituito il primo “comitato” della F.I.F., anche se quel termine, comitato, sarebbe diventato tale soltanto nel secondo dopoguerra e che, nel frattempo, avrebbe assunto, via via, altre denominazioni.
[...] I Campionati ufficiali di football, da quel 1898, continuarono a svolgersi regolarmente con prevalenza di vittorie dei rossoblu genovesi e, nel contempo, anche alcuni club lombardi fecero la loro apparizione. Si noti che tutte le manifestazioni calcistiche, cosiddette nazionali, erano comunque a base regionale in quanto soltanto nel nord ovest erano state formate squadre (società!) di rango, tanto è vero che le formazioni delle altre regioni, persino nelle amichevoli, rimediavano sistematicamente pesanti sconfitte anche da club non di primo piano.
E proprio come succede ai giorni nostri anche le polemiche erano, se non quotidiane, molto frequenti e di queste situazioni, qualcuno le chiamava “ibride”, altri “antagoniste” (erano i vocaboli che cominciavano ad apparire, per esempio, sulla “Gazzetta dello Sport” di Milano), ne approfittava qualche dirigente dell’una o dell’altra squadra, vuoi di Genova, vuoi di Milano. Il calcio, ancora football, manifestava la sua natura di istigatore delle genti (era un termine coniato dal giornalista e prima ancora calciatore, certo Edoardo Pasteur, sulle colonne del giornale ligure “Il Caffaro”) che si sarebbe ampiamente manifestata nei tanti anni a seguire.
I campionati avevano cominciato a divenire importanti non solo per coloro che giocavano le gare, ma anche per il pubblico che aveva cominciato ad apprezzare questo sport e, come sovente avviene, qualcuno voleva prevalere, nelle decisioni da prendersi, su qualcun altro [...]
Tito Delton, Una storia, tante storie, Volume 2°, Edizioni Libreria Cortina, Torino, 2012

[...] Tutto ha origine la sera di giovedì 7 settembre 1893. In un appartamento al numero 10 di Via Palestro, nel cuore di Genova, esattamente all'interno 4, si assiste a un fitto via vai di persone: Charles De Grave Sells, S. Green,  G.Blake, W. Riley, D.G. Fawcus, Sandys, E.De Thierry, Jonathan Summerhill Senior e Junior, Charles Alfred Payton.
Si tratta di distinti signori di passaporto britannico, che si accingono ascrivere una pagina molto importante nella storia del calcio italiano. Fra tutti spicca proprio Payton: futuro Baronetto dell'Impero britannico, ricopre la carica di Console generale di S. M. la Regina Vittoria a Genova.
L'appartamento in cui si riunisce la compagnia d'Albione è non a caso la sede del Consolato inglese nella Superba. I partecipanti alla riunione redimono l'atto di fondazione del Genoa Cricket and Football Club, ufficializzando di fatto il circolo che da oltre un anno svolgeva in città svariate attività sportive: principalmente il cricket (disciplina inglese di nobili origini), ma anche la waterpolo (l'attuale pallanuoto) e il calcio, disciplina, quest'ultima, considerata più popolare.
Ma cosa ci facevano i cittadini britannici a Genova in quegli anni? Con l'apertura del Canale di Suez, l'importante porto ligure era diventato centro commerciale privilegiato e attirava molte compagnie straniere, in particolare britanniche. E gli inglesi, una volta trasferitisi in città, amavano continuare a praticare gli sport che già praticavano in patria, fra cui, appunto, anche il calcio. Che una volta importato nella penisola avrebbe trovato largo seguito.
Il primo organigramma del Genoa così costituito vedeva Sir Charles Alfred Payton come patrono, la carica di presidente assegnata a Charles De Grave Sells e quella di vice a Summerhill senior. Come primo terreno di gioco viene scelto quello usato fino a quel momento in città, ovvero la Piazza d'Armi del Campasso a Sampierdarena, messo a disposizione già dal 1890 da due industriali scozzesi le cui aziende operavano nel capoluogo ligure, con le partite che venivano giocate al sabato. [...]
Paolo Camedda, Genoa, i 127 anni di storia del club più longevo d'Italia, GOAL, 7 settembre 2020

martedì 3 agosto 2021

Razzismo più o meno consapevole in alcune canzoni italiane del secondo dopoguerra


