sabato 30 aprile 2022

La Cava invia a Calvino i suoi testi, perché sa di trovare in quest’ultimo, prima che un consulente editoriale, un estimatore della sua arte


Come si è detto, La Cava intesse in questi anni una fitta rete di rapporti con diverse case editrici nel tentativo di trovare un canale di pubblicazione ai suoi romanzi. È lecito ipotizzare, però, che Italo Calvino, in qualità di editor dell’Einaudi, sia stato il suo referente principale anche per quanto riguarda la produzione romanzesca. Come ci ricorda Ernesto Ferrero, lo scrittore di Bovalino fa parte (con Amoruso, Seminara, De Jaco, Montella, Sciascia, Bonaviri e altri) di quella «nutrita rappresentanza» di autori meridionali che Calvino «accudisce con cure addirittura affettuose, che hanno del parentale» <463. A partire dai primi anni Cinquanta e fino al 1982, La Cava invia a Calvino i suoi testi, perché sa di trovare in quest’ultimo, prima che un consulente editoriale, un estimatore della sua arte. L’autore delle Fiabe italiane legge i suoi dattiloscritti e comunica a La Cava le decisioni della casa editrice in merito ai suoi libri. Non è possibile, però, ricostruire interamente il dialogo epistolare intercorso tra i due. A oggi sono soltanto tre le lettere di Calvino indirizzate a La Cava a nostra disposizione, di cui due risalgono ai tempi della pubblicazione delle Memorie del vecchio maresciallo, e un’altra riguarda una raccolta di caratteri e di favole che lo scrittore calabrese vorrebbe proporre per una ristampa. Altre lettere inedite sono conservate nel fondo privato di La Cava, ma alcune informazioni sui giudizi di Calvino alle opere che lo scrittore andava proponendo alla casa editrice torinese si ricavano per via indiretta dal carteggio intercorso fra La Cava e Sciascia. Alcuni esempi: dalla lettera <464 di La Cava, datata 3 agosto 1955, si apprende che Calvino ha restituito il Diario di Marianna Procopio (madre dello scrittore) perché inadatto alla pubblicazione, pur giudicandolo con «grandi parole di lode», e consigliando come destinazione più appropriata la rivista «Nuovi Argomenti». Allo stesso modo, andranno incontro a un giudizio editoriale negativo, qualche anno dopo, il romanzo inedito L’amica, la cui stesura definitiva risale al 1977, il romanzo La ragazza del vicolo scuro e la raccolta di racconti campestri dal titolo La lucertola della fortuna. A proposito di questo ennesimo rifiuto La Cava scrive: «[...] il primo volume dei racconti brevi [...] è stato rifiutato recentemente da Calvino con belle parole. Le credo sincere. Fece delle critiche alla Ragazza del vicolo oscuro, che ho subito accettate» <465. Nel caso di questo romanzo, quindi, e verosimilmente anche per tutti gli altri che Calvino ebbe in lettura, è ipotizzabile che i suggerimenti e i giudizi esplicitati dall’autore di Ti con zero abbiano condizionato La Cava nelle successive riscritture dei suoi testi. Dalle pur scarne informazioni sulla loro comunicazione epistolare desumibili indirettamente, si percepisce qualcosa della cordialità che, nonostante tutto, ha contraddistinto il dialogo dello scrittore calabrese con Calvino, il quale, in qualità di consulente editoriale, è costretto, nella maggior parte dei casi, a rifiutare i testi di La Cava, cui però andava sempre il suo apprezzamento di lettore.
Usciranno invece presso Einaudi, per interessamento dello stesso Calvino e di Giulio Bollati, sia I fatti di Casignana del 1974, sia il romanzo Una storia d’amore dell’anno precedente. Ma anche quando la pubblicazione di un testo diventa finalmente possibile, nuove complicazioni assillano lo scrittore di Bovalino. Non solo l’uscita di ogni libro è continuamente rinviata, ma la casa editrice trascura la sua promozione attraverso un adeguato supporto pubblicitario, e anche la distribuzione dei testi alle librerie e ai critici procede a rilento, mentre lo scrittore, costretto da uno stato di salute sempre più precario e dalle difficoltà economiche a rinunciare ai viaggi e a interrompere il lavoro creativo, ignora il destino dei suoi libri, e si definisce, in una missiva in cui esorta Sciascia a fornirgli informazioni anche negative al riguardo «corazzato contro ogni dispiacere» <466.
A ciò si aggiunge un crescente disinteresse da parte della critica. In un’altra missiva a Sciascia datata 20 settembre 1973, La Cava esprime insoddisfazione per la ricezione critica di Una storia d’amore:
"Non so il successo di vendita che abbia avuto Una storia d’amore. Ho avuto alcune critiche soddisfacenti. Ma non mi pare che sia stata difesa esplicitamente la mia poetica, secondo la quale è possibile scrivere romanzi con personaggi e intreccio di tipo tradizionale. Ora appunto di questo si tratta, se si vuole rendere giustizia alla mia arte". <467
Egli riconosce, insomma, con grande rammarico, che le recensioni, benché positive, facciano riferimento solo alla sua ultima prova narrativa, senza risolversi in un riconoscimento complessivo della sua poetica. È proprio questa la situazione che puntualmente si verifica anche per tutti gli altri romanzi e per i racconti di La Cava pubblicati in questo giro d’anni: l’apprezzamento per le qualità estetiche e per l’impegno etico professato in ogni nuova prova narrativa da parte di La Cava non può non accompagnarsi, nel giudizio dei suoi critici, alla constatazione del fatto che la sua arte sia, per stile e per contenuto, troppo lontana dagli orientamenti letterari più aggiornati, e al sospetto che l’aderenza ostinata ad alcune tematiche tipiche del proprio repertorio fosse dovuta all’incapacità di confrontarsi con temi e motivi culturali più attuali. Crediamo che le riflessioni di Calvino contenute nell’ultima delle sue lettere (15 marzo 1982) a La Cava a nostra disposizione, pur nella loro assoluta concisione, riescano a spiegare meglio di qualsiasi discorso ermeneutico questo dato di fatto:
"Caro La Cava,
ho letto Favole e caratteri e ho ancora una volta apprezzato la tua finezza nelle notazioni psicologiche più lievi, il tuo garbo, la tua fedeltà a una civiltà letteraria fatta di classicità e misura.
Ma come far sentire una voce discreta come la tua in mezzo ai fragori assordanti dell’epoca in cui viviamo? Ho paura che questo libro non rientri in nessuna delle categorie che oggi gli editori (e i lettori) s’aspettano. [...]" <468
[NOTE]
463 E. Ferrero, Edizioni Calvino, in Calvino & l’editoria cit., p. 186.
464 M. La Cava, L. Sciascia, Lettere dal centro del mondo cit., p. 230.
465 Ivi, p. 418.
466 Ibidem, p. 469. La lettera è del 23 ottobre 1973.
467 Ibidem, p. 467.
468 I. Calvino, Lettere cit., pp. 1474-1475. Come si è detto in precedenza, con questa lettera Calvino comunica a La Cava l’impossibilità di ristampare una raccolta di prose brevi.
Eleonora Sposato, Oltre le cose, la sostanza che non muta. Mario La Cava. La figura e l'opera, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Calabria, 2013

mercoledì 27 aprile 2022

Già nel maggio del 1938 molti ebrei di nazionalità tedesca, austriaca e polacca furono fermati e posti sotto sorveglianza per alcuni giorni


Dopo la fase di transizione dalla persecuzione della parità religiosa dell’ebraismo alla persecuzione dei diritti degli ebrei, le cui avvisaglie sono individuate da Sarfatti già alla fine del 1935, nell’ambito della nuova politica antisemita del regime che si poneva l’obiettivo di arianizzare la società italiana, eliminando - senza ricorrere alla violenza fisica e differenziandosi in questo dalla politica nazista - ogni elemento ebraico dal suo tessuto, fino alla completa estromissione degli ebrei dal territorio italiano, la legislazione promulgata alla fine del 1938 stabilì, attraverso lo strumento del decreto legge, che la «difesa della razza italiana» doveva passare, tra le altre, per l’espulsione degli ebrei stranieri, intrecciando <486 tra loro una politica di separazione e una politica di espulsione-allontanamento, in una progressiva radicalizzazione, interrotta solo dalla crisi del 25 luglio 1943 <487.
[NOTE]
486 M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, Torino 2009, (1ª edizione, 2005), pp. 78-79. Sulla situazione degli ebrei stranieri in Italia si faccia riferimento a Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, voll. I-II, cit.
487 M. Sarfatti, Contesto e quadro della persecuzione degli ebrei nell’Italia fascista, in Identità e storia degli ebrei, a cura di D. Bidussa, E. Collotti Pischel, R. Scardi, Franco Angeli, Milano 1999, p. 99.
Matteo Soldini, Fiori di campo. Storie di internamento femminile nell’Italia fascista (1940-1943), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2017

