venerdì 30 dicembre 2022

A volte l’organizzazione tentò pure di liberare i prigionieri ebrei nel trasporto da San Vittore ai treni convoglio diretti in Germania


La caccia all’uomo si era del resto subito palesata già all’indomani dell’occupazione tedesca del territorio italiano. Il 15 settembre, a Merano, furono arrestati e deportati 25 ebrei; il 16 prese il via il rastrellamento sul lago Maggiore che si concluse con l’assassinio di 49 israeliti; il 18 il comandante Muller emanò, a Borgo San Dalmazzo, il proclama contro gli stranieri chiaramente finalizzato all’arresto degli ebrei non italiani. Il 9 ottobre successivo, a Trieste, vi fu la prima massiccia retata contro gli ebrei cui seguì quella del giorno 16 nel ghetto di Roma, dove furono catturate e deportate 1007 persone, accompagnata da un’azione simultanea a Milano conclusasi con altri 200 arresti. Di fronte a tale furia agli ebrei rimanevano poche soluzioni: darsi alla lotta clandestina aggregandosi alle formazioni partigiane, tentare la fuga verso la Svizzera, oppure ricorrere alla clandestinità cercando ogni sorta di rifugio. Quanti presero la strada della lotta clandestina trovarono un ambiente pronto ad accogliere e valorizzare il loro apporto senza alcuna discriminazione di sorta tanto che, a differenza di ciò che avvenne negli altri paesi europei, in Italia non sorse alcuna formazione partigiana connotata in senso esclusivamente ebraico. Il popolo italiano, in pratica, “permise agli ebrei, italiani o meno, di sentirsi parte integrante della Resistenza nella sua lotta contro le forze del male” [3]. In tal modo, nella Resistenza, trovò la sua ricomposizione quella frattura del corpo nazionale provocata con il varo delle leggi razziali. Gli ebrei tornarono a sentirsi membri della nazione italiana e, in quanto tali, legarono nuovamente la propria sorte e le proprie speranze, com’era sempre avvenuto nel passato, ai destini del paese e dell’intera comunità nazionale. La Resistenza, oltre che affermare con vigore il principio dell’eguaglianza degli ebrei, invitò contemporaneamente la popolazione ad intervenire in loro favore e in loro aiuto. Di fronte ai terribili avvenimenti del ghetto di Roma, “L’Italia Libera”, giornale del Partito d’azione, si espresse nei seguenti termini:
“I tedeschi vorrebbero convincerci che costoro ci sono estranei, che sono d’un’altra razza; ma noi le sentiamo come carne nostra e sangue nostro: con noi hanno sempre vissuto, lottato e sofferto. Non solo gli uomini validi, ma vecchi, bimbi, donne, lattanti, tutti sono stati stipati in carrettoni coperti ed avviati così al loro destino. Non c’è cuore che non frema al pensiero di quel destino”.
Al giornale azionista fece eco l’appello lanciato dall’“Unità”:
“Non si deve tollerare che si ripeta in Roma l’orrendo misfatto di intere famiglie innocenti smembrate e deportate a morire di freddo e fame chi sa dove. C’è un senso di solidarietà umana che non si può offendere impunemente. Queste vittime infelici della bestiale rabbia nazifascista debbono essere non solo soccorse perché si sottraggano alle ricerche e alla cattura, ma anche attivamente e coraggiosamente difese” [4].
Tenendo fede a queste prese di posizione, durante tutto il periodo dell’occupazione tedesca, la Resistenza fu per gli ebrei d’Italia “un sostegno unico e insostituibile” [5]. Questo giudizio ha valore sia per ciò che riguarda il ruolo che essa assolse in forma indiretta, sia nel caso venga valutata la sua azione direttamente finalizzata all’aiuto e al soccorso della popolazione d’origine ebraica. Per ciò che riguarda il primo aspetto è facile intuire a quale scopo sarebbero state destinate quelle forze che invece furono impiegate nel contrastare la lotta partigiana.
[...] Un certo peso ebbero anche i Garal (Gruppi d’azione Repubblicani Antifascisti Lombardi), primo nucleo delle future Brigate “Mameli” e “Mazzini”, che costituitisi a Milano fin dal settembre 1943 inizialmente si erano posti come primo loro obiettivo l’aiuto agli ebrei e agli ex prigionieri di guerra in fuga [8]. L’attività maggiore in tale senso fu però svolta dall’Oscar (Organizzazione Soccorsi Cattolici agli Antifascisti Ricercati) additata dalle forze di Salò, assieme all’Azione cattolica, fra i peggiori nemici del regime.
Nata il 12 settembre sul nucleo dell’organizzazione scoutista delle cosiddette “Aquile Randagie”, raggruppava una quarantina di componenti, sacerdoti e laici, ed era composta da tre distaccamenti: Milano Crescenzago, Varese città e Varese zona. Gli animatori principali furono don Andrea Ghetti, definito dai fascisti “traditore da capestro” [9], don Enrico Bigatti, don Aurelio Giussani e don Natale Motta.
I principali centri di raccolta erano la parrocchia di Crescenzago e il Collegio San Carlo dove venivano preparati tutti i documenti falsi necessari alla sopravvivenza dei ricercati. In genere i perseguitati erano condotti alla stazione Nord e a quella di Porta Nuova per essere poi accompagnati da incaricati sicuri a Varese; con mezzi pubblici, infine, erano raggiunte le zone di confine dove si poteva espatriare. Saltrio, Clivio, Ligurno, Rodero, il fiume Tresa, le Alpi Retiche, il lago d’Emet e la Val di Lei erano i luoghi solitamente usati per i passaggi in Svizzera. Oltre a questa attività, che doveva contare su una rete nei pressi del confine di persone fidate disposte ad ospitare i fuggiaschi in transito, l’Oscar possedeva anche un’efficiente servizio informazioni all’interno della polizia che consentiva di prevenire gli arresti e di sviare le ricerche. A volte l’organizzazione tentò pure di liberare i prigionieri nel trasporto da San Vittore ai treni convoglio diretti in Germania, tentativi che però furono sempre destinati dall’insuccesso.
Più efficaci si rivelarono invece i “rapimenti” di ebrei ricoverati negli ospedali aggredendo la custodia o cercando di aggirarla con astuzia. Emblematico a riguardo fu il salvataggio di un bambino di quattro anni, Gabriele Balcone, che, ricoverato presso la casa S. Giuseppe di Varese, avrebbe dovuto seguire la madre deportata in Germania. L’Oscar riuscì prima a farlo ricoverare presso l’Ospedale di Varese con la scusa di un intervento operatorio e poi, dopo tre tentativi andati a vuoto, ad introdursi nella struttura e ad impossessarsi del bambino per portarlo in salvo e affidarlo a una famiglia della provincia. L’impegno dell’Oscar permise ben due mila espatri mentre tre mila furono i documenti falsi rilasciati; un lavoro arduo che costrinse le persone più in vista dell’organizzazione come don Ghetti e don Motta a darsi alla latitanza o, nel caso di don Giussani, a prendere la strada della montagna per unirsi ai partigiani in Romagna.
L’assistenza operata da questi uomini spesso si scontrava contro la paura e la prudenza degli stessi vertici ecclesiastici tanto da portare don Enrico Bigatti, anch’egli arrestato per la sua attività, a scrivere nel suo diario: “Ne ho piene le tasche della prudenza! Chi non ha paura?! Datemi aiuto e carità” [10].
L’impegno assunto dalla Resistenza in favore degli ebrei trova conferma anche in una serie di azioni militari condotte contro alcuni campi di internamento provinciali. Il 3 maggio del 1944, dietro sollecitazione della Resistenza marchigiana, gli Alleati bombardarono il campo di Servigliano permettendo così la fuga di numerosi prigionieri fra cui una cinquantina di ebrei. L’8 giugno successivo il campo fu nuovamente attaccato dai nuclei partigiani della zona che riuscirono a liberare tutti gli internati. In questo secondo attacco furono sottratti alla deportazione 44 ebrei. Un’altra decina furono liberati in conseguenza delle azioni condotte contro i campi di Scipione, Salsomaggiore e Pollenza [11].
Sul finire del mese di novembre dello stesso anno il Clnai, su iniziativa del Partito d’azione della Svizzera, comunicava inoltre a tutti i Cln provinciali l’istituzione di un fondo per l’assistenza agli ebrei invitando ogni struttura a nominare un proprio fiduciario con il compito di raccogliere informazioni sullo stato degli ebrei bisognosi e di trasmettere al Comitato centrale le richieste di assistenza. [12]
[NOTE]
[3] M. Michaelis, La Resistenza israelitica in Italia, in ‘Nuova Antologia’, ottobre dicembre 1980, p. 244. Per il ruolo degli ebrei nella Resistenza si vedano anche G. Formiggini, Stella d’Italia Stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Milano, Mursia, 1970 nonché Cdec ( a cura di), Ebrei in Italia: deportazione Resistenza, Firenze, La Giuntina, 1975.
[4] I due testi sono tratti da M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione,Torino, Einaudi ,2000, p.280, n.152.
[5] M. Sarfatti, Dopo l’8 settembre: gli ebrei e la rete confinaria italo-svizzera, in ‘La rassegna mensile di Israel’, Roma Vol XLVII, n.1-2-3-, gennaio giugno 1981.
[8] Cfr. G. Bianchi, Dalla Resistenza. Uomini, eventi, idee della lotta di Liberazione in provincia di Milano, Provincia di Milano, 1975, p. 108.
[9] G. Barbareschi ( a cura di), Memorie di sacerdoti ribelli per amore, Milano, Centro di Documentazione e Studi Religiosi, 1986, 202.
[10] E.Bigatti , …Che il sale non diventi zucchero, Milano, Stefanoni, 1971, pp.175-176.
[11] Cfr. M.Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, cit., p. 269.
Massimiliano Tenconi, La guerra silenziosa per salvare gli ebrei, Storia in network, 1 maggio 2014 

mercoledì 21 dicembre 2022

Antifascisti toscani, partigiani in Francia

Targa installata all’ingresso del MUME, Museo della memoria dell’esilio di La Jonquera. La targa ricorda il passaggio dei volontari toscani in Francia durante la Retirada, nei primi mesi del 1939. Fonte: Francesco Cecchetti e Luciana Rocchi, op. cit. infra