Il caso di Sugarbush ci pone esattamente dal fronte opposto al precedente, ovvero il caso di invenzione tematica, in una ricreazione di stampo coloniale italo-abissina.
In questo caso si tratta di traduzione multipla, e d’adattamento di seconda mano. Essendo l’originale di questa canzone tradizionale in lingua afrikaans certamente nessuno in Italia avrebbe controllato la versione originale degli anni Trenta (1933), composta da Fred Michel (n. 1898). In Gran Bretagna e Sud Africa Sugarbush fu cantata sia in inglese che in afrikaans da Eve Boswell (1922-1998), cantante di origini ungheresi che viveva appunto tra Sud Africa e Londra.
Ma il grande successo internazionale fu quello della versione americana di Doris Day e Frankie Laine del 1952, nota come la Sugarbush Polka (1952). Frankie Laine (Francesco Paolo Lo Vecchio) era allora all’apice della sua fama.
Sugarbush o mia Zulù, fu un altro successo di Nilla Pizzi in duetto con Gino Latilla (1953-1954). L’ambientazione italiana era sulla falsariga di Bingo Bongo, e di Zikipaki Zikipu (v. oltre), con echi di parodia coloniale che echeggiavano il bel ventennio. Forse nessuno si era reso conto che la canzone era stata composta in Sud Africa, da compositori afrikaner. Era una canzone composta durante la depressione degli anni Trenta. Diviene successo internazionale proprio negli anni Cinquanta, negli anni dell’inasprimento dell’Apartheid, divenendo il motivetto più popolare in Sud Africa. Sugarbush, o Suikerbossie, è anche la pianta nazionale emblema del Sud Africa, una protea. <15
Non aveva niente a che fare con la ‘piccola Zulù’, replicante della Zikipaki zikipu del 1929.
[...] Da notare che in Sugarbush vi è una totale assenza di neri, sia nella tematica che nella storia delle performances.
La versione italiana (1954) li ha introdotti, ma in modo caricaturale. La versione cantata ha una parte parlata:
Sugarbush
Misteriosi tamburi Zulù
rullate, rullate,
avvertite ogni capo tribù
che balla Sugarbush.
[...]
Traduzione semantica
Sugarbush,
Cosa dirà la tua mamma...
Allora passeggiamo assieme sotto la luna
Io, con la mia Sugarbush.
Non sa cucinare cibo
il suo cibo è crudo
non sa fare il té
il suo tè è debole
non sa infornare il pane
questo fermenta.
Ma ti aspetterò Sugarbush.
[...]
Lo spartito italiano riporta anche la versione originale inglese, e informa che è un fox-trot, e aggiunge istruzioni su battere le mani, e sulla pronuncia ‘Sciugarbusc’ ovvero ‘Balabù’.
Ritornello
Sugarbush oh mia Zulù,
tutta zucchero sei tu
ed hai una magica virtù,
sai ballare il Balabù.
Tanto bella ma tabù
Bala...Bala...Balabù
canta in coro la tribù
mentre al bianco cacciator
il tuo ballo infiamma il cuor.
Dice il piccolo servo Zulù:
“Badrone, badrone,
i leoni di asbeddano e du
non sbari e non fai più “bum!”.
Sugarbush insieme a te
balla bure il vecchio re
traballando biano bian
sveglia al collo e tuba in man.
Gli stereotipi aggiuntivi caricaturali sono l’ambientazione nel villaggio con un capo che ha una tuba in mano, e sveglia al collo, la figlia che balla il Balabù, il piccolo zulù che invita il bianco cacciatore suo Badrone a cacciare il leone. Curioso questo rullio dei tamburi che implica una percussione prodotta da bacchettine: non tamburi africani. Lo stesso stereotipo di sveglia al collo e tuba si ritrova anche in libri per bambini [...]  L’imitazione caricaturale della parlata dei neri era già iniziata nei media con il cinema, sia in a Cinecittà che a Hollywood, e con i cartoni animati. Nella copertina dello spartito, la caricaturalità è enfatizzata con l’aggiunta dei tukul della tribù. Manca l’anello al naso, che però abbiamo in Bingo Bongo (v. oltre). Le parole di Sugarbush erano di Nisa, pseudonimo del grande paroliere napoletano Nicola Salerno (1910-1969), autore di molte canzoni di Renato Carosone, tra cui Guaglione e Tu vuò fa’ l’americano, e della versione italiana di Rosamunda. Per l’occasione nella copertina italiana era anche diventato Nisa Alik. Con Sugarbush sostanzialmente si replica il modello di Zikipaki (1929), la indù baiadera, figlia del gran capo. La copertina dello spartito evidenzia una stereotipizzazione echeggiante un vago esotismo afro-indiano, orientaleggiante, con uno schizzo della bella bajadera.
[...] Altra canzone tradotta negli anni Cinquanta, da un musical americano era Bingo Bongo. Bingo Bongo era percepita ancora una volta come stereotipo di Africa italiana, nonostante le buone intenzioni della canzone originale. Nel musical vi è la figura del missionario in Africa, che vuole convincere la popolazione nativa dei vantaggi della civiltà. Nel testo originale, la risposta del nativo è saggia, antesignana di una consapevolezza ecologica e antinucleare. Se però è cantata deformando la lingua secondo gli stereotipo caricaturali, l’effetto è sempre quello del dileggio. La canzone, in inglese Civilisation, risale al 1947, dal musical di Broadway Angel in the Wings, autori Bob Hilliard e Carl Sigman. Entrambi famosi songwriters e parolieri (Sigman era anche autore delle parole di Buonasera Signorina). La versione che all’epoca fu un successo internazionale fu quella di Danny Kaye con le Andrews Sisters
[...] La versione italiana inserisce enfasi negativa, sia linguistica che tematica. Viene marcato l’infinito sgrammaticato, secondo gli stereotipi del doppiaggio italiano, come quel sdare bene solo in Congo. La versione italiana elimina il missionario e i suoi buoni propositi, inserendo gli items di dileggio già visti: un grande esploratore, un capo tribù con la sveglia appesa al collo, anello al naso, ripetendo anche il no bono, che include anche saponette, in quanto presumibilmente i neri non si lavano. Inoltre, hanno anche ‘l’anello al naso,’ così come appare nella deformante ferocia caricaturale dello spartito italiano, dove un negroide con un osso infilato nelle mutande indossa sulle gambe nude delle ghettine. In mano una zagaglia [...]
La conclusione è che ‘Rimanere bono zulu! No impazzire tra voi laggiù Non sono scemo! Sdar bene qui!' Una versione registrata di Nilla Pizzi continua con intenti parodistici e sfociano nella satira politica con delle aggiunte: ‘no bono sigaredde la mia testa fare girar’, ‘ no bono pasciasciutta, meglio scimmia basta ragù', rafforzata da un clamoroso ‘no bono votazione elezione, tutto imbrogliar’. Vista la censura dell’epoca, non è presente nello spartito.
La contestualizzazione dell’adattamento italiano in chiave di argomentazione contro la civiltà, è quello dell’Italia delle elezioni del 1948 (18 aprile). Sparito il missionario, il negro risponde all’esplorator (che fa rima con equator e allor).
Il paroliere, inoltre, inserisce dell’ironia sull’esotizzazione dei ritmi ballabili italiani in voga: no bono vostra rumba, vostra samba, vostro spirou.
 