Fino alla metà degli anni Trenta la disponibilità italiana a rilasciare permessi di soggiorno agli ebrei, in maggioranza di nazionalità tedesca, si può spiegare anche tenendo conto della conflittualità in politica estera che divideva Roma e Berlino.
Importante era poi il contributo che questa emigrazione, in buona parte ricca e benestante, offriva in termine di trasferimento di denaro e valuta, questione al centro di accordi e contrattazioni tra la Germania e molti paesi, inclusa appunto l’Italia. L’unica restrizione esistente all’immigrazione nei territori italiani riguardava le colonie, dove, considerata la situazione lavorativa locale, non era possibile stabilirsi - restrizione estesa all’Etiopia dopo il 1936.
Chi intendeva entrare e stabilirsi in Italia non era obbligato a presentare un visto: era sufficiente il possesso di un passaporto da mostrare ai controlli di frontiera, sul quale veniva apposto un timbro d’ingresso. Gli apolidi erano l’unica categoria ad avere invece l’obbligo del visto. In mancanza di un documento valido si era respinti.
Fino al 1938 non vi furono distinzioni razziali e anche gli esuli tedeschi venivano trattati come tutti gli altri stranieri appartenenti a una determinata comunità nazionale, fossero ebrei o no.
[...] Per quanto riguarda l’attività lavorativa non era previsto in Italia, al contrario ad esempio della Francia, il rilascio di un permesso di lavoro: lo straniero poteva dedicarsi autonomamente a un lavoro privato, nel settore industriale o commerciale, dichiarandolo però sul permesso di soggiorno e presentando una dichiarazione dei redditi. In tal caso il permesso era rilasciato per "motivi di lavoro". Il lavoro dipendente nel privato era invece soggetto a autorizzazione, mentre più complicata era la possibilità di esercitare una libera professione (come medico o avvocato ad esempio), salvo essersi abilitato in Italia o ottenere permessi grazie a conoscenze personali nelle alte sfere. Alcune restrizioni si fecero strada col tempo, sollecitate anche dalle lamentele e dalle pressioni di gruppi di interesse italiani in vari settori lavorativi: con il diffondersi di numerose attività mediche gestite da ebrei stranieri, nel 1935 venne promulgata una legge che vietava ai medici stranieri le iscrizioni all’albo professionale; l’anno dopo, su richiesta del Reich, a subire una stretta furono i permessi di lavoro concessi alle donne ebree tedesche per poter svolgere attività domestiche e da istitutrici private: provvedimento che penalizzò molte famiglie di esuli e profughi che si sostenevano anche grazie a questa importante fonte di guadagno.
Uno dei principali motivi che spingeva ad emigrare in alcune città italiane era lo studio universitario. Negli anni Venti l’Italia aveva incoraggiato l’iscrizione di studenti stranieri alle università della penisola: dal 1926 chi non era italiano aveva diritto a pagare la metà della tassa di immatricolazione e, per essere ammesso, bastava che presentasse un titolo di studio medio conseguito all’estero. Con gli anni Trenta queste disposizioni che avevano reso più snelle le procedure di iscrizione si irrigidirono, con l’obiettivo di controllare meglio il flusso di studenti stranieri: nel 1933 venne stabilito che l’ingresso all’università dovesse essere autorizzato dalle rappresentanze diplomatiche all’estero o direttamente dal ministero degli Esteri, responsabili anche nel giudicare la validità dei titoli di studio presentati. <8
Osserva Elisa Signori: "Ancor prima che leggi antiebraiche dell’estate 1938 drasticamente mutassero le norme vigenti, l’apertura liberale degli anni Venti risultava in tal modo considerevolmente rivista e acquisito il principio che il Ministero degli Esteri fosse arbitro esclusivo, sulla base del criterio di indesiderabilità politica, nel respingimento delle domande di ammissione degli stranieri … Appare chiaro come la svolta del 1938 che, con l’adozione delle cosiddette leggi per la difesa della razza, mutò drasticamente nel Regno la situazione degli ebrei stranieri, oltre che degli italiani, non fosse stata priva di segnali premonitori, inscrivendosi con novità gravi, certo, in una tendenza già precisa di progressivo svuotamento delle precedenti liberali aperture". <9
A portare il governo verso questa stretta erano stati probabilmente alcuni eventi specifici: la crescita dei flussi di stranieri polacchi dal gennaio 1933, quando violenze e tumulti scatenatesi nelle università di Leopoli, Cracovia e Varsavia avevano convinto molti studenti ebrei della pericolosità di questi atenei; l’arrivo di tantissimi tedeschi profughi dalla Germania nazista, tra cui numerosi studenti che si iscrissero nelle università italiane; o ancora, nel 1934, l’espulsione di 65 studenti ebrei polacchi dall’università di Lubiana, giustificata con il sovraffollamento della facoltà di medicina ma in realtà un’operazione di polizia contro un nucleo di presunti comunisti - il cui arrivo nelle università del Regno andava evitato, secondo le autorità italiane. <10
Malgrado ciò, come osserva Walter Laqueur in uno studio dedicato alla generazione dei ragazzi ebrei nati tra gli anni Venti e Trenta in Germania che frequentavano le scuole alla salita al potere di Hitler e che furono costretti a lasciare il paese per diverse destinazioni (generazione di cui lui stesso faceva parte), in questi stessi anni "a sizeable number of students, about two hundred, went to Italian universities, mainly because it was easier to transfer money from Germany to Italy than to most other countries. This arrangement came to an end in 1938 when Mussolini proclaimed his anti-Jewish legislation". <11
Pur non potendo approfondirla in questa sede per motivi di spazio, occorre almeno citare la complessa questione che ruota attorno al movimento sionista - che individuava nell’Italia uno strategico luogo di passaggio per raggiungere la Palestina -, al fenomeno migratorio ad esso collegato e ai suoi rapporti con il regime di Mussolini. <12 Il governo fascista, per opportunità politiche strettamente legate al contesto internazionale dell’epoca, permise ad esempio che alla fine del 1934 nascesse e operasse per alcuni anni una Sezione ebraica della Scuola marittima di Civitavecchia, nella quale venivano addestrati molti giovani sionisti stranieri destinati a trasferirsi poi in Palestina. <13
La politica del regime riguardo la gestione dell’emigrazione straniera conobbe in ogni modo un’evoluzione decisiva nella seconda metà degli anni Trenta, con il progressivo avvicinamento tra il regime fascista e quello nazista. Un primo e rilevante passaggio fu l’accordo segreto di collaborazione tra la polizia tedesca e italiana dell’aprile del 1936, che prevedeva lo scambio di dettagliate informazioni su chi entrava e usciva dai rispettivi stati e l’estradizione degli oppositori politici. <14
L’ingresso di sempre più profughi provenienti dal Reich cominciò poi ad essere maggiormente ostacolato dal governo italiano nel 1938, quando ebbe luogo la prima grande ondata migratoria dall’Austria appena annessa alla Germania, che convinse le autorità a introdurre divieti di ingresso da questa regione dalla metà di marzo di quell’anno. Il divieto fu tuttavia spesso disatteso sia per problemi pratici, relativi ad esempio all’identificazione delle singole persone, sia per l’iniziale ostilità del Regime all’Anschluss. <15
A garantire una certa tolleranza da parte delle autorità italiane verso questi flussi migratori vi erano inoltre le pressioni provenienti dagli ambienti del turismo e della navigazione, che avevano un rilevante peso nell’economia nazionale. Come osserva Voigt, ad esempio, "alle compagnie di navigazione premeva molto soprattutto il libero transito. Temevano che aumentate difficoltà per l’ingresso nel paese e limitazioni al soggiorno potessero ripercuotersi negativamente sul numero di passeggeri, mentre per gli alberghi e le pensioni gli esuli costituivano comunque una fonte di guadagno". <16
Nonostante la stretta totalitaria del regime, e malgrado l’Italia avesse perso quella centralità tra le mete del turismo culturale scelte dalla ricca élite intellettuale e artistica europea, <17 i flussi turistici stranieri erano cresciuti costantemente durante i primi decenni del Novecento. Alcuni dati rendono bene l’idea della dimensione degli interessi economici che giravano intorno a questo settore: le più attendibili stime mostrano l’aumento dai circa 900 000 turisti stranieri entrati in Italia nel 1911 ai 5 milioni calcolati nel 1937. <18
La visita di Hitler in Italia nel maggio del 1938 fu l’occasione per sperimentare misure antisemite mai applicate prima: molti ebrei di nazionalità tedesca, austriaca e polacca presenti sul territorio italiano, soprattutto quelli residenti nelle città che avrebbe toccato il cancelliere tedesco, in virtù degli accordi di collaborazione tra le due polizie e sulla base di semplici sospetti furono fermati e posti sotto sorveglianza per alcuni giorni. <19
Si era alla vigilia dei provvedimenti razziali di fine estate e d’autunno.
Il Regio decreto legge del 7 settembre 1938 (in vigore dal 12) stabilì il divieto per gli ebrei stranieri di entrare e risiedere in Italia e nei suoi possedimenti coloniali, la revoca della cittadinanza concessa dopo il 1° gennaio 1919, nonché il loro allontanamento dal Regno entro sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento, ovvero il 12 marzo 1939, pena l’espulsione. Il successivo RDL 1728 del 17 novembre, denominato "Provvedimenti per la difesa della razza italiana" esonerò al suo articolo 25 chi aveva compiuto 65 anni al 1° ottobre 1938 e coloro che erano sposati con cittadini italiani.
Per molti stranieri, tuttavia, fu impossibile lasciare l’Italia entro la data prestabilita, a causa della mancata concessione del visto da parte degli uffici consolari e delle ambasciate presenti a Roma o delle difficoltà riscontrate nell’ottenere documenti e autorizzazioni dal paese che li avrebbe potuti ospitare. Agli uffici di pubblica sicurezza giunsero così centinaia di richieste di proroga, talmente tante e ingestibili, che il ministero fu costretto a sospendere l’espulsione, nel febbraio 1939, a chi aveva presentato intanto tale richiesta.
I dati raccolti da Voigt indicano che nell’autunno del 1938 in Italia erano presenti poco più di 11 000 ebrei stranieri: fra questi, più o meno 2 000 erano arrivati prima del 1919. Furono circa in 9 000 a subire dunque il decreto di allontanamento ed espulsione: 2877 tedeschi, 1795 polacchi, 908 greci, 533 turchi, 509 apolidi e 2237 di altra nazionalità (tra i quali più di un migliaio di austriaci). I profughi provenienti dal territorio del Reich costituivano dunque una grossa fetta del totale. Circa 900 persone persero la cittadinanza italiana ottenuta dopo il 1919 ma non furono obbligati a partire, perché avevano ottenuto la residenza in Italia prima di quello stesso anno. Un numero analogo di individui beneficiò delle eccezioni previste dai provvedimenti razziali, perché sopra i 65 anni o perché sposati con cittadini italiani. <20
L’introduzione di una normativa ben più restrittiva rispetto al passato non impedì, nonostante la proclamata chiusura delle frontiere, l’ingresso e la permanenza temporanea in Italia grazie a un visto rilasciato "per ragioni di turismo, diporto e cura ed affari", introdotto già il 27 febbraio 1938 di fronte all’ondata di profughi provenienti dall’Austria, valido inizialmente tre mesi e poi prolungato a sei. Anche in questo frangente si dovette tenere conto degli interessi economici che gravitavano intorno al settore turistico, già messo in crisi dai venti di guerra all’orizzonte. Di fatto, questa soluzione permise a numerosi ebrei di scappare dalle zone sotto controllo del Reich.
Nell’agosto del 1939, dato il flusso massiccio di profughi entrati con visto turistico, il ministero restrinse la concessione solo a quegli ebrei stranieri che transitavano in Italia per imbarcarsi e andare altrove. In questi mesi circa 10-11 000 profughi abbandonarono la penisola, espulsi o mossisi in viaggio da porti e aeroporti italiani, mentre ne entrarono circa 5-6 000, la maggior parte dei quali sempre con visto turistico.
Alla vigilia dell’ingresso in guerra anche dell’Italia, il 18 maggio 1940 venne definitivamente chiusa la frontiera agli ebrei stranieri provenienti dai territori sotto dominio nazista o con passaporto ungherese e rumeno, ai quali era stato fino a quel momento concesso solo il transito sul territorio. Un mese dopo, il 15 giugno 1940, oltre a ribadire questo provvedimento, il governo ordinò, in base a una legge di guerra (l’Italia era entrata ufficialmente nel conflitto cinque giorni prima), che venissero arrestati gli stranieri appartenenti a Stati nemici, nonché gli ebrei originari di Stati che adottavano una politica razziale: quindi tedeschi, cecoslovacchi, polacchi, apolidi, di età compresa tra i 18 e i 60 anni. Donne, anziani e bambini invece andavano tenuti sotto sorveglianza, in attesa di mettere in funzione campi di concentramento e località di internamento dove poter rinchiudere gli individui considerati pericolosi. <21 Facevano eccezione gli ebrei ungheresi e quelli rumeni, da allontanare dall’Italia perché il governo dei rispettivi paesi si era dichiarato disposto a rimpatriarli (stessa sorte sarebbe toccata, poco dopo, anche agli ebrei cecoslovacchi). Nel luglio 1940 fu escluso dal provvedimento di internamento chi era arrivato in Italia prima del 1919 e chi era sposato con un cittadino italiano. Un mese dopo, il ministero dell’Interno segnalava che erano stati allontanati poco più di un migliaio stranieri, per la gran parte ungheresi e rumeni: molti ebrei, invece, venivano respinti alla frontiera in uscita e dovettero rimanere in Italia, motivo per cui diventava per loro inevitabile la misura di internamento. <22
[NOTE]
8 Cfr. Elisa Signori, Una peregrinatio academica in età contemporanea. Gli studenti ebrei stranieri nelle università italiane tra le due guerre, in: Annali di Storia delle università italiane 4 (2000), pp. 139-162.
9 Ibid., pp. 156, 158.
10 Ibid., pp. 155-159.
11 Walter Laqueur, Generation Exodus. The fate of young jewish refugees from Nazi Germany, Hanover
2001, p. 15.
12 Si vedano a tal proposito, oltre al già citato testo di Walter Laqueur, ad esempio: Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1993 (prima edizione del 1961), pp. 159-188; Idith Zertal, From catastrophe to power: holocaust survivors and the emergence of Israel, Berkeley 1998; Hagit Lavsky, The creation of the German-Jewish diaspora. Interwar German-Jewish immigration to Palestine, the USA, and England, Berlin 2017; Sarfatti, Gli ebrei (vedi nota 6), pp. 92-116.
13 Cfr. De Felice, Storia (vedi nota 12), pp. 170-174; Sarfatti, Gli ebrei (vedi nota 6) p. 115.
14 Cfr. Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, Torino 2007 (prima edizione del 1996); Giovanna Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno: dall’Unità alla regionalizzazione, Bologna 2009; Camilla Poesio, Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime, Roma-Bari 2011.
15 Einaudi, Le politiche (vedi nota 6), p. 35.
16 Voigt, Il rifugio (vedi nota 5), vol. 1, p. 28.
17 Annunziata Berrino, Storia del turismo in Italia, Bologna 2011, pp. 170 sg.
18 Einaudi, Le politiche (vedi nota 6), p. 18; per un’analisi dei flussi turistici francesi in Italia, si veda: Christophe Poupault, Concilier dictature totalitaire et tourisme. Le régime fasciste italien face à ses ambitions touristiques, in: Diacronie. Studi di storia contemporanea 4 (2018), URL: http://www.studistorici.com/2018/12/29/poupault_numero-36/; 29. 5. 2019.
19 Si veda la documentazione in ACS, MI, PS, Massime 1880–1954, S1 Stranieri, b. 192-199, fasc. 48 Viaggio di Hitler. Disposizioni simili colpirono molte persone anche in occasione del viaggio di Franco previsto per la fine di settembre 1939 (poi rinviato a causa della guerra): due circolari del ministero, rispettivamente del 21 e del 27 luglio 1939 ordinavano di aggiornare gli schedari delle persone vigilate, da vigilare o da arrestare in vista dell’arrivo del Caudillo perché considerate pericolose, tra queste risultavano anche gli ebrei (stranieri) russi o apolidi. Si vedano i documenti in ibid., b. 200, fasc. 50 Viaggio di Franco.
20 Voigt, Il rifugio (vedi nota 5), vol. 1, pp. 141-147, 288; Christina Köstner/Klaus Voigt (a cura di), "Rinasceva una piccola speranza". L’esilio austriaco in Italia (1938-1945), Udine 2010, pp. 24-28. Edizione originale iid., Österreichisches Exil in Italien. 1938-1945, Wien 2009.
21 Per una sintesi dei provvedimenti di arresto e internamento, oltre ai citati lavori di Klaus Voigt, si vedano soprattutto: Costantino Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), Milano 2001; Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino 2004; cfr. anche Sarfatti, Gli ebrei (vedi nota 6), pp. 190-197 e Anna Pizzuti, Vite di carta. Storie di ebrei stranieri internati dal fascismo, Roma 2010, pp. 75-96. Si vedano inoltre le circolari ministeriali ricevute dalla prefettura e dalla questura di Roma riguardo gli ebrei stranieri presenti in ASR, Prefettura, Gabinetto, b. 1515.
22 I dati presentati in queste pagine sono presi da Voigt, Il rifugio (vedi nota 5), vol. 1, pp. 141-147, 288.
Matteo Stefanori, Le strade che portano a Roma. Ebrei stranieri nella capitale, 1933–1945. Primi risultati di una ricerca in corso, QFIAB 99 (2019)

giovedì 21 aprile 2022

L'esperienza cinegufina prevede la partecipazione e - per i film - la circolazione a diversi livelli


