sabato 26 giugno 2021

Il poeta agricoltore di Bagnolo, Reggio Emilia

Lenin Montanari - Fonte: Musei Civici di Reggio Emilia

«Più che un agricoltore, mi sento un anarchico dell’agricoltura. Sono tornato a fare il contadino a un esame dalla laurea. Volevo restare puro. Mio padre era un mezzadro, coltivava terra non sua, ed era di sinistra: così i padroni gli davano sempre la terra più difficile. Ma lui era innamorato della terra e quando in Russia l’hanno dato ai contadini, Lenin è diventato il suo mito. Era un uomo intelligente: mentre gli altri agricoltori mandavano i figli a lavorare, lui ci mandava a scuola [...] Allora la poesia era la mia rivalsa sugli altri, il mio modo di comunicare, specialmente con le ragazze.
La scelta di fare il contadino è stata bella, ma faticosa. Sono stato però un innovatore, perché dal 1999 ho lasciato le mucche libere nella stalla, non legate alla catena. Solo dopo si è visto che, con la stabulazione libera, le mucche producono più latte. Io, però, non l’avevo scelta per guadagnare di più, ma per lavorare meno e avere più ore per vivere, cioè per scrivere e frequentare la gente. Penso di essere stato un po’ il cronista della mia generazione, della reggianità. Gli insegnamenti di mio padre mi sono rimasti dentro e mi sento realizzato, anche perché mi sono fatto un reddito come gli altri. Oggi credo di essere un mito per i giovani, proprio per questa mia trasgressione positiva: io contestavo, ma costruivo. La mia generazione, invece, comincia ad apprezzarmi ora. Forse».
Redazione, Lenin Montanari, Noi, Storie di comunità, idee, prodotti e terre reggiane, Ritratti di un paesaggio, Musei Civici di Reggio Emilia 

Lenin Montanari - Fonte: the submarine

[...] “The extraordinary life of an ordinary Lenin” in questione fa tutt’altro. Giomi e Braglia hanno deciso di non fare grandi viaggi, ma si sono imbattuti in un Lenin di tutti i giorni tra le pianure emiliane: hanno trovato Lenin Montanari. Agricoltore, poeta, commediografo, anarchico: “Più che un agricoltore, mi sento un anarchico dell’agricoltura,” così si definisce il loro Lenin.
 

Fonte: the submarine

Il libro parte da un testo che racconta del Lenin russo, per poi confondersi con Montanari man mano che si procede nella lettura. Così le fotografie: la prima è un ritratto “colorato” di Lenin - scelta per cui si può spezzare una lancia a favore, in questo caso - per poi iniziare a tratteggiare il ritratto del Lenin ordinario, tra foto di repertorio, frasi e fotografie di quello che segna la sua vita.
Il gioco su cui si basa il libro è questo intreccio continuo tra le due storie, dove però, alla fine, emerge sicuramente la personalità di Lenin Montanari, il vero soggetto del progetto.
[...] Abbiamo ritenuto che la storia di Lenin Montanari, rappresentata in modo evocativo piuttosto che documentario, suscitasse interesse ma soprattutto ponesse delle domande riguardo la linea di confine tra ideale e reale oggi.
[...] Come siete entrati in contatto con Lenin Montanari?
Reggio Emilia è una realtà provinciale, per chi sa muoversi bene non è così difficile conoscere un po’ tutti. Un caro amico ci ha suggerito di conoscere quest’uomo e, mossi dalla curiosità insita nel nome abbiamo accettato. Non avevamo idea di che storia si celasse dietro ad un nome già così straordinario di per sé.
 

Fonte: the submarine

Cosa vi ha portato a voler raccontare la sua storia?

La prima cosa che ci ha colpito di quest’uomo è stata la sua verità d’animo, una limpidezza che sfiora l’assurdo. Niente di costruito, di preparato o di impostato, l’ambiente e l’aura che lo circondano richiamano, a distanza di tempo, mode, epoche e rivoluzioni, ancora intatte e genuine. Nei suoi racconti abbiamo riscontrato qualcosa di troppo originale e autentico: valori, idee e pensieri lungimiranti racchiusi nel corpo di un comune contadino e negli oggetti che sono attorno a lui, anonimi ma che godono di una luce particolare dovuta al ruolo che hanno rivestito nella sua vita. La sua è una storia che non poteva non essere raccontata.
Il progetto è stato realizzato grazie al supporto di Fotografia europea. Come è andata?
Abbiamo partecipato nell’edizione 2017 del festival con una piccola mostra all’interno del circuito OFF. Il progetto raccontava una sorta di viaggio che abbiamo fatto a vicenda  nel passato e nella storia della famiglia dell’altro, utilizzando i rispettivi archivi fotografici dei nonni, e documentando o evocando gli effetti visibili ed effimeri insiti in tale scarto temporale. Con questo progetto, chiamato What else is there?, abbiamo ottenuto il primo premio tra i partecipanti del circuito OFF, e quindi la possibilità di esporre un nuovo progetto nell’edizione seguente.
 

Lenin Montanari - Fonte: the submarine

Nella realizzazione di questo libro ho visto che sono intervenute diverse persone. Come è stato il percorso dall’idea alla realizzazione?

Da tempo avevamo in mente l’idea di cercare una minoranza, una comunità o un piccolo paese dove la vita quotidiana procedesse in modo diverso rispetto a tutto il resto del mondo globalizzato. Un giorno, facendo ricerca, è saltato fuori il nome di Lenin Montanari, assieme a diverse leggende su di lui. Così abbiamo deciso di andarlo a trovare, e in un pomeriggio ci siamo resi conto come nella sua fattoria e nella sua persona vivessero dei caratteri unici, degni di un utopista pragmatico, come abbiamo voluto definirlo. Sicuramente i suoi racconti, assieme a quelli di sua moglie e le figlie (che ci hanno ospitato gentilmente per vari giorni) ci hanno reso un quadro della sua vita. Successivamente, con tutto il materiale raccolto, Matilde Losi ed Alessandra Lanza ci hanno dato una mano nel ristabilire una connessione chiara tra le varie parti della sua vita e tradurre determinati concetti in parole. Dal punto di vista fotografico, editoriale e di allestimento della mostra invece è stato vitale l’aiuto fornito da due grandi esperti del settore: Joan Fontcuberta e Ilaria Campioli.
Nicolò Piuzzi, La vita straordinaria di Lenin Montanari, the submarine, Diaframma, 3 maggio 2018 


Il poeta agricoltore Lenin Montanari, di Bagnolo, è un personaggio assai noto in paese. A lui è intitolato un libro fotografico che viene presentato il 18 giugno in occasione di una mostra allestita da oggi fino al 25 luglio al Chiostro della Ghiara di Reggio. Nell’anno in cui si celebrano il secolo dalla nascita del Pci, il racconto fotografico di Paolo Simonazzi rende omaggio a Lenin Montanari. Partendo dagli scatti realizzati nel 2012, alcuni dei quali poi inclusi nel progetto "So near, so far", presentato alla Collezione Maramotti nel 2016, Simonazzi è tornato nel casale di Lenin Montanari, a San Tomaso della Fossa, per completare un lavoro che a distanza di quasi dieci anni viene presentato con una mostra e un libro fotografico in occasione di "Fotografia Europea 2021".
Lenin Montanari, 75 anni, ha avuto un’eredità importante e impegnativa. Suo padre, mezzadro e di sinistra, aveva ammirato la distribuzione della terra ai contadini poveri decisa in Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre.
Una bella responsabilità, che Lenin di Bagnolo ha interpretato a suo modo. A un passo dalla laurea, ha deciso di rimanere a lavorare la terra, ma più che un agricoltore si è sempre sentito un innovatore e "un anarchico dell’agricoltura".
Le sue poesie, come ricorda Claudio Gavioli in uno dei testi che accompagnano il progetto fotografico, così evocative e melodiche, avevano conquistato un musicista sensibile come Augusto Daolio dei Nomadi, amico di Lenin fino al temine prematuro dei suoi giorni [...]
Redazione, Un libro fotografico sul poeta agricoltore, il Resto del Carlino, giugno 2021 

Giorno d'inverno
è una fredda mattina
bianca di gelo e di brina,
e questo giorno d’inverno
come un vecchio quaderno
risveglia in un solo momento
le antiche fiabe di un tempo,
e la speranza si fa lieve
come nei sogni dei bimbi la neve;
ma domani, senza di te,
il ragazzo che è in me
svanirà come i diamanti
gelidi d’acqua lucenti,
e sui rami di rosa ogni gemma
di brina
ritornerà un’arida spina.
Lenin Montanari, Terra Scura, APM Edizioni, 2003, qui ripresa da Andrea Mariotti

 

lunedì 21 giugno 2021

Pistoletto in Mostra ad Ascona

Michelangelo Pistoletto, Autoritratto oro, 1960 - olio, acrilico e oro su tela 200 x 150 - Foto D. Andreotti - Fonte: CLP cit. infra

Mostra Pistoletto Ascona cit. infra - Sala Quadri specchianti - Foto: Alexandre Zveiger - Fonte: CLP cit. infra

Mostra Pistoletto Ascona cit. infra - Sala Arte Povera 2 - Foto: Alexandre Zveiger - Fonte: CLP cit. infra

Mostra Pistoletto Ascona cit. infra - Sala Arte Povera 3 - Foto: Alexandre Zveiger - Fonte: CLP cit. infra

Mostra Pistoletto Ascona cit. infra - Sala Azioni e collaborazioni - Foto: Alexandre Zveiger - Fonte: CLP cit. infra

Mostra Pistoletto Ascona cit. infra - Sala Segno Arte - Foto: Alexandre Zveiger - Fonte: CLP cit. infra

Mostra Pistoletto Ascona cit. infra - Sala Tempo del giudizio - Foto: Alexandre Zveiger - Fonte: CLP cit. infra

Mostra Pistoletto Ascona cit. infra - Terzo Paradiso a Monte Verità - Foto: Alexandre Zveiger - Fonte: CLP cit. infra

Mostra Pistoletto Ascona cit. infra - Terzo Paradiso al Parco Museo Castello San Materno - Foto 1: Alexandre Zveiger - Fonte: CLP cit. infra

Mostra Pistoletto Ascona cit. infra - Terzo Paradiso al Parco Museo Castello San Materno - Foto 2: Alexandre Zveiger - Fonte: CLP cit. infra