Oltre che dare una rappresentazione dell’Africa vista dall’Italia, all’epoca avevamo anche parolieri e musicisti che creavano ritmi latini e sambe, che sembravano originali. È il caso di El Negro Zumbon, con copertina al solito caricaturale, in quanto /Zumbòn/ contiene connotazione di buffonesco, nel 1952. Viene scritto per il film Anna, con musica di Armando Trovajoli (Roman Vatro) e parole di Francesco Giordano, protagonista una splendida Silvana Mangano.
Negro Zumbon
Ya viene el negro zumbòn
Bailando alegre el baion
Repica la zambomba
Y llama a la mujer
Tengo gana de bailar el nuevo compass
Dicen todos cuando me ven pasar
“Chicà, donde vas?”
“Me voy a bailar, el bayon!”
[...]
15 La Sugarbush o Suikerbossie è la Protea repens, una delle prime protee descritte da Linneo nel 1753. Produce nettare dalle proprietà medicinali, e fungeva anche da nutrimento per lo Sugarbird, la cui popolazione nella zona del Capo sta diminuendo. Non mancano allusività e giochi di parole su Sugarbird e Sugarbush. Non viene dato un nome in lingua africana. Attualmente usata come brand-name, anche nella comunicazione del turismo in Sud Africa.
Rosanna Masiola, Canzoni in Traduzione: Stereotipizzazione etnica negli Anni ’50, Visioni interdisciplinari, Gentes, anno II numero 2 - dicembre 2015