La promozione turistica nel passo ridotto rappresenta un interessante terreno di negoziazione degli sfuggenti e opachi confini spaziali della realtà stracittadina e strapaesana, come scrive giustamente Massimo Locatelli:
"Tra le molte ambiguità della modernizzazione in epoca fascista, una particolare contraddizione caratterizza senz’altro le politiche di comunicazione turistica di un regime costantemente incerto tra gli imperativi della mistica nazionale e dello strapaese e le esigenze degli operatori di un promettente settore di mercato" <79.
Ed è proprio negli anni dell’istituzionalizzazione del passo ridotto e del cinema sperimentale che questo “genere” si afferma: "il primo progetto organico di valorizzazione turistica e culturale del nostro paese attraverso il cinema nasce solo nell’ambito della riorganizzazione del Ministero della Cultura Popolare, alla metà degli anni trenta" <80.
L’ambito turistico ci permette di individuare ulteriori dinamiche della relazione tra cultura dell’urbanizzazione e cultura rurale.
Dunque concludiamo questa lunga sequenza di casi con due film che su questo stesso tema possono fornirci ulteriori elementi chiarificatori.
Si tratta di due film della metà degli anni trenta, all’inizio dell’istituzionalizzazione dei Cineguf: "Una giornata di sole" (1934) <81 del Cine-club di Udine (poi Cineguf) e "Vacanze borghesi a Falconara" (1935) <82 di Gianni Puccini, qui esordiente regista iscritto al Guf di Roma <83, anche se in questo caso specifico non si tratterebbe ufficialmente di una produzione Cineguf.
[...] La tensione onirica (su cui d’altra parte si gioca il meccanismo di promozione turistica) è esplicitamente richiamato soprattutto da Gianni Puccini in "Vacanze borghesi a Falconara". Il film, raccontato da un giovane appartenente alla borghesia agiata come Gianni Puccini, ripercorre le attività ricreative e i rituali di una famiglia borghese di Falconara (una città, la “nuova Falconara”, riorganizzata per il turismo balneare) nell’arco di una settimana. Lo sguardo del giovane regista è ironico e autoironico, e ritrae il gruppo di famiglia nei riti quotidiani di pranzi e merende, picnic in campagna, soggiorni in spiaggia, partite a tennis ecc. Lo spazio campestre in particolare è lo spazio della rigenerazione salutare secondo uno schema che, non solo nella cultura Strapaesana ma nella generale retorica fascista, vedeva “the enduring qualities of peasant culture as a source of national regeneration” <88. Lo spazio rurale è spazio di rigenerazione per la cultura urbana, secondo una logica che l’industria del turismo non farà che potenziare e sistematizzare. Come giustamente nota Deborah Toschi nell’analisi di "La peccatrice" di Amleto Palermi (1941): “la campagna diviene ideale utopico e irraggiungibile, come la purezza ormai perduta e l’innocenza del primo amore” <89. Il sogno s’innesca immediatamente e a questo viene dedicata tutta l’ultima parte del film, dove inquadrature mosse e sfuocate vengono usate come marcatori d’ingresso nelle sequenze oniriche. Dal bambino che sogna il gelato, alla ragazza che sogna il fidanzamento, alla signora che ricorda il matrimonio: i due pilastri della famiglia borghese. Il meccanismo del sogno, come vedremo tra poco, è sintomo precipuo per l’individuo borghese in epoca moderna e risultante della complessa negoziazione degli spazi, naturali e urbani, che la modernità (nei processi di meccanizzazione, industrializzazione, urbanizzazione) ha generato in tutto il mondo occidentale.
[...] Dal periferico al centrale (dei film sulle attività delle sezioni locali del Pnf), così come dal locale, al regionale, al nazionale (film napoletani in territorio extra cittadino, film Patavini in territorio trentino, o ancora film napoletani in territorio alpino, film friulani intrisi di nazionalismo, o zone di confine strenuamente difese e cantate, ma ambiguamente ritratte con gusto esterofilo) assistiamo a quelli che il geografo Kevin R. Cox chiama “jumping scales”: continui salti di scala che si verificano anche tra aree spaziali già meno definite e più densamente connotate in termini simbolici ed identitari come lo spazio urbano e lo spazio rurale (la funzione onirica poi sfruttata in chiave promozionale sintetizza bene questa continua contaminazione).
Stante questo quadro, continua Cox: “boundaries tend to be porous. The territorial reach of state agancies is imperfect. Even in the case of the most totalitarian of states, there are always space of resistance” <90.
Nonostante ci si trovi, nel nostro caso, nel contesto di uno dei momenti di massima tensione istituzionalizzante per la pratica cine-sperimentale e nella più ampia realtà di uno stato totalitario che con forza punta ad una progressiva “centralizzazione e funzionalizzazione” e ad una ideale riorganizzazione del paese secondo “ordine e disciplina” (ci si perdoni la radicale semplificazione), lo spazio e il territorio del cinema sperimentale resta imprendibile, inafferrabile.
Lo stesso Cox mette in evidenza come i meccanismi associativi e di networks siano una delle funzioni più determinanti per questa creazione di “spazi di resistenza”: l’espressione di Cox è carica di conseguenze per le nostre analisi, e ci torneremo con più cautela tra poco, liberandola - ci auguriamo - dai rischi di una lettura eccessivamente ideologica <91.
Siamo di fronte evidentemente a una delle aporie della modernità nella sua declinazione culturale fascista, uno stato quello fascista che “è stato un grande promotore di associazionismo: si può dire che non vi sia momento della vita di un italiano, dalla più tenera età alla morte, e che non vi sia professione o mestiere che non vedano associazioni nelle quali non siano inquadrati figli della lupa, balilla, avanguardisti, universitari, liberi professionisti, esercenti arti o mestieri” <92.
Ma proprio la formazione organizzata di questi networks (dove dobbiamo però ricordare che una vera funzione centralizzata e direttiva non ha mai operato adeguatamente <93) è giustamente riconosciuta come tensione generante questa evanescenza dei confini: come chiarisce Cox, “Networks signify unevenness in the penetration of areal forms” <94.
[...] In generale va ovviamente tenuto conto che l’esperienza cinegufina (come per altro quella gufina nei suoi vari settori) prevede la partecipazione e - per i film - la circolazione a diversi livelli: circuiti regionali (il Circuito Triveneto per il passo ridotto, di cui tra poco ci occuperemo), nazionali (nei Littoriali della Cinematografia così come alle Mostre e concorsi su scala nazionale), e internazionale (le esposizioni e i concorsi europei).
Queste sono evidentemente considerazioni più superficiali rispetto al tentativo di teorizzare uno spazio complesso come quello dell’esperienza cine-sperimentale, ma è inevitabilmente questa logica del network a favorire un allentamento dei confini spaziali, territoriali e identitari nella realtà cinegufina.
Evidenze discorsive che orientano una formazione identitaria legata al territorio e alla storia nazionale ci sono (si pensi al film "Mantova", ma anche "Friuli" o addirittura il riferimento alla storia della Rivoluzione fascista nel film "Ventennale"), ma questi non si risolvono semplicemente e non portano a una coerente soluzione.
Dibattiti sull’italianità e su un cinema nazionale attraversano - sulle pagine dei fogli gufini, come sulle pagine dei periodici specializzati - tutto il decennio degli anni Trenta (esulando a volte anche dal dibattito sulla “Rinascita” del cinema italiano), ma continuano sull’onda della rinnovata e più aggressiva politica autarchica sul cinema dopo il 1941, fino alla caduta del Regime, senza una sostanziale via d’uscita <98.
[NOTE]
79 Massimo Locatelli, Prove di modernità: il film “turistico” negli anni trenta, in Alessandro Faccioli, Schermi di regime, Marsilio, Venezia 2010, p. 179. Si veda anche Id., “Lo sguardo del cineturista: cinematografia amatoriale e pratiche di consumo turistico”, in Luisella Farinotti e Elena Mosconi (a cura di), Il metodo e la passione, cit., p. 553-560.
80 Ibidem.
81 Il film è conservato in copia pellicolare presso la Cineteca del Friuli a Gemona.
82 Se ne conserva una copia in DVD, da originale 16mm., presso l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ancona.
83 Come ci riporta Ruggero Zangrandi, a partire dal 1938 Puccini muoverà sempre più decisamente verso posizione antifasciste e una militanza comunista. Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, cit., p. 260.
88 Lara Pucci, cit., p.181.
89 Deborah Toschi, Il paesaggio rurale, cit., p. 44.
90 Kevin R. Cox, Space of Dependence, Op. cit., p. 3
91 La resistenza di cui parla Cox si verifica in un’analisi della territorialità che il geografo sviluppa in relazione a sistemi di potere politico. Sul concetto di “resistenza” il dibattito nel contesto dello studio della cultura urbana e analisi dello spazio si sviluppa ulteriormente, e più esplicitamente in ambito postmoderno, conservando un’identica carica ideologica e politica: si veda anche Kelly Shannon, From Theory to Resistence: Landscape Urbanism in Europe, in Charles Waldheim (a cura di), The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York 2006, pp. 141-161. In questo contesto teorico - e in ambito più esplicitamente urbanistico - la funzione ideologica di resistenza è letta come: “tools of urbanism […] to resist the relentless ‘flattering out’ of cultures and places”, in Shannon, p. 144. Assume quindi una valenza leggermente diversa da quella che troviamo in Cox, ma è per molti versi analoga: Cox fa riferimento ad una spazio di resistenza alla tensione razionalizzatrice (e razionalista) di un apparato statale-politico financo totalitario. Nel secondo caso, in ambito urbanistico e in tempi postmoderni, s’intende una resistenza - con gli strumenti dell’urbanistica - all’evoluzione del capitalismo e ai suoi effetti nel panorama urbano nella seconda metà del Secolo.
92 Sabino Cassese, Lo stato fascista, Il mulino, Bologna 2010, p. 57.
93 Quasi a fine esperienza, e sull’onda dei dibattiti animati durante la Mostra del passo ridotto di Udine del 1942, Franco Dal Cer su Roma Fascista, del Guf dell’Urbe riconosce che: “I cineguf hanno dimostrato di non meritarsi una tale ampia fiducia? Può darsi. Ma deve essere anche mancato quel volitivo desiderio di coordinamento indispensabile per la risoluzione di problemi che non si esauriscono nell’ambito provinciale”. Franco Dal Cer, “Cineguf a Udine. Il passo ridotto”, in Roma fascista, cit.
94 Kevin R. Cox, Space of Dependence, cit., p. 2.
98 Solo per restare in ambito guffino, a partire dal 1933 su foglio del Guf milanese: Gianfilippo Carcano, “Italianizzare il cinema”, in Libro e Moschetto, 28 ottobre 1933, p.3; Mario Lopes Pegna, “Verso una cinematografia nazionale”, in Libro e Moschetto, 1 dicembre 1934, p. 7; Federico Gualtierotti, “Per un potenziamento della cinematografia nazionale”, in Libro e Moschetto, 29 dicembre 1934, p.6; fino al 1942 sul foglio guffino romano: Riccardo Lizzani, “Assenza del cinema italiano”, in Roma fascista, 19 marzo 1942, p.3 (vi si legge: “indubbiamente un cinema italiano deva ancora nascere”); Carlo Lizzani, “Per un cinema italiano”, in Roma fascista, 9 aprile 1942-XX, p.3. Una questione che fa da sfondo anche ai temi dibattuti durante i Littoriali della Cinematografia, soprattutto in La situazione attuale della cinematografia italiana (nel 1934), I caratteri del film fascista (nel 1935), Il cinema come documento della civiltà di un popolo (nel 1936 dove per il Guf di Bari Nicola Lamacchia presenterà l’intervento vincitore Il cinema italiano come documento della civiltà fascista: Il Guf di Bari ai Littoriali della Cultura e dell'Arte, numero unico a cura dell'Università Benito Mussolini di Bari, Laterza e Figli - Bari 1936), fino a Il cinema e la propaganda del costume (nel 1940).
Andrea Mariani, Nomadi e bellicosi. Il cinema sperimentale italiano dai cine-club al neorealismo, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Udine, Anno accademico 2013/2014 

Dall’altra, nella città si concentra una congerie di temi quali l’anti-comunismo, l’anti-bolscevismo e le spinte anti-borghesi che connotano fortemente il film di una retorica fascista e di una generica repulsione per il disordine materiale e morale. Se il contadino (“l’uomo”), anche nell’estrema povertà, è capace di un gesto di magnanimità, condividendo con un bambino indigente un frutto del suo raccolto - in una delle prime sequenze del film -, il miliziano repubblicano ruba oro in una chiesa. L’impulso anti-borghese, poi, che caratterizza il movimento dei Cinguf fin dall’inizio - lo abbiamo visto nel primo capitolo, ma è per esempio al centro dei film "Vacanze Borghesi a Falconara" (1934) di Gianni Puccini del Guf romano o di "Giornate di sole" (1934) di Renato Spinotti del Guf di Udine - pulsa per l’intera durata del film; questa è plasticamente evidente nella scena dell’irruzione dell’uomo nella stanza del palazzo del padrone, dove sorprende un miliziano, ubriaco, ridanciano in compagnia di una prostituta, sorseggiare vino pregiato su un divano elegante (qui, per la verità, lo sdegno è rivolto più contro lo spregevole trattamento dei beni materiali da parte del miliziano, che al mondo borghese in sé; tuttavia la scena rappresenta una concentrazione notevole di indizi simbolici): il miliziano si alza improvvisamente e, ghignando sguaiatamente, lancia un disco musicale preso dal grammofono in funzione, infrangendolo a terra.
Va tenuto conto del fatto che nei giornali gufini discorsi di anti-comunismo, anti-bolscevismo, e anti-giudaismo cominciarono a convergere in una generica campagna retorica che divenne di fatto il banco di prova per l’imminente intervento nel conflitto globale. Detto altrimenti, nella posizione “anti-” tipica del contributo dottrinale e propagandistico dei Guf, risiedeva un fattore decisivo per l’identificazione nazionale e politica: per principio di esclusione, cioè, la creazione e stigmatizzazione di un nemico necessario (il titolo del film è dunque quanto mai efficace e pertinente), contribuiva a definire l’italiano e il fascista <112.
112 Simone Duranti, Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica e propaganda (1930-1940), Donzelli Editore, Roma 2008, p. 279.
Andrea Mariani, Gli anni del Cineguf. Il cinema sperimentale italiano dai cine-club al neorealismo, Mimesis, 2017

Il volume di Duranti affronta il tema dei Gruppi universitari fascisti occupandosi dei giovani attivisti che ne animarono le iniziative e le pubblicazioni tra il 1930 e il 1940. In modo particolare sono presi in esame la loro autorappresentazione come gruppo e i messaggi propagandistici diffusi con i loro scritti. Fonti della ricerca sono principalmente le riviste dei Guf (anche se non si tratta di uno studio del giornalismo universitario) e le carte della Segreteria Guf presso l'Acs. L'analisi dell'autorappresentazione dei militanti gufini è quella che contiene gli spunti più interessanti, mettendo bene a fuoco il modo in cui i ventenni degli anni '30 che erano attivi nell'organizzazione universitaria, e si candidavano quindi a divenire la nuova classe dirigente del regime, si rapportavano alla precedente generazione fascista della guerra e della marcia su Roma, nell'intento di affermare un'identità autonoma e di costruirsi, proprio con l'impegno nelle strutture del Pnf, canali di promozione sociale. Efficace è anche la ricostruzione del crescente peso dei Guf, soprattutto a partire dal tornante guerra d'Etiopia-guerra di Spagna, sia nel condizionare la vita universitaria, sia nel sostenere la penetrazione ideologica del fascismo nella società. L'esame, infine, dei contenuti propagandistici veicolati dalle riviste dei vari Gruppi universitari fascisti, rivelando quanto fossero per lo più casse di risonanza, nelle versioni più esasperate, di messaggi elaborati altrove, mette ben in risalto il senso di quello «spirito gregario» che caratterizzò, a parere dell'a., l'organizzazione universitaria fascista. Duranti colloca la sua ricerca anche nel quadro di un discorso polemico diretto contro la memorialistica e la storiografia sui Guf (a eccezione del libro di Luca La Rovere), accusate di aver contribuito a creare il mito dell'antifascismo dei giovani del Littorio. Svolto specificamente nell'introduzione e nell'epilogo, il tema attraversa tutto il volume e ne costituisce però l'aspetto più problematico. Nel contestare la precedente produzione sul tema del rapporto tra universitari e fascismo, infatti, Duranti ne riporta un'immagine stereotipata ed eccessivamente semplificata, date le vaste implicazioni del tema e la sua stratificazione nel tempo, non entrando sufficientemente nel merito delle differenti espressioni e valutazioni succedutesi negli anni. La scelta, poi, di un apparato di note leggero, circostanziato nell'indicazione delle fonti primarie, ma ridotto all'essenziale per la discussione storiografica, accentua questo limite. Né l'aver corredato il volume di una bibliografia aiuta, in quanto non si tratta di una bibliografia ragionata, ma solo di un elenco di opere e di saggi in ordine cronologico. Risulta così difficile valutare le reiterate affermazioni dell'a. intorno alla memorialistica e alla storiografia (sovente citate in blocco, senza distinzioni) quali responsabili di una «vulgata tradizionale su una generazione di dissidenti» (p. 34), di cui però non vengono puntualmente analizzate le diverse fasi e declinazioni.
Benedetta Garzarelli, Simone Duranti, Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica e propaganda (1930-1940), prefazione di Enzo Collotti, Roma, Donzelli, XII-403 pp., [...] 2008, Sissco  