La più completa retrospettiva mai realizzata in Svizzera di uno dei maggiori protagonisti [Michelangelo Pistoletto] della scena artistica internazionale presenta oltre 40 opere, tra dipinti, quadri specchianti, installazioni, video e rare immagini d’archivio, realizzate tra il 1958 e il 2021.
Il percorso espositivo si completa con due versioni del Terzo Paradiso, uno dei suoi lavori ambientali più significativi, al Museo Castello San Materno e al Monte Verità, che verrà donato dall’artista e rivela la continuità tra il suo pensiero e questo luogo emblematico di Ascona.
Il 2021 del Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona sarà ricordato per il grande evento dedicato a Michelangelo Pistoletto, tra i maggiori protagonisti della scena artistica internazionale, che, per l’occasione, proporrà un progetto innovativo.
Dal 30 maggio al 26 settembre 2021, il Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona, in collaborazione con Cittadellarte – Fondazione Pistoletto di Biella, ospita la più importante e completa personale dell’artista, mai tenuta in Svizzera, dal titolo La Verità di Michelangelo Pistoletto. Dallo Specchio al Terzo Paradiso.
La rassegna, curata da Mara Folini e Alberto Fiz, si compone da 40 opere, tra dipinti, quadri specchianti, installazioni, video e rare immagini d’archivio, dal 1958 al 2021, alcune iconiche come La Venere degli stracci, Metro cubo d’infinito o i Quadri specchianti, altre esposte solo in rare circostanze, come quelle a tema politico degli anni sessanta, che fanno riferimento all’esperienza interdisciplinare dello Zoo.
L’iniziativa si completa nel Parco del Castello San Materno dov’è stato realizzato un Terzo Paradiso utilizzando una settantina di piante.
[...] “Guardando alla straordinaria opera di Michelangelo Pistoletto - afferma Mara Folini -, nel contesto culturale del Locarnese – terra di anarchici e teosofi ancor prima dell’esperienza comunitaria di Monte Verità – è proprio il concetto di cambiamento, di “demopraxia”, che Pistoletto con Cittadellarte sta portando avanti in modo capillare nel mondo, promuovendo il concetto di “Terzo Paradiso” nei fatti, ad essere una pratica innovativa che fa la differenza, rispetto agli altrettanti edificanti propositi di altrettanti artisti impegnati. Mettere in piedi processi articolati di attivismo relazionale, pacifico e costruttivo, dal basso, è in altre parole ben diverso dal sogno romantico, visionario e utopico delle storiche comunità di artisti dei secoli scorsi, come quella di Monte Verità, che finivano per essere delle esperienze chiuse, delle “arcadie” di pochi eletti, scollegate dalle società. Mi auguro, così, che da questo progetto ambizioso che collega la storia locale all’oggi, ne possa uscire qualcosa di produttivo e stimolante anche per Ascona e la sua regione”.
“I temi sollevati da Michelangelo Pistoletto - sottolinea Michela Ris, capodicastero cultura del Municipio di Ascona -, relativi alla salvaguardia del nostro pianeta, allo sviluppo sostenibile e all’inclusione democratica delle differenze, sono così attuali e urgenti, che mi auguro possano diventare argomenti di discussione in seno al Municipio di Ascona, come occasione di riflessione e di stimolo per incrementare progetti innovativi, sempre più vicini al benessere del cittadino. Incentivare una politica che guarda al “verde” e alla “sostenibilità”, come valori aggiunti di una cittadina come quella di Ascona, rinomata per essere stata terra di artisti visionari ante litteram ecologisti, significa valorizzare l’eredità di chi ci ha preceduti, rendendole giustizia nei fatti”.
“Quella di Ascona - dichiara Alberto Fiz - “è una rassegna esaustiva che consente di analizzare in maniera approfondita l’intero iter creativo di Pistoletto, tra i maggiori protagonisti della ricerca artistica internazionale dagli anni sessanta a oggi. Pistoletto ha radicalmente trasformato il rapporto con l’opera d’arte che, grazie alla sua indagine, si pone come principio relazionale dove il significato non sta nella cosa in sé, bensì nel passaggio tra le cose. E tutto ciò in base ad una prospettiva multipla, dinamica ed espansiva che assorbe la dimensione temporale come accadimento che si modifica nel momento stesso in cui si produce”.
Il percorso espositivo allestito sui due piani del Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona prende avvio con la sezione che documenta la nascita e l’evoluzione dei Quadri specchianti con sette lavori emblematici tra cui La folla (1958-1959) e Autoritratto oro (1960) che anticipano la rivoluzione di poco successiva. Se La Folla presenta una moltitudine anonima che emerge dal fondo del quadro, Autoritratto oro ha come riferimento il fondo oro ed esprime la necessità di liberare il vuoto che sta dietro la figura.
Nel 1962 irrompono sulla scena i Quadri specchianti e in mostra si trova Bottiglia del 1963, uno dei primi esempi realizzato con questa tecnica, dove compare, senza enfasi, un elemento quotidiano nella parte bassa dello specchio. Un altro lavoro particolarmente significativo è Padre e madre del 1968, con i genitori di Pistoletto visti di schiena, nella stessa posizione dell’osservatore di fronte allo specchio.
L’excursus, che comprende anche Gabbia (1969), viene completato da Autoritratto con quaderno Terzo Paradiso del 2017 che sembra dialogare con Autoritratto oro di quasi cinquant’anni prima.
La rassegna prosegue con una serie d’installazioni iconiche degli anni sessanta tra cui il Labirinto (1969), in cartone ondulato, che invade completamente l’ambiente, al cui interno compare il Pozzo del 1965 che fa parte degli Oggetti in meno realizzato anch’esso con cartone ondulato e montato a forma circolare, mentre ai lati dello stesso s’incontrano due opere paradigmatiche nel rinnovato contesto linguistico espresso dall’Arte Povera come Venere degli stracci del 1967 e Muro di mattoni del 1968. Le installazioni si relazionano con Specchio diviso, 1973-1978.
La seconda metà degli anni sessanta è caratterizzata anche dalle azioni collettive e delle performance teatrali, che sono rievocate in maniera ampia e approfondita attraverso video e materiale fotografico. Tra questi, le immagini che descrivono l’esperienza dello Zoo, la compagnia creata da Pistoletto nel 1968 che propone azioni teatrali e performative in contesti estranei all’ufficialità.
Al centro del lungo corridoio, gli spettatori potranno divertirsi a spostare liberamente Sfera di giornali che ripropone un lavoro storico appartenente alla serie degli Oggetti in meno che già nel 1967 è stato utilizzato per un’azione compiuta in occasione della mostra collettiva Con-temp-l’azione.
Il riciclo dell’informazione, la comunicazione fluida, la sovrapposizione delle notizie e il loro azzeramento, sono solo alcuni aspetti che rendono particolarmente attuale Sfera di giornali che, sabato 10 luglio, sarà protagonista di una performance, destinata a coinvolgere gli abitanti di Ascona, spostandosi dal museo per le strade del Borgo.
Una intera sezione è dedicata a Segno Arte, altra fondamentale ricerca di Pistoletto, ovvero una figura, costituita dall’intersezione di due triangoli che inscrive idealmente un corpo umano con le braccia alzate e le gambe divaricate. Di questa forma, che corrisponde alla massima estensione del corpo, vengono proposte alcune opere in materiali diversi, come Porta-Segno Arte, Finestra-Segno Arte, Termosifone-Uomo-Segno Arte, Cassonetto-Segno Arte, Attraverso il Segno Arte.
Al secondo piano del Museo si trovano alcune installazioni recenti di particolare significato tra cui il Tempo del giudizio (2009), che rappresenta idealmente un tempio in cui le quattro grandi religioni – Cristianesimo, Buddismo, Islamismo, Ebraismo – sono indotte a riflettere su se stesse ponendosi di fronte allo specchio.
Redazione, La verità di Michelangelo Pistoletto. Dallo Specchio al Terzo Paradiso, CLP, maggio 2021

[...] AF Che significato assume la donazione del Terzo Paradiso a Monte Verità in occasione della mostra La Verità di Michelangelo Pistoletto. Dallo Specchio al Terzo Paradiso realizzata al Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona?
MP Ho voluto lasciare un simbolo di Verità sul Monte Verità. Il Terzo Paradiso significa la rigenerazione della società, che in questa circostanza è resa esplicita dai grandi sassi levigati dal tempo che sembrano uscire dal terreno, come se la mia opera fosse sedimentata da sempre in un luogo così ricco di significati. Tra la mia esperienza di artista che attraverso il Quadro specchiante ha identificato l’aspetto fenomenologico della verità e quella di coloro che all’inizio del secolo scorso hanno fatto di Monte Verità l’ambiente intorno a cui dare vita a un progetto di trasformazione sociale basandosi su un ritorno ai valori originari e autentici della natura, ci sono profonde affinità e mi auguro che il mio Terzo Paradiso, così com’è stato in altri contesti, possa diventare occasione di una nuova rinascita attivando le energie del territorio.
AF Ida Hofmann-Oedenkoven, tra le fondatrici del Monte Verità, così scriveva nel 1906: “Voglio raccontare la vita di alcuni uomini che presero coscienza della loro condizione, decisero di cambiar vita per imprimere alla loro esistenza una direzione più naturale e più sana. La verità, la libertà di pensiero e azione dovevano accompagnare le loro aspirazioni future come costante punto di riferimento”.
MP Il Terzo Paradiso, che nel cerchio centrale accoglie il ventre procreativo di una nuova umanità, non poteva avere una collocazione migliore.
Conversazione tra Michelangelo Pistoletto e Alberto Fiz, Lo specchio è la verità. Non può mentire, dal catalogo Edizioni Casagrande, Museo Comunale d'Arte Moderna, Ascona, 29 maggio 2021 

Sede del Terzo Paradiso - Fonte: cittadellarte cit. infra

Cittadellarte è un modello di istituzione artistica e formativa che implica l’arte nei diversi settori della società come enzima trasformatore fondato sul binomio libertà/responsabilità, promuove e realizza pratiche e metodi dei nuovi saperi orientati alla trasformazione sociale responsabile.
Cittadellarte è il luogo dove fare esperienza di un modo di vivere fondato sulla visione del Terzo Paradiso, di cui Cittadellarte è la sede originaria.
Cittadellarte è un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale, riconosciuta nel 1998 dalla Regione Piemonte e con essa convenzionata. Ha sede a Biella in un’ex manifattura laniera (sec. XIX), complesso di archeologia industriale, tutelato dal Ministero dei Beni Culturali.
Il simbolo del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto è una riformulazione del segno matematico dell’infinito. I due cerchi opposti signifi cano natura e artificio, l’anello centrale è la congiunzione dei due e rappresenta il grembo della rinascita.
Redazione, Ispirare e produrre un cambiamento responsabile nella società attraverso arte, idee e progetti creativi, Cittadellarte - Fondazione Pistoletto

Fonte: cittadellarte cit.