domenica 1 agosto 2021

Le filmine del partito comunista

La locandina di un film distribuito da Libertas citata in questo articolo

La censura a un certo punto porta al blocco quasi totale della produzione cinematografica prodotta dal Pci. Anche molti film dei paesi comunisti che il Pci volevano distribuire vennero fermati.
La censura, da un certo punto in poi, ha sistematicamente bocciato tutti i documentari indipendentemente dal loro contenuto. E questo per una ragione precisa e che non si limitava solo alla produzione di propaganda diretta, ma riguardava tutta la produzione cinematografica che faceva capo direttamente o indirettamente, al partito comunista. Mi riferisco, soprattutto, alla Libertas, che era una casa di distribuzione specializzata nella diffusione dei film dei paesi dell’est europeo che venne costantemente presa di mira. Si giunse al punto di vietare un documentario su una partita di calcio disputata tra la famosa Dinamo sovietica e non mi ricordo quale altra squadra, adducendo il pretesto che il film istigava all’odio fra i popoli. C’era stata una circolare di Scelba che partiva da un presupposto errato e cioè che questa casa di distribuzione servisse per portare soldi al Pci e che dunque questo filone di denaro doveva essere interrotto. In realtà non portavano soldi, casomai li hanno spesi, ma certo è che dopo una serie di interventi censori, la Libertas chiuse i battenti.
Per controbattere la censura, gli interventi dei questori e dei prefetti vennero realizzate le “filmine”. Ci racconti la storia di questo curioso escamotage?
Le filmine nascono casualmente, nel senso che un giorno si presentò alla Direzione del Partito comunista un ex prete, - un ex missionario allontanato dalla missione perché si diceva fosse troppo interessato ai bambini da evangelizzare - e mi chiede di parlare con Pajetta, che però era occupato. Allora lo ricevette Paolo Robotti. Robotti era - com’è noto - un personaggio abbastanza singolare perché era il comunista di “specie sovietica”. Era un uomo che camminava dritto come un fuso, con un busto prorompente. Si venne a sapere che la polizia sovietica gli aveva spaccato la spina dorsale, ma naturalmente lui di questo non parlava. Si vantò, però, di aver resistito agli interrogatori.
Sosteneva così la tesi, un po’ paradossale, che se un uomo non parlava, non si autoaccusava, veniva rilasciato e che quindi chi aveva parlato aveva fatto male a farlo.
Robotti parlò con l’ex prete che gli chiese: «ma perché voi comunisti non fate come noi preti che ci serviamo delle filmine, cioè delle diapositive, per attrarre la gente e per trasmettere degli elementi educativi?». Robotti capì che aveva ragione e, tra l’altro, gli tornò alla mente che nell’Unione Sovietica queste filmine venivano usate largamente. E allora si fece la scelta di produrre materiali di propaganda attraverso la filmina. Le leggi del cinema, e dunque le leggi di censura, infatti, riguardavano le immagini in movimento e queste invece erano immagini statiche. Appigliandoci a questa caratteristica, ci si buttò nella battaglia.
Con le filmine siete riusciti a evitare le censure?
Siamo quasi sempre riusciti a sfuggire agli interventi della polizia e delle prefetture, che trovavano sempre qualche pretesto per cercare di impedire le nostre iniziative. Queste specie di proiezioni avvenivano in modo capillare: nei caseggiati, nelle campagne, nelle piazze di piccoli paesi. Erano delle proiezioni che spesso venivano effettuate con una certa inventiva da parte dei propagandisti perché si inserivano dei commenti a voce, delle musiche (usando dei giradischi). Insomma, hanno avuto una loro funzione ed efficacia almeno fino al momento in cui è nata la televisione. Dunque si può dire che le filmine occuparono il periodo che andò grosso modo dal 1952 al 1955: questo è l’arco di tempo. Io ero il responsabile di questo lavoro.
Quindi hai cominciato a lavorare per Botteghe Oscure per realizzare le “filmine”?