Nell’introduzione al diario, scritto nel 1955 da Giuliano Pajetta, comunista torinese, di una famiglia che conta politici eminenti nella storia della Repubblica italiana, c’è un passo che può ben fare da cornice e premessa alle poche note, con cui qui si introduce il tema della partecipazione dei volontari toscani alla Resistenza francese.
"Può causare una certa sorpresa il fatto che, avendo io avuto la sorte di vivere una vita estremamente movimentata e di trovarmi frammischiato in avvenimenti grandiosi e spesso eccezionali, abbia scelto come soggetto per queste note un periodo così relativamente grigio come questo del ’41-’42, con la sua illegalità meschina, famelica, provinciale, caratterizzato da un lavoro minuto, penoso, poco appariscente. L’ho fatto perché credo che molti italiani, soprattutto fra i giovani, abbiano interesse, soprattutto in tempi come questi, a sapere meglio come e dove noi, antifascisti comunisti, ci siamo fatti le ossa. E’ più facile ricordare e persino imitare il gesto eroico clamoroso che il lavoro duro, pesante, con prospettive lontane e con sacrifici vicini.
Mi ha spinto a parlare proprio di questo periodo di tempo un altro sentimento, quello della riconoscenza che tutti noi dobbiamo avere per i nostri umili e modesti compagni emigrati che tanto hanno dato al nostro partito…" <1
Contiene l’anticipazione di un racconto, composto di fatti e giudizi sui caratteri dell’epoca che seguì la guerra di Spagna, sul clima in cui visse chi, per scelta o per complicate vicissitudini biografiche, private e politiche, era rimasto nella Francia occupata o, più spesso, nel territorio della repubblica di Vichy. Fa intravedere quello che alcune fonti rivelano sul “lavoro minuto, penoso, poco appariscente”, su frammenti delle vite di “umili e modesti compagni emigrati”, nel numero dei quali sono compresi alcuni dei volontari toscani che abbiamo potuto conoscere attraverso le tracce, lasciate in archivi, memorie, analizzate nelle pagine di studiosi.
Se le singole biografie sono dense di lacune, allo stato attuale difficili da colmare, ha dei contorni abbastanza netti l’affresco generale sugli italiani in Francia prima della nascita delle Brigate internazionali e dopo il 1939. Si tratta quasi sempre di emigrati, per lo più di idee antifasciste: fuorusciti eccellenti perseguitati dal fascismo, antifascisti ignoti fuori dal loro ambiente, disoccupati spinti all’emigrazione dalla povertà. Molti vi rimasero, dopo, più o meno a lungo, talvolta all’inizio costretti nei campi d’internamento - come altrove si racconta -, talvolta clandestini in fuga individuale, talvolta nei maquis, accanto ai francesi, ma anche a spagnoli e altri internazionali, in ogni caso non coi caratteri di una comunità nazionale, ma in forme differenti, com’era naturale in un periodo tanto caotico e pericoloso, ma carico di speranze, che stimolarono solidarietà europee.
Non può essere trattato in modo compiuto, ma solo accennato, in questa sede, il tema della presenza in Francia prima del ’36 dei toscani. Si rinvia per questo alle sintetiche note biografiche del database, aggiornate alla luce delle nuove fonti di cui ci si è giovati nella seconda fase della ricerca <2. Nel contempo si stanno predisponendo gli strumenti per un ulteriore aggiornamento/arricchimento, che confluirà in una pubblicazione cartacea <3 .
I limiti di spazio concessi qui impongono di prescindere da citazioni di studi sul contesto in cui si collocano avvenimenti e vicende personali, oggetto particolare della nostra ricerca: l’anteguerra, la Francia della “drôle de guerre” e della “strana disfatta”, cui seguono l’occupazione tedesca e la nascita della repubblica di Vichy, nell’arco di tempo compreso tra 1940 e 1944, se non per le implicazioni che la specificità della situazione francese ha sulla natura della Resistenza d’Oltralpe. Certo saltano all’occhio alcune singolarità della Francia democratica, prima dell’esplosione della seconda guerra mondiale, come l’introduzione delle norme necessarie a trasformare in questione di ordine pubblico l’ingresso dei reduci dalla Spagna, ad adottare repressioni durissime, a mettere in piedi un sistema concentrazionario, che avrebbe reso più facile l’inaugurazione, anche in Francia, di persecuzioni e deportazioni razziali. Così come singolare appare la rapida conversione al collaborazionismo più prono nei confronti del momentaneo vincitore della guerra, che produsse l’organismo statale, guidato dal Maresciallo Pétain.
Sono queste alcune delle condizioni al contorno, che incidono sulle forme di uscita dai campi, per gli internati, e determinano il clima in cui si trovano a vivere gli ex volontari che non vogliono o possono rientrare in patria. Negli appelli, che Pétain rivolse ripetutamente ai francesi, a partire dal giugno 1940, sono contenuti i concetti e le linee di un’azione politica, che ispirarono l’inizio della Resistenza e annunciarono uno scontro con il fronte antifascista, che sarebbe durato ben quattro anni. Si leggono argomenti analoghi a quelli usati in Italia dal fascismo, che evocano il “complotto internazionale” tra socialismo e capitalismo, una “tenebrosa alleanza” a cui il governo di Vichy prepara una reazione durissima (“Nous supprimerons les dissensions dans la cité. Nous ne les admettrons pas à l’interieur des usines et des fermes”) <4. Ne scaturì una Resistenza, che si sviluppò e diffuse capillarmente, nel corso del lungo tempo di guerra, creando una rete di formazioni militari di montagna e fuori dalle città, organizzazione sistematica di sabotaggi e azioni di contrasto nei centri urbani. La composizione dei maquis era, in tutta evidenza, francese, ma fuorusciti italiani, internazionali reduci dalla Spagna, spagnoli, questi ultimi divisi tra sconforto e speranze, che la guerra e l’ipotesi di un esito di sconfitta del fronte nazifascista alimentava. Un antifranchista, quasi sconosciuto all’epoca, scriveva nel 1946, con lo pseudonimo di Juan Hermanos un piccolo libro, pubblicato quattro anni dopo in Francia. Così raccontava gli stati d’animo dell’ultimo anno di guerra in Francia:
"Malgrado il sangue freddo che volevamo conservare, eravamo accasciati […]. I falangisti rialzavano la testa e si buttavano sui loro giornali scorrendoli con grida di trionfo. Finalmente i tedeschi furono di nuovo fermati e il paese respirò. La liberazione era più vicina che mai. Il maquis repubblicano era concentrato alla frontiera. Sarebbe bastato solo un segnale degli Alleati. Come credere che essi non l’avrebbero fatto? In quel momento, per cacciare Franco senza rivoluzione, facendogli avere il fatto suo, bastava riconoscere il governo in esilio […]. Ma gli Alleati fecero i sordi. Eppure a Dunquerque e Arras i repubblicani spagnoli, arruolati nell’esercito francese, si sono fatti massacrare nella retroguardia per salvare il salvabile e per non sopravvivere a una seconda disfatta. Repubblicani spagnoli hanno costituito centri della Resistenza in Francia. Proprio loro hanno insegnato a battersi a molti partigiani. La tattica delle bande mobili, consistente nel raggruppare i fucili mitragliatori in testa e al centro, con l’appoggio di esploratori mobili ai fianchi, è stata ideata dai nostri miliziani e dai nostri guerrilleros e trasmessa dai nostri volontari al maquis francese. Chi poteva pensare che poi ci avrebbero abbandonati? Dovevano aiutarci, anche soltanto per semplice solidarietà democratica". <5
Leggiamo qui non solo lo stato d’animo di un giovane intellettuale, antifranchista a Madrid, dopo la vittoria dei falangisti, ma quanto basta per comprendere la posta in gioco in Europa, le solidarietà internazionali, che fecero della Resistenza in Francia un momento di sintesi di aspirazioni e impegno militare e civile di antifascisti di diversa provenienza, nazionale e politica, la condivisione di esperienze e insegnamenti tattici e strategici. Contribuì a renderlo inutile per gli spagnoli il calcolo politico che impedì agli Alleati quella “solidarietà democratica” di cui il nostro autore parla, aggiungendosi a un fattore che aveva avuto e continuava, anche se in minor misura, ad avere un peso: la diffidenza reciproca tra i raggruppamenti politici, idealmente estranea agli intellettuali, ma presente nelle leadership politiche, soprattutto tra le componenti comuniste, che facevano riferimento alla Terza Internazionale, e le altre.
Il più importante contributo di conoscenza, relativo agli italiani nella Resistenza francese viene da una ricchissima serie di saggi, frutto del lavoro di un’équipe internazionale, sotto la direzione scientifica di Denis Pechanski e Pierre Milza. <6 L’interesse per noi di questo corposo blocco di studi e ricerche sta nell’edificio complessivo, che, andando oltre la periodizzazione dichiarata, getta luce anche sulla prima emigrazione italiana, base su cui cresce quel sistema di relazioni, che avrà uno sbocco anche nell’impegno resistenziale. Sia la componente comunista, che quelle repubblicane e socialista, sia Giustizia e Libertà, accanto a queste organizzazioni non propriamente partitiche, come la LIDU (Lega internazionale dei Diritti dell’Uomo), nel 1939 avevano già alle spalle un reticolo di attività clandestine, di relazioni capaci di essere parte dell’opposizione a Vichy. Tra i saggi, tutti di speciale interesse per una ricerca sui nostri temi, anche per lo studio congiunto di esilio e migrazione italiana e spagnola, basti citare la quantità di dati sull’emigrazione italiana in Francia, su permanenze e spostamenti di Temine e Rapone, la minuziosa indagine su repubblicani e giellisti di Elisa Signori, che trae dalle carte di polizia italiane e dal Fondo della Commissione italiana d’Armistizio con la Francia verbali e dossier, prove delle manovre italiane per far rientrare i “sovversivi pericolosi” <7, tra cui il massimo di pericolo era rappresentato dai Brigatisti, come dimostrano arresti e internamenti, non appena passato il confine dei Pirenei.