Con una motivazione che riprende quasi alla lettera le linee guida dell'attività e dell'impegno di Pistoletto da circa venti anni, «aver posto i valori dell'arte contemporanea al centro di una trasformazione responsabile della società», il 29 marzo 2004, l'Università degli Studi di Torino conferisce all'artista la laurea honoris causa in Scienze Politiche. Nella solennità dell'evento, Pistoletto presenta il Terzo Paradiso, penultimo luogo della sua teorizzazione e progettazione artistica. Una nuova stella polare, una «bussola» lo definisce l'artista, da seguire per accrescere la rilevanza dell'arte nel sistema delle relazioni globali e conferirle una nuova funzione di guida tale da promuovere una revisione complessiva dei modelli di comportamento. Se lo scenario è quello della crisi mondiale e ad essere minacciato è il concetto di futuro, il lato intrinsecamente utopico del futuro, per reagire bisogna ripartire ancora una volta dall'arte, secondo Pistoletto, dalle sue facoltà costituenti. Non si tratta soltanto di declinare eticamente la propria azione: «io stesso, nonostante l'impegno artistico, intellettuale e pratico indirizzato verso una trasformazione responsabile della società, dovevo fare un ulteriore passo, ancora più deciso ed efficace, per contribuire al cambiamento che questa umanità, tanto silenziosamente quanto disperatamente, stava implorando», ma di osare di più, fare in modo che il più largo numero di persone assuma su di sé questa responsabilità.
Alla già intensa e variegata trama di attività di Cittadellarte la cui missione sociale costituisce un «principio attivo per la sostanziale formazione» di questo progetto, Pistoletto indica con il Terzo Paradiso «un possibile percorso per l'umanità intera: un nuovo mondo». In che cosa consista e quale potrebbe essere la pacificata prospettiva che maturerebbe nella sua attuazione emerge, al solito molto esplicitamente, in queste parole.
«Che cos'è il Terzo Paradiso?» - dice l'artista: "È la fusione tra il primo e il secondo paradiso. Il primo è il paradiso in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Il secondo è il paradiso artificiale, sviluppato  dall'intelligenza umana attraverso un processo che ha raggiunto oggi proporzioni globalizzanti. Questo paradiso è fatto di bisogni artificiali, di prodotti artificiali, di comodità artificiali, di piaceri artificiali e di ogni altra forma di artificio. Si è formato un vero e proprio mondo artificiale che, con progressione esponenziale, ingenera, parallelamente agli effetti benefici, processi irreversibili di degrado a dimensione planetaria. Il pericolo di una tragica collisione tra la sfera naturale e quella artificiale è ormai annunciato in ogni modo.
Il progetto del Terzo Paradiso consiste nel condurre l'artificio, cioè la scienza, la tecnologia, l'arte, la cultura e la politica a restituire vita alla Terra, congiuntamente all'impegno di rifondare i comuni principi e comportamenti etici, in quanto da questi dipende l'effettiva riuscita di tale obiettivo.
Terzo Paradiso significa il passaggio ad un nuovo livello di civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza.
Il Terzo Paradiso è il nuovo mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità in questo frangente epocale.
Il Terzo Paradiso è raffigurato simbolicamente da una riconfigurazione del segno matematico dell'infinito. Con il "Nuovo Segno d'Infinito" si disegnano tre cerchi: i due cerchi opposti significano natura e artificio, quello centrale è la congiunzione dei due e rappresenta il grembo generativo del Terzo Paradiso".
La presentazione di questo ardito scenario progettuale che può essere assunto solo attraverso un'adesione attenta e consapevole, è divenuta anche il contesto d'esordio del "nuovo segno di infinito" - simbolo rettificato dall'onnipotenza dell'arte - tracciato per la prima volta dall'artista nel 2003 sulla sabbia.
Già nel 1993 con Segno Arte, Pistoletto aveva creato un segno che voleva essere il movente di una serie di opere con forma identica ma realizzate in diversi materiali e, al contempo, un invito esteso a tutti a proporre un proprio "Segno Arte". Dimorava nelle intenzioni dell'artista la possibilità che il simbolo  tornasse  ad essere «comunitario e condiviso», ad esprimere «un'identità collettiva». Il Terzo Paradiso è allora una rinnovata occasione per riprendere tali intenzioni, di gran lunga più longeva rispetto al precedente dal momento che la sua trama si estende dal 2003 sino ad oggi.
In grado di esprimere le capacità aggreganti e generatrici dell'arte, quella che intende superare ogni autoreferenziale e criptica sintassi e giungere anche a chi non ha dimestichezza con l'artworld, tale ideogramma - simbolo di un'identità autoriale che l'artista immagina come collettiva - è diventato, allo stesso tempo, frammento e matrice, grazie alla sua «eloquenza particolare», di un dialogo che Pistoletto ha voluto istituire con il territorio nei luoghi più diversi non solo in Italia e con le numerose comunità che hanno voluto accoglierlo. Mentre concludiamo questo lavoro di tesi, ha avuto inizio l'ultimo atto del Terzo Paradiso al  Museo del Louvre  di Parigi, ma tra le numerose installazioni si vogliono ricordare le ricreazioni avvenute nelle Terme di Caracalla di Roma (ottobre 2012), nel Bosco di Francesco ad Assisi (2010) o all’Isola di San Servolo (giugno 2005) [...]
Maria De Vivo, La «smaterializzazione» dell’opera e la questione dell’arte relazionale. Il dibattito critico in Italia e le esperienze artistiche di Piero Gilardi e Michelangelo Pistoletto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Salerno, anno accademico 2011-2012 