martedì 19 aprile 2022

La Resistenza garibaldina savonese viveva ora i suoi momenti migliori

Carcare (SV) - Fonte: Mapio.net

A metà settembre 1944 la 34a Divisione della Wehrmacht, che da un anno occupava la provincia di Savona, fu avviata al fronte delle Alpi Marittime e sostituita da reparti della 148a Divisione tedesca di fanteria, provata dai combattimenti sostenuti per trattenere gli Alleati sul confine franco-italiano. Stato Maggiore e Comando della 148a divisione furono posti a Cairo Montenotte <27. Nello stesso periodo la Seconda Brigata risultava schierata su undici distaccamenti, così disposti: 1) il “Calcagno” operava a raggiera dalla zona di Vezzi Portio verso la costa tra Vado e Finale; 2) l’”Astengo” controllava la zona montana tra Castelnuovo di Ceva e Montezemolo; 3) il “Revetria” si occupava della direttrice Melogno - Calizzano - Garessio; 4) il “Rebagliati” concentrava la sua azione di guerriglia su Rialto, Calice, Melogno e Bardino partendo da Pian dei Corsi; 5) la zona d’operazione del “Giacosa” era compresa tra Osiglia e Cengio, lungo la Bormida di Millesimo; 6) il “Bori” era situato a cavallo tra Tanaro e Bormida, da Murialdo a Massimino; 7) il “Maccari”, vicinissimo al “Calcagno”, agiva di preferenza verso Mallare, Altare e Bormida; 8) il “Minetto” si trovava accanto all’”Astengo”, operando su Roccavignale e Cengio, all’estremità settentrionale dello schieramento garibaldino savonese; 9) il “Moroni” si batteva nel triangolo Bormida - Carcare - Cosseria; 10) il “Bruzzone” colpiva in Val Tanaro tra Nucetto e Priero; 11) l’”Ines Negri” faceva perno su Monte Carmo e controllava i monti sopra Loano, Pietra Ligure e Borghetto <28. Un dodicesimo distaccamento, il “Torcello”, avrebbe presto compiuto le sue prime azioni nell’impervio settore compreso tra Toirano, Bardineto e Castelvecchio di Rocca Barbena <29.
Isolati all’estremo opposto dello schieramento, e indipendenti de facto e de iure dal Comando [n.d.r.: partigiano di] Brigata, il “Sambolino” e il “Wuillermin” vivevano gomito a gomito con gli autonomi di “Bacchetta” nella zona di Montenotte - Pontinvrea - Giusvalla. La forza complessiva dei distaccamenti garibaldini raggiungeva ormai le novecento unità <30.
Una nuova serie di “colpi” riusciti accompagnò verso la fine di settembre la profonda riorganizzazione realizzata in campo garibaldino con la nascita della Quarta, Quinta e Sesta Brigata. Il giorno 18 il distaccamento “Ines Negri” costrinse alla resa nei pressi di Bardineto 23 “marò”, che entrarono più o meno di loro spontanea volontà nei ranghi dei garibaldini <31.
Nelle due settimane seguenti un continuo crescendo di imboscate ed attacchi, talora preceduti da taciti accordi, portò alla cattura o alla diserzione di ben 66 militari della “San Marco” <32, evidentemente poco inclini a difendersi efficacemente da un nemico che appariva e scompariva a suo piacimento. Da Mallare al Melogno, da Murialdo alla Valle di Vado l’estensione del controllo partigiano era una realtà tangibile, cui i tedeschi, colti dal timore di essere presi fra tre fuochi (gli Alleati in Costa Azzurra e in Versilia, che potevano sfondare da un momento all’altro, e i partigiani alle spalle), non potevano per il momento rispondere che con i cartelli “Bandengebiet” affissi all’imbocco delle statali verso il Piemonte <33.
La crescente audacia delle azioni garibaldine è testimoniata dagli obiettivi, non più solo colonne e postazioni isolate, ma anche presidi di fondovalle muniti e fortificati. Il 23 settembre una squadra del “Moroni” capitanata da “Toni” (il vadese Lorenzo Caviglia) catturò gli uomini di guardia ai ponti stradale e ferroviario di Altare (sede del comando divisionale della “San Marco”), poi, avvalendosi della collaborazione di due “marò”, saccheggiò una riservetta di armi e munizioni <34.
Subito dopo si mise in luce a più riprese il distaccamento “Ines Negri”, che nel giro di una settimana attaccò un camion tedesco sulla via Aurelia tra Loano ed Albenga, assaltò e sabotò una postazione antisbarco a Borghetto Santo Spirito catturando sette marinai della RSI, riuscì ad occupare per alcune ore il paese di Balestrino salvo poi esserne cacciato dai tedeschi perdendo tutti i 21 “marò” fatti prigionieri ed aggredì una forte colonna tedesca in marcia presso Bardineto <35.
Anche il “Rebagliati” dovette battersi, il 29 settembre, contro una colonna di “marò” che risaliva la strada del Melogno in cerca di due soldati catturati dai partigiani: nello scontro restò ucciso il tenente che guidava i repubblicani <36.
In aggiunta a tutto ciò, sempre in settembre i garibaldini eliminarono il commissario prefettizio di Roccavignale, Guglielmo Ghione, e il vicedirettore della Cokitalia di San Giuseppe di Cairo, ingegnere Giuseppe Viani <37. Quest’ultimo episodio, per nulla pubblicizzato dalla locale storiografia resistenziale <38, è riconducibile al filone della lotta di classe come elemento pur sempre centrale, al di là della tattica comunista del momento, nella Resistenza garibaldina savonese, permeata di cultura operaista.
Il prezzo pagato per questi innegabili successi fu ancora una volta elevato. Il 19 settembre, a Borgio Verezzi, furono fucilati sette “marò” catturati dai loro camerati mentre si accingevano a raggiungere le formazioni partigiane in base ad accordi intercorsi in precedenza <39. Il 24, a Castelnuovo di Ceva, caddero in un’imboscata tre garibaldini tra cui “Lauri” (Oscar Antibo), Intendente di Brigata. Quest’ultimo, ferito, fu incarcerato e in seguito, mutilato di una gamba, fucilato a Cravasco il 23 marzo dopo essere stato a più riprese sul punto di essere liberato in seguito a scambi di prigionieri. Gli altri due, “Mito” (Nino Satanino) e “Veloce” (Giovanni Rossetto), furono trucidati al comando tedesco di Montezemolo insieme a “Mirko” (Pietro Zavattaro), arrestato qualche tempo prima. I cadaveri vennero esposti per strada, le automobili di passaggio costrette a passarvi sopra in segno di disprezzo <40. Infine, il giorno 29, a Biestro, tra Carcare e Millesimo, furono massacrati dalle SS dopo brutali torture cinque garibaldini del distaccamento “Moroni”, Mario Tagliafico, Luigi Gaggero, Armando Ferraro, Giuseppe Castiglia e Giacomo Ferrando, tutti originari degli immediati dintorni <41. In risposta a questo episodio, i garibaldini decisero pochi giorni dopo di liquidare venti SS catturate nelle ultime settimane, pubblicizzando il fatto con un volantino ad hoc che rivendicava il diritto di ribattere colpo su colpo alla violenza del nemico <42. Non è un caso che gli ultimi due eccidi citati si siano avuti nelle vicinanze della strada statale Savona-Torino, dove più occhiuta e feroce era la vigilanza dei forti presidi tedeschi e repubblicani.
La lunga gestazione delle unità garibaldine della Seconda zona ligure era finalmente giunta a compimento. Il massiccio afflusso di volontari e la forza dei nuovi distaccamenti portarono alla suddivisione della Seconda Brigata Garibaldi in tre diverse unità. La prima in ordine di tempo ad essere istituita fu la Sesta Brigata “Nino Bixio”, nata il 22 settembre <43. Ne facevano parte i distaccamenti “Sambolino” e “Wuillermin” e l’”Astengo”, appositamente trasferito nella zona di Montenotte per volontà del Comando di Sottozona operativa di Savona; a questi si aggiunse poco tempo dopo il “Giacosa”. Vittorio Solari “Antonio”, coadiuvato (e controllato?) dal commissario politico “Emilio” (Libero Bianchi), ebbe il comando dell’unità, destinata a rafforzare la presenza garibaldina in un’area fino allora battuta prevalentemente dagli uomini di “Bacchetta”, con il compito di migliorarne l’inquadramento e la disciplina <44.
Il 26 settembre la Seconda Brigata si suddivise a sua volta nella Quarta e nella Quinta Brigata. La Quarta Brigata, presto intitolata a Daniele Manin, prese alle proprie dipendenze i distaccamenti “Calcagno”, “Rebagliati”, “Maccari” e “Ines Negri”. Comandante di Brigata fu “Enrico” o “Vigoda” (Hermann Wygoda), con G. B. Parodi “Noce” per vice; commissario politico era Pierino Molinari “Vela”, assistito dal suo vice “Fulvio” (Renato Zunino). “Rosso” (Corrado Rossi) fu messo a capo del Servizio Informazioni Militari (SIM); benché avesse svolto attività di intelligence sotto il regime fascista, si dimostrò, oltre che capace, fidatissimo, guadagnandosi la piena fiducia del comandante <45. La Quarta Brigata era destinata ad operare dalla cresta alpina tra il Colle di Cadibona ed il Giogo di Toirano verso i centri rivieraschi da Vado Ligure a Borghetto Santo Spirito, in piena sinergia con le SAP locali. La Quinta Brigata “Baltera” fu creata raggruppando i distaccamenti “Nino Bori”, “Revetria”, “Bruzzone”, “Minetto” e “Moroni” <46. Eugenio Cagnasso “Bill”, ex ufficiale del Regio Esercito proveniente dalle fila degli autonomi di “Mauri”, fu scelto come comandante; “Leone” (Gin Bevilacqua) sarebbe stato commissario politico della brigata <47. L’azione dei distaccamenti coordinati da “Bill” doveva svolgersi a raggiera intorno alla base di Osiglia, spingendosi dalla zona di Bardineto fino alla strada statale Savona-Torino.
La Resistenza garibaldina savonese, cresciuta con difficoltà ed in ritardo rispetto a quelle circonvicine, nonostante l’ambiente sociale altamente propizio, viveva ora i suoi momenti migliori.
[NOTE]
27 R. Badarello - E. De Vincenzi, Savona insorge, Savona, Ars Graphica, 1973, pp. 132-133.
28 M. Calvo, Eventi di libertà. Azioni e combattenti della Resistenza savonese, Savona, ISREC Savona, 1995, p. 66.
29 Ibidem, p. 65.
30 Una vivace narrazione delle sue vicende belliche si trova in E. De Vincenzi, O bella ciao. Distaccamento Torcello, Milano, La Pietra, 1975.
31 Mia stima basata su dati contenuti in M. Calvo, op. cit.
32 M. Calvo, op. cit., p. 66.
33 G. Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia - La Stampa, 1985 (3 voll.), ed. 1985, vol. II, p. 195.
34 Ibidem, ed. 1985, vol. II, p. 192.
35 Cfr. Ibidem, ed. 1985, vol. II, p. 195, e M. Calvo, op. cit., p. 66.
36 G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, pp. 195 – 196.
37 Ibidem, ed. 1985, vol. II, p. 196.
38 N. De Marco - R. Aiolfi, Bombe su Savona. La demolizione dei cassari, Savona, Comune di Savona, 1995, p. 110.
39 Solo il testo sopra citato vi accenna telegraficamente.
40 Cfr. R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., pp. 120-121 e M. Calvo, op. cit., p. 395.
41 Cfr. M. Calvo, op. cit., p. 66 e N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 110.
42 Cfr. M. Calvo, op. cit., p. 139 e N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p.110.
43 AA. VV., Le brigate Garibaldi nella Resistenza, Milano, INSMLI - Istituto Gramsci - Feltrinelli, 1979 (3 voll.), vol. II, p. 405. Secondo G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 192, i tedeschi fucilati dal distaccamento “Revetria” furono dodici.
44 M. Calvo, op. cit., p. 68.
45 Ibidem, pp. 68-69.
46 Ibidem, p. 140. Per l’accenno a “Rosso” e ai suoi trascorsi fascisti, vedi H. Wygoda, In the shadow of the Swastika, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 1998, p. 114.
47 M. Calvo, op. cit., p. 95.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet. La rivolta di una provincia ligure (’43-’45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000

sabato 16 aprile 2022

Motta e Alessi insistettero molto sul problema dell’inquadramento militare delle bande partigiane in Valtellina