Specificamente dedicato alla Resistenza è l’ampio saggio di Gianni Perona, che mette a fuoco l’enorme difficoltà di un tema complesso, che non può essere trattato senza una relazione tra l’impegno politico-militare precoce in Francia e il passaggio alla Resistenza italiana. Citando studi importanti, da Paolo Spriano a Pietro Secchia a altri, lamenta quanto sia stato troppo spesso ridotto lo studio della “preistoria transalpina della Resistenza […] a una serie di itinerari biografici individuali” <8. Un capitolo è dedicato a “ricerche da fare”. <9 Sulla relazione tra Guerra di Spagna e Resistenza in Francia, e poi proiezione verso il futuro dell’impegno degli antifascisti italiani, lo storico italiano scrive che «è possibile che la partecipazione alla Resistenza abbia accelerato l’integrazione, ma l’inverso è assai probabile, vale a dire che gli emigrati provenienti dalla Spagna hanno potuto prendere parte alla Resistenza francese perché già largamente integrati». <10 La ricchezza dei riferimenti bibliografici, contenuti in questo saggio, è una prova di un vasto panorama di ricerche, prevalentemente francesi e piemontesi, su casi singoli, gruppi, realtà regionali, che coprono il vasto arco cronologico che va dalla prima emigrazione, alla guerra di Spagna, alla Resistenza. Un esempio: il lavoro, sempre di Perona, sugli antifascisti valdostani e piemontesi nella guerra di Spagna che documenta come, su duecentosettanta combattenti in terra iberica provenienti da queste due regioni, ottanta erano residenti in Francia prima del 1936. <11 Non è la sede questa per citazioni analitiche, ma solo per riflettere sulla opportunità di continuare a sommare ricerche regionali, singoli segmenti. Nell’insieme, dunque, quello che può essere un obiettivo di una ricerca regionale, come quella sui toscani, è aggiungere dati e elementi, che vadano oltre l’episodicità, per contribuire a una lettura sistematica, all’integrazione tra diversi ambiti di ricerca.
Il punto di arrivo, oggi, di questo lavoro, non può che testimoniare ancora l’estrema complessità degli argomenti, la difficoltà di arrivare a comporre un’interpretazione di queste vicende. Per quanto ampio, il numero delle fonti che sono state esaminate è insufficiente, molte altre sarà necessario consultare, in Italia, in Francia e non solo. Dove, come in questo caso, non sia consentito mettere rigidi confini spazio-temporali, non può bastare un tempo tanto breve, come quello che si è avuto a disposizione. Ragion per cui, quello che proponiamo qui non va oltre i limiti, per dirla con Perona, di “percorsi biografici individuali”, per di più assai scarni, non essendo i nostri, per lo più, personaggi di primo piano. Il lavoro su questo sottotema è, dunque, appena agli inizi.
Secondo le fonti in nostro possesso, i toscani volontari nella guerra di Spagna che militarono poi nelle file della Resistenza francese furono trentotto. Su altri due, il comunista Arturo Lelli e l’anarchico Gusmano Mariani , le notizie appaiono contraddittorie.
Di diciotto di loro abbiamo come unica informazione la partecipazione alla Resistenza in Francia senza ulteriori specificazioni geografiche. Sono i comunisti Ermindo Andreoli, Duilio Baldini, Alfredo Monsignori, Giuseppe Cavazzoni (agente di collegamento nelle FFI), Lelio Giannini , Urbano Lorenzini, Mario Mariani, Alfredo Mordini , Giovanni Papini, Toscano Pazzagli , Egidio Seghi e Alfredo Boschi , gli anarchici Aldo Demi, Mario Mantechi, Enzo Luigi Ferruccio Fantozzi, Umberto Marzocchi (Vicecomandante di un’unità) e Alfredo Mecatti, gli antifascisti Anilo Corsi e Guglielmo Ferrari. Sappiamo che si impegnarono, rispettivamente nel nord e nel sud della Francia, il repubblicano Etrusco Benci e il comunista Giovanni Frati Battista.
Furono attivi, invece, a Parigi il comunista Ideale Guelfi, l’anarchico Settimio Guerrieri e il popolare Ottorino Orlandini.
Ilio Barontini svolse un ruolo particolarmente importante nella Resistenza a Marsiglia dove fu tra gli organizzatori, col nome di battaglia di Giobbe, dei primi gruppi di FTP come istruttore tecnico-militare. Nello studio citato in precedenza sulla Resistenza in Italia, Perona così descrive il ruolo svolto da Barontini, assieme ad Alighiero Bonciani, nel capoluogo della regione Alpi Provenza Costa Azzurra: «Ilio Barontini “Job” e Alighiero Bonciani “André Nano” dirigono gli elementi che formarono il distaccamento “Marat”, li preparano all’azione durante l’estate e iniziano azioni spettacolari in piena città all’inizio dell’occupazione, in novembre. A Tolone, Marsiglia e forse Grenoble ci sono soprattutto degli italiani che attuano il modello marsigliese. E’ significativo che Barontini, il principale organizzatore FTP-MOI marsigliese, sia promosso responsabile politico. La storiografia del Pci e della Resistenza italiana considera questa azione come la matrice da cui sarà realizzata [la lotta] in Italia, sotto la direzione peraltro degli stessi uomini divenuti responsabili dei Gruppi di azione patriottica o di unità garibaldine». <12 A Marsiglia militò nelle fila partigiane anche l’anarchico Stefano Romiti.
Un ruolo importante svolse anche il comunista Nello Boscagli, responsabile del settore militare delle Alpi Marittime, dove fu attivo anche il suo compagno di partito Angelo Grassi.
Il socialista Francesco Fausto Nitti operò nei Ftp della rete Bertaux di Tolosa, dove era presente anche l’anarchico Giuseppe Bixio Tosi Muzio. Qui fu attivo anche il comunista Siro Rosi prima di spostarsi a Lione e di divenire Capitano a Nizza e Saint-Etienne (dove tra l’altro perse un occhio durante un’azione) col nome di battaglia di Juan Medinas. A Saint-Etienne militò anche l’anarchico Egisto Serni detto Gino.
Ancora un anarchico, Socrate Franchi, operò nel Dipartimento Bouche du Rhone, mentre il comunista Mario Azzimi in Corsica, il socialista Renato Balestri ad Agen (rete Kléber), Giovanni Dupuy a Grenoble, Gino Giannoni e l’anarchico Elio Panichi ad Arles.
L’unico, secondo i dati in nostro possesso, a perdere la vita in Francia, nel corso di un’azione militare nella lotta al nazifascismo, fu Ugo Natali, ucciso nella liberazione di Brives (Haute Loire). Diverse le circostanze della morte di Angelo Grassi. Vale la pena di soffermarsi un po’ più a lungo sulla sua vicenda personale, un ologramma del passaggio, che esperì un certo numero di toscani, all’interno di in un grande numero di italiani, dall’emigrazione, alla guerra di Spagna, ai campi, al tragico esito.
Angelo Grassi uscì dall’Italia, emigrato “regolare”, insieme ad altri membri della sua famiglia, nel luglio 1926. Dal 1932 assume ufficialmente la qualifica di antifascista, così come risulta dalla sua iscrizione nella rubrica di frontiera. I suoi spostamenti, in zone diverse della stessa regione, le Alpi Marittime, debbono essere interpretati in relazione alla sua attività politica, alla luce dell’impegno che gli è attribuito dalle fonti, nell’UPI e nella CGT. Nel 1937 è garibaldino in Spagna, segnalato nelle azioni importanti, anche sull’Ebro, secondo alcune fonti, che riteniamo attendibili, ma questo non compare nella sua scheda di internato nel campo del Vernet, dove arriva dopo aver peregrinato tra vari altri campi. E’ nell’ilôt dei comunisti; il governo di Vichy lo priva rapidamente della cittadinanza francese, ottenuta nel 1940. Dal 1942, riacquistata la libertà, inizia la sua attività nel maquis, con il ruolo di animatore delle prime formazioni. La fine della sua vita avviene nel luglio 1944, quando ormai la sconfitta nazifascista in Francia è un dato acquisito, a un mese dall’avvenuto sbarco in Normandia. Non è ucciso in un combattimento, ma in seguito a torture, inflittegli dai nazisti dopo un arresto. Viene impiccato a un lampione stradale a Nizza, dove una targa ricorda questo episodio. Una osservazione marginale, rispetto ai nostri temi: un segno di memoria per una vittima come Grassi, a Nizza, in un paese che non è il suo, è fatto normale, in Francia, dove ogni centro urbano, anche se piccolo, esibisce rispetto per la memoria di uccisioni, stragi, deportazioni, come accade in un paese, che ha fatto i conti con il proprio passato, anche per quelle “zone d’ombra”, che rimandano a responsabilità. La barbarie di quest’uccisione è assolutamente analoga, nella forma, a quello che manifestano i tanti episodi italiani di azioni dimostrative, di speciale crudeltà, compiute magari da soldati comuni, ma coerenti con disegni strategici analoghi. Le forme della violenza estrema, nell’Europa che visse le premesse del progetto nazifascista di “nuovo ordine europeo”, anche se in circostanze diverse, sono analoghe. Figure come quella di Angelo Grassi, uomini comuni, mostrano un percorso di maturazione della coscienza, etica e politica, importante, un inizio del processo che dà inizio alle democrazie dei paesi occidentali, nell’Europa postbellica, e prefigura un orizzonte - tale rimane, purtroppo, ancora oggi - di condivisione europea.