giovedì 17 giugno 2021

La prostituzione sotto il fascismo e durante la guerra


«Venere vagante» è uno dei termini che le autorità italiane utilizzarono per indicare le prostitute irregolari. “Venere”, com’è noto, è l’etimo da cui deriva venereo, una locuzione con cui si indicavano le malattie sessualmente trasmissibili, mentre “vagante” designava le meretrici che si potevano muovere liberamente nella città, a differenza delle colleghe chiuse nelle case di tolleranza, le quali erano controllabili, soprattutto dal punto di vista sanitario.
[...]
Il contenimento coattivo della prostituzione clandestina fu una problematica affrontata anche negli anni della Grande guerra. In quella circostanza fu l’esercito che si occupò di predisporre e regolamentare i postriboli operanti nelle zone del fronte, con lo scopo di impedire che i soldati frequentassero le vaganti. La repressione nei confronti di quelle donne che non esercitavano all’interno delle strutture predisposte dalle autorità militari fu attuata già dall’estate del 1915 sia per le necessità, già espresse, di carattere igienico-sanitario, sia perché si temeva che tra di loro potesse nascondersi qualche spia. Per queste ragioni le meretrici finirono per ingrossare le fila di quella parte della popolazione civile che, proveniente dall’Isontino, dal Cadore, dal Trentino, venne internata con l’accusa di essere “austriacante”, sovversiva o delatrice e inviata in varie località della penisola, lontane dalle zone di guerra. I soggetti ritenuti più pericolosi e i sudditi nemici furono trasferiti in Sardegna. <1
È interessante notare che se le malattie veneree non dilagarono, come nelle precedenti guerre risorgimentali, fu merito dell’estensione all’esercito e, dunque, anche agli uomini, di quelle regole a cui, in tempo di pace, erano sottoposte soltanto le donne: schedatura, visita e cure forzate. Nei postriboli militari, tenuti sotto strettissima sorveglianza dai medici dell’esercito, oltre alle frequenti visite alle ospiti, si era predisposto uno speciale «gabinetto per la disinfezione postcoitum», nel quale i soldati erano obbligati a fermarsi all’uscita dal bordello. Nell’intento di contenere l’infezione di origine clandestina, simili gabinetti erano stati impiantati anche all’interno delle caserme e degli accampamenti, per essere a disposizione di chiunque ne facesse richiesta al rientro dalla libera uscita. <2
Questa profilassi, che pose un significativo freno all’espandersi delle infezioni, non fu però replicata durante il fascismo, il quale predispose una serie di norme incentrate principalmente sul controllo medico della prostituta e non del cliente. Quando una nuova guerra mondiale dilagò nel paese, si riproposero analoghe problematiche di ordine sanitario: "Mentre i nostri bravi combattenti compiono prodigi di valore in mezzo ai 1.000 sacrifici duri, che la guerra presente non risparmia, noi qui dobbiamo proteggere la razza, dobbiamo con qualsiasi mezzo e senza parsimonia combattere la immoralità, il diffondersi delle malattie celtiche, che per il capriccio per il lucro ed il lusso, minorenne, spose e ragazze, senza più pudore, calpestando ogni buon sentimento familiare infestano il popolo che deve battere la via dell'Ascensione e non della decadenza". <3
Questa missiva, fatta pervenire da un privato cittadino al Ministero dell’Interno nel giugno 1942, è esemplificativa dei timori che si coagularono intorno alla figura delle meretrici girovaghe durante la Seconda guerra mondiale, ma anche del modello femminile con cui venivano identificate, i cui tratti salienti emergono nell’epistola: "Serpe che avvelenano il genere umano, sfruttando una loro, più o meno durevole bellezza, o attraenza senza nessun amore, con cuore perfido avvincano, e come i vampiri succhiano avidamente il denaro rovinando le famiglie mandandole in miseria, con piccoli innocenti, privandole del più puro e sacro amore, portandovi il veleno, l’inferno, il delitto". <4
Lo stereotipo della messalina astuta, infima e pericolosa non rappresenta di certo una novità e a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fu rafforzato e legittimato scientificamente dalle teorie positiviste. Esemplare, in tal senso, furono le dottrine espresse nel noto volume che Cesare Lombroso, padre dell’antropologia criminale, scrisse nel 1893 insieme a Guglielmo Ferrero, intitolato La donna delinquente, la prostituta e la donna normale. Il lavoro,  stigmatizzando la prostituta come “naturalmente” portata a vendere il proprio corpo, individuava in essa l’equivalente femminile della criminalità maschile ponendola nel punto più basso della scala della devianza muliebre. La promiscuità sessuale delle meretrici, dunque, rappresentava un grave pericolo, esattamente come lo era il crimine maschile, di conseguenza la società doveva essere difesa da entrambi. <5
Queste argomentazioni andarono a corroborare le idee espresse dai fautori del regime di regolamentazione – introdotto in Italia dal Decreto Cavour del 15 febbraio 1860 – in base al quale vennero istituite le case di tolleranza, con l’intento di salvaguardare due inderogabili capisaldi del vivere civile: la moralità e la salute dei cittadini. <6
Quello che rappresenta una novità nel documento citato è l’introduzione del concetto di protezione della «razza». Ai due principi cardine del regolamentismo, dunque, sembrerebbe aggiungersene un terzo, riferibile sempre alla tutela della sanità dei corpi, con cui, in alcuni casi si sovrappone, ma con una significativa variante: ad essere difesa non è più soltanto l’integrità fisica del cittadino ma la «razza italiana». Altrettanto indicativamente, questa nuova interpretazione sembrerebbe fare la sua prima comparsa nei documenti fascisti relativi alla prostituzione solo dopo il 1936, anno d’avvio dell’avventura coloniale. <7
Il concetto di tutela della razza riferito alla salute degli italiani fece la sua apparizione in ambito giuridico nel 1931, collocato autorevolmente nel codice penale fascista, che il tale anno entrò in vigore. Il codice Rocco, dal nome del suo principale artefice, il guardasigilli Alfredo Rocco, incluse nei suoi articoli anche quelli riguardanti i «Delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe» inquadrati nel Libro II, Titolo X. È stato notato che il Titolo X poteva indifferentemente essere denominato «Delitti contro l’integrità e sanità della razza» anziché della «stirpe», dal momento che il ministro Rocco utilizzava i due termini sostanzialmente come sinonimi nei suoi scritti. <8
[...] In quanto «massimi fattori di degenerazione della razza», i contagi venerei – di cui le prostitute, in particolar modo le clandestine, erano ritenute il principale veicolo –, avevano assunto, dunque, i connotati di delitto contro la razza già dal 1931, ma solo nel 1937 il tema comparve nelle questioni di pubblica sicurezza riguardanti il meretricio. <11
Fu quello l’anno in cui, con la proclamazione dell’Impero da parte di Mussolini, la questione razziale iniziò ad assumere maggiore rilievo e, in questa prima fase, riguardò principalmente i rapporti tra italiani e popoli colonizzati. Appartiene a questo periodo quello che può essere definito il primo provvedimento legislativo integralmente discriminatorio del regime. Ci si riferisce alla legge, approvata il 19 aprile 1937 (Regio decreto Legge n. 880 intitolato «Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi»), che vietava in Italia e nelle colonie le «relazioni d’indole coniugale», più note con il termine «madamato», tra un cittadino italiano e un suddito coloniale. <12
Già in data 20 gennaio 1937 il Ministero delle Colonie scriveva a quello dell’Interno che "La presenza in A.O.I. di oltre 200.000 nazionali e di circa 150.000 lavoratori ha posto il problema del soddisfacimento delle loro necessità fisiologiche. Problema non più a lungo dilazionabile e collegato a quello importantissimo della difesa della razza contro il pericolo di incroci e quello non meno grave della sua sanità e della degenerazione sessuale. Com’è noto, questo Ministero si è già occupato e preoccupato di siffatto problema, tanto che è recente il provvedimento legislativo che vieta la convivenza di nazionali con donne indigene. Senonché tale divieto non contempla che un solo lato del problema e non lo risolve da solo. Occorre non solo proibire, ma mettere i connazionali che già sono in A.O.I. in numero rilevante in condizione di non violare la legge. Ciò può essere fatto con la sola colonizzazione demografica […]. Di qui la necessità urgente di dar modo ai connazionali che vivono in A.O.I. di soddisfare alle loro necessità di ordine fisiologico senza loro nocumento fisico e morale e senza danni e senza danni irreparabili per la omogeneità della razza. Si è quindi pensato di provvedere i Reparti lavoratori della M.V.S.N. per l’A.O.I. […] di appositi servizi fisiologici posti sotto la direzione ed il controllo delle autorità sanitarie ed organizzati con donne bianche". <13
La lotta per la difesa della razza si accresceva di un nuovo e fondamentale elemento che segnava una nuova tappa della via italiana al razzismo: il pericolo degli «incroci» con le popolazioni autoctone nelle colonie, contro i quali si chiedeva di perseguire la «colonizzazione demografica», da realizzarsi anche attraverso la possibilità di avere «appositi servizi fisiologici» organizzati esclusivamente «con donne bianche».
Successivamente, l’utilizzo del termine razza si estese anche alla prostituzione in patria e venne utilizzato con lo specifico significato ad esso attribuito dal Titolo X del codice Rocco.
Ce ne fornisce un esempio la comunicazione che il 21 settembre 1937 il Ministero dell’Interno indirizzò ai prefetti dei capoluoghi siciliani, avente per oggetto la «difesa della razza» e nel cui contenuto si dichiarava: "È stato segnalato che varie compagnie di operetta e di prosa girano città secondarie e borghi della Sicilia, per dare delle inqualificabili rappresentazioni. Dette compagnie sono composte, in massima parte, di giovani donne, che esercitando su larga scala la prostituzione, e – quel che è veramente grave – lasciano una scia di infezioni blenorragiche e luetiche tra gli uomini del paese, i quali a loro volta infettano le proprie donne. Queste, per un istintivo pudore non si sottopongono a cure di sorta; dal che derivano danni seri alla loro capacità procreativa". <14
La comunicazione ipotizza, per altro, non uno ma due dei reati previsti dal Titolo X.
Insieme all’articolo 554, riguardante il contagio di sifilide e blenorragia, veniva a configurarsi anche il delitto di procurata impotenza alla procreazione, previsto dall’articolo 552 e riscontrabile nei «danni seri alla capacità procreativa» delle mogli dei frequentatori di prostitute. Per questo il Ministero dell’Interno ordinava ai prefetti di «provvedere con ogni energia, affinché l’inconveniente venga senz’altro eliminato». <15
Con la Seconda guerra mondiale che, si è detto, segnò il culmine del timore per l’espandersi delle malattie veneree, il richiamo alla «difesa della razza» si fece più frequente, sempre associato ad argomentazioni riguardanti la moralità e l’integrità familiare
[...] Il sistema vigente in Italia, dunque, si configurava secondo il governo fascista come una «terza via», <28 che prendeva atto dell’impossibilità di eliminare un fenomeno ritenuto naturale, ma lo controllava per contenerlo «entro certi limiti», a difesa della «pubblica salute e dell’igiene». I limiti, fissati dai vari regolamenti sopra richiamati, dovevano essere fatti rispettare in modo rigidissimo, esercitando la massima vigilanza sui bordelli «con criteri
quanto più possibile restrittivi nella concessione delle prescritte dichiarazioni per l’apertura di siffatti locali, e con la più rigida azione repressiva delle irregolarità e degli abusi che in materia venissero accertati». <29
[...] Quanto la severità di questi ordini fosse effettivamente recepita dagli organismi preposti ad applicarli è ancora da verificare. Si può già rilevare, tuttavia, un allentamento della stretta poliziesca sul finire degli anni Trenta e, ancor più, negli anni del secondo conflitto bellico. La guerra coloniale prima e quella mondiale poi amplificheranno i timori per la diffusione delle malattie celtiche, contro la cui espansione, si è già detto, la casa di tolleranza era considerata il più sicuro impedimento, dal momento che si riteneva che le prostitute che vi esercitavano, grazie ai controlli medici e polizieschi, erano sane, a differenza delle colleghe passeggiatrici, considerate il principale veicolo dell’infezione. Proprio per favorire l’inglobamento della prostituzione clandestina nella rete di controllo medica e poliziesca del postribolo il Tulps del 1926 con l’articolo 194 aveva stabilito che «le case, i quartieri e qualsiasi altro luogo chiuso dove si eserciti abitualmente la prostituzione sono dall’autorità locale di pubblica sicurezza, a richiesta dell’esercente o di ufficio, dichiarati locali di meretricio».
[...] Ma, l’ipotesi di arrestare il contagio con il solo rimedio del lupanare era in buona parte illusoria, come dimostrano le numerose case di tolleranza chiuse a causa di infezioni da sifilide <31 e quelle, forse più numerose, in cui la vigilanza medica era affidata a personale corrotto che per lucro consentiva a donne ammalate di continuare a lavorare. Valga, a titolo di esempio, la lettera che sei prostitute scrissero, in un italiano stentato, al Ministero dell’Interno per lamentarsi delle visite sanitarie: "Incominciano sin dal primo giorno di quindicina fino alla fine si è soggette a tutte queste visite fatte con abbastanza scrupolosità che poi finiscono a delle buffonate perché subentra la simpatia dei Dottori verso le ragazze. Di conseguenza una ragazza sana viene per capriccio dei Dottori viene mandata in ospedale […] e quelle malate rimangono fuori secondo il beneplacito del Dottore che passa la visita. […]. Oltre alle visite e controvisite locali, vi è la visita interprovinciale che viene fatta dal Prof. Di Vella di Bari, al quale possiamo dire che nella città dove lui risiede si verificano dei fatti positivi e cioè ragazze effettivamente malate pagano quello che lui vuole le rilascia il relativo certificato di sana in modo che pur essendo ammalate possono lavorare […]. Vi sono tanti fatti che si potrebbero citare, ma non si finirebbe mai non volendo annoiare l’Ecc. V. Ill.ma soltanto rivolgiamo all’Ecc. V. questo nostro appello affinché siano verso di noi derelitte più umani perché ognuna di noi è costretta a fare questa vita, avendo anche noi qualche responsabilità, perché non è detto che sol perché siamo prostitute non si è creature o esseri umani come tutte le altre perché anche noi abbiamo qualche persona da mantenere". <32