Sondrio - Fonte: WikiMedia

Accanto ai maggiorenti di Sondrio, il gruppo dirigente della Resistenza in alta valle comprendeva alcuni ufficiali dell’esercito italiano. Il più autorevole era il maggiore Edoardo Alessi, originario di Aosta, nipote di Jean Baptiste de Fey, deputato al Parlamento subalpino. Alessi aveva combattuto in Libia al comando del I Battaglione Paracadutisti Carabinieri e dal 1942 guidava il Gruppo Carabinieri Reali di Sondrio.
Dopo il 25 luglio aveva organizzato alcuni giovani soldati mettendoli al controllo delle centrali idroelettriche e dei servizi di pubblica utilità, facendo loro togliere i fasci cuciti sulle giubbe e dotandoli di un bracciale tricolore di riconoscimento. Come abbiamo visto, nella notte tra l’8 e il 9 settembre Alessi si era rifiutato di ricevere i notabili che chiedevano l’approvazione del manifesto ai valtellinesi e aveva passato la patata bollente al colonnello Boirola, comandante del Distretto militare. Tuttavia, nelle settimane successive all’armistizio, egli aveva fatto della caserma dei carabinieri di Sondrio il centro più attivo della Resistenza in Valtellina. Da lì uscivano carri di paglia e legname sotto i quali venivano nascoste delle armi. Da lì i soldati in fuga venivano indirizzati in Svizzera. Convocato al Comando della Legione dei Carabinieri di Milano e richiesto di prestare giuramento alla RSI, Alessi, divenuto nel frattempo tenente colonnello, aveva rifiutato con sdegno ed era stato messo agli arresti. Liberato, l’8 dicembre 1943 espatriò in Svizzera, mantenendo però i contatti col movimento partigiano dell’alta valle. Rientrò in Italia il 5 febbraio 1945 e assunse il comando delle forze partigiane in alta valle fino alla sua morte, avvenuta in circostanze mai chiarite, il 25 aprile 1945173. Fra i collaboratori di Alessi vi era Giuseppe Motta, capitano di fanteria, fino all’armistizio in forza al Servizio Informazioni Militari presso la sede di Lubiana. Il capitano Motta, detto Camillo, era rimasto in Valtellina fino al 2 gennaio del 1944 quando era stato costretto a rifugiarsi a Milano. In seguito, aveva collaborato all’organizzazione e al rifornimento delle bande partigiane nel Varesotto ed era entrato in contatto coi comandi alleati. In primavera aveva deciso di tornare in Valtellina collegandosi nuovamente coi dirigenti partigiani in alta valle. Quando, nell’agosto del 1944, i gruppi armati a nord di Sondrio vennero organizzati nella I Divisione Alpina GL Valtellina, il capitano Motta ne ottenne il comando, incarico che ricoprì fino al rientro di Alessi in Italia <174.
Il comando operativo della I Divisione alpina fu dunque in mano ad ufficiali di carriera per tutti i 9 mesi della sua esistenza. Sebbene il controllo del comando divisionale sulle bande partigiane fosse piuttosto limitato, l’influenza di Motta e Alessi sul modus operandi del movimento partigiano in alta valle non fu priva di significato. Motta trasferì nella lotta partigiana l’impostazione geostrategica tipica dei comandi degli eserciti tradizionali. In un documento del novembre 1944 egli notava che “la posizione geografica e la rete delle comunicazioni della Valtellina conferiscono ad essa un’importanza di primo piano nel quadro delle operazioni future per la liberazione” e indicava cinque punti per i quali la valle dell’Adda doveva suscitare particolare interesse: perché sarebbe stata il pilone d’angolo dello schieramento difensivo tedesco; perché attraverso i passi alpini sarebbe stato possibile vulnerare tale schieramento; perché le truppe tedesche in ritirata sarebbero necessariamente passate da Sondrio e per la presenza delle centrali elettriche che i tedeschi avrebbero potuto danneggiare prima di ritirarsi <175. Da questa impostazione derivò la tendenza a far precedere l’azione militare da un programma che ne esplicitasse i principi d’azione. Al contrario del movimento garibaldino, in cui la lotta precedeva l’organizzazione, Motta cercò di subordinare l’immediatezza della lotta alla pianificazione strategica <176.
Motta e Alessi insistettero molto sul problema dell’inquadramento militare delle bande. In effetti, l’idea che il colonnello aveva dei primi gruppi di uomini saliti in montagna nell’autunno del 1943 non era molto lusinghiera. Ad Angelo Ponti che in un colloquio dell’ottobre di quell’anno accennò alle bande partigiane, Alessi rispose: “Di questa marmellata parleremo un’altra volta” <177, ma l’idea di trasformare la marmellata in un vero esercito non l’abbandonò mai. Poche settimane dopo l’incontro con Angelo Ponti, Alessi dovette espatriare, ma al suo ritorno nel febbraio del 1945 egli intraprese un viaggio attraverso l’alta valle, allo scopo di organizzare le formazioni partigiane della Divisione alpina e prendere contatto con le Fiamme Verdi del Mortirolo e con le missioni alleate: “si può dire - nelle parole di Motta - che mentre durante la notte si facevano lunghi trasferimenti da una formazione all’altra durante il giorno ci si fermava con il conseguente grossissimo rischio nei paesi di fondo valle per prendere contatto con tutti quegli elementi che comunque dovevano aiutare per i rifornimenti e per la costituzione delle squadre SAP” <178.
Nel frattempo, la Divisione alpina era stata suddivisa in tre Brigate: la “Stelvio”, la “Mortirolo” e la Sondrio” e otto battaglioni, ma, come riconobbe Motta, “soprattutto per la dolorosa deficienza di quadri il raggruppamento in Brigate non aveva alcuna importanza pratica ed era essenzialmente il Comando di Divisione a dover coordinare l’azione e l’organizzazione delle piccole formazioni che tendevano naturalmente e necessariamente a restare autonome” <179.
Per la verità, il controllo delle formazioni sfuggiva anche al comando divisionale. Come annota Cesare Marelli, il partigiano Tom, comandante della Brigata Stelvio, la Divisione era “una struttura più imposta che nata per volontà dei partigiani del posto” <180. Le bande partigiane si erano  costituite indipendentemente dal comando di divisione e quasi nessuno dei loro comandanti era stato nominato dal comando centrale. A differenza dei comandanti garibaldini, che spesso erano forestieri e dovevano la loro nomina al comando di divisione, i capi dei partigiani in alta valle erano molto più legati alle loro formazioni che al comando centrale e ciò conferiva alle bande una ampia autonomia. Il capitano Motta avvertiva i pericoli che tale impostazione rischiava di creare. L’8 novembre 1944 egli inviò una comunicazioni a tutti i reparti dipendenti in cui spiegava: “Il Comando centrale ed i comandanti di distaccamento posseggono molto spesso informazioni sconosciute ai comandi inferiori o ai gregari: spesso una persona che appare legata ai nostri nemici in realtà agisce nascostamente d’accordo con noi, molto spesso il fatto di aver compiuto in un luogo un’azione isolata e non concertata coi superiori ha attirato l’attenzione su quel posto e mandato così a vuoto un’azione molto più importante e redditizia, come il prelievo di un camion di viveri e di equipaggiamento” <181. Le circolari tuttavia non furono sufficienti a domare la riottosità delle bande e il 13 gennaio 1945 venne costituito un Consiglio Supremo di Divisione, di cui furono chiamati a far parte i comandanti e i commissari di divisione, brigata e battaglione assieme ai capi servizio. Questa specie di corte suprema delle formazioni partigiane aveva il compito di “esaminare questioni di particolare importanza, risolvere particolari situazioni di disaccordo e controllare e decidere questioni
disciplinari e di responsabilità riguardanti reparti, comandi e comandanti” <182. Dai documenti e dalle testimonianze non risulta che tale consiglio supremo abbia svolto attività di rilievo e le singole formazioni partigiane continuarono ad agire in modo piuttosto autonomo dagli organi centrali.
L’impostazione militare di Motta e Alessi emerge anche dagli scopi che essi indicarono al movimento partigiano in alta valle. Alcuni di questi scopi, come il controllo delle vie di comunicazione e la difesa delle centrali idroelettriche <183, non differiscono da quelli di altre componenti del movimento partigiano <184. Dove il programma di Motta e Alessi rivela una sua specificità è nell’insistenza a garantire che “nel momento del trapasso si evitasse di cadere nel caos e nell’anarchia, mantenendo secondo i principi della più assoluta legalità e responsabilità l’ordine pubblico e garantendo la sicurezza di uomini e cose” <185. In effetti, mentre all’indomani della liberazione i garibaldini esplicitarono la loro intenzione di approfittare della momentanea situazione di incertezza per fare i conti coi caporioni fascisti, comandi della divisione alpina si posero subito l’obiettivo di difendere l’ordine pubblico e impedire attentati alla sicurezza di uomini e proprietà. Come ricorda Teresio Gola, capo servizio informazioni della divisione alpina e, dopo la morte di Alessi, comandante militare delle formazioni partigiane in alta valle: “noi partigiani, che abbiamo assunto la responsabilità qui in Valtellina di creare questo movimento [dobbiamo] essere in grado di assolvere anche a quest’altro dovere elementare e fondamentale d’Italiani, di assicurare la continuazione della vita civile. E mi ricordo che, col povero Alessi, quando è uscito dalla Svizzera […] mi ricordo che tutte le discussioni si basavano appunto su questo, perché anche lui aveva con me questa preoccupazione: noi dobbiamo essere in grado di assolvere questo compito” <186. Secondo Gola, Alessi gli consigliò di prendere contatti coi dirigenti della SEPRAL, affinché assicurassero l’espletamento dei servizi alimentari alla popolazione e gli fece un elenco di sottufficiali da preporre alla difesa dell’ordine pubblico: “poi c’era l’altro problema dell’ordine pubblico e anche Alessi con me pensava: l’ordine pubblico domani sarà un problema gravissimo perché noi non possiamo certo affidarlo alle formazioni partigiane. Perché anche lui vedeva come erano i partigiani lassù, io poi vedevo come erano i partigiani giù. Per carità! E allora Alessi con pazienza mi ha fatto un elenco di sottufficiali dei carabinieri e sottufficiali della Guardia di Finanza che con lui quando sono stati messi nell’alternativa di aderire alla RSI avevano preferito invece darsi alla macchia oppure tornare a casa loro e mettersi al nascosto [sic]” <187.
Come si vede, in Alessi il movimento partigiano non si doveva porre l’obiettivo di un rinnovamento politico ulteriore rispetto alla liberazione del Paese dal giogo nazifascista. Al contrario, egli mise in chiaro la necessità di garantire nel dopo liberazione l’ordine pubblico e la struttura sociale esistente e negò al movimento partigiano anche e forse soprattutto lo svolgimento dei compiti di polizia, la cui direzione doveva essere affidata ai carabinieri e alla Guardia di Finanza. Ognun vede la differenza di questa posizione da quella garibaldina, dove il movimento partigiano era la cellula dal cui sviluppo doveva sorgere il nuovo ordinamento democratico del Paese. Per Alessi, invece, il rinnovamento del Paese poteva venire solo dal recupero dei valori etico-politici sottesi ai momenti migliori della storia d’Italia, dalla riscoperta e valorizzazione del genio italico e della specificità dell’ispirazione civile italiana. Richiamandosi a Machiavelli, Alessi affermava che l’identità politica italiana è stata negata dalla faziosità dei partiti politici e dall’abitudine inveterata di ricorrere all’intervento straniero per risolvere i dissidi interni. Di qui i secoli di dominazione straniera e i vent’anni di dittatura fascista, originati dalle diatribe intestine del primo dopoguerra.
[NOTE]
173 Per queste e altre notizie sull’attività di Alessi cfr Marco Fini e Franco Giannantoni, op. cit., passim; Giorgio Gianoncelli Corvi, Uomini e donne nella “Resistenza più lunga. Tresicio 1943-1945, Sondrio, Edizioni Polaris, 1998, pagg 122-125; Pietro Buttiglieri e Michele Maurino, Un eroe valdostano. Il tenente colonnello dei carabinieri reali Edoardo Alessi, Aosta, Stylos, 2005; Nella Credano Porta, Hanno ucciso il colonnello Alessi, “Società Valtellinese”, n. 4, anno II, aprile 1982; Gianfranco Bianchi, 28 gennaio 1944: colpo di stato a Campione, “L’Ordine”, speciale 25/4, supplemento al n. 96, 23/4/1981 ; Id, La misteriosa morte del colonnello Alessi, “L’Ordine”, speciale 25/4, supplemento al n. 97, 24/4/1981; Il Comandante “Marcello”, “Il Carabiniere della Nuova Italia”, anno II, n 6, giugno 1945; Stralcio del diario tenuto nel periodo dal 1943 al 1945 dalla signora Vincenzina Scorza vedova del Ten. Colonnello dei Carabinieri Edoardo Alessi medaglia d’argento al valor militare, a cura del Brigadiere Capo dei Carabinieri Stefano Magagnato, Comando Provinciale Carabinieri di Sondrio, 1995; Intervista a Caterina Boggio Barzet, Issrec, Fondo Anpi, b4 f30.
174 Per l’attività di Giuseppe Motta cfr Marco Fini e Franco Giannantoni, op. cit., passim; Giorgio Gianoncelli Corvi, op. cit., pagg 80-81; La I Divisione alpina Valtellina dalla sua costituzione alla liberazione, firmato Giuseppe Motta, s.d., Issrec, Fondo Anpi non catalogato; Relazione sull’attività del Cap. S.P.E. Motta Giuseppe, senza data, Issrec, Fondo CVL-INSMLI, b1 f16.
175 Organizzazione delle forze patriote in Valtellina, firmato Giuseppe Motta, Issrec, Fondo Anpi, b2 f10.
176 Cfr La I Divisione alpina Valtellina dalla sua costituzione alla liberazione, firmato Giuseppe Motta, doc. cit.
177 Testimonianza di Angelo Ponti, doc. cit.
178 Relazione circa l’attività patriottica svolta dal Ten. Col. Alessi Edoardo ( Marcello), senza firma, 23 luglio 1945, Issrec, Fondo Anpi, b3 f intitolato “Archivio Alessi”.
179 La I Divisione alpina Valtellina dalla sua costituzione alla liberazione, firmato Giuseppe Motta, doc. cit
180 Testimonianza di Cesare Marelli (Tom), comandante della I Brigata Stelvio della I Divisione Alpina Valtellina G.L., Issrec, Fondo Anpi, b2 f18.
181 La divisione alpina Giustizia e Libertà a tutti i reparti, firmato “Il comandante”, 8/11/1944, Issrec, Fondo Marelli, b2 f 15.
182 Il comando di divisione a tutti i comandi dipendenti, ai capi servizio, firmato Camillo, 13/1/1945, Issrec, Fondo Marelli, b2 f15.
183 Cfr La I Divisione alpina Valtellina dalla sua costituzione alla liberazione, firmato Giuseppe Motta, doc. cit; lettera del colonnello Alessi al Comando Generale dell’Arma, 3/2/1945, Issrec b3 fascicolo intitolato “Archivio Alessi”.
184 Per esempio quella di Giustizia e Libertà, cfr la lettera del Comando Lombardia formazioni Giustizia e Libertà sui compiti operativi per la divisione Valtellina in AA VV, Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti settembre 1943-aprile 1945, Milano, Franco Angeli, 1985, pagg 307-314.
185 La I Divisione alpina Valtellina dalla sua costituzione alla liberazione, firmato Giuseppe Motta, doc. cit.
186 Intervista fatta all’avvocato Teresio Gola, Issrec, Fondo Anpi, b4 f24.
187 Ivi
Gian Paolo Ghirardini, Società e Resistenza in Valtellina, Tesi di laurea, Università degli Studi di Bologna, Anno accademico 2007/2008