Nizza: Bd. Medecin
[NOTE]
1 G. Pajetta, Douce France, Editori Riuniti, Roma, 1971, pp. 6-7.
2 Cfr: in questo sito la sezione Note di metodo e fonti, relative al secondo progetto, dove si dà conto delle nuove esplorazioni, bibliografiche e archivistiche. In questa sede, naturalmente, gli archivi francesi hanno avuto una funzione determinante.
3 Com’è anticipato nella sezione Dai progetti alle ricerche, è in corso una terza fase di ricerche, conseguente all’approvazione del nuovo progetto, che consisterà anche in una pubblicazione cartacea, comprensiva degli esisti dell’intero lavoro. Tema: La guerra civil española: escuela de antifascismo y de ciudadanía europea. Comunicar y difundir algunas memorias y historias ejemplares de brigadistas (Orden PRE/786/2010, de 24 de marzo, Ministerio de la Presidencia).
4 (Le Maréchal Pétain, Appel et messages aux francais, juin 1940, mars 1941, opuscolo, Toulouse, s.d., p. 9).
5 J. Hermanos, Spagna clandestina, Fetrinelli editore, Milano 1955, pp. 92-3.
6 Cfr. Exils et migration. Italiens et Espagnols en France. 1938-1946, a cura di Pierre Milza e Denis Peschanski, Editions l’Harmattan, Parigi, 1994.
7 E. Signori, Républicains et giellistes en France, Ivi, p 559.
8 G. Perona, Les italiens dans la Résistence francaise, Ivi, p. 635.
9 Idem, p. 645.
10 Idem, p. 637.
11 Ibidem.
12 Exils et migration…, cit., p.656.
Francesco Cecchetti e Luciana Rocchi, Note sulla Resistenza in Francia, Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, ISGREC, Istituto Storico Grossetano della Resistenza e della Storia Contemporanea

lunedì 19 dicembre 2022

Come reazione rabbiosa di fronte ad un fallimento annunciato delle sue stesse strategie, il terrorismo nero iniziò una nuova stagione di attentati mortali


Nel frattempo, però, altri fattori contribuirono ad aumentare un clima di instabilità: <40
1º) gli avvenimenti internazionali, come il colpo di Stato in Cile nel 1973 e in Portogallo nel 1974.
2º) La crisi economica del 1973, causata dall’aumento del prezzo del petrolio. <41 A conseguenza di ciò, i costi di produzione delle imprese occidentali si moltiplicarono, portando un aumento della disoccupazione, ed un’importante crisi finanziaria. In Italia, dove il 75% dei fabbisogni energetici dipendevano dalle importazioni di crudo, la crisi causò un aumento della disoccupazione e del costo della vita. Furono anni di recessione economica, per la prima volta, dopo il miracolo economico seguito alla seconda guerra mondiale. Lungo tutti gli anni Settanta (il ’75 fu l’anno peggiore) molte imprese dovettero chiudere e si dovettero adottare misure straordinarie per ridurre il consumo di petrolio (ad es.: chiusura dei centri cittadini al traffico nei fine settimana).
3º) Il “compromesso storico”. Questa idea politica era il frutto della riflessione del nuovo leader del PCI, Enrico Berlinguer: in una situazione di grave crisi sia economica che sociale, il governo della nazione non poteva sostenersi con l’appoggio del 51% degli elettori. C’era bisogno di una maggioranza molto più ampia, formata da una coalizione di forze politiche tra esse compatibili. E secondo Berlinguer queste forze dovevano essere la DC e il PCI. Cominciarono pertanto dei negoziati tra i due partiti, allo scopo di trovare nuove forme di collaborazione che non potevano non inquietare le ali più estreme di entrambi i partiti.
Ma forse proprio come reazione rabbiosa di fronte ad un fallimento annunciato delle sue stesse strategie, il terrorismo nero iniziò una nuova stagione di attentati mortali tra cui si devono ricordare innanzitutto quello di Piazza della Loggia il 28 maggio 1974 a Brescia, durante una manifestazione antifascista <42 e quello al treno Italicus, avvenuto nella notte fra il 3 e il 4 agosto dello stesso anno in cui morirono dodici persone e quarantotto rimasero ferite. <43
Rispetto alla strage di Piazza Fontana, che è stata definita una strage di provocazione (poiché aveva come obiettivo scaricare la responsabilità dell’attentato sugli avversari degli attentatori), le stragi del 1974 si possono considerare stragi di intimidazione, in quanto apertamente rivendicate dai terroristi neri. <44
Caratteristica comune ai processi che ne seguirono fu la difficoltà di stabilire una verità processuale, tra problemi oggettivi ed irregolarità nel reperimento delle prove. <45 Spesso gli accusati, condannati in primo grado, venivano poi assolti in Appello. Le responsabilità degli apparati dello Stato e dei servizi segreti o furono insabbiate grazie ad opportuni depistaggi o coperte da segreto di Stato e non si poterono dimostrare.
Ciò diede luogo a una serie di speculazioni, di presunzioni che inturbiarono ulteriormente il clima della società italiana. Si deve riconoscere che in alcuni casi, una volta tolto il segreto di Stato, si è saputo che le motivazioni erano reali e che le informazioni non coinvolgevano i responsabili dei reati su cui si stava indagando. È anche vero che dopo alcuni anni si è venuto a sapere dell’esistenza di associazioni parallele ai servizi segreti nazionali o internazionali come Gladio o Stay Behind, cosa che ha rinnovato i sospetti di collusioni ai più alti livelli istituzionali internazionali. Al giorno d’oggi, si può solamente riconoscere che non sono state trovate prove indiscutibili del coinvolgimento degli apparati pubblici negli attentati di Piazza della Loggia e del treno Italicus.
Tuttavia, dalle stragi del 1974 discesero anche alcuni effetti positivi, a cominciare dalla decisa condanna del fascismo espressa per la prima volta dai partiti dell’intero arco costituzionale. <46
Finalmente la classe politica dirigente si rese conto di non poter più mantenere una posizione ambigua, o persino di tolleranza o di protezione, verso lo stragismo di matrice neofascista, scelta che si era rivelata anche alquanto impopolare. Inoltre, la stampa divenne molto più intraprendente nel considerare il proprio ruolo, potenziando la funzione investigativa. <47
[NOTE]
40 Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica..., cit. p. 390 e ss.; Matteo Re, La Italia actual…, cit. p. 121; Paul Ginsborg, Storia d’Italia..., cit., p. 469 e ss.
41 Un aumento di ben il 70% rispetto al suo costo abituale e la contemporanea diminuzione di un 10% della produzione di crudo decisa dai paesi dell’OPEC che protestavano contro l’appoggio che i paesi occidentali stavano prestando al popolo ebreo nella guerra del Yom Kippur scoppiata lo stesso anno.
42 L’attentato fu causato da una bomba nascosta in un cestino portarifiuti che esplose proprio mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. Otto persone morirono e altre 102 rimasero ferite. Mirco Dondi, L'eco del boato..., cit., p. 334 e ss.; Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica..., cit., p. 394 e ss. Vid. anche il programma RAI dal titolo “1974 Strage in Piazza della Loggia e dell'Italicus - Tg della Storia 1970 - 1974”, La storia siamo noi, in http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/video/1974-strage-in-piazza-della-loggia-e-dellitalicus/96/default.aspx, consultato il 02/08/18.
43 Una bomba ad alto potenziale esplose nella quinta vettura del treno espresso 1486 "Italicus", proveniente da Roma e diretto a Monaco di Baviera via Brennero, mentre il treno stava uscendo dalla Grande Galleria dell'Appennino nei pressi di San Benedetto Val di Sambro. Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica..., cit., p. 394 e ss.; Mirco Dondi, L’eco del boato..., cit., p. 374 e s, e vid. anche il programma RAI dal titolo “Attentato al treno Italicus - Tg della Storia 1970 -1974”, La storia siamo noi, in http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/video/attentato-al-treno-italicus/1734/default.aspx, consultato il 02/08/18.
44 Mirco Dondi, L'eco del boato..., cit., p. 335.
45 Il famoso lavaggio di Piazza della Loggia, avvenuto che impedì alla polizia scientifica di continuare cercare elementi di prova, è stato spesso messo sotto accusa. Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica..., cit., pp. 418-20.
Lilia Zanelli, Gli anni di piombo nella letteratura e nell’arte degli anni Duemila, Tesi di dottorato, Università di Salamanca, 2018