Durante la Seconda guerra mondiale l’onestà dei medici fu messa più volte in dubbio anche dalle autorità alleate. Una ispezione sanitaria disposta a Napoli nel giugno del 1945 rivelò che il 49% delle prostitute dichiarate sane dai medici visitatori era affetto da infezioni celtiche. <33
Anche i funzionari di PS si dimostrarono tutt’altro che ligi al dovere, dal momento che diversi furono quelli cacciati per aver consentito l’attività ai postriboli clandestini. <34
[...] Il controllo esercitato direttamente dall’esercito doveva estendersi alla maggior parte degli aspetti gestionali delle case di tolleranza, compresa la pattuizione delle tariffe riguardanti la prestazione sessuale. Anche l’indagine igienica doveva essere di competenza del personale sanitario militare ma non sembra che si ripeté quella che era stata l’innovazione, risultata decisiva ai fini del contenimento infettivo, introdotta nella precedente guerra mondiale e cioè la sottoposizione a visita obbligatoria anche dei maschi. In Italia la situazione fu più eterogenea. I postriboli continuarono ad essere affidati totalmente alla conduzione di privati cittadini ma la presenza dell’esercito tedesco determinò occasionali, quanto significative, modifiche di gestione. <41
Le truppe del Reich impegnate nel Paese potevano optare per l’allestimento di propri luoghi di meretricio con personale ingaggiato in loco, oppure, più frequentemente, chiedevano alle autorità italiane di mettere a loro disposizione in via esclusiva alcune case già esistenti.
Non era raro, inoltre, che i soldati degli eserciti italiani e tedeschi si trovassero a frequentare gli stessi bordelli. Di certo i combattenti di Hitler ne erano degli assidui frequentatori, tanto che il Ministero dell’Interno, nel raccomandare l’affissione in tutte le case chiuse di cartelli che intimavano i soldati a non diffondere informazioni di carattere militare, ne richiedeva la stesura in italiano e in tedesco. <42
Se si trattava di allestire un nuovo postribolo i comandi germanici chiedevano l’autorizzazione alle autorità superiori e successivamente si accordavano con le prefetture e la pubblica sicurezza, le quali, a loro volta, chiedevano il nulla osta al Ministero dell’Interno.
Queste ultime si occupavano in prima persona del reclutamento delle donne e tutte le altre questioni riguardanti la gestione della struttura; in altri casi, sollecitavano gli organismi italiani perché fossero loro a coordinare l’apertura di una nuova casa di meretricio ad uso esclusivo delle truppe tedesche. In questa circostanza, l’amministrazione del locale era affidata a civili italiani in accordo con l’autorità tedesca che, tra gli altri, si riservava il compito della vigilanza igienica delle prostitute. <43
Ma la circostanza più assidua era quella in cui venivano assegnate loro in via esclusiva delle case di meretricio già avviate. Anche in questo caso, era il personale germanico ad occuparsi dei controlli medici.
Laddove, dunque, i postriboli erano frequentati da avventori dell’esercito tedesco la profilassi sanitaria era sempre di pertinenza del loro personale, in alcuni casi in collaborazione con quello italiano. I medici germanici  sottoponevano a controllo e sanificazione, non solo le prostitute, ma anche i loro militari che, all’uscita dal postribolo, dovevano obbligatoriamente sostare dai sanitari per essere visitati e igienizzati prima di potersene andare. Inoltre, affinché le autorità potessero «più facilmente vigilare sulla adozione, da parte dei frequentatori tedeschi, delle misure profilattiche contro il contagio venereo» era tassativamente vietata la visita a bordelli che non fossero quelli stabiliti. <44
Tali consuetudini non subirono variazioni dopo la costituzione della Repubblica sociale italiana. Da La Spezia, ad esempio, il Capo della provincia «invocava» l’apertura di una nuova casa di tolleranza lamentando che «dei 7 locali di meretricio esistenti in questo comune, tre sono a disposizione del Comando Militare Germanico e non vi possono accedere che militari tedeschi, tre sono riservati ai civili ed uno ai soli militari italiani». Gli ulteriori elementi che venivano esposti nella missiva ci sono ormai noti: "L’affluire dei militari italiani in questa città, in seguito ad arruolamento volontario o per chiamata, ha provocato un accentuato risveglio della prostituzione clandestina, con pregiudizio della moralità dell’ordine della salute pubblica, per cui viene invocata, e si rende necessaria, l’apertura di un nuovo locale di meretricio, che potrebbe essere attivato in un fabbricato esistente nella stessa zona, dove trovansi già sei case di tolleranza e propriamente nelle immediate adiacenze di esse". <45
La comunicazione porta la data 12 marzo 1944. Il giorno successivo, analoga epistola venne inviata, nella parte opposta dell’Italia, dal Ministero dell’Interno del Regno d’Italia al Prefetto di Taranto.
[...] È interessante notare come da parte delle autorità italiane ci fosse un continuo richiamo all’offesa del «sentimento etico» del Paese, tanto più che intorno al mondo del meretricio si affollava un’umanità varia, fatta di bambini, anziani e ragazze che facevano da ruffiani guidando gli avventori presso le loro sorelle, madri, figlie. Particolarmente preoccupante risultava essere la situazione dei fanciulli che «laceri e sudici popolano le strade in stato di totale abbandono, ed avvicinano militari delle Forze Alleate, sia per indicare case dove donne di facili costumi esercitano su vasta scala la prostituzione clandestina, o vengono vendute bevande alcoliche, sia per chiedere dolciumi, caramelle, sigarette, ecc. offrendo così uno spettacolo penoso, che suona offensivo alla dignità della persona». <49
Anche a Napoli furono requisite delle case di tolleranza da adibire ad uso esclusivo delle truppe; i soldati avevano il permesso di frequentarne soltanto undici su trentaquattro esistenti in città, con varie distinzioni riguardanti non solo il grado dei militari ma anche la loro appartenenza razziale. A partire dal 6 marzo 1944, per operare un’ulteriore stretta repressiva sul comportamento dei coscritti, fu reso illegale l’ingresso in tutti i bordelli regolamentati, compresi quelli che erano stati destinati unicamente alle truppe, ma anche i risultati di questa risoluzione furono piuttosto deludenti. La politica dell’off limits, tuttavia, divenne maggiormente applicata via via che l’armata alleata risaliva la penisola. <50
Particolarmente difficile dal punto di vista della prostituzione fu anche la situazione che si venne a creare a Livorno, città che nell’ultimo anno del conflitto assunse il ruolo di principale scalo bellico per gli americani nel Mediterraneo. Qui si concentrarono centinaia di donne giunte da fuori per prostituirsi con i soldati, in gran parte di colore, caratteristica che contribuì a dare a Tombolo – pineta boscosa che ospitò i magazzini alleati e scenario nel quale le meretrici offrivano le loro prestazioni sessuali – la fama di “paradiso nero”. <51
La Seconda guerra mondiale segnò l’apice dell’allarme associato alle veneri vaganti e il crepuscolo del bordello come luogo al quale delegare la salvaguardia della salute e della moralità degli italiani [...]
1 Cfr. E. Franzina, Casini di Guerra. Il tempo libero dalla trincea e i postriboli nel primo conflitto mondiale, Udine, Gaspari, 1999; M. Emacora, Le donne internate in Italia durante la Grande guerra. Esperienze, scritture e memorie, «DEP. Deportate, esuli, profughe», 7, 2007, pp. 1-32.
2 Cfr. G. Gattei, La sifilide: medici e poliziotti intorno alla «Venere politica», in Storia d’Italia, Annale VII, Malattia e medicina, Torino, Einaudi, 1984, pp. 741-798, p. 790.
3 Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero dell’Interno (MI), Direzione generale pubblica sicurezza (DGPS), Divisione polizia amministrativa e sociale (DPAS), b. 337, fasc. Prostituzione clandestina. Affari generali, Lettera al Ministero dell’Interno (firma autografa in calce del mittente non riconoscibile), 28 giugno 1942.
4 Ibidem.
5 Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia. 1860-1915, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 163. Si vedano M. Gibson, Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica, Milano, Bruno Mondadori, 2004, in particolare il capitolo dal titolo La donna delinquente; L. Azara, La prostituta tra innatismo e acquisizione. Una questione insoluta nell’Italia repubblicana, in L. Azara, L. Tedesco (a cura di), La donna delinquente e la prostituta. L’eredità di Lombroso nella cultura e nella società italiane, Roma, Viella, 2019, pp. 193-215.
6 Cfr L. Azara, Lo stato lenone. Il dibattito sulle case chiuse in Italia (1860-1958), Milano, Cens, 1997; G. Gattei, Controllo di classi pericolose. La prima regolamentazione prostituzionale unitaria (1860-1888), in M. L. Beltri, A. Gigli Marchetti (a cura di), Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo, Milano, Franco Angeli, 1982, pp. 762-796; M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia.
7 La ricerca avente per oggetto la prostituzione e il fascismo è ancora in corso e qui se ne presentano alcuni, parziali, risultati che andranno verificati alla luce di ulteriori acquisizioni documentarie che facciano riferimento anche al dibattito medico-scientifico sulla problematica razziale e la prostituzione, ambito nel quale la questione venne affrontata prima che giungesse ad essere di rilievo anche per la pubblica sicurezza.
8 Cfr. I. Pavan, Una premessa dimenticata. Il codice penale del 1930, in M. Caffiero (a cura di), Le radici storiche dell’antisemitismo. Nuove fonti e ricerche, Roma, Viella, 2009, pp. 129-157, p. 142.
11 All’interno del codice Rocco i delitti riguardanti specificamente la prostituzione furono inseriti nel Titolo IX, denominato «Delitti contro la morale pubblica e il buon costume». Si veda il saggio di F. Serpico, A difesa della
«sanità morale della Nazione». Prostituzione e controllo sociale nell’Italia fascista, nel presente fascicolo.
12 Sul madamato si vedano G. Gabrielli, La persecuzione delle unioni miste (1937-1940) nei testi delle sentenze pubblicate e nel dibattito giuridico, «Studi piacentini», 20, 1997, pp. 83-140; Un aspetto della politica razzista
nell’impero: il «problema dei meticci», «Passato e Presente», 41, 1997, pp. 77-105; G. Barrera, Madamato, in V. De Grazia, S. Luzzatto, Dizionario del Fascismo, II, Torino, Einaudi, 2003, pp. 69-72.
13 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 331, fasc. Prostituzione nei territori dell’Impero, Comunicazione del Ministero delle Colonie al Ministero dell’Interno, 20 gennaio 1937. Per un approfondimento si veda G. Barrera, Sessualità e segregazione nelle terre dell’impero, in R. Bottoni (a cura di), L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 393-414.
28 L. Schettini, Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali (1890-1940), Roma, Biblink, 2019, pp. 169-174.
29 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 331, fasc. Locali di meretricio, Appunto del Ministero dell’Interno per la Direzione generale di pubblica sicurezza, 22 novembre 1926.
31 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 324, fasc. Locali di meretricio chiusi.
41 Ringrazio Carlo Gentile per avermi messo a parte di informazioni che confluiranno nel progetto di ricerca Le stragi nell’Italia occupata (1943-1945) nella memoria dei loro perpetratori (https://judaistik.phil-fak.unikoeln.de/forschung/forschungsprojekte/le-stragi-nellitalia-occupata-1943-1945-nella-memoria-dei-loroperpetratori?no_cache=1#c188079)
42 ASC, MI, DGPS, DPAS, b. 331, fasc. Prostituzione. Affari generali, Comunicazione del Ministero dell’Interno a prefetti e a questori, 1° maggio 1943. L’ipotesi che le prostitute fossero delle potenziali spie, oltre ad essere uno stereotipo molto diffuso, è anche una delle ragioni per cui alcune di loro durante il conflitto furono internate nei campi di concentramento fascisti. Cfr. A. Cegna, «Per esigenze di moralità». L’internamento delle prostitute nei campi di concentramento fascisti (1940-1943), in A. Cegna, N. Mattucci, A. Ponzio (a cura di), La prostituzione nell’Italia contemporanea. Tra storia, politiche e diritti, Macerata, Eum, 2019, pp. 29-52.
43 Cfr. ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 319, fasc. Messina, Comunicazione della Prefettura di Messina al Ministero dell’Interno, 12 dicembre 1941.
44 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 331, fasc. Prostituzione. Affari Generali, Comunicazione del Prefetto di Livorno al Ministero dell’Interno, 16 aprile 1943.
45 ASC, MI, DGPS, DPAS, b. 319, fasc. La Spezia, Comunicazione del Capo della Provincia di La Spezia al Ministero dell’Interno, 12 marzo 1944.
49 ACS, MI, DGPS, DPAS, b. 337, fasc. Prostituzione clandestina. Circolari, Comunicazione del Ministero dell’Interno ai prefetti del Regno, 30 marzo 1944.
50 Cfr: S. Cassamagnaghi, Operazione Spose di guerra.
51 Cfr. Ivi, pp, 106-115; C. Fantozzi, L’onore violato. Stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno 1944-47), «Passato e presente», 99, 2016, pp. 88-111.