Un diverso approccio educativo che svantaggia le donne e non gli uomini


2.2.1 Teoria della socializzazione
La teoria della socializzazione che, come si è visto, si inserisce nel quadro della corrente liberale, si afferma come prospettiva prevalente nel decennio che intercorre tra i primi anni settanta e i primi anni ottanta, quando la stratificazione in base al genere inizia a suscitare l’interesse degli ambienti accademici (Collins 1988). I concetti chiave che ritroviamo in questo approccio sono quelli di pari opportunità, socializzazione, stereotipi e discriminazioni sessuali.
L’assunto fondamentale della teoria della socializzazione è il seguente: le ragazze sono oggetto di un processo educativo discriminatorio che le porta ad avere risposte tradizionali in relazione ai ruoli di genere. Le ragazze sono socializzate in modo tale da divenire delle buone mogli e madri e prestare attenzione agli aspetti di aiuto e di cura; dai ragazzi ci si aspetta invece un atteggiamento orientato alla carriera, dominante, freddo e calcolatore (Lever 1976; Gianini Belotti 1973).
Uno dei principali obiettivi delle politiche che trovano spazio all’interno delle teorie della socializzazione è quindi quello di “de-genderizzare” ovvero mostrare le disuguaglianze che intercorrono tra maschile e femminile e fare in modo di appiattirle ed annullarle. L’approccio liberale della socializzazione sostiene che la neutralità delle politiche consenta di dare ad ogni singolo individuo le stesse opportunità di partenza e di trattamento; al tempo stesso impedisce che alcune specifiche categorie di persone possano limitare le potenzialità di altre (Bem 1974; Whelehan 1995; Friedan 1968).
Queste teorie muovono i primi passi dalla formulazione delle critiche al sistema funzionalista parsonsiano che grande credito aveva ricevuto nel mondo accademico statunitense degli anni sessanta (Johnson 1983, 1988, 1989).
Talcott Parsons riprende le dicotomie proposte da Durkheim (solidarietà organica e meccanica) e da Tönnies (comunità e società) per elaborare la teoria della differenziazione dei ruoli nella famiglia. Qualsiasi configurazione sociale è originata dall’istituzione familiare la cui principale funzione è quella del mantenimento della struttura latente (Parson 1951, 1955; Wallace Wolf 1980).
La differenziazione dei ruoli svolti dal padre e dalla madre ha una un’importanza fondamentale per il corretto funzionamento del sistema di riproduzione culturale che la famiglia svolge all’interno della società (Parsons 1951, 1955).
I ruoli di genere differenziano tra i compiti che spettano agli uomini adulti della famiglia e alle donne adulte: i primi hanno il compito di procacciare il reddito e di cura delle relazioni esterne e alle seconde sono attribuite funzioni di cura della casa e dei figli. I bambini e le bambine sono socializzati dai propri genitori affinché gli stessi valori siano interiorizzati e riprodotti: i bisogni e le predisposizioni, secondo Parsons, sono modellati dagli ideali fondamentali della società e, come conseguenza, i bambini e le bambine, una volta adulti, sentiranno la necessità di agire conformandosi ai valori trasmessi dai propri genitori dove questi sono coincidenti con quelli della società nel suo complesso (Ibidem 1951).
La rigida suddivisione dei ruoli di genere legata alla riproduzione dello status quo, dove gli uomini sono legati alla sfera pubblica e le donne a quella privata, non è stigmatizzata ma è anzi vista con favore per il buon funzionamento del sistema sociale. La teoria della differenziazione dei ruoli di Parsons trascura però gli elementi di interesse o vantaggio personale e le disuguaglianze derivanti dall’impostazione strutturata dei ruoli di genere (Collins 1988).
La teoria della socializzazione mette in dubbio la differenziazione dei ruoli con valenza positiva che la teoria di Parsons propone e evidenzia le disuguaglianze che un tale processo può comportare sul corso di vita maschile e femminile a svantaggio prevalentemente di queste ultime (Johnson 1983, 1988, 1989).
Le ragazze, fanno notare le teoriche della socializzazione, hanno una minore gamma di opportunità di accesso al mercato del lavoro, un diverso rendimento scolastico in alcune specifiche materie di studio (matematica e scienze) e più in generale una minore possibilità di realizzazione in ambiti che non siano quelli tradizionali di moglie e madre (Epstein 1981; Johnson 1983).
La necessità di non sottoporre le ragazze a discriminazione non è solo una questione di giustizia sociale: l’eliminazione delle condizioni che portano le ragazze ad avere risultati peggiori in alcuni ambiti di studio porta alla formazione di future lavoratrici con migliori competenze spendibili sul mercato del lavoro a beneficio dell’intera società (Stainer Maccia, Coleman, Estep, Miller Shiel 1975).
Le teoriche della socializzazione mostrano infatti una grande attenzione alla meritocrazia nelle dinamiche di accesso del mercato del lavoro e alla parità nello stipendio di uomini e donne: per questo si sono battute affinché fossero concessi congedi parentali e asili e affinché le carriere femminili non continuassero ad essere danneggiate rispetto a quelle maschili dalle esperienze di maternità (Epstein 1981; Coleman, Estep, Miller Shiel 1975).
Nel caso di disuguaglianze di tipo storico o naturale tali da comportare uno svantaggio di genere, la teoria della socializzazione prevede l’introduzione di politiche sociali volte a colmare lo svantaggio e nel garantire equità tra i generi. Ad esempio, se la maternità è un ostacolo alle aspirazioni di carriera, sarà necessario colmare questo svantaggio con leggi ed incentivi di intervento sulle politiche aziendali in grado di superare il divario di opportunità tra uomini e donne.
Se ragazzi e ragazze sono sottoposti ad una educazione di genere di tipo “neutrale” da parte di genitori ed insegnanti, se vengono eliminati gli ostacoli di tipo oggettivo, se la socializzazione non si orienta verso trattamenti differenziati verso il genere femminile, sostengono le teoriche di questa corrente, allora le ragazze potranno raggiungere gli stessi risultati dei ragazzi (Stacey, Bereaud Daniels 1974, Gottfredson 1981). Tutto ciò è possibile solo con un sistematico esercizio alla neutralità: le pari opportunità sono infatti da garantire a qualsiasi persona indipendentemente dal genere che le caratterizza tramite uno stesso, identico, medesimo trattamento (Byrne 1978).
L’attenzione della teoria della socializzazione si concentra nel mettere in evidenza le similarità che accomunano tutti gli esseri umani: è quindi di fondamentale importanza rimuovere le barriere che possono impedire il pieno sviluppo di potenzialità delle ragazze. Se gli ostacoli che impediscono alle ragazze di realizzarsi verranno rimossi, allora sarà possibile una eguale realizzazione di uomini e donne.
Gli studiosi della teoria della socializzazione sottolineano infatti che se esiste una definizione di donne come esseri irrazionali è perché esiste una differente educazione che discrimina le ragazze negli apprendimenti (Hall, Sandler 1982; Frazier, Sadker 1973; Sadker, Sadker 1973). Fin dall’infanzia alle bambine viene chiesto di prestare attenzione alla propria immagine e alla cura del corpo; inoltre le giovani sono incoraggiate ad avere modalità più gentili nel parlare, modi tranquilli e lenti nel muoversi e nel comportarsi, a preoccuparsi per chi si ha vicino molto più di quanto avviene per i ragazzi. Per i teorici della socializzazione le ragazze sono spinte ad una forma di passività e di abnegazione delle proprie condotte da parte della famiglia, della scuola, dei media e della società più in generale che le rende insicure. La minore freddezza e razionalità, il mostrare un forte bisogno di protezione e sicurezza non è quindi una diretta conseguenza dell’essere femmina ma è dovuto ad un diverso approccio educativo che svantaggia le donne e non gli uomini. Per fare un esempio, le ragazze vengono interrotte e sminuite con maggiore frequenza nei loro discorsi rispetto ai ragazzi e ciò tende a renderle esitanti, poco inclini ad esprimere le proprie idee (Thompson 2003). Se le ragazze nel corso del processo educativo avessero la possibilità di essere considerate come capaci, razionali, creative, indipendenti, intelligenti allora ritroveremmo gli stessi comportamenti, atteggiamenti, motivazioni e attitudini che ritroviamo nei ragazzi.
Un ruolo fondamentale nell’eliminazione degli ostacoli di genere è svolta dalle istituzioni scolastiche. La scuola è il luogo privilegiato per il cambiamento e per il superamento delle barriere di genere. Le teoriche femministe della socializzazione suggeriscono una serie di azioni positive volte a colmare lo svantaggio femminile e a decostruire gli stereotipi (Lever 1976; Coser 1988). I risultati di alcune ricerche applicate che hanno accolto la prospettiva della socializzazione, hanno suggerito di proporre esempi di donne di successo con percorsi di carriera non tradizionali <13 oppure il fare dei corsi di matematica e scienze specificamente per ragazze. Soprattutto però è necessario che gli insegnanti non solo trattino nello stesso modo ragazzi e ragazze ma anche che superino gli stereotipi di genere di cui sono vittime e vadano oltre quelle che sono le percezioni a cui essi stessi sono stati socializzati (Houston 1985).
Sebbene le istituzioni scolastiche svolgano un compito primario nel superamento degli stereotipi di genere, è necessario il supporto di tutte le agenzie di socializzazione coinvolte nel processo educativo: se ad esempio i libri di testo e i media non contribuiscono a supportare e rafforzare una figura femminile più autonoma e indipendente, l’azione degli insegnanti apparirà debole, delegittimata e soggettiva <14 . Ciò vale anche qualora mancasse l’appoggio di genitori e figure fondamentali appartenenti al nucleo familiare che vivono e si confrontano nel mondo degli studenti e delle studentesse (Ibidem 1985).
[NOTE]
13 Anche in Italia negli ultimi anni, per incentivare le ragazze a seguire indirizzi scolastici di tipo matematico scientifico, sono partiti progetti nelle classi volti a proporre esempi di donne di successo in ambiti professionali
tradizionalmente femminili. Si veda l’interessante lavoro Progetto Diva, 2006, http://www.irpps.cnr.it/diva/progetto.php
14 Ancora oggi la cura nell’eliminazione degli stereotipi di genere nei libri di testo è una delle azioni per l’abbattimento degli stereotipi di genere che continua ad essere seguita. Dal 1998 al 2001 in Italia il Progetto Polite (Pari opportunità nei libri di testo) si è occupato di libri di testo con l'obiettivo di promuovere una riflessione culturale, didattica ed editoriale il cui esito sia quello di ripensare i libri di testo in modo che donne e uomini, protagonisti della cultura, della storia, della politica e della scienza siano presenti sui libri di testo senza discriminazioni di sesso. www.aie.polite/default.htm
Brunella Fiore, I ragazzi sono più bravi in matematica? Interpretare la relazione tra genere e competenze matematiche con il supporto dei dati Pisa 2003, Università degli Studi di Milano Bicocca, Anno Accademico 2006/2007

venerdì 15 aprile 2022

Una decisione della Democrazia Cristiana che andava a modificare gli equilibri all'interno del Fronte della gioventù


La conquista dei giovani alla democrazia in una politica di unità nazionale resta l’obiettivo fondamentale anche durante la Resistenza, pur se costa la rinuncia alla costituzione di una Federazione giovanile di partito: la FGCI si scioglie per dare vita ad un movimento giovanile democratico, il Fronte della gioventù, nel quale far confluire i giovani antifascisti di tutte le tendenze politiche <7.
È quindi il Partito Comunista che prende l’iniziativa della costituzione del Fronte; più in particolare Gian Carlo Pajetta, che nell’autunno ’43 ne delinea i caratteri: «Il Movimento che tende a raccogliere in un’organizzazione unitaria tutti i giovani italiani, qualunque sia il ceto cui appartengono, qualunque sia l’attività sociale alla quale si dedicano di preferenza, non deve nascere sotto la bandiera di un partito politico.... Pur dovendo ispirarsi ai concetti che formano l’azione del CLN (Fronte Nazionale) non conviene che sorga come emanazione dei partiti, anche associati, bensì sulla base delle iniziative dei giovani stessi e alle forme di organizzazione che già essi hanno dato alla loro resistenza antitedesca e antifascista. Il Movimento al quale si vuole dare vita prende il nome di Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà e vuole avere il più largo carattere di massa. Non vogliamo creare un partito per i giovani, dichiariamo esplicitamente di non volere organizzare soltanto l’avanguardia dei giovani, quelli che si occupano esclusivamente di politica, bensì tutti i giovani italiani che vogliono coordinare la loro azione, in qualunque campo si svolga, con l’opera di liberazione e di progresso alla quale tutti gli italiani devono contribuire nel momento attuale» <8.
La costituzione del Fronte reca un indubbio contributo alla lotta resistenziale, pur se non manca di sollevare qualche perplessità nei dirigenti del Partito di Roma, non ancora convinti a fondo della opportunità della liquidazione della FGCI <9. Un’ulteriore remora sarà costituita, per tutto il periodo della Resistenza, dal fatto che il contributo degli altri partiti e più spesso apparente che reale, anche se nominalmente aderiscono al Fronte tutte le federazioni giovanili dei partiti antifascisti.
[NOTE]
7 «La FGCI procedeva alacremente alla creazione di un fronte unico della gioventù italiana in armonia con la politica unitaria del PCI. I problemi che si ponevano allora alla FGCI erano questi: a) far partecipare tutta la gioventù italiana alla lotta contro il fascismo per la libertà d’Italia e la democratizzazione del paese; b) unire tutti i giovani italiani, distruggere in loro l’educazione e l’influenza del fascismo, evitando una frattura pericolosissima fra la parte più avanzata dei giovani e la maggioranza di essi che ancora era disorientata; c) con la fine della guerra di fronte alla gioventù italiana si sarebbero posti in maniera acuta i problemi essenziali: rifarsi una vita, trovar lavoro, trovare un clima normale di esistenza. Tutto questo poneva la necessità che in Italia si sviluppasse un vasto movimento giovanile che allargasse le sue file ai giovani comunisti, socialisti, dei partiti minori (PRI, P. d’A., PLI), cattolici, democristiani, indipendenti ed ex fascisti. Compito principale era la lotta contro l’occupazione tedesca: poi la lotta per le rivendicazioni giovanili », La lotta della gioventù rivoluzionaria, cit.; v. P. DE LAZZARI, Storia del Fronte della Gioventù, Editori Riuniti, Roma 1972.
8 P. DE LAZZARI, op. cit., pag. 32.
9 Così scrive Scoccimarro alla Direzione di Milano nel dicembre 1943: «Abbiamo esaminato e discusso il problema dell’organizzazione dei giovani. Siamo d’accordo col criterio da voi indicato in taluni documenti che bisogna tendere a creare una organizzazione di giovani avente largo carattere di massa, ma pensiamo che non si debba rinunciare alla creazione della Federazione Giovanile Comunista, il cui nome ha ancona molta suggestione e influenza fra i giovani. Però noi concepiamo la organizzazione della FGC con criteri diversi e più larghi di quelli che si ebbero nel passato, con una maggiore indipendenza dal partito ed una autonomia propria che la renda atta ad assorbire i giovani di tutte le tendenze comunque orientate verso gli obiettivi di una democrazia progressiva popolare…. Il problema dei giovani è uno dei più importanti che si pongano oggi al nostro partito: si tratta per noi di conquistare la gioventù italiana. La sola organizzazione giovanile attualmente esistente che ha importanza è quella dei cattolici. Non pensiamo di poterla assorbire senz’altro in una altra organizzazione per quanto larga possa essere. Noi dobbiamo far sorgere una forte organizzazione di giovani a fianco di quella dei cattolici e con essa stabilire poi un patto d’intesa nei modi che si vedrà in seguito. Nessun altro partito ha ancora una organizzazione giovanile. Dobbiamo prendere noi l’iniziativa di crearla, senza porre limiti ideologici e politici, ma anche senza nasconderci dietro una impostazione generica e indefinibile». È degli stessi giorni (14 dicembre) una lettera di Celeste Negarville, sempre diretta a Milano: «Cari compagni, abbiamo discusso - sulla base dei documenti che ci mandaste a suo tempo - il problema che imposta il nostro lavoro giovanile.... Noi siamo, come voi, preoccupati di dar vita ad un largo movimento giovanile, ad un movimento giovanile di massa che, rompendo gli schemi di ogni settarismo, diventi il centro di raccolta delle aspirazioni e degli ideali delle giovani generazioni. Pensiamo, come voi, che un tale movimento debba svolgersi su una base unitaria, capace di raggruppare i giovani di tendenze politiche diverse e di diverse confessioni religiose, i quali trovano nella guerra di liberazione nazionale e negli ideali di democrazia un potente incentivo alla loro unione e alla loro lotta. Voi chiamate questo movimento Fronte Nazionale della Gioventù, e noi non abbiamo nulla da obiettare sul nome; quello che ci preoccupa è piuttosto il dubbio che questo Fronte rimanga sulla carta per mancanza di concretezza, per il modo arbitrario con cui lo si vuol far nascere. Infatti, il Fronte nazionale della gioventù sorge per iniziativa nostra con il carattere di una vera e propria organizzazione e finge di ignorare che in Italia esistono (in atto e in potenza) altre organizzazioni giovanili le quali non avrebbero nessun interesse a dissolversi, in quanto organizzazioni ben definite, nel Fronte Nazionale della Gioventù, ma in quanto organizzazioni che aderiscono ad un movimento di coalizione nel quale non vengono dispersi i suoi caratteri organizzativi e politico-confessionali.... Resta da precisare lo strumento mediante il quale noi potremo realizzare questa politica giovanile unitaria. Questo strumento è la Federazione giovanile comunista che non deve diventare affatto il Fronte nazionale della gioventù solo perché se ne fa l’iniziatrice. Nel vostro piano la FGC non esiste per niente e noi troviamo strano che, proprio nel momento in cui si lanciano appelli alla gioventù italiana per chiamarla a raggrupparsi nella lotta, si liquidi tacitamente una organizzazione come la FGC la quale ha non pochi meriti da vantare nella lotta ventennale contro il fascismo e non poco prestigio da far irradiare sulle masse delle nuove generazioni. È probabile che questa vostra tacita liquidazione sia dovuta ad una interpretazione arbitraria del carattere di massa, antisettario, che debbono avere le FGC; è probabile che voi abbiate confuso il principio di indipendenza della FGC dal partito col non-principio della liquidazione; in ogni caso noi consideriamo la vostra posizione come errata e pensiamo che l’errore può e debba essere corretto». L. LONGO, I centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1973, pp.253-254 e 261-262.
Donatella Ronci, I giovani comunisti dalla Liberazione al 1957, Quaderni della FIAP, n° 35 