domenica 11 dicembre 2022

Un avvocato di Rovereto, martire della Resistenza

Rovereto (TN). Fonte: Wikipedia

«L’“eccezionale normalità” di Angelo Bettini, avvocato e socialista - scrivono Mario Cossali e Mara Rossi per l’Anpi -, si sposava con la consapevolezza di aver capito presto dove stavano le ragioni e i torti. L’avvocato Bettini pagò con la vita l’essersi schierato dalla parte della giustizia e della libertà con continuità nella sua vita. Come consigliere comunale socialista prima dell’avvento del fascismo impegnandosi per la tutela, “non solo degli interessi della classe operaia, sempre negletti, ma anche di quelli generali di tutta la cittadinanza in armonia al concetto vasto e profondo della fratellanza universale dei popoli, alla quale tendono gli sforzi dei socialisti di tutto il mondo, e ciò senza negare quei valori nazionali che all’infuori degli interessi particolaristici, propri della classe al potere, mirano alla più alta e più umana educazione ed evoluzione del popolo.” Come avvocato, prima e durante la dittatura, restando vicino agli strati più deboli della società fino a far parte dall’estate del 1943 del Cln clandestino del Trentino. Venne freddato con un colpo di pistola alla testa (pare da Willi Völker, maresciallo delle SS) su ordine del colonnello Thyrolf il 28 giugno del 1944. Bettini era un personaggio di primo piano della Resistenza, anche se defilato e silenzioso. Non a caso il suo ruolo è stato lumeggiato solo anni dopo la morte. Da un po’ di anni la sua figura Bettini è commemorata il 28 giugno, nell’atrio del tribunale dagli avvocati, dai giudici, dall’amministrazione comunale, dall’Anpi e dalla cittadinanza. Negli anni è sempre stato sottolineato da tutti l’esempio attuale della sua vita e della sua coerenza. Per Angelo Bettini «non c’è nulla di meno spontaneo della libertà», quella libertà che va costruita giorno per giorno nel rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno».
Redazione, Angelo Bettini, un esempio di vita anche dopo 75 anni, Il nuovo Trentino, 28 giugno 2019

Era il 28 giugno 1944 quando Angelo Bettini, avvocato roveretano antifascista, venne assassinato dai nazisti nel suo studio legale a due passi da piazza Rosmini. Da allora questa data viene sempre ricordata dagli avvocati ma pure dai semplici cittadini. Perché è un monito a non abbassare la guardia sui diritti civili, minacciati allora come oggi. Ieri il legale trucidato durante la Seconda guerra mondiale è stato commemorato a palazzo di giustizia. E per la prima è stata scelta l’aula delle udienze del gup che è intitolata proprio a Bettini. Il suo valore, le sue idee, sono state ricordate dai massimi vertici istituzionali [...]
Redazione, Angelo Bettini, il tribunale si ferma per un tributo, l'Adige.it, 28 giugno 2018

Una sepoltura quasi senza cerimonia, alla presenza di qualche decina di persone sgomente. La voce della sorella dell’ucciso che urla piangendo “vendetta” e quella di Antonio Piscel, il suo vecchio maestro di socialismo, che esorta cristianamente al perdono: così un testimone (il nipote Luciano) ricorda il funerale di Angelo Bettini, trucidato nel suo studio di avvocato nel pomeriggio del 28 giugno 1944 <1. Per Rovereto come per tutto il Trentino quella data rappresentò una svolta decisiva. I dieci morti della caccia selvaggia di Riva e di Arco, l’esecuzione di Bettini, l’arresto dei capi di una Resistenza ancora in formazione infransero ogni alibi alla collaborazione con i nuovi padroni e le residue illusioni di un’occupazione morbida.
Gli uomini che dovevano catturare Bettini erano arrivati da Trento all’alba, sul torpedone che avrebbe poi portato a Riva una ventina di manovali occasionali della morte, raccattati in buona parte il giorno prima a Bolzano tra gli arruolati nella SOD, il corpo di polizia sudtirolese al servizio dei tedeschi <2. Nessuno dei tre “ausiliari” scesi a Rovereto quella mattina poté essere condannato nei processi del dopoguerra. Cosa ne sapevano il negoziante di generi misti Enrico Weis, nientemeno che podestà di Laives, l’arrotino di Gries Costantino Giovanazzi, l’impiegato Lorenzo Berger, anche lui di Laives? Andavano a svolgere un servizio d’ordine, da bravi cittadini, qualcuno di loro non seppe nemmeno che Bettini poi fosse stato ucciso, o almeno così dichiarò al processo. Un’idea del programma della mattiniera escursione, invero, dovevano pur essersela fatta, sulla base delle istruzioni ricevute la sera prima, nella palazzina delle SS in via Acqui a Trento.
"Qui il comandante, che non conosco, ci tenne un discorsetto dicendoci che si rendeva necessario un servizio per stroncare sul nascere l’attività di un partito italiano di nuova creazione e che a tale scopo si doveva arrestare le persone che ci sarebbero state indicate e precisando che in caso di resistenza o di fuga bisognava far uso delle armi" raccontò nel suo primo interrogatorio il Giovanazzi <3. Il piano esposto ai responsabili dal maggiore Thyrolf era preciso e spietato, spiegò nel suo interrogatorio il capitano Heinz Winkler, di Dresda, incaricato dell’azione di Rovereto: "Chiamò a sé i capi dei singoli gruppi e consegnò loro le liste e i biglietti con le generalità e l’indirizzo di coloro che
dovevano essere arrestati. Thyrolf già nell’impartire a noi le istruzioni specificò che le persone i cui nomi erano contrassegnati sul biglietto con una croce non dovevano essere arrestati ma uccisi. [...] Al mio gruppo furono assegnati il maresciallo delle SS Völker e il maresciallo SS e interprete Stimpfl e 3 borghesi tedeschi a me sconosciuti. [...] Thyrolf mi raccomandò caldamente l’arresto di un certo avvocato dottor Ferrandi che doveva essere eseguito a tutti i costi trattandosi di uomo di eccezionale importanza. Tra i biglietti consegnatimi ve n’era uno segnato con la croce rossa; il titolare doveva per tanto essere ucciso. Il Thyrolf mi spiegò che proprio per questo mi aveva assegnato uno dei più validi esecutori, cioè il Völker. Partii nelle prime ore del mattino per Rovereto con la mia vettura prendendo con me Völker e Stimpfl, mentre i tre borghesi vi si trasferirono con un autobus" <4.
I dati che emergono dalle carte del processo consentirebbero un racconto analitico di quella giornata, cui qui dobbiamo rinunciare. Notiamo solo che Bettini doveva avere la coscienza così tranquilla (o una così grande sollecitudine per l’incolumità dei famigliari) da presentarsi spontaneamente senza pensare ad una facilissima fuga, una volta saputo dalla moglie di essere ricercato. Quando fu portato nella sede della gendarmeria, all’inizio del corso che ora porta il suo nome, non erano ancora le 11; poi gli interrogatori condotti da Stimpfl, il trasferimento nello studio, l’esecuzione con un colpo di pistola alla testa (per mano di Völker, secondo la testimonianza di Winkler e le altre risultanze del processo) <5.
In quella stessa giornata furono arrestati a Trento Giannantonio Manci, a Rovereto Giuseppe Ferrandi (oltre al maestro Santini e ad un carabiniere in pensione, Palmieri, anch’essi accusati di attività di opposizione), a Riva Gastone Franchetti e alcuni altri aderenti ad una cospirazione generosa stroncata sul nascere. Ferrandi, pure avvocato, principale collaboratore di Manci e protagonista insieme a lui della fase di costruzione politica e organizzativa della resistenza trentina, fu tradotto a Bolzano dove fu poi condannato dal tribunale speciale tedesco a sei anni di carcere duro. Alle carceri di Trento venne portato il fratello di Bettini, Silvio, più noto col suo nome di volontario nella prima guerra mondiale, Schettini. Era ritornato a Rovereto nell’ottobre ‘42 dopo quattordici anni di emigrazione politica in Francia, quasi un anno di lager in Germania, un periodo di carcere e di confino in Italia. Privato di alcuni degli uomini di maggiore esperienza e qualità politica, segnato dalla brutalità degli eccidi, il movimento resistenziale locale subiva un colpo particolarmente duro, in particolare nella città.
[NOTE]
1 Intervista a Luciano Bettini. A Luciano, recentemente scomparso, cultore della memoria storica e uomo gentile, dedico la nuova edizione di questo lavoro, che fu anche l’occasione da cui partì la reciproca conoscenza e amicizia. La prima versione di queste pagine fa parte del volume Rovereto 1940-45. Frammenti di un’autobiografia della città, a cura di Diego Leoni e Fabrizio Rasera, Osiride - Materiali di lavoro, Rovereto 1993. Tanto il volume che questo specifico lavoro, ivi pubblicato alle pp. 366-382 con il titolo La porta chiusa. La persecuzione dei prigionieri politici nel carcere di Rovereto, fanno parte di un percorso collettivo svolto nel Laboratorio di storia di Rovereto. Vi parteciparono, in quella fase, Luciano Bettini, Gianni Canepel, Lidia Lestani Canepel, Giovanna Cimonetti, Ada Debortoli, Benito Franceschini, Riccarda Fedriga Giordani, Pierangelo Gallina, Ilda Giordani Bertolini, Ferdinando Manfredi, Maria Marzani Prosser, Mario Seber, Livia Tomasi Salvetti. Da allora la ricerca a livello locale su quel periodo non ha fatto passi avanti tali da mettermi in condizione di scrivere qualcosa di davvero nuovo. Ripropongo dunque in questo volume il testo di allora, emendato di alcune sviste, rielaborato in qualche passaggio marginale, irrobustito e aggiornato nelle note.
2 “Questo servizio d’ordine era un’associazione costituitasi illegalmente per l’autodifesa degli optanti sudtirolesi; al momento dell’ingresso delle truppe tedesche nel Sudtirolo si era messa a disposizione dei Tedeschi”: K. Stuhlpfarrer, Le zone d'operazione Prealpi e Litorale adriatico 1943-45, Libreria Adamo, Gorizia 1979, p. 113.
3 Il verbale dell'interrogatorio (27 giugno 1945 presso la Questura di Trento) è nel fascicolo del processo a Lorenzo Berger, Enrico Weis e Costantino Giovanazzi presso la Corte d'Assise Straordinaria di Trento, concluso nell'aprile 1946 con l'assoluzione degli imputati. Gli atti sono nell'archivio della Corte d'Appello di Trento, come quelli di tutti gli altri processi per collaborazionismo svolti in Trentino nel periodo 1945-6, che costituiscono nell'insieme una straordinaria fonte storica sul periodo. Noi qui non ci occupiamo dei processi in sé, come pure sarebbe importante fare, ma attingiamo alle testimonianze raccolte in quella sede usandole come documenti autobiografici. Sappiamo che il contesto del processo orienta quei racconti, che in mezzo c'è il filtro di chi interroga e di chi verbalizza, che anche questi documenti vanno
interpretati, piuttosto che assunti nella loro assolutezza. Eppure anche in questo caso, come in innumerevoli altri della storia lontana e recente, senza carte di questo tipo poco sapremmo dell’esperienza vissuta dai testimoni e dalle vittime. Sull'istituzione delle Corti straordinarie di Assise per i reati di collaborazione con i tedeschi (prevista dal Decreto Legislativo Luogotenenziale 22 aprile 1945, n. 142) e sull'evoluzione successiva delle norme in materia cfr. C. Saonara, Le sanzioni contro il fascismo dai decreti del CLNAI alle Corti straordinarie d'Assise, introduzione a Fascisti e collaborazionisti nel Polesine durante l'occupazione tedesca. I processi della Corte d'Assise Straordinaria di Rovigo, a cura di Gianni Sparapan, Marsilio, Venezia 1991, pp. 9-24.
4 Estratto dal verbale dell'interrogatorio assunto il 25 luglio 1945 nei locali della Questura di Bolzano, contenuto negli atti processuali.
5 A Bettini non è stata dedicata ancora una ricerca biografica di adeguato spessore, come la nobiltà della sua figura umana e politica richiederebbero. Consigliere comunale socialista alle elezioni del '22, antifascista da sempre, egli era stato oggetto di un'aggressione squadristica nel 1925 e di ricorrenti, tenaci persecuzioni poliziesche. Fu arrestato il 26 luglio 1943 per essersi recato, con un gruppo di giovani, a levare i ritratti di Mussolini dagli edifici pubblici. Legato a Manci e Ferrandi, aveva collaborato con loro nel 1943 alla costituzione del Movimento socialista trentino. Anche nell'attività professionale - secondo quanto emerge dalle testimonianze sulla sua figura - si esprimeva l’adesione ad un socialismo umanitario quasi ottocentesco, che lo faceva essere il paterno consigliere “della umile gente”, “l’avvocato che difende pagando di borsa, per i più umili, anche le spese”, si legge in Angelo Bettini, “Terra nostra”, organo del Cln di Rovereto, 28 giugno 1945 n. 5. In “Terra nostra” si veda anche l'interessante antologia dai documenti della questura Sfogliando il "fascicolo dei sovversivi" della P. S., 13 luglio 1945, n. 7. [Aggiornamento per la pubblicazione in academia.edu: l’assenza di una biografia del personaggio è stata sanata attraverso il lavoro di F. Rasera, Angelo Bettini. Documenti sulla vita e sulla morte, Osiride, Rovereto 2004 e 2010. L’edizione del 2010 rivede in profondità la prima, anche grazie alla riemersione di documenti d’archivio in precedenza non accessibili]