Annalisa Cegna, Venere vagante. La prostituzione tra ventennio fascista e seconda guerra mondiale, Giornale di storia, 34 (2020), ISSN 2036-4938

Fonte: Fondo Poggiali cit. infra

Fonte: Fondo Poggiali cit. infra

Fonte: Fondo Poggiali cit. infra

Fonte: Fondo Poggiali cit. infra

[...] La questione dell’arrivo in colonia di prostitute è un altro interessante indicatore di questa ulteriore discriminazione. Se la loro presenza è considerata necessaria per limitare i contatti con le donne locali, essa al tempo stesso rischia di sminuire l’immagine della donna italiana agli occhi dei colonizzati. Il primo espediente a cui si cerca di ricorrere è quello dell’”importazione” di prostitute straniere. Poggiali, nel suo diario, racconta la storia di un gruppo di prostitute francesi inviate nell’Etiopia italiana. Il gruppo è bloccato a Gibuti dalle autorità francesi e rinviato in Francia per evitare che nuoccia all’immagine nazionale all’estero. Poggiali è scandalizzato da questa reazione, che pure è esattamente parallela a quella italiana, tanto da commentare: “La Francia che pure, per vecchia tradizione, riforniva delle sue etere tutti i lupanari del mondo, senza farsene alcuno scrupolo, ma anzi disciplinando quella materia come qualsiasi altra materia mercantile di alto reddito, volle fare la schizzinosa nei confronti dell’Italia e della sua nuova colonia.”[19] Vi si legge, senza dubbio l’eco delle polemiche sulle sanzioni imposte all’Italia ma anche la tendenza a distinguere tra “le nostre donne” e “le donne degli altri”. Le contingenze, tuttavia, possono cambiare e, il giornalista racconta il seguito della vicenda: “Si attese che una vita discretamente normale si fosse organizzata nei centri maggiori dell’Impero, che la femminilità italiana vi avesse già fatto prestigiosa comparsa nelle sue forme elette ed oneste, perché anche l’altra femminilità, meno edificante ma che rappresentava una ineluttabile necessità, vi figurasse alla sua volta.”[20] In ogni caso, non mi risulta che rimanga una traccia fotografica dell’arrivo e dell’attività di queste donne italiane in colonia.
Di fronte a questa scarsissima rappresentazione delle donne bianche in colonia, assistiamo, invece, a una fortissima esposizione delle donne africane. Lo squilibrio è del tutto evidente nelle immagini pubblicate ma la situazione non cambia nelle immagini dei fondi privati dei militari che abbiamo indicato. Anche esaminando il fondo Poggiali, la situazione è solo leggermente più bilanciata. Sul totale delle 476 immagini conservate nel suo fondo sull’Aoi, solamente il 14% presenta dei soggetti femminili; la percentuale si riduce drasticamente se consideriamo le donne bianche di origine europea che compaiono solamente in nove fotografie, cioè l’1,8% del totale.
Nonostante l’abbondante presenza di immagini di donne africane, tuttavia, i modelli rimangono limitati, facilmente individuabili e ricorrenti. Si possono far rientrare, sostanzialmente, in due tipologie: l’immagine pornografica e l’immagine etnografica. Le immagini sessualmente esplicite di donne nere, che si possono collocare all’incrocio tra i due stereotipi della “Venere nera” e dell’immaginario orientalista, sono largamente diffuse in epoca coloniale; si ritrovano praticamente in tutti i fondi personali. Conseguenza anche della produzione di vere e proprie serie di cartoline che vengono distribuite tra i soldati in partenza per la guerra. Immagini pornografiche espressamente prodotte e diffuse attraverso un canale pubblico. Queste immagini contribuiscono a diffondere l’idea di una terra popolata da donne bellissime e disponibili, pronte ad essere possedute dal virile uomo italiano.[21] Vengono sfruttate come allettamento alla conquista per giovani uomini abituati alla rigida morale dell’Italia dei primi decenni del novecento e finiscono per innescare una serie di reazioni a catena. Anzi tutto, creano un clima in cui la violenza e l’aggressività dell’uomo bianco verso la donna nera sono considerati del tutto accettabili. Nei fondi privati non mancano immagini di militari in pose ammiccanti o sessualmente aggressive accanto a donne etiopi chiaramente terrorizzate. La riduzione delle donne africane a corpi disponibili per il conquistatore italiano è costruita su uno squilibrio di potere in cui razza, genere e classe creano un intreccio dal quale è estremamente difficile liberarsi.
In secondo luogo, la larghissima circolazione di questo materiale crea un contesto comunicativo fortemente erotizzato, all’interno del quale vengono lette anche immagini femminili più neutre, come i ritratti di stampo etnografico.
La creazione di un immaginario così sessualmente caratterizzato ha una forte presa tanto da persistere anche quando la propaganda, preoccupata dal proliferare di relazioni tra italiani e donne nere e dalla questione del meticciato, spinge verso un cambio di rotta. “Faccetta nera” viene messa al bando e l’invito è a descrivere gli aspetti meno attraenti delle donne dei paesi conquistati. Se la nuova linea viene applicata negli scritti del periodo, le immagini presentate sui rotocalchi continuano ad enfatizzare la bellezza dei corpi femminili africani[22]
 

[Foto 8] “Illustrazione italiana”, 18 maggio 1941, p. 749.

[...] e non c’è motivo di ritenere che la circolazione delle cartoline pornografiche, ormai ampiamente diffuse in colonia e nella madrepatria, sia cessata. Le conseguenze sono di lungo periodo e risultano nella costruzione, nel corso di un periodo che travalica quello del colonialismo fascista, di modelli fortemente imbevuti di razzismo e ideologia patriarcale rivelatisi estremamente tenaci e duraturi.
Se infatti è ben noto come la guerra crei una situazione particolarmente difficile per le donne, instaurando un clima di violenza e di sopraffazione e spezzando i tradizionali vincoli familiari e sociali che funzionano anche da rete protettiva per i soggetti più deboli, bisogna, tuttavia, rilevare come la spiccata erotizzazione delle donne africane non sia venuta meno con il passare del tempo e il ritorno alla pace. Anzi, essa si dimostra uno degli stereotipi più aggressivi e persistenti. Cito, ad esempio, almeno i titoli di due articoli comparsi rispettivamente su “Tempo” e “L’Europeo” negli anni settanta. In un reportage in più puntate intitolato Etiopia - Trentacinque anni dopo, un articolo su Le donne dell’impero ha come occhiello: La donna etiopica è chiamata, con pieno diritto, la svedese d’Africa: evoluta e disinvolta, prende l’iniziativa anche in campo sentimentale[23]; e Viaggio nell’Africa sconosciuta. Tutto il potere alle donne. I costumi matriarcali dell’Alta Etiopia hanno anticipato di cinque secoli il movimento di emancipazione femminile: matrimoni senza obbligo di fedeltà sessuale, libero aborto, divorzio”[24]. Titolo, quest’ultimo, sia detto per inciso, che è assai interessante anche per il modo in cui un periodico come “L’Europeo” riassume gli obiettivi del movimento di emancipazione femminile. Ma anche le immagini pubblicitarie continuano ad essere veicolo dei più triti stereotipi razzisti.[25] Si tratta, insomma, di una rappresentazione che ha radici molto antiche nel tempo[26] e che, attraverso le narrazioni degli esploratori e degli antropologi ottocenteschi prima e quelle delle vicende coloniali liberali e fascista poi, è arrivata sino a noi. [...]
[NOTE]
[19] Ciro Poggiali, Albori dell’impero, Milano, Fratelli Treves, 1938, p. 525.
[20] Ibid., corsivo mio.
[21] In parallelo, la pubblicistica costruisce un’immagine dell’uomo africano come poco virile e scarsamente interessato all’aspetto erotico dell’esistenza.
[22] Si veda, ad esempio, l’immagine di due “donne watussi” di cui la didascalia sottolinea la “perfezione del corpo”, apparsa su l’“Illustrazione italiana” del 18 maggio 1941, p. 749, significativa anche perché indica come fondamentale canone di bellezza la snellezza, a dispetto della coeva propaganda contro la donna crisi.
[23] Le donne dell’impero, in “Tempo”, 7 marzo 1970, pp. 57-59.
[24] Carlo Matteotti, Tutto il potere alle donne, in “L’Europeo”, 09 maggio 1974, p. 70.
[25] Per una riflessione e qualche esempio, si veda l’interessante blog di Sonia Sabelli, http://sonia.noblogs.org/?p=1106.
Monica Di Barbora, Donne in Aoi: fotografie tra sguardo pubblico e privato, OS Officina della storia, 30 marzo 2013