Il 27 marzo [1945], con un'altra circolare a firma Andreotti e Dall'Oglio, verranno poi chiariti i criteri con cui verrà strutturata la segreteria del delegato nazionale - con la creazione di un Esecutivo e di una Commissione consultiva centrale -, quelli di formazione e di gestione del Gruppo giovanile a livello sezionale e provinciale, ed infine le linee di azione del delegato provinciale <160.
Un'altra decisione carica di conseguenze era quella emersa circa un anno prima dalla riunione del Consiglio nazionale della Dc del 28 febbraio - 3 marzo 1944 in cui venivano dichiarate «inammissibili e incompatibili l'adesione e l'appartenenza degli iscritti alla Democrazia Cristiana a gruppi politici estranei all'organizzazione del Partito» <161.
Con tale affermazione il Consiglio nazionale formalizza l'indipendenza politica del partito. Ciò da un lato testimonia un processo di autonomizzazione nei confronti degli organismi cattolici extra partitici, dall'altro costituisce una delle prime, espresse attestazioni di scissione di responsabilità nei confronti degli altri partiti italiani; la collaborazione all'interno del Cln comincia a vacillare e si intravede già quello scontro con le forze della sinistra, che solo un modificarsi della situazione internazionale permetterà di perfezionare <162.
È una decisione, per ciò che qui ci riguarda, che va a modificare gli equilibri all'interno del Fronte della gioventù.
Le relazioni fra i movimenti giovanili dei vari partiti sono strettamente legate ai rapporti interpartitici e al grado di coesività che le forze politiche riescono a mantenere man mano che si passa dalla iniziativa antifascista alla proposizione di idee ricostruttive per il Paese. In questo senso, allo scollamento dell'unità delle forze democratiche - che comincia ad attuarsi già dalla fine del 1944 - corrisponde il disintegrarsi dell'organizzazione giovanile unitaria, il Fronte della gioventù <163.
Nel maggio del 1944, ad esempio, il giornale del Fronte della gioventù del Piemonte, "Noi giovani", aveva concesso largo spazio all'adesione dei giovani cattolici: "è di questi giorni l'adesione della Democrazia cristiana al FdG.
L'accordo è stato concluso su base nazionale tra i rappresentanti del Fronte e i rappresentanti del movimento giovanile della Democrazia cristiana. La notizia verrà pubblicata sul prossimo numero di Democrazia cristiana e sul Bollettino del Fronte della gioventù. I giovani del Fronte danno il loro cordiale benvenuto ai giovani democristiani, dei quali hanno già avuto la possibilità di apprezzare la serietà e lo spirito combattivo, grazie a collaborazioni locali avvenute ancor prima dell'adesione ufficiale" <164.
Ma man mano dunque che l'unità antifascista si incrina, la dirigenza della Dc e dei Gruppi giovanili modifica il proprio atteggiamento. E se è ancora giustificata, nel luglio '44, l'adesione all'appello unitario «al governo nazionale ed alle autorità alleate di partecipare in schiere compatte accanto agli eserciti delle Nazioni Unite, alla guerra per la liberazione della patria e di tutti i popoli oppressi» <165, appare altrettanto conseguente con l'evoluzione dei rapporti interpartitici, l'aggiustamento di tiro che si sostanzia nelle affermazioni di Andreotti su «Il Popolo» del 25 novembre 1944. Rispondendo a Mauro Scoccimarro che, in un discorso ai giovani comunisti, prospettava l'esigenza di
costituire una grande organizzazione di massa giovanile, Andreotti si chiede "Quali fini avrebbe tale associazione? Quello di far valere i diritti della gioventù, risponde l'oratore e polemizza con noi perché ci siamo opposti ad uno stabile Fronte con tutti gli altri giovani dei Partiti. Ma non pensa che proprio perché vogliamo l'unione dei giovani noi la cerchiamo su un terreno meno effimero e più lontano da ogni sospetto di voler creare un nuovo partito - quello dei giovani - i cui scopi sarebbero o inutili o tendenziosi" <166?
Durante la riunione del Cln della Liguria del 14 aprile 1944 Taviani precisava che il proprio partito "è disposto ad accettare che il Comitato di coordinamento femminile assuma il nome di Gruppi di difesa della donna, ma in nessun modo, per quanto riguarda le donne e soprattutto i giovani, è disposto ad accettare l'organizzazione unica, sia pure nel solo campo politico, in quanto il problema femminile e giovanile importa una particolare delicatezza per quanto riguarda l'educazione, argomento in cui, non soltanto la Dc, ma i cattolici in genere, non possono non avere una vivissima sensibilità" <167.
Benigno Zaccagnini ricorda come, nel settembre '44, la volontà del Pci era quella di inserire, in seno al Cln ravennate, "le cosiddette organizzazioni di massa (Gruppi di difesa della donna, Fronte della Gioventù, Fronte della cultura), ma ciò portava inevitabilmente allo snaturamento della composizione partitica del comitato e dei rapporti di forza esistenti. Vi furono vari incontri in cui sostenni che non vi era da parte nostra nessuna obiezione ad un inserimento di una rappresentante femminile […] mentre configuravamo gli altri due organismi come espressione fiancheggiatrice del partito comunista […] D'altronde, né il Fronte della Gioventù, né quello della cultura ci sembrava possedessero caratteristiche proprie ma germinavano nell'alveo politico già esistente e dalle forze partigiane che si riconoscevano nell'attività del C.L.N.; per questi motivi noi cattolici non eravamo d'accordo di concedere ad essi un voto deliberativo in seno al comitato, mentre ritenevamo opportuno o inserire un rappresentante giovanile e del mondo culturale per ogni espressione partitica o evitare la loro istituzionalizzazione riconoscendo loro un ruolo organizzativo e consultivo con l'intesa che sarebbero stati consultati per i problemi a loro competenti" <168.
La decisione del Consiglio nazionale viene infatti ratificata il 18 dicembre 1944, sulla scia della posizione di Andreotti appena citata: viene riaffermata «la impossibilità per i giovani democratici cristiani di aderire ad una stabile organizzazione con altre forze o movimenti, data la posizione dei Gruppi Giovanili in seno al Partito del quale sono parte integrante ed inscindibile ed al quale d'altro canto - in una fattiva e democratica cooperazione interna - hanno il modo di dare il massimo contributo di opere e di pensiero» <169.
Come si diceva, il Pci poteva contare sulla esperienza di una organizzazione giovanile che nel corso del ventennio aveva continuato ad operare nella clandestinità, mantenendo una propria struttura, per quanto effimera, dei propri organi di stampa, dei contatti internazionali. Alla luce di questa premessa, potrà a prima vista apparire difficile da comprendere perché, ancor prima della definitiva fine del conflitto, il Pci avesse deciso di far cessare l'esperienza autonoma della propria federazione giovanile al fine di potenziare le organizzazioni unitarie - in primo luogo proprio il Fronte della gioventù. In realtà questa scelta ripropone in un ambito dai confini delimitati il ben più ampio problema della natura esogena o endogena della strategia comunista dopo il ritorno di Togliatti in Italia. Era stato, d'altronde, lo stesso Stalin a raccomandare a Thorez di praticare in Francia una politica di larghe alleanze, da sfruttare in funzione di difesa, e, quando la situazione si fosse evoluta, in funzione d'attacco.
In tale quadro, un riferimento specifico veniva fatto all'ambito giovanile. Individuato come uno dei terreni sui quali praticare le alleanze, Stalin aveva sottolineato come l'organizzazione operante in tale campo «non de[bba] chiamarsi gioventù comunista. Si deve tener conto del fatto che le etichette spaventano molto alcune persone» <170. Si può dunque ipotizzare che la medesima raccomandazione fosse stata elargita anche al leader italiano <171.
Tale convinzione non è certo smentita dalla ricostruzione della politica praticata dal Pci in questo ambito della politica nazionale. D'altro canto, la scelta di privilegiare gli organismi unitari può trovare una spiegazione convincente sia alla luce della politica di lungo periodo del partito nei confronti della gioventù, sia in considerazione delle sue contingenti urgenze politiche.
La scelta unitaria operata alla caduta del fascismo propose, in forme più radicali, la stessa strategia ciellenistica che il partito seguì nell'arena politica principale. A tal proposito è emblematico che Renzo Trivelli, uno dei segretari nazionali della Fgci di questo dopoguerra, in sede di rievocazione storica individuasse la Dc e il Pli come gli acerrimi nemici dello sforzo del Pci in ambito giovanile <172.
L'obiettivo più immediato di Togliatti, dunque, era quello di rafforzare la collaborazione con i democristiani, cercando di estenderla anche nel campo dell'associazionismo giovanile. E in quest'ottica, quindi, che si deve valutare l'attenzione nei confronti di movimenti unitari quali il Fronte della gioventù, che raccoglievano giovani di matrice politica alquanto eterogenea, nello spirito dell'unità ciellenistica. Tali organismi unitari non essendo legati, in modo esclusivo, ad un partito specifico, rappresentavano un utile terreno di incontro tra cattolici e marxisti, facendo il gioco della politica togliattiana <173.
Rimangono ancora però, nel campo dei rapporti con gli altri movimenti giovanili e in quello della partecipazione ad organismi unitari, ampie zone oscure. A Roma, ad esempio, all'inizio di aprile 1945, nasce la Commissione consultiva giovanile e la Segreteria giovanile della Confederazione generale italiana del lavoro; la prima è composta da 15 giovani rappresentanti delle principali categorie professionali e correnti sindacali; la seconda si compone di tre elementi: Arnaldo Bertolini per il Partito socialista, Enrico Berlinguer per il Pci ed Edmondo Albertini per la Dc. «I nostri incaricati […] cerchino almeno di non farsi rimorchiare da giovani di altri partiti», è il commento di Andreotti <174.
Ancora il 26 marzo 1945 il delegato nazionale si vede costretto a ribadire, con una circolare inviata a tutti i delegati provinciali, che «non è compatibile per un iscritto al Partito l'adesione contemporanea a qualsiasi altra organizzazione politica sia individuale sia collegiale compresi i “consigli”, “fronti” e “movimenti” tanto monarchici che repubblicani» <175.
L'autonomia del movimento giovanile della Dc nei confronti del Fronte della gioventù viene ribadita sempre nel marzo '45 dall'Esecutivo del comitato per l'Alta Italia che, nel Bollettino n. 511, scrive che "il movimento giovanile democristiano organizzato nelle sezioni regionali, provinciali, comunali, deve, in linea di massima, mantenere la sua indipendenza sul piano educativo, ideologico, propagandistico. Il contatto coi movimenti giovanili di altri partiti, o con altri movimenti cosiddetti apolitici, deve avvenire sulla base di comitati regionali o provinciali di coordinamento delle attività giovanili antifasciste […] La Dc non ritiene rispondente alla realtà delle cose un'organizzazione giovanile unitaria, almeno per quanto riguarda l'organizzazione e la propaganda. È non solo sconveniente, ma anche assai pericoloso per la salvezza degli istituti democratici, voler imporre l'unità là dove l'unità non esiste, e c'è solo, al massimo, una volontà sincera di collaborazione per quanto riguarda particolari settori di attività" <176.
La situazione nelle diverse realtà regionali si presenta però ancora nebulosa, come evidenzia Gorrieri il 29 aprile, prendendo atto che ben prima dell'organizzazione del gruppo giovanili Dc provinciale, molti ora «organizzati» dalla Dc avevano già aderito al Fronte della gioventù e - scriveva Gorrieri - «è necessario che essi precisino che dare adesione è di carattere provvisorio in attesa di istruzioni dal Centro, giacché non ci risulta che il nostro Partito abbia ufficialmente aderito a tale organizzazione» <177.
La dirigenza giovanile intende comunque depotenziare la propria presenza negli organismi unitari. Gli organi centrali esercitano condizionamenti sulla periferia affinché questa non valorizzi la propria presenza nel Fronte della gioventù, e tali condizionamenti possono apparire giustificati, stanti soprattutto le buone relazioni esistenti fra giovani cattolici e giovani comunisti in alcune regioni, specie in Emilia. Il 27 maggio 1945, ad esempio, vengono riprese e sviluppate le soluzioni già precisate nel citato ordine del giorno del dicembre 1944: "una coordinazione di lavoro anche in forma stabile tra varie forze giovanili può essere proficua ma una vera e propria associazione è di per sé contrastante con il metodo democratico […] Una concezione unitaria e di massa è il portato tipico dei regimi totalitari […] noi siamo forti e non abbiamo bisogno di mendicare un posto nella vita politica da chicchessia" <178.
A Parma dunque, ad esempio, dove a un giovane democristiano, Franco Valla, nel Fronte della gioventù locale era stata affidato nel gennaio 1945 il delicato settore stampa e propaganda, a fine maggio il Comitato direttivo del Fronte prendeva atto del ritiro temporaneo per disposizioni superiori di partito dei giovani democristiani, per cui la stessa segreteria del Comitato direttivo, tenuta dal democristiano Zanzucchi, veniva affidata al giovane azionista Rosselli <179.
Questo atto si concretizza all'inizio di giugno con un distacco definitivo dei giovani democristiani, poiché la segreteria provinciale Dc riteneva che il Fronte della gioventù si avviasse a divenire «organizzazione non solo unitaria, ma unica, assorbente, esclusiva della gioventù italiana» <180. L'accusa rivolta al Fronte era quella di voler monopolizzare le organizzazioni giovanili e questo disegno si manifestava nella pretesa «di subentrare direttamente e totalitariamente nell'eredità di impianti e mezzi delle disciolte organizzazioni uniche fasciste» <181.
Andreotti contribuisce personalmente alla difesa di tale linea. Il 4 giugno scrive a tutti i comitati provinciali affinché gli venga immediatamente segnalato il nominativo dell'incaricato per i rapporti con le altre organizzazioni. Ogni quindici giorni ogni delegato provinciale dovrà inviargli una relazione dettagliata sulle attività e sui rapporti avuti con altri partiti, movimenti, associazioni; «Per le Province del Nord recentemente liberate si richiede una relazione sull'attività clandestina e partigiana, soprattutto quella esplicata in comune con altri movimenti» <182. Solo in un caso i Gruppi giovanili Dc potranno collaborare apertamente con i giovani del Pci, degli altri partiti o ad iniziative promosse da Fronte della gioventù, ovvero per la creazione di comitati provinciali “pro-voto” ai diciottenni e ai soldati <183. Resta fermo il divieto di partecipare a qualsiasi organizzazione, sia essa «fronte» o «consiglio», esterna al partito: «Si chiede all'uopo, se in qualche regione, provincia o città siano avvenute queste adesioni sia collegialmente che isolatamente […] di comunicarcelo, specificandone l'entità e il motivo» <184.