Fabrizio Rasera, Aspetti della Resistenza a Rovereto e Vallagarina, 10 dicembre 2022, academia.edu

martedì 6 dicembre 2022

Alla fine di agosto 1948 nella zona A erano nati due partiti comunisti


Il 28 giugno 1948 si consumò la rottura tra Stalin e Tito capovolgendo gli equilibri che fino ad allora erano stati creati. La rottura causò uno stallo sulla questione del confine orientale italiano. L'obiettivo degli alleati mutò e nella nuova situazione che sia era venuta a creare decisero che era opportuno fornire sostegno anche alla Jugoslavia, evitando così il collasso della Repubblica jugoslava che avrebbe potuto rappresentare una porta di accesso per l’URSS in tutta l’area balcanica.
È ininfluente cercare di capire le motivazioni del conflitto ideologico tra Mosca e Belgrado poiché il comunismo sovietico prevedeva una totale subordinazione a Mosca dei capi degli stati satelliti. Tito, come si diceva, era un capo che si era conquistato da solo il potere e non era stato scelto da Stalin e questo gli forniva ragioni sufficienti per credere di avere il diritto di pensare con la propria testa; negli anni in cui il comunismo veniva inteso come una religione politica <73 e Stalin era oggetto di culto assoluto il maresciallo jugoslavo poteva veramente meritarsi l’appellativo di eretico. Tito non ritrattò mai la propria posizione estranea ai diktat di Mosca e siccome la repubblica Federale Jugoslava era fondata sulla cosiddetta autogestione e non su una completa asserzione ai voleri del Partito Comunista dell’Unione Sovietica secondo l’Unione Sovietica il suo capo doveva essere eliminato e la direzione del Partito Comunista Jugoslavo sostituita con uomini di fiducia di Mosca.
L’idea dell’URSS era di seguire lo stesso piano messo in atto per la Cecoslovacchia, cioè far collassare il sistema dall’interno. Tito però anticipò le mosse russe eliminando per primo gli uomini fedeli al soviet supremo evitando così di trovarsi con i nemici dentro casa. L’unica possibilità che rimaneva all’URSS per cercare di far cadere la Jugoslavia e riportarla nella propria orbita di influenza era quella di scomunicarla all'esterno con l’intento di farla crollare. Tito resistette alle pressioni sovietiche e mutò drasticamente la realtà del blocco orientale offrendo all'occidente una boccata d'ossigeno e cambiando gli equilibri internazionali in maniera inaspettata.
4.6 L’effetto dello scisma nella Venezia Giulia
Le incomprensioni tra Tito e Stalin e l’espulsione del primo dal Cominform rivoluzionarono completamente gli equilibri internazionali ma ebbero ripercussioni anche sul territorio conteso tra l’Italia e la Jugoslavia.
Nel TLT i giorni successivi all’espulsione furono giorni molto confusi e di disorientamento in particolare anche per il Partito Comunista triestino. Sul confine orientale il Partito Comunista era stato fondato nel 1945 (col nome di Partito Comunista della Venezia Giulia - PCVG) ed era una fusione delle sezioni locali del Partito Comunista Italiano e del Partito Comunista Sloveno. Gli esponenti principali del Partito Comunista sloveno erano Rudi Uršič e il partigiano Branko Babič <74, i quali sostenevano la causa dell’annessione di Trieste e della Venezia Giulia alla Jugoslavia. La loro visione era in aperto contrasto con quella della fazione italiana che, capeggiata a livello nazionale da Palmiro Togliatti, non riconosceva le rivendicazioni jugoslave. Conseguentemente all’entrata in vigore del Trattato di Pace e la costituzione del TLT il precedente PCVG cambiò nome in Partito Comunista del Territorio Libero di Trieste/Komunistička partija Slobodnog teritorija Trsta (PCTLT/KPSTO). Nello stesso anno il PCI decise di mandare un proprio uomo di fiducia a Trieste per poter essere più presente sul territorio e per poter gestire meglio i delicati equilibri che si erano venuti a creare in seno alle sinistre locali. Il prescelto fu Vittorio Vidali <75, uomo fedele all’URSS e pienamente allineato agli ideali nazionali di Togliatti e a quelli internazionali dell’Unione Sovietica.
A seguito della rottura tra Stalin e Tito e conseguentemente all’espulsione del PCJ dal Cominform, all’interno del PCTLT nacque una spaccatura tra le due correnti ideologiche: l’una, capeggiata da Branko Babič, credeva che Trieste sarebbe dovuta entrare sotto la sovranità jugoslava, l’altra, guidata da Vittorio Vidali, sosteneva che Trieste avrebbe dovuta essere annessa all’Italia.
Nei giorni successivi al terremoto tra Tito e Stalin il comitato esecutivo del PCTLT si riunì d’urgenza. Il 3 e 4 luglio discussero la risoluzione del Cominform: 6 dei 10 membri si schierarono a favore della scelta sovietica mentre i restanti quattro si schierarono a favore della Jugoslavia. I primi sei membri, condotti da Vittorio Vidali, divennero il cuore e la direzione dell’ala favorevole a Stalin e al Cominform. I quattro che gli si contrapponevano, capeggiati da Branko Babič si posero a capo delle forze favorevoli a Tito <76. Babič in seguito alle discussioni del 3 e 4 luglio decise di convocare una riunione plenaria del comitato centrale rimanente, nella quale si decise di espellere tutti i membri filosovietici che si erano schierati a favore delle decisioni del Cominform. In un comitato centrale monco dei precedenti membri venne indetta una seconda riunione in data 20 luglio nella quale si elessero cinque nuovi membri arrivando ad un totale di nove. Dal canto suo anche Vittorio Vidali si adoperò allo stesso modo per ristrutturare un partito che raccogliesse coloro i quali erano stati espulsi dal precedente PCTLT e il 20 e 21 agosto, insieme ai suoi seguaci venne tenuto il congresso del partito cominformista. Come fatto precedentemente da Babič, anche Vidali con i suoi membri elessero un nuovo comitato centrale. Alla fine di agosto 1948 nella zona A erano nati due partiti comunisti: quello di Vidali e quello di Babič. Se nella zona A al partito comunista filo titino di Babič fu concesso di svolgere le proprie attività, lo stesso non fu possibile per il partito cominformista nella zona B dove la Jugoslavia vietò qualsiasi azione, addirittura incarcerando coloro che erano sospettati di essere simpatizzanti sovietici. La spaccatura che ci fu al vertice del PCTLT creò una rottura in tutto il blocco comunista aprendo diaspore tra sindacati, stampa e piazza. Lo scontro divenne sempre più aspro e indebolì notevolmente i partiti comunisti a favore del PSI, che cercò di raccogliere una parte di elettorato che non si riconosceva più nei precedenti partiti.
I cittadini della Venezia Giulia credettero che la Dichiarazione Tripartita fosse un segnale di interesse alla grave situazione che vivevano gli italiani, specialmente nella zona B e che gli alleati avessero realmente intenzione di supportare le rivendicazioni italiane. Nell’estate del 1948 però, dopo la scissione tra Tito e Stalin, emerse con evidenza come la Jugoslavia non era più uno stato satellite dell’URSS e quindi anche che gli anglo-franco-americani non avessero più la necessità di proteggersi dalla Jugoslavia in quanto emanazione della Russa.
La situazione internazionale aveva cambiato completamente la posizione di Trieste che non fungeva più da «cerniera meridionale» tra Est e Ovest, ma era passata in secondo piano rispetto ai rapporti diretti che si creavano tra le potenze occidentali e la Jugoslavia. Infatti, si era fatta avanti l’idea che sarebbe stato meglio non infastidire Tito perché avrebbe anche potuto decidere in qualsiasi momento di tornare con l’URSS facendo perdere il vantaggio che le potenze occidentali si erano inaspettatamente trovate ad avere.
Dopo la scissione Tito si legò agli occidentali e fu un avvenimento estremamente sfavorevole alla questione giuliana.
Nel settembre 1948 c’erano stati degli incontri segreti tra americani e jugoslavi; incontri nei quali si discusse un eventuale attacco da est dei russi. In questa eventualità la Jugoslavia avrebbe ritirato le proprie truppe dall’Istria permettendo agli americani di procedere e creare una linea difensiva più avanzata. Si prevedeva anche un corridoio di collegamento con l’Austria attraverso i territori jugoslavi. In questo modo la Jugoslavia avrebbe potuto mobilitare il proprio esercito e i propri armamenti e trasferirli ai propri confini orientali. In cambio di ciò gli americani si sarebbero impegnati a fornire apparecchiature industriali e materie prime a Tito <77.
Se americani e jugoslavi avevano imbastito dei tavoli per discutere nuovi equilibri internazionali, lo stesso aveva fatto anche l’Italia, che in ottobre, attraverso il ministro Quaroni, aveva cercato di promuovere degli accordi con la Jugoslavia in merito alla questione della pesca mentre Belgrado cercava di concludere un secondo accordo riguardo il commercio estero.
Il governo italiano si trovò in un certo senso allineato con la politica degli alleati poiché, per quanto avesse a cuore la questione degli italiani nella zona B e la soluzione della questione del TLT, si trovò a dover accettare i nuovi equilibri internazionali prediligendo i rapporti di buon vicinato alle questioni ideologiche.
[NOTE]
73 Sacralizzazione della politica da parte di movimenti e regimi che hanno adottato un sistema di credenze, espresso attraverso riti e simboli, per formare una coscienza collettiva secondo i principi, i valori e i fini della propria ideologia.
74 Branko Babič «Vlado» (San Dorligo della Valle Dolina, 18 ottobre 1912 - Lubiana, 5 gennaio 1995), politico e partigiano comunista, scrittore e giornalista, decorato con la Partizanska spomenica 1941. Dopo la guerra tornò a Trieste, lavorò come funzionario di Partito per l'annessione del Territorio Libero di Trieste alla Jugoslavia, dopo la crisi del Cominform e la rottura tra Stalin e Tito, Babič si schierò con quest'ultimo contro la corrente maggioritaria a Trieste guidata da Vittorio Vidali.
75 Vidali nasce a Muggia nel 1900 da una famiglia operaia. Compiuti gli studi alla Reale accademia di commercio, si iscrive a 17 anni al Partito socialista. Nel 1921 sarà tra i primi a prendere la tessera della neonata Federazione giovanile comunista. Ripetutamente arrestato, colpito da un mandato di cattura, fugge dall’Italia nel 1923. Per più di vent’anni, fino al 1947, Vidali si sposta in mezzo mondo, dall’America alla Russia, dalla Spagna al Messico, dal Belgio all’Austria, sempre fedele al suo ideale di militante a tempo pieno per la causa del comunismo e dell’internazionalismo.
76 Novak B. C., Trieste 1941-1954: la lotta politica, etnica e ideologica, op. cit., p. 283.
77 De Castro, D., La questione di Trieste: l’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, op. cit., p. 788.
Tommaso Cortivo, Politiche ufficiali ed ufficiose condotte dall’Italia nel biennio 1947/1948 al confine orientale, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2019/2020