martedì 15 giugno 2021

La latinoamericanità delle opere si trasforma in una risorsa per la diversità


L’idea di “Arte latinoamericana” nasce in un periodo e in uno spazio determinati. Anche se l’aspirazione di costruire una “Arte latinoamericana” si trova già nelle avanguardie artistiche dell’inizio del XX secolo, è negli anni Settanta del ‘900 che critici d’arte come Marta Traba, Juan Acha, Demián Bayón, Jorge Alberto Manrique, Antonio R. Romera, Francisco Stastny, Mario Barata e Jorge Romero Brest (solo per nominarne alcuni), cercano di formulare teorie capaci di rispondere alla domanda: esiste un’Arte latinoamericana?
Nel contesto della Guerra Fredda, questa generazione si è caratterizzata per aver avuto un approccio di studio alle opere a partire dalle strutture sociali in cui nascono e che si modellano su uno schema dialettico. Le opere venivano intese come un prodotto del confronto tra centro e periferia, cultura colonizzatrice e cultura colonizzata, Paesi sviluppati e Paesi dipendenti, industria culturale e cultura locale, criollos e meticci.
La cultura latinoamericana quindi non veniva più affrontata con un’attitudine universale, come avrebbero fatto autori di una generazione precedente, ad esempio Octavio Paz o Joaquín Torres-García. Al contrario, essa era percepita come un terreno di conflitto e la definizione di “Arte latinoamericana” variava a seconda delle diverse sfumature di una struttura dialettica. Per alcuni, come Marta Traba, l’arte latinoamericana comprendeva tutto ciò che si manteneva autonomo rispetto all’influenza dell’industria e allo stesso tempo era autoreferenziale rispetto al proprio medium; Romero Brest definisce l’arte latinoamericana come quel mezzo capace di sublimare i modi di vivere dell’uomo sudamericano, e dunque i mass media, a basso costo e contingenti, gli erano funzionali; altri, come Mario Barata, vedevano nella condizione meticcia di quest’arte, quindi senza centro, la ragione per identificarla con il Barocco, intendendo il Barocco come temperamento di una pulsione umana più che uno stile storico.
Tuttavia, a prescindere dalla prospettiva che si prende in considerazione, l’arte latinoamericana veniva identificata come ciò che sarebbe stato capace di sovvertire le condizioni di dominazione e dipendenza, tipici di uno schema centro-periferia.
Questi critici hanno avviato un dialogo che si è sviluppato in diversi incontri, come ad esempio América Latina en sus Artes del 1970 a Quito, il Simposio sobre Arte y Literatura del 1975 ad Austin, Texas, il Primer Coloquio  Internacional de Historia del Arte del 1975 a Città del Messico, il Primer Encuentro de Críticos de Arte y Artistas Plásticos Iberoamericanos del 1978 a Caracas, il Simposio Latinoamericano del 1978 a Buenos Aires, il Simposio de la I Bienal Latinoamericana de Arte de San Pablo del 1978 ed il Primer Coloquio Latinoamericano de Fotografía del 1978 a Città del Messico.
Nel quadro di questa serie di incontri possiamo considerare anche il Simposio Internazionale sul Barocco Latinoamericano realizzato nel 1980 a Roma, evento che, come ci segnala De Nordenflycht in questo volume, servirà a mettere in discussione il modello centro-periferia.  
Questi incontri si sommano, inoltre, a una serie di iniziative curatoriali, dove si traduce in realtà quest’aspirazione ad una “Arte latinoamericana”, come la I Bienal Latinoamericana de Arte de San Pablo del 1978 o le mostre che l’IILA, dal 1972, sviluppa alla Biennale di Venezia.
Già alla fine degli anni Settanta, l’aspirazione di costruire una teoria capace di definire una “Arte latinoamericana” inizia ad essere contestata. Una delle prime critiche sarebbe arrivata dal brasiliano Frederico Morais, che avrebbe messo in discussione questa supposta identità comune dell’arte del continente e sostenuto che lo sforzo di riunire pratiche diverse all’interno della sola etichetta di “Arte latinoamericana” sarebbe stato riduttivo e parte di un processo di colonizzazione, più che di sovversione.
Nella decade successiva, autori come Mari Carmen Ramírez, Néstor Canclini, Gerardo Mosquera e Ticio Escobar, si sono uniti a questa critica. Essi hanno indicato come il progetto di costruzione di “Arte latinoamericana” rientrasse in un’aspirazione di modernizzazione della cultura latinoamericana, aspirazione che considerava la modernità europea come l’unico modello possibile dimodernizzazione, di fronte alla quale le altre località “periferiche” erano considerate “arretrate”.
Questi critici enfatizzano l’eterogeneità delle pratiche artistiche nel continente e la contemporaneità delle diverse strutture socio-economiche ed estetiche, scartando l’idea che questa diversità si debba a gradi di “sviluppo” culturale o economico. Si abbandonano le narrazioni che organizzano la produzione artistica secondo un’asse temporale, le quali cercano di radicare le opere ad una storia e cultura particolare, mentre si accentua l’eterogeneità di un’asse spaziale, il quale include manifestazioni come l’arte chicano (un tipo di arte prodotta da “latinoamericani” negli Stati Uniti). In questo modo anche la divisione tra “l’artistico” e il “popolare”, che aveva avuto una certa rilevanza nel continente, viene messa in discussione.
Per Escobar, queste categorie non facevano altro che donare un carattere “sviluppato” o “evoluto” a certe pratiche, chiamate “artistiche”, e un altro immobile e primitivo alle altre pratiche considerate “popolari”.
Infine, la stessa categoria di “Arte latinoamericana” viene messa in discussione, in quanto questa etichetta è in sé segregante, dal momento che una definizione espressa per località è applicata solo ad opere e ad artisti che abbiano un’origine che non sia “occidentale”. Il luogo di provenienza non è una componente determinante al momento di valutare quegli artisti provenienti dalle capitali culturali, che invece sono visti come “universali”.
Secondo Ramírez, l’etichetta di “Arte latinoamericana” risulta efficiente, soprattutto per riaffermare la razionalità lineare dell’occidente, in contrapposizione ad un’America Latina irrazionale e fantastica.
A vent’anni dalla proposta di costruire una teoria dell’arte latinoamericana, questi critici continuano a rendere omaggio alla generazione precedente. Tuttavia essi non cercano più di formulare una teoria capace di definire l’arte latinoamericana, ma di esaminare la rete di poteri che costruiscono questa categoria: era necessario decostruire l’idea di arte latinoamericana.
D’altra parte, l’idea di arte latinoamericana, in quanto sovversiva, aveva acquistato forza e validità in quelle discipline che cercavano di superare la modernità europea, come ad esempio gli studi post-coloniali. Tutto ciò si è tradotto in un boom di esposizioni sull’arte latinoamericana nelle capitali culturali, come Parigi, New York, Londra, Madrid, etc. In queste esposizioni “l’altro” diventa funzionale per una ricerca propria della modernità europea, al fine di diventare post-modernità o post-coloniale. Una ricerca fatta per abbandonare un concetto di modernità radicato nel suo contesto e, in questo modo, farsi globale. Tuttavia, questo interesse si presenta più come un’amplificazione dell’attenzione verso l’altro, incorporandolo all’interno della propria sfera, che come una reale apertura ad “altri epistemi”.
Nel quadro di queste problematiche, l’idea di“Arte latinoamericana” non risponde più a un tempo e a un luogo determinato, come abbiamo visto ai suoi inizi. La “latinoamericanità” delle opere non si riferisce più ad una regione geografica particolare (come erano l’America ispanica, il Sud America e il Sud America e i Caraibi); al contrario, si trasforma in un oggetto teorico, una risorsa per la diversità, che non conserva nessuna relazione con una regione in particolare.
A metà degli anni ’90, mentre i Latin American Art Studies godevano di popolarità, i critici si trovavano ad affrontare il problema dello scollamento tra regione geografica, oggetto teorico e luogo di enunciazione (un problema intrinseco in questo campo disciplinare). Questa tematica era stata in parte messa in discussione dagli Studi Post-coloniali, i quali sostenevano che “l’oriente” (o meglio i subalterni) fosse studiato come un luogo distinto rispetto a quello in cui si produce il sapere. Per confrontare questi temi, autori come Walter Mignolo, Aníbal Quijano, Federico Morais, Nail Larsen, Nelly Richard e Gerardo Mosquera non propongono più di pensare ad una teoria che possa definire l’arte latinoamericana, né di studiare le reti di potere che conferiscono significato a questa idea, ma vogliono riflettere sul luogo da cui l’America Latina viene enunciata. Questi studiosi stabiliscono la differenza tra pensare o parlare in America Latina, che implica l’essere ontologicamente situati nella sua storia; sull’America Latina, cioè facendo attenzione al subalterno, senza però prendere coscienza di dove questo discorso venga elaborato; o dalla America Latina, cosa che implicherebbe una presa di coscienza da parte delle istituzioni dalle quali si parla, così come delle funzioni che si attribuiscono al proprio discorso in un contesto globale. In questo modo, tali studi propongono l’idea della “Arte latinoamericana” come un luogo di enunciazione.
Cristóbal F. Barría Bignotti, L’arte latinoamericana si apre al mondo a partire dall’Italia, l’Italia si globalizza a partire dall’arte latinoamericana. L’idea di “Arte latinoamericana”, Quaderni Culturali IILA, n° 1 novembre 2018

lunedì 14 giugno 2021

Enrico Prampolini ed il passaggio dalla plastica murale all’arte polimaterica

E. Prampolini, G. Rosso, salone della Prima Mostra Nazionale di Plastica Murale, Genova, 1934 - Fonte: Eva Ori, Op. cit. infra