Fui chiamato dalla Sezione cinema della Direzione del partito, dove allora il responsabile era Beppe Alessandri, mentre il suo braccio destro era Elio Petri. Per questa attività, in un primo momento, avevano pensato ad Umberto Barbaro, però non era disponibile perché doveva andare in Polonia a fare un film con Vergano e ad insegnare alla scuola di cinema. E allora mi fu affidato il compito di seguire questo settore. L’idea che avevo - non ero da solo, naturalmente, poiché c’era un giro di collaboratori tra i quali Giorgio Grillo - era di cambiare in linguaggio delle diapositive, che era in genere di tipo illustrativo, quindi molto statico. Il nostro sforzo fu quello di applicare le tecniche del cinema alla filmina, usando il montaggio per analogia o quello per contrasto. Abbiamo usato le filmine per parlare un po’ di tutto. Ad esempio, nel 1953 siamo riusciti a spiegare attraverso i disegni che cosa sarebbe successo se fosse passata la “Legge truffa”. Toccavamo molti temi politici come il riarmo della Germania o la bomba atomica e gli effetti tragici dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. In quegli anni, infatti, stavano venendo fuori le testimonianze, anche visive, dei danni, dei guasti causati dalle radiazioni a distanza di anni. Affrontammo anche gli scandali che già allora fiorivano nel nostro paese. Alcune filmine avevano il carattere del reportage, dell’inchiesta. E, poi, man mano siamo arrivati a fare un vero e proprio settimanale in filmina, tutto visivo: con pezzi di politica interna, politica esterna, una parte documentaria, una parte sulla recensione cinematografica e, dulcis in fundo, la striscia comica di Pino Zac. Zac, che aveva cominciato allora a fare le vignette del gatto Filippo su «Paese Sera», contemporaneamente lavorava anche per noi per la striscia finale. Questo inserto nella filmina funzionava molto bene perché, scattando vignetta dopo vignetta, l’effetto comico finale risaltava ancora di più.
Nell’ultima fase delle filmine abbiamo creato anche delle collane indirizzate ai bambini con delle favole. A volte traducevamo delle filmine sovietiche.
Abbiamo lavorato con vari disegnatori italiani. Roberto Bonchio fece un adattamento de L’ultima frontiera di Howard Fast. In sintesi, cercammo di spaziare abbastanza. Però, come ho già detto, il colpo finale lo diede l’avvento della televisione. A quel punto le filmine erano ormai improponibili, anacronistiche.
[...] Le vostre iniziative si configuravano come un disegno di “controinformazione”, quasi il Pci e le sue organizzazioni fosse una sorta di stato nello stato?
Negli anni cinquanta un disegno di controinformazione ci fu. Però venne frustrato dalla censura, come nel caso della Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici che fu costituita per realizzare due film: uno sulla resistenza, Achtung banditi; mentre l’altro, Cronache di poveri amanti, riguardava l’avvento del fascismo. Erano film impensabili in quel momento, al di fuori di un’iniziativa autonoma. Era il popolo della sinistra a tenere in piedi la Cooperativa. Una volta realizzati, questi due film, gli unici che in quel periodo toccavano i temi della resistenza, assieme a Gli sbandati di Maselli, furono colpiti dalla censura che ne vietò l’esportazione per cinque anni. Questo fatto, l’impossibilità di una distribuzione all’estero, contribuì al fallimento della cooperativa Spettatori Produttori. Quindi, in conclusione, se un progetto di controinformazione ci fu, conobbe dei grandi contraccolpi.
Quando cambia questo quadro, con il centro-sinistra? Quando la legge sulla censura venne riformata?
Le cose cominciarono a cambiare negli anni sessanta. Innanzitutto perché fu rimosso quel macigno rappresentato dalla legge fascista sulla censura. Finalmente, grazie al primo centro-sinistra, si ebbe una legge sulla censura compatibile con i principi della Costituzione, contrariamente a quello che abbiamo sostenuto per tanto tempo, cioè che la censura fosse incostituzionale. Anche se la Costituzione legittimava l’intervento, preventivo, solo contro la pornografia, tanto per usare un termine spiccio. Comunque, se le leggi in vigore fino al 1962 lasciavano campo libero alla censura, da quell’anno cambiò un po’ tutto. In quel momento per il Pci si trattò di ripensare, per molti versi, la sua azione nel campo della propaganda, servendosi con più incisività del mezzo cinematografico. E’ allora, per raccogliere le forze, che venne costituita l’Unitelefim, che, a sua volta, era stata preceduta da un’altra società che si chiamava Lo specchio. Era una società - a cui si era dedicato Marcello Bollero e, credo, anche Gillo Pontecorvo - e che aveva prodotto alcuni film, non molti per la verità.
Cinema, televisione e propaganda nel Partito comunista italiano, Intervista a Mino Argentieri di Tatti Sanguineti ed Ermanno Taviani in Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Annali, 11 2008, Propaganda, cinema e politica 1945-1975, a cura di Ermanno Taviani, marzo 2009