sabato 26 novembre 2022

La Resistenza umbra risente del significativo contributo degli ex prigionieri

Perugia. Fonte: Mapio.net

La guerra ed i bombardamenti rendono anche Perugia una città surreale. Ugo Baduel, futuro membro dell’entourage di Berlinguer, all’epoca bambino fanaticamente attratto dal fascino marziale del fascismo e, soprattutto, del nazismo, dedito alle imitazioni di Mussolini e al gioco della “tattica”, ammiratore di Rodolfo Graziani, Nicolas Contarini ed Alessandro Oddi Baglioni <55 , ricorda così i mutamenti del capoluogo: «Fin dall’inizio della guerra, le grandi scritte sui muri in via Orazio Antinori, alla svolta di Piazza Grimana: “zona di silenzio. Vietato suonare”. Erano scritte in caratteri “bastoni” di vernice nera su un rettangolo di vernice bianca. Poi le indicazioni “rifugio antiaereo”. In Piazza IV Novembre la fontana del Pisano era stata soffocata da una massa di sabbia poi rivestita di un cono di alluminio argenteo alla cui base stava una massicciata in legno. Sembrava una scultura astratta e io, che prima non avevo mai guardato quella fontana, credetti a lungo che quello fosse il suo normale status» <56.
La città è costretta ad adattarsi alle necessità, alle assurdità e alle ristrettezze imposte dalla guerra. Il tennis club, considerato luogo di imboscati e “traditori della patria”, viene fatto chiudere manu militari; le radio sono fatte bloccare, con decreto prefettizio, tra le frequenze delle stazioni di Monaco e Roma; gli oscuramenti si intensificano fino ad assumere un’angosciante regolarità; la storica Rocca Paolina è adattata a rifugio antiaereo, così come palazzo dei Priori, palazzo Donini e la galleria sotto il parco di Monterone; la scuola del Littorio, vanto del fascismo perugino, viene destinata ad ospedale di riserva; si diffondono gli orti di guerra; le lezioni, quando si tengono, vengono continuamente interrotte dagli allarmi aerei; si propone, senza successo, di introdurre il tedesco come seconda lingua per alcuni servizi pubblici in “omaggio” alle truppe naziste; si ipotizza una improponibile ondata revanchista nella toponomastica cittadina, destinata a culminare nella dedica di “Largo XXVIII ottobre” ad Ettore Muti e nella soppressione della lapide a Felice Cavallotti <57.
La delegittimazione e la debolezza del potere fascista repubblicano sono marcatamente evidenti nella diffusione della renitenza alla leva. Dopo lo sfascio del regio esercito, in molti fanno ritorno alle proprie case, generando un rilevante fenomeno di massa che coinvolge migliaia di persone senza distinzione di gruppi sociali. Per Rocchi «il grave fenomeno della renitenza alla chiamata alle armi e della diserzione trova le sue ragioni, oltre che nell’abbrutimento morale subentrato negli italiani dopo la nefasta data dell’8 settembre, anche nelle condizioni di disagio in cui erano costretti a vivere i giovani chiamati alle armi per le difficoltà in parte superate in cui si dibattono gli enti militari a causa della mancanza di materiali di casermaggio e di equipaggiamento e vestiario» <58.
La grande maggioranza dei giovani chiamati il 9 novembre 1943 non risponde, ed hanno scarsi effetti sia i bandi di reclutamento volontario che prevedono consistenti indennità di guerra, sia le misure coercitive che stabiliscono la pena di morte per i disertori. Hanno poca presa anche gli articoli polemici contro i «giovani restii e impudenti», «tarati moralmente», che compaiono su 'La Riscossa' <59. Solo i rastrellamenti dei familiari ottengono, in qualche caso, i risultati sperati dai fascisti repubblicani <60. Significative, comunque, le eccezioni. La nota dominante tra i membri della Gnr - «uomini fantocci dei tedeschi», secondo un manifesto partigiano <61 - è il fanatismo.
Baduel ricorda, infatti, come tra gli arruolati spontanei figurassero anche fanciulli di appena 14 anni <62, ammaliati da un’immagine eroica e romantica della guerra, considerata alla stregua di un balocco, solo più tardi rivelatosi foriero di distruzioni reali.
I fascisti repubblicani, sempre più lontani dalla società civile, cercano di colmare questo divario con promesse di laute ricompense per la ricattura di prigionieri di guerra anglosassoni o, comunque, di persone evase dalle carceri e dai campi di concentramento, approfittando della confusione istituzionale seguita al 25 luglio. Previsti premi anche per il recupero e la denuncia di armi. Ma nonostante gli “incentivi” non sono pochi coloro, anche nel capoluogo, che contravvengono al perentorio divieto di “alloggio, vitto e assistenza” nei confronti dei fuggitivi emanato da Rocchi. I rari episodi di “collaborazione” vengono ampiamente propagandati ed additati ad esempio <63.
Una parte dei renitenti compie una scelta di campo precisa, andando ad alimentare l’azione partigiana. L’organizzazione di bande armate contro i nazifascisti non è sempre tempestiva, anzi, nella maggior parte dei casi, le forme organizzative sono - come ha scritto Covino - «scarsamente formalizzate, frutto più di scelte sanzionate a posteriori che della realtà concreta maturata nel corso dell’attività combattente» <64.
La Resistenza umbra, soprattutto quando assume la forma della guerriglia, risente del significativo contributo - militare, tattico e logistico - degli ex prigionieri, soprattutto slavi, evasi dai diversi luoghi di reclusione <65. Inizialmente si tratta solo di poche centinaia di uomini che si organizzano faticosamente nascondendosi nelle zone montuose della regione. Le prime azioni sono costituite da sabotaggi alle linee telefoniche o telegrafiche, aggressioni a militi - preferibilmente fascisti <66 perché male armati e facilmente riconoscibili - o carabinieri isolati, e furti (soprattutto di generi alimentari di prima necessità) <67. Il peso militare dell’antifascismo, causa anche la brevità dell’occupazione tedesca, non è particolarmente rilevante: spesso produce solo atti a scopo dimostrativo-intimidatorio. In alcuni casi, tuttavia, violenze e razzie degenerano in delitti di cui sono vittime sia esponenti della Gnr che semplici civili <68.
Le iniziative resistenziali s’intensificano nell’inverno del 1943, beneficiando delle abbondanti nevicate. Le tre maggiori formazioni partigiane, la brigata Gramsci, la brigata Garibaldi e la brigata S. Faustino-Proletaria d’urto, svolgono la loro attività lontano dal capoluogo, nelle zone meno accessibili (monte Subasio, monti Martani, Valnerina, entroterra appenninico, area del Lago Trasimeno) <69.
La Gnr, coadiuvata  dalle forze tedesche, ricorre a frequenti rastrellamenti. In non pochi casi, i “ribelli” catturati vengono trucemente «passati per le armi sul posto» <70. Il 25 aprile 1944, con sadica soddisfazione, il capitano dei carabinieri Francesco Fusco riferisce a Rocchi di una vasta azione antipartigiana condotta dalle truppe tedesche nella zona di Norcia.
«L’iniziativa militare», scrive, «è valsa a disorganizzare le bande partigiane che numerose si aggiravano nella zona montana. Detta azione per la sua violenza e per la distruzione di interi villaggi ha molto influito sullo spirito delle popolazioni tanto da indurre numerose famiglie a far presentare alle armi i propri congiunti in conformità al manifesto di chiamata» <71.
[NOTE]
55 La figura del cugino, Alessandro Oddi Baglioni, era per Baduel la più importante. Campione di sci e di tennis, promotore a soli 13 anni del primo nucleo di balilla perugini, il giovane fascista si era arruolato allo scoppio della guerra come volontario. Caduto in Africa (2 novembre 1942) per errore del fuoco “amico”, Alessandro Baglioni era diventato un’icona del martirio fascista per la patria.
56 U. Baduel, L’elmetto inglese, op. cit., pp. 228-229.
57 La proposta è contenuta in La Riscossa n. 17 del 27 novembre 1943. Alcuni giorni prima il federale Narducci aveva anche annunciato la sistemazione della sfregiata lapide commemorativa della marcia su Roma. Sui ricoveri antiaerei di Perugia si veda R. Sottani, Vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, in R. Rossi (a cura di), Perugia. Storia illustrata delle città dell’Umbria, op. cit., p. 838.
58 ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91. Relazione prefettizia del 5 aprile 1944.
59 Cfr., ad esempio, Questi giovani di Corso Vannucci, in La Riscossa n. 20, 4 dicembre 1943; Giovani in poltrona, in La Riscossa, n. 21, 6 dicembre 1943.
60 Cfr. B. Pilati, La renitenza alla chiamata dell’esercito di Salò in provincia di Perugia, in L. Brunelli e G. Canali (a cura di), L’Umbria dalla guerra alla resistenza, op. cit., pp. 95-103.
61 Così gli esponenti del Pfr vengono definiti in un interessante manifesto comunista rinvenuto a Spoleto nel marzo 1944. Il messaggio è rivolto «ai giovani»: «Il vostro periodo della gioventù nel ventennio del fascismo fu fra i più infausti che la storia ricordi nel prepararvi l’avvenire. Il fascismo fra canti e parate militari vi tenne lontani dalla realtà della vita e della preparazione del vostro domani. Vi allevò nel clima militare senza che nessuno potesse farvi conoscere il baratro dove il fascismo portava la nazione impegnandovi a vostra insaputa ad essere protagonisti della distruzione dell’Italia (…). La conseguenza della politica del fascismo portò la nazione nella guerra che dal 1939 imperversa sul mondo. (…) La nazione attende l’opera dei giovani per risorgere. Un gruppo di uomini fantocci dei tedeschi, veri padroni dell’Italia, vogliono riportarvi alla guerra. (…) Nessuno si arruoli né con i fascisti repubblicani né con i tedeschi (…). Ma ciò non basta. Questa vostra resistenza passiva è buona. Ma occorre che si entri ora nella fase attiva. Occorre scacciare al più presto i tedeschi dall’Italia (…) occorre scacciare il fascismo repubblicano loro servo, che li aiuta nell’opera di distruzione e schiavitù del nostro popolo. (…) I partigiani della montagna vi aspettano. Raggiungeteli. Il vostro posto di combattimento è da quella parte. Arruolatevi. I comunisti» (ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91, dalla relazione del 25 marzo 1944 del comandante della Gnr Emilio Ortolani).
62 U. Baduel, L’elmetto inglese, op. cit., p. 179.
63 Su La Riscossa n. 94 del 29 maggio 1944 compare, ad esempio, un articolo (Un parroco in gamba. Fa catturare due prigionieri inglesi ed ottiene il rientro dalla Germania di due suoi parrocchiani) che esalta la riconsegna di evasi inglesi da parte di un «italianissimo» sacerdote di Colombella. Da rilevare che nello stesso numero del periodico del Pfr compare un ampio servizio su 'I delitti del comunismo'. La documentazione delle “foibe” istriane.
64 Cfr. la premessa di R. Covino a L. Brunelli e G. Canali (a cura di), L’Umbria dalla guerra alla resistenza, op. cit., p. XII.
65 Il 31 gennaio 1944, il questore di Perugia, Scaminaci, si scaglia contro «l’imbelle governo badogliano», reo di aver svuotato le carceri dopo l’8 settembre. «Dopo l’armistizio - scrive - tutti i prigionieri di guerra ed internati comunisti di altre nazioni (in prevalenza sloveni, croati e montenegrini) rimasero liberi per abbandono dei presidi militari posti a guardia»: da questi elementi - sostiene il questore - è partita l’iniziativa di formare bande armate. Si tratta di individui che «hanno molta pratica della guerriglia partigiana» e cercano di «far comprendere alle popolazioni dei piccoli centri rurali, dove si annidano, che nulla hanno da temere dalla loro azione e che essi anzi li
proteggono contro le angherie della milizia fascista, della polizia e dei militari germanici. Con tale sistema si formano alle spalle una muraglia di protezione che rende difficile il controllo delle loro mosse, e l’accertamento preciso dell’entità, armamento e capacità bellica di tali bande» (ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91).
66 Don Luigi Moriconi ricorda, ad esempio, l’aggressione subita dal segretario del Fascio di Fratticiola - un «pessimo soggetto» pluripregiudicato - ad opera di alcuni partigiani: nei primi mesi del 1944 viene colpito in casa dell’amante riportando gravi ferite (cfr. R. Bistoni, Una Chiesa presente, op. cit., pp. 92-93).
67 Nelle relazioni repubblicane il riferimento ai «delitti» dei “ribelli” è continuo. Il 25 marzo 1944, ad esempio, l’ispettore regionale della Gnr, Roberto Gloria, scrive: «Le segnalazioni dei delitti sono ormai continue e numerose. Le estorsioni, rapine, furti, sequestri di persone, violenze private sono l’opera nefasta di questi banditi, composta di esosi politici, evasi dalle carceri, ex prigionieri di guerra di varie nazionalità, giovani datisi alla macchia i quali vivono tutti di brigantaggio. I distaccamenti della Guardia vengono molto frequentemente attaccati con risultati a volte dolorosi per noi. Campello sul Clitunno, Gualdo Tadino, Costacciaro sono i distaccamenti recentemente attaccati». Quindi conclude: «Si spera tanto dalla popolazione delle zone in una rapida ripresa delle nostre azioni di rastrellamento». Ancora il 5 maggio 1944, nella relazione al comando tedesco, Rocchi scrive: «le bande di ribelli più che attuare un piano di azione a carattere politico-militare, si sono date al brigantaggio, compiendo estorsioni, rapine, furti e violenze di ogni genere a danno della inerme popolazione… gli abitanti, per la maggior parte rurali, non sono in condizioni di poter reagire e spesso sono costretti a concedere ospitalità e aiuti ai partigiani, per non subire le loro rappresaglie. Ad evitare errori di valutazione nelle colpe sarebbe opportuno che i comandi dei reparti germanici operanti prendessero contatto con le Autorità locali prima di dare inizio alle azioni di rastrellamento» (ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91).
68 Si vedano, in proposito, i dettagliati episodi narrati nella relazione del 10 maggio 1944 redatta dal capitano dei carabinieri Francesco Fusco. In frazione Pigge di Trevi, ad esempio, una donna viene «freddata con tre colpi di rivoltella» dopo aver riconosciuto due “ribelli” intenti a rapinare il marito (ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91)
69 Sulla Resistenza in Umbria è disponibile un’articolata bibliografia, spesso basata sulle memorie partigiane. Si rinvia, in particolare, ai saggi (di A. Mencarelli, G. Pellegrini e P. Bottaccioli) e alle testimonianze contenuti in A. Monticone (a cura di), Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), op. cit., pp. 343-405, 445-469; al saggio di E. Santarelli e alle comunicazioni (di C. Ghini, R. Cruccu, F. Frascarelli, G. Verni, G. Pellegrini, F. Bracco e G. Della Croce) contenute in G. Nenci (a cura di), Politica e società in Italia dal fascismo alla Resistenza, op. cit., pp. 319-334, 337-469. Si segnalano, inoltre, alcune delle pubblicazioni promosse dall’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea (Isuc): E. Mirri e L. Conti (a cura di), Filosofi nel dissenso. Il “Reale Istituto di Studi Filosofici” a Perugia dal 1941 al 1943, Editoriale Umbra, Foligno, 1986; F. Barroccini (a cura di), Candida (Candiola) Cavalletti, Lettere a un marito in guerra. Dalle campagne di Marsciano 1943-44, Editoriale Umbra, Foligno, 1989; G. Gubitosi, Il diario di Alfredo Filipponi, comandante partigiano, Editoriale Umbra, Foligno, 1991; R. Covino (a cura di), B. Zenoni, La memoria come arma. Scritti sul periodo clandestino e sulla Resistenza, Editoriale Umbra, Foligno, 1996; R. Covino (a cura di), L’Umbria verso la ricostruzione, atti del convegno “Dal conflitto alla libertà” (Perugia, 28-29 marzo 1996), Editoriale Umbra, Foligno, 1999; O. Lucchi, Dall’internamento alla libertà. Il campo di concentramento di Colfiorito, Editoriale Umbra, Foligno, 2004; Dragutin-Drago V. Ivanovic, Memorie di un internato montenegrino. Colfiorito 1943, Editoriale Umbra, Foligno, 2004; L. Brunelli, Quando saltarono i ponti. Bevagna 1943-44, Editoriale Umbra, Foligno, 2004; T. Rossi, Il difficile cammino verso la democrazia. Perugia 1944-48, Editoriale Umbra, Foligno, 2005. Sulle bande partigiane, specificamente, si rinvia ai saggi (di S. Gambuli, A. Bitti e G. Guerrini, G. Granocchia e C. Spogli, M. Hanke, G. Pesca e G. Ruggiero) contenuti in L. Brunelli e G. Canali (a cura di), L’Umbria dalla guerra alla resistenza, op. cit., pp. 263-337.
70 Si veda, ad esempio, quanto riferisce il comandante dei carabinieri Ercole D’Ercole nella relazione del 10 aprile 1944.
71 ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91. Rappresaglie analoghe vengono condotte anche nel ternano: cfr. V. Pirro, La Repubblica sociale, in M. Giorgini (a cura di), Terni. Storia illustrata delle città dell’Umbria, op. cit., pp. 706-707.
Leonardo Varasano, "La prima regione fascista d'Italia". L'Umbria e il fascismo (1919-1944), Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2007

giovedì 24 novembre 2022

A conti fatti, niente come la collaborazione con «Il Contemporaneo» imprime una svolta così decisiva all'esistenza di Luciano Bianciardi