Un tale atteggiamento di rottura porta, in taluni casi, a episodi «tumultuosi» e «turbolenti», come quelli che si verificano a Palermo durante i lavori del Convegno regionale della gioventù dell'isola. Dall'11 al 13 settembre 1945 si riuniscono nel capoluogo siciliano i rappresentanti dei Gruppi giovanili Dc, dell'Azione cattolica, dei membri della Fgs, dei giovani del Partito comunista, del Partito d'azione, del Partito repubblicano, di quello liberale e di quello democratico del lavoro; nonostante le buone intenzioni iniziali e la volontà di discutere gli infiniti problemi che affliggono la gioventù siciliana, «non si è riusciti a mantenere i lavori del Convegno in quella atmosfera di sincerità e di solidarietà che speravamo invece il convegno potesse avere», a causa della «inconsulta intemperanza ed il settarismo di alcuni delegati che hanno portato nel Congresso metodi e frasi abituali del fucilato di Dongo» <185 [...]
[NOTE]
162 Nel giugno del 1945 «La Punta» scrive infatti che «i partiti di estrema portano nella vita della Nazione solo squilibrio […] I CLN vanno sostituiti al più presto dai normali organismi politici e amministrativi democraticamente ricostituiti»; Il problema del Fronte Unico Giovanile. Una dichiarazione dei gruppi Giovanili della Democrazia Cristiana, in «La Punta», 4 giugno 1945. Si legga comunque anche ciò che scrive Manlio Di Celso il 15 ottobre 1945: «Il luogo comune di tutti i reazionari, che cioè il governo del C.L.N. è un fascismo a sei, non regge alla critica. Non vi è alcuna analogia tra una costellazione politica che vai dai liberali ai comunisti, dai monarchici ai repubblicani, dai cattolici agli atei e il partito unico, in cui tutti agivano, parlavano, pensavano, vestivano e talvolta camminavano allo stesso modo. […] Fino a che non vi saranno le elezioni, l'unica alternativa al regime dei sei partiti è una dittatura regia, che il paese in grandissima parte respinge. Il problema non è dunque di condannare in linea di principio il governo del C.L.N., unico possibile se si vuole esser fedeli alla democrazia, ma di cercar di migliorarne il funzionamento»; M. Di Celso, Il governo dei C.L.N., in «La Punta», 15 ottobre 1945.
163 Si legga, per quanto riguarda l'attività nel Fdg, la testimonianza del reggiano Ermes Grappi: «Che cosa facevamo noi del Fronte della Gioventù? Beh, si potrebbero dire tante cose. Almeno voglio ricordare un'iniziativa che ebbe grande successo e che suscitò clamore. In occasione della manifestazione che fecero le donne il 13 aprile 1945, la “giornata insurrezionale”, andammo in tutte le scuole, in tutte le aule, utilizzando l'altoparlante di cui quasi tutte disponevano, incitando gli studenti ad uscire e ad unirsi alle donne. In una scuola che non disponeva di altoparlante, corremmo per i corridoi ed aprimmo tutte le porte delle aule rivolgendo l'invito a gran voce. La grande maggioranza degli studenti uscì, una parte anche solo per marinare la scuola, ma una parte, la più numerosa, si unì alle donne che dilagavano nelle strade cittadine. In quella vicenda noi perdemmo un bravissimo compagno di 19 anni, Marcello Bigliardi, portato alla caserma Muti, seviziato e ucciso nella giornata stessa. […] Il Fronte della Gioventù, come già detto, doveva essere aperto a rapporti provenienti da varie parti, ma noi, che lo avevamo fondato, ne eravamo anche gelosi e restii a dare troppo spazio a chi intendeva entrare e insediarsi in posti di comando quando l'organizzazione si era già consolidata. Noi eravamo in quel periodo in contatto con Giuseppe Dossetti, che era a Cavriago. I democristiani, quando videro che il Fronte della Gioventù aveva una sua organizzazione, le cui iniziative venivano propagandate in manifesti, che riusciva persino a pubblicare un giornalino, “Riscossa giovanile”, che il PCI, attraverso il Fronte della Gioventù, si metteva in collegamento con i giovani, chiesero di entrarvi. Gli facemmo questo discorso però: “Ah no, è comoda, dovete partire dalla gavetta, non potete avere diritto di rappresentanza negli organismi, sia pure clandestini, di direzione del movimento, perché voi, eh!, siete arrivati ultimi”. Ma i democristiani non accettarono. […] l'entrata di giovani democristiani nel Fronte della Gioventù andò avanti per un po' di tempo, ma non si risolse senza traumi. Non è che abbiamo avuto un segno tangibile del loro impegno, ma il loro ingresso segnò la legittimazione, diciamo così, di un'altra forza politica. Infatti la loro presenza ebbe effetti molto positivi per il movimento clandestino perché determinò il riconoscimento, alla fine di ottobre del 1944, del Fronte della Gioventù da parte del CLNP (Comitato di liberazione nazionale provinciale)»; E. Grappi, La mia vita nel Novecento, a cura di G. Bertani, Corsiero editore, Reggio Emilia 2016, pp. 36-39.
164 Noi giovani, 15 maggio 1944, citato in P. De Lazzari, Storia del Fronte della Gioventù, cit., p. 60.
165 Firmatari i Gruppi giovanili DC, La Federazione giovanile comunista e quella socialista, il Movimento giovanile del Partito democratico del lavoro e quello dei Cattolici comunisti, l'Unione goliardica per la libertà, la Federazione giovanile del Partito d'azione; cfr. G. Staffa, Il Movimento Giovanile Democristiano (1943-1948), cit., p. 41.
166 G. Andreotti, Uno stato di giovani, in «Il Popolo», 25 novembre 1944.
167 C. Brizzolari, La rinascita della Dc in Liguria, cit., p. 402.
168 B. Zaccagnini, La partecipazione dei cattolici al C.L.N., in AA.VV., Cattolici nella Resistenza ravennate, Edizioni del Centro studi «Giuseppe Donati», Ravenna 1975, p. 45.
169 Un o.d.g. sul Fronte della Gioventù, 18 dicembre 1944, in «La Punta», 1 gennaio 1945.
170 M. Lazar, La strategia del Pcf e del Pci dal 1944 al 1947: acquisizioni della ricerca e problemi irrisolti, in E. Aga-Rossi, G. Quagliariello (a cura di), L'altra faccia della luna. I rapporti tra PCI, PCF e Unione Sovietica, Il Mulino, Bologna 1997, p. 89.
171 G. Quagliariello, La formazione della classe politica in Italia (1945-1956), in G. Orsina, G. Quagliariello (a cura di), La formazione della classe politica in Europa, cit., p. 37.
172 Sostiene Trivelli che «l'iniziativa che portò all'indebolimento e poi alla scomparsa del F.d.G. non fu qualcosa che promanasse dai giovani e nemmeno, essenzialmente, dai movimenti giovanili, ma da determinati partiti, soprattutto dal Partito liberale e dal Partito democristiano»; cfr. R. Trivelli, La gioventù comunista, cit., p. 118. In realtà il Fronte della Gioventù non ottenne mai risultati significativi sul piano strettamente organizzativo, attirandosi le critiche di esponenti qualificati del Partito comunista, che già nel 1947 ritenevano il Fronte un esperimento sostanzialmente fallito; cfr. G. Marimpietri, La federazione giovanile comunista: strutture organizzative e cambiamenti statutari nel periodo 1949-1956, in G. Orsina, G. Quagliariello (a cura di), La formazione della classe politica in Europa, cit., p. 232.
173 Il Pci sostenne in proprio quasi integralmente lo sforzo di tenere in vita le organizzazioni unitarie. E, d'altro canto, vi sono documenti eloquenti che attestano la volontà politica di esercitare l'egemonia e il controllo su di esse. A tal proposito, va anche tenuto presente che i giovani iscritti al Pci ebbero il preciso obbligo di militare nelle organizzazioni unitarie di massa e che, nello stesso tempo, essi furono inquadrati in una struttura parallela interna che aderì perfettamente alla struttura del partito. Questo sdoppiamento della struttura trovò un momento di raccordo solo dopo le elezioni del 1948 quando, persa la partita per una conquista del potere in tempi brevi, il partito dovette modificare la sua struttura, adattandola ad una strategia di lungo periodo che sarebbe passata per una fase di opposizione che si prospettava di non breve durata. Questa esigenza spinse a chiudere il capitolo degli organismi unitari e a ricostituire, nel 1949, la Federazione giovanile comunista italiana. Non si trattò di un nuovo inizio, bensì di un cambiamento di strategia che, in ogni caso, restò modellata sulle esigenze della politica generale del partito. Una ammissione, in tal senso, proviene dalla già citata ricostruzione di Trivelli, che rievocando la rifondazione della Fgci, così scriveva: «Se un inizio, per questo dopoguerra, può essere da noi considerato l'aprile del 1949, anno in cui si ricostituì la Federazione giovanile comunista italiana, questo non sarebbe che un inizio del tutto particolare e circoscritto, e anche non del tutto comprensibile ove non si tenesse presente un più lontano passato, che, attraverso la costituzione del Fronte della gioventù, ridiscende, giù giù, verso l'atto del 1921»; cfr; R. Trivelli, La gioventù comunista, cit., p. 117. Questa compenetrazione tra federazione giovanile e partito può rilevarsi per tutto il periodo qui preso in considerazione, che per la Fgci coincise con la permanenza di Enrico Berlinguer alla guida dell'organizzazione. D'altro canto, la comparazione con le altre esperienze giovanili aiuta a chiarire che tale natura eterodiretta della Fgci, che presuppone «una intima unità ideale e politica con il Partito», rappresentò un motivo di originalità nel panorama delle organizzazioni giovanili di partito del secondo dopoguerra. In questi anni, infatti, la Fgci non fu né un gruppo di pressione generazionale, né tanto meno uno strumento di lotta interna fra correnti. La sua storia, piuttosto, fu quella di un organismo pronto a modellarsi e a ridefinirsi secondo le esigenze strategiche fissate da entità superiori, sulla base della condivisione di una sostanziale alterità nei riguardi del sistema e delle regole della liberaldemocrazia; cfr. G. Quagliariello, La formazione della classe politica in Italia, cit., pp. 39-40. Sulla nascita della Fgci mi permetto di rinviare anche ad A. Montanari, Reggio Emilia, 22 maggio 1949. Il popolo comunista: la rinascita della Fgci in Emilia Romagna, in L. Capitani (a cura di), Emilia Rossa. Immagini, voci, memorie dalla storia del Pci in Emilia Romagna (1946-1991), Vittoria Maselli, Reggio Emilia 2012, pp. 200-204.
174 «La Commissione ha per scopo principale la difesa degli interessi dei giovani lavoratori nelle controversie con i datori di lavoro a carattere nazionale; la tutela degli interessi giovanili nei sindacati, particolarmente durante la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro; la formazione di una cultura e coscienza sindacale nei giovani, e la propaganda perché la gioventù lavoratrice aderisca in massa ai sindacati della CGIL. […] Accanto ad ogni delegato provinciale dei Gruppi Giovanili […] dovrà esservi un altro giovane in qualità di incaricato provinciale per i problemi del lavoro. L'incaricato provinciale dirigerà e coordinerà tutto il lavoro organizzativo della provincia, mantenendosi in stretto contatto con l'Incaricato nazionale e con i locali dirigenti delle ACLI. Anche gli altri incaricati di zona e sezionali prenderanno contatto con le ACLI. […] I nostri incaricati dovranno aver cura che nei vari comitati che costituiranno non manchi la rappresentanza dell'elemento femminile, e perciò prenderanno opportuni accordi con i nostri gruppi femminili. Di vitale importanza è il promuovere corsi di sociologia cristiana per i lavoratori. […] I nostri incaricati […] cerchino almeno di non farsi rimorchiare da giovani di altri partiti»; ASILS, CA, serie “Democrazia cristiana”, b.997, Movimento giovanile, Circolare di Giulio Andreotti e Edmondo Albertini, 4 aprile 1945.
175 ADCRE, f.D2, b. “Movimento Giovanile D.C.”, Circolare di Giulio Andreotti, 26 marzo 1945.
176 C. Brizzolari, La rinascita della Dc in Liguria, cit., p. 403.
177 ADCRE, f.D2, b. “Movimento Giovanile D.C.”, Lettera di Ermanno Gorrieri, 29 aprile 1945.
178 Il problema del Fronte Unico Giovanile. Una dichiarazione dei gruppi Giovanili della Democrazia Cristiana, in «La Punta», 4 giugno 1945. Si veda la risposta che Davide Lajolo scrive su «l'Unità» 5 giorni dopo: «Qualcuno ha blaterato contro questa organizzazione, ha sofisticato. Strane accuse invero contro un organismo espresso dalla lotta e che proprio i giovani in libera scelta si sono costruito»; Ulisse, I giovani per un Governo democratico, in «l'Unità», 9 giugno 1945. Si noti anche che i dirigenti del Fronte avevano fin dal 1944-45 tentato di agganciare anche la dirigenza della Giac. Gedda e, dopo di lui, Carretto, avevano opposto un costante rifiuto, contestando l'ambizione del Fronte di porsi come organismo rappresentativo della gioventù italiana. Nel 1947-48 l'irrigidimento delle barriere politico-ideologiche indebolì, al pari della strategia di Togliatti, le aspirazioni del Fronte che, nei confronti della Giac, oscillò fra accattivanti riconoscimenti e ostilità a volte sprezzanti; così F. Piva, La gioventù cattolica in cammino. Memoria e storia del gruppo dirigente (1946-54), Franco Angeli, Milano 2004, pp. 47-48.
179 P. Calzolari, Giovani comunisti parmensi dal Fronte della gioventù alla Federazione giovanile comunista (1943-1949), in F. Sicuri (a cura di), Comunisti a Parma. Atti del convegno tenutosi a Parma il 7 novembre 1981, STEP, Parma 1986, pp. 361-362.
180 Ivi, p. 362.
181 Ibidem.
182 ASILS, CA, serie “Democrazia cristiana”, b.997, Movimento giovanile, circolare di Giulio Andreotti, 4 giugno 1945. Andreotti aggiunge in tale circolare anche indicazioni riguardanti l'inizio della campagna per l'italianità di Trieste: «In ogni capoluogo di Provincia d'accordo con le altre organizzazioni religiose, sociali, politiche, culturali, sportive ecc. costituire comitati affermanti l'italianità di Trieste e l'integrità dei confini nazionali. Si istituiscano e si organizzino manifestazioni, comizi; si stampino volantini; si scrivano articoli sulla stampa locale; si votino odg nel senso desiderato. Tali manifestazioni potranno venire turbate, od almeno ostacolate da elementi di ben individuato indirizzo politico, ma questo non interrompa in alcun modo l'organizzazione di quanto sopra detto. Si agiti il problema, e lo si discuta dai nostri giovani, in ogni scuola, negozio, officina, ufficio».
183 Ibidem.
184 Ibidem.
185 Congresso della gioventù siciliana, in «La Punta», 24 settembre 1945.
Andrea Montanari, Il Movimento giovanile della Democrazia Cristiana da De Gasperi a Fanfani (1943-1955), Tesi di dottorato, Università degli studi di Parma, 2017