Dieci opere tra romanzi e saggi, una trentina di racconti e un migliaio di scritti giornalistici, oltre a pagine di diari giovanili e corrispondenza varia. Questo è quanto resta di Luciano Bianciardi e della sua visione del mondo, «un  mondo che va dal Dopoguerra al Boom, dalla provincia dei minatori al vetrocemento dei grattacieli, dalla luce della sua radiosa impazienza alla debolezza delle rinunce, al buio della solitudine finale» <1.
La carriera di Bianciardi, durata circa un ventennio, abbraccia un periodo cruciale per la formazione della nuova Italia uscita dalla Seconda Guerra Mondiale. Leggere Bianciardi vuol dire confrontarsi con il mutamento della società, avvenuto negli anni Cinquanta e Sessanta, gli stessi anni in cui il capitalismo passava da un modello produttivo agricolo-industriale ad uno industriale-finanziario. Anni nei quali cambiano definitivamente i modi di  vita,  i  rapporti   umani e la condizione dell’intellettuale. Nasce  la letteratura “industriale”, che assume come tematica privilegiata l’ambiente della fabbrica con i suoi sistemi di lavoro, ad esempio la razionalizzazione del cottimo, la misurazione  “scientifica” dei tempi di produzione e l’introduzione di metodi psicologici di valutazione e controllo del personale, con annesse le ripercussioni sulla vita quotidiana dei lavoratori. L’operaio si trova di fronte un lavoro coercitivo,  solo meglio retribuito di quello del contadino, ma ugualmente subalterno; inoltre deve affrontare la crisi delle lotte sindacali e la distruzione della coscienza di classe. Infatti il maggiore benessere raggiunto si accompagna subito a nuovi modelli  piccolo-borghesi, che cancellano le speranze nell’Unione Sovietica (travolte peraltro dai fatti di Ungheria) generando sfiducia nella politica e abbandono della militanza, cui si contrappongono fuochi di rabbia accesi da nostalgie resistenziali e dall’insofferenza per un sistema produttivo sempre più spersonalizzante.
L’intellettuale vive uno sradicamento continuo: fa parte di un meccanismo che non lo rappresenta, è lontano dal luogo di origine e non può familiarizzare con l’operaio, al  quale è accomunato dalla situazione reale.  
Bianciardi è esattamente in questa condizione come dice lui stesso in una lettera all’amico Galardino Rabiti: «Sempre esilio è questo mio a Milano. Chissà se riuscirò a trovare la strada di Itaca, un giorno? Con Grosseto ho un debito enorme, e prima o poi dovrei pagarlo, non ti pare? [...] Le formiche milanesi continuano a scarpinare, mosse da una furia calvinista per il lavoro e per la grana, e io non riesco proprio a capirle, mi sento infedele e terrone, anche se lavoro più di tutti» <2.
Bianciardi si trova in mezzo a due figure, l’operaio e l’intellettuale, vivendone i drammi più dolorosi: non sente l’adesione morale e psicologica al suo lavoro (come fa l’intellettuale impegnato) e allo stesso tempo non ha la  possibilità di esserne veramente alienato, come l’operaio. Trovandosi di fronte a questa situazione insanabile una volta giunto nella grande città, decide di spostare lo sguardo sul consumatore, nuova categoria di cittadini, operai ma   non solo, non necessariamente. Un nuovo macroinsieme che democraticamente distrugge e rimescola le classi sulla base dei bisogni.
Bianciardi scaglia i suoi strali contro la nuova società, quella società che oggi  definiamo liquida, resa dalla comunicazione pubblicitaria dei consumi, contro la nuova industria culturale e tutte le altre industrie che lavorano  l’acciaio e l’anima.
Nel 1952 su Belfagor aveva scritto: «Ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra, quelli che lavorano nell’acqua  gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto  terra, consumano giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio». <3
Due anni dopo, con l’arrivo a Milano, entra in contatto con un altro tipo di lavoro salariato, quello dell’industria, meno legato alla terra ma non meno duro e spersonalizzante. Per di più la vita in città non ha più quella socialità che la provincia ancora mantiene e della quale lo scrittore sente la mancanza; una mancanza acuita dalla sensazione di tradimento, con tanto di fuga all’alba senza una spiegazione, da lui stesso commesso. In veste di intellettuale,  Bianciardi è spiazzato dalla nuova realtà che si trova ad affrontare: credeva di trovare un terreno fertile per nuove idee, invece deve affrontare la realtà della produzione quale unico ideale. Come traduttore viene pagato un tanto a cartella, lavoro che deve fare per poter pagare i conti della modernità. Solo la domenica può essere dedicata alla stesura dei suoi libri. Di fronte a tutto questo Bianciardi reagisce, non si ritira, da intellettuale, nei salotti a  parlare di cultura ma resta nel suo di salotto a guardare la televisione, a studiare la pubblicità, a cogliere insomma tutti quegli aspetti del degrado moderno che stanno trasformando gli individui in consumatori, in spettatori della vita. Osserva e mette alla berlina anche gli operatori di quella immensa truffa che si rivela essere la “Grande impresa” per la quale era giunto a Milano; mostra per la prima volta ciò che si cela dietro alla produzione (termine non  casuale) di un libro, che non ha niente a che vedere con la cultura.
[NOTE]
1 Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, Milano, I tascabili BCDe, 2008, cit. p.VII.
2 M. C. Angelini, Luciano Bianciardi, Firenze, La Nuova Italia, 1980, cit. p. 10.
3 Nascita di uomini democratici, in «Belfagor», Firenze,VII, 4, 31 luglio 1952; ora in L’antimeridiano, Opere complete, Volume secondo, Milano, Isbn, 2008, cit. p. 37.
Gianluca Ciucci, Luciano Bianciardi: lo sguardo, la malinconia, l'insofferenza, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Perugia, Anno Accademico 2007/2008

Tra il 1953 e il 1954 una serie di circostanze della vita di Luciano Bianciardi, in origine del tutto slegate tra loro, convergono e ne segnano il destino, tanto personale quanto artistico e lavorativo.
Il suo matrimonio con Adria Belardi si rivela presto un fallimento, e ciò contribuisce a rendergli soffocante l'aria della provincia; l'incontro con Maria Jatosti nel 1953, a margine della riunione annuale della Federazione dei circoli del cinema, pare dar luogo solo a una passione estemporanea, e i due non si sentiranno di nuovo finché l'esplosione nella miniera della Montecatini la farà tornare in mente, senza apparente motivo, a Bianciardi. La Jatosti rappresenta a quel punto la via di fuga ideale da quella quotidianità che gli è insopportabile, segnata da una famiglia che non vuole più e dal sangue di Ribolla; è per vedere lei che nella primavera del 1954 viaggia spesso verso Roma dove la donna, organica al Pci, lavora prima nella segreteria dei Circoli del cinema e poi nell'ufficio stampa della CGIL, ed è tramite lei e il suo ambiente di riferimento che spunta l'occasione di scrivere su «Il Contemporaneo» fin dal primo numero della rivista. Sono quindi due dei tre direttori del settimanale, Carlo Salinari e Antonello Trombadori, a segnalarlo al partito, al quale si è rivolto il giovane Giangiacomo Feltrinelli che, a Milano, vuole aprire una casa editrice dandole una più che marcata identità politica che ne rifletta il proprio orientamento. Un colloquio a Roma, e poi la chiamata nel capoluogo lombardo, destinazione via Fatebenefratelli, sede della «grande iniziativa» del ricchissimo milanese. Parrebbe, piovuta dal cielo, la soluzione a tutti i mali: un'occasione "ufficiale" e irrinunciabile per lasciare a Grosseto moglie e due figli e per vivere con meno ansie la relazione con la Jatosti; in aggiunta, sembrerebbe una nuova possibilità di combattere il nemico, la Montecatini, lì dove ha il suo vero centro, dopo che il lavoro da intellettuale, sul campo, non è servito a evitare il disastro in Toscana.
A conti fatti, niente come la collaborazione con «Il Contemporaneo» imprime una svolta così decisiva all'esistenza di Luciano Bianciardi: a uno sguardo distratto sono solo undici articoli, ma si rivelano per lui invece un secondo inizio e, al contempo, l'inizio della fine.
È proprio su questa testata che viene pubblicato "Lettera da Milano", il 5 febbraio del 1955 <51. È uno dei bilanci che Bianciardi affronta periodicamente, uno di quei bilanci cui di volta in volta (almeno nelle intenzioni) dà l'impressione di aggrapparsi per mettere un punto fermo, chiudere un vecchio capitolo di vita e aprire il seguente: è successo con l'esperienza della guerra ("Ancora un bilancio", che inaugura i Diari di guerra), poi con l'adesione al Partito d'azione ("Bilancio provvisorio", apparso il 22 novembre del 1952 su «La Gazzetta»), succede ora con l'arrivo a Milano. E succederà ancora, ai tempi delle critica televisiva, e poi molto più avanti, nel 1970, con un pezzo dedicato ai figli, leggero in superficie quanto profondamente doloroso a rileggerlo oggi che se ne conoscono i retroscena.
"Lettera da Milano" comincia così:
"Carissimi,
dovevo proprio raccontarvi una volta o l'altra, quel che ho visto e quel che ho capito, in questi primi sei mesi milanesi, soprattutto sentivo e sento il bisogno di esporvi, di questo bilancio, la parte negativa, la più grossa, di dirvi insomma quel che non ho capito, o addirittura non visto". <52
Appena metà anno, e il saldo è già infelice: «In questi sei mesi la parola problema è quella che più di tutte ho sentita dire. Mi è capitato, dopo ore di discussione collettiva, di sentire un collega intervenire osservando: "Io penso che il problema sia un altro". Esiste insomma persino il problema del problema. Cioè esiste, soprattutto, una notevole confusione.»
Nel passo che segue, c'è già in nuce La vita agra: lo stare naturaliter dalla parte dei badilanti e dei minatori contro i latifondisti, e la scelta di trasferirsi al Nord pensando che «la lotta», lassù, si possa «condurre con mezzi migliori, più affinati, e a contatto diretto con il nemico.»
"Mi pareva anzi che quassù il nemico dovesse presentarsi più scoperto e visibile. A Niccioleta la Montecatini non ha altra faccia se non quella delle guardie giurate, povera vera gente che cerca di campare, o quella del direttore, un ragazzo della mia età, che potrebbe aver fatto con me il liceo, o giocato a pallone. A Milano invece la Montecatini è una realtà tangibile, ovvia, cioè si incontra per strada, la Montecatini è quei due palazzoni di marmo, vetro e alluminio, dieci, dodici piani, all'angolo fra via Turati e via della Moscova. A Milano la Montecatini ha il cervello, quindi dobbiamo anche noi spostare il nostro cervello quassù, e cercare di migliorarlo, di farlo funzionare nella maniera e nella direzione giusta. Così ragionavo, e per questo mi decisi".
Non c'è traccia di operai, nella grande città: solo di quei ragionieri che ne fanno «il tono umano», con la borsa di pelle sotto il braccio e il bicchiere di grappa alle 9 del mattino. «[…] nessuno di loro, fra l'altro, è milanese»: tutti lì dalla provincia più o meno lontana alla ricerca di «grana», o «pan» che dir si voglia. Non ci sono neanche i preti, continua Bianciardi, ma soprattutto non ci sono "gli intellettuali. Li ho visti, s'intende, e li vedo ogni mattina, come singoli, ma mai come gruppo. Non riescono a formarlo, e ad influire come tale sulla vita cittadina. L'unico gruppo in qualche modo compatto è quello che forma la desolata «scapigliatura» di via Brera. Gli altri fanno i funzionari d'industria, chiaramente. Basta vedere come funziona una casa editrice: c'è una redazione di funzionari, che organizza: alla produzione lavorano gli altri, quelli di via Brera, che leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta, come braccianti per le «faccende» stagionali. Vi ho detto che persino quel che mi pareva chiaro, la posizione del nemico nei palazzoni di dieci piani, fra via Turati e via della Moscova, a Milano non mi è parso più tanto chiaro. Perché qui le acque si mischiano e si confondono. L'intellettuale diventa un pezzo dell'apparato burocratico commerciale, diventa un ragioniere".
È per evitare di trasformarsi anche lui in un intellettuale ragioniere che tre anni dopo Bianciardi si fa licenziare dalla Feltrinelli (per scarso rendimento) e diventa un traduttore free-lance. Ancora non può saperlo, ma nelle ultime due righe della precedente citazione c'è già scritto il suo futuro: pagine e pagine in inglese di narrativa, manuali e testi scientifici da tradurre in italiano, lo stesso numero ogni giorno per far tornare i conti e poter pagare bollette, sigarette e alcol. Un ragioniere a tutti gli effetti, lo si potrebbe definire. Nel 1962, da ultimo, con la pubblicazione da parte di Rizzoli del suo romanzo più venduto e famoso, l'anarchico arrabbiato si mischia e si confonde definitivamente nelle acque dell'industria, il nemico che in origine avrebbe dovuto contrastare. In quel febbraio del 1955 però gli ideali non risultano ancora del tutto sconfitti: compito degli intellettuali, sostiene Bianciardi in chiusura, è tentare la composizione tra chi ha il capitale, e comanda, e la piccola borghesia e la classe operaia, ovvero le parti che i comandi li prendono. Altrimenti, «se le cose continuano così, là dalle mie parti i badilanti continueranno a vivere di pane e cipolla, i minatori a morire di silicosi o di grisou»:
"Io vorrei proprio che voi, amici romani, mi spiegaste, più semplicemente che potete, come si deve fare. Vorrei che me lo spiegassero gli amici milanesi, soprattutto. E che non mi rispondessero, per carità, cominciando a dire che il «problema è un altro». No, il problema è proprio questo. Ogni volta che torno a Niccioleta mi convinco che è proprio così".
[NOTE]
51 L'articolo era già uscito, con delle varianti, su «La Frusta».
52 Questa e le quattro citazioni che seguono sono tratte da: Luciano Bianciardi, L'antimeridiano. Opere complete. Volume secondo, pp. 700-705.
Alessandro Salvatore Marongiu, La produzione giornalistica di Luciano Bianciardi e di Anthony Burgess: motivi, occasioni, stile, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Sassari, Anno accademico 2009/2010