In un articolo del 1917 pubblicato sulla rivista “Noi”, Prampolini torna esplicitamente sull’opera di Picasso come modello, affermando che «questo nuovo valore dato in pittura, agli elementi eterogenei, alla loro aggregazione, questa valutazione del lirismo che si sprigiona dalle singole cose e dalla disposizione, del loro agglomerato, la preoccupazione del volume e della costruzione, stabiliscono per la nostra sensibilità un nuovo schema teorico d’arte pura, una nuova coscienza plastica: e questo lo dobbiamo al cubismo, al suo genio creatore, PICASSO» <101. Dunque, inizialmente egli assegna al genio spagnolo il merito di aver aperto la strada al plurimaterismo - ma, successivamente, come si avrà modo di vedere più avanti, ritratterà questa dichiarazione ne l’Arte polimaterica del 1944.
Se durante gli anni Dieci Prampolini nelle sue opere generalmente impiega diversi materiali come frammento di realtà, proseguendo nella sua ricerca l’artista investe la materia anche di un lato emotivo e sensibile, fino ad arrivare a una teorizzazione sistematica del suo percorso sperimentale negli anni Quaranta. Com’era avvenuto anche per gli altri futuristi, egli sperimenta prima a livello pratico idee e soluzioni che solo in un secondo momento porta a teorizzazione sistematica.
Per elaborare le sue teorie legate al polimaterismo, Prampolini parte dal “dinamismo plastico” e dagli “stati d’animo plastici” di Umberto Boccioni - come lui stesso dichiara in un articolo del 1932 <102 - per giungere alla concezione del manifesto Costruzione assoluta di moto-rumore del 1915. Se dunque Boccioni è il primo che enuncia i concetti base di un’arte polimaterica all’interno del movimento futurista, Prampolini è il primo che li elabora e porta a espressione concreta nella sue opere e nei suoi scritti.
In Un’arte nuova? Costruzione assoluta di moto-rumore Prampolini dichiara di voler «esplicare i valori della nostra sensibilità nella loro totale espressione […] in un’unica sintesi [di] sensazioni, plastiche, cromatiche, architettoniche, di moto, rumore, odore, ecc. [attraverso] un'espressione materiale con la creazione dei complessi plastici, o costruzioni-assolute di moto-rumore, che compendino, esprimano con equivalenti astratti la sensazione, l'emozione suscitataci da un qualunque elemento realistico» <103.
Egli arriva a concepire, in parallelo ai compagni futuristi Balla e Depero, dei “complessi plastici” che chiama “costruzioni-assolute di moto-rumore” da ottenersi abbandonando «il quadro tradizionale in pittura, la statua in scultura, il casamento in architettura, il concerto orchestrale, il libro infine». Difatti secondo l’artista modenese «la pittura, la scultura, l'architettura, e tutte le altre arti, concepite a sé, non hanno più valore, essendo impotenti di raggiungere (separatamente) quell'efficacia emotiva, quel risultato d'espressione materiale […] Le costruzioni-assolute di moto-rumore, […] riuniscono in sé non solo i valori materiali di tutte le arti, ma tutte le sensazioni, che sin ora erano fissate singolarmente da ciascuna arte» <104.
In queste parole ritroviamo il fulcro del credo artistico di Prampolini, teso al raggiungimento di una “arte totale”: un’idea quasi ossessiva che lo guiderà come un filo rosso per tutta la sua attività, in cui la materia gioca sempre il ruolo di protagonista.
Ma come ottenere a livello pratico queste “costruzioni-assolute di moto-rumore”? Sempre utilizzando le parole di Prampolini: mettendo «realmente in moto armature plastiche, cromatiche […] che appunto muovendosi determineranno il dramma plastico di un rumore, ecc. […] Qualunque mezzo materiale, vale per caratterizzare adeguatamente le sensazioni che l'artista vuole tradurre in queste costruzioni-assolute, in cui ciascun elemento ha un valore non solo formale e cromatico, ma di moto e rumore, trasformandosi questi complessi plastici, mutando aspetto, staccandosi da una parte per compenetrarsi nell'altra, propagheranno un rumore in rapporto al movimento e all'evoluzione plastica che dato elemento richiede» <105.
A tale proposito, nel suo studio monografico recentemente edito sull’artista modenese, Giovanni Lista sostiene che Prampolini ignora il principio dell’assemblage polimaterico, dato che come materiale utile per realizzare le “costruzioni assolute” era contemplato solo il metallo <106; in realtà, nel testo citato di Prampolini non ci sono riferimenti espliciti a materie esclusive, e l’artista stesso, in altre occasioni, ribadisce più volte la sua apertura verso l’uso di materiali diversi: «Qualunque mezzo materiale, vale per caratterizzare adeguatamente le sensazioni che l'artista vuole tradurre in queste costruzioni-assolute» <107. È vero che attorno al 1917 Prampolini stava svolgendo esperimenti di sculture metalliche mobili <108, ma è anche vero che non ci sono prove fotografiche che attestino la composizione esclusivamente metallica di queste sperimentazioni.
Alcune delle idee e dei concetti descritti nell’articolo del 1915 erano stati già anticipati da Prampolini nei suoi manifesti Scultura dei colori e totale <109 dell'ottobre del 1913 e sull’architettura futurista L’«Atmosferastruttura». Basi per un’Architettura futurista del gennaio-febbraio 1914 nel quale approfondisce la sua visione plastica teorizzando l’importanza dell’influenza dell’atmosfera sull’architettura e sulla scultura <110.
Le teorie prampoliniane degli anni Dieci, tuttavia, non sono accompagnate da opere rispecchianti gli intenti dichiarati nei manifesti, anche perché, purtroppo, diverse opere di questo periodo sono state distrutte dallo stesso Prampolini; le sculture che rimangono di questi anni risultano in gran parte monomateriche e convenzionali e le uniche opere che rispecchiano l’esaltato plurimaterismo sono quelle già citate, intitolate Forme e odori di un’attrice e Beguinage, nelle quali Prampolini impiega la tecnica dell’assemblage.
Aeropittura, idealismo cosmico e polimaterismo
Il percorso artistico sperimentale di Prampolini attraversa negli anni Venti l’estetica meccanica e l’aeropittura per approdare al cosiddetto “idealismo cosmico” - aspetti tutti convergenti poi nel polimaterismo <111.
Risalgono alla fine degli anni Venti le prime opere polimateriche in forma di quadri dell’artista modenese, conosciute come la serie delle “Interviste con la materia”: ovvero un’esplorazione del divenire della materia, la quale avviene per esperienza sensoriale diretta. Questo studio della materia rispecchia un orientamento della poetica prampoliniana di quegli anni verso un’accezione spirituale della realtà <112, che si spinge sino all’indagare i misteri del cosmo - direzione aperta dalla teorizzazione futurista dell’aeropittura <113.
L’ispirazione di Prampolini all’aeropittura - che recupera la prospettiva tradizionale per scardinarla e per aprire nuovi orizzonti, sia dal punto di vista visivo che spirituale - non riproduce visioni di prospettiva aerea, ma sottolinea l’aspetto eterogeneo della materia nuda e cruda vista dall’alto. Da lì il passo è breve per approdare all’idealismo cosmico, come superamento della realtà apparente per proiettarsi verso l’infinito oltre lo spazio terrestre. Scrive Prampolini che il «divenire di un mondo nuovo si manifesta con uno sviluppo che parte dall’interno e va verso l’esterno, in un processo concettualistico di trasfigurazione spirituale e di trasposizione formale» <114. Questa nuova poetica prampoliniana necessita di nuovi linguaggi plastici che la rappresenti: e la materia sembra essere l’elemento adatto per attuarla.
Il polimaterismo degli anni Trenta di Prampolini nasce quindi come conseguenza diretta dell’elaborazione dell’aeropittura e dell’idealismo cosmico, rimanendo però in parte ancora legato ad una dimensione da “quadro da cavalletto” - nonostante gli sforzi ad abbandonare questa pratica per proiettarsi sul campo dell’architettura. Le opere di Prampolini di questo periodo sono composte dall’assemblaggio di materiali eterogenei scatenanti interazioni molteplici che, a scopo compositivo ed espressivo, vogliono innescare cortocircuiti percettivi nell’osservatore.
In un articolo pubblicato nel 1930 per la Biennale veneziana egli scrive a tale proposito: «La superficie piana del quadro si è animata nello spazio. La simultaneità prospettica ha trovato un nuovo ordine costruttivo. La compenetrazione dei piani, la costruzione plastica a tre dimensioni, l’atmosfera dinamica quadrimensionale, come l’architettura spaziale cromatica da me definita “base stilistica della plastica futurista” si è materiata nello spazio, creando una nuova lontananza spirituale, una nuova dimensione emotiva evadendo da ogni permanenza teorica e puramente stilistica verso un mondo di magia costruttiva di magnetismo d’immagini, di simultaneità analogiche» <115.
Polimaterismo e Plastica Murale
Gli anni Trenta risultano un decennio ricco di innovazioni nelle teorie sulla materia sull’uso di diversi materiali nelle opere d’arte. In un momento in cui si stava rivalutando l’arte murale attraverso la pittura nelle architetture, i futuristi lavorano sul polimaterismo per sviluppare la “plastica murale futurista”: un’idea nata anche per rappresentare un’alternativa forte e riconoscibile al gruppo Novecento, che sosteneva la pittura murale, nel concorrere per le commesse pubbliche del governo fascista finalizzate a dare un nuovo volto all’Italia.
Si arriva così alla distinzione tra “polimaterico” e “plastica murale”: termini che in alcuni casi coincidono e in altri hanno invece significati diversi, come vedremo meglio di seguito.
Prampolini partecipa da subito a questo acceso dibattito, del quale egli stesso – con poca modestia – si propone come protagonista nell’articolo Dalla pittura murale alle composizioni polimateriche: «Le mie ricerche polimateriche iniziate contemporaneamente a quelle pittoriche nel 1914, suscitarono allora il più vivo interesse anche da parte di stranieri (come Picasso e Cocteau che visitarono il mio studio) e mi hanno portato in questi ultimi anni a delle più concrete realizzazioni, che pur destando stupore nelle folle visitatrici delle Biennali Veneziane (1930-1932) e Quadriennale di Roma (1931) erano l’inizio di una nuova era plastica destinata ad arricchire le superfici spaziali da una nuova dimensione emotiva» <116. A proposito dei lavori esposti alla Biennale di Venezia, abbiamo la cronaca – un po’ meno di parte – di Bruno Sanzin nell’articolo Quadri polimaterici di Enrico Prampolini alla Biennale apparso sul “Piccolo della Sera” di Trieste:
«Enrico Prampolini valendosi di elementi inconsueti, allarga, quando gli conviene le possibilità comunicative per mezzo appunto di questi materiali, che alle volte hanno una funzione plastica, tal’altra assurgono ad importanza tattile (vedi Quadriennale romana), ecc. È in certo senso logico che questi tentativi audaci del pittore Prampolini non trovino nel solito visitatore – che va a passeggiare all’Esposizione come più tardi andrà in Piazza S. Marco – riscontro di comprensione. È certo che i suoi tentativi coinvolgono una sensibilità ristretta a pochi. […] Enrico Prampolini rimane l’ingegno che osa per il bisogno prepotente di creare al di là del finora raggiunto. Enrico Prampolini è da considerarsi oggi il maggior esponente della pittura futurista italiana, di quella pittura che l’estero applaude ed imita» <117.
Ciò che è interessante è che, nell’articolo del 1933, Prampolini impiega per la prima volta la parola “polimaterico” <118 ed è lo stesso Marinetti a riconoscergli questo merito, scrivendo in un articolo del 1938: «La Plastica Murale polimaterica considerata come l’anima e il nutrimento indispensabili della nuova architettura fu ideata e iniziata da Enrico Prampolini e trionfò nella Esposizione coloniale di Parigi del 1931 nelle maggiori sale della Mostra della Rivoluzione Fascista nelle mostre Nazionali di Plastica murale del Palazzo Ducale di Genova e dei Mercati Traianei a Roma e nella Mostra del Naturismo in Piemonte a Torino» <119.
Il testo dell’articolo di Prampolini del 1933 sarà poi rielaborato da lui stesso in un altro articolo dal titolo Al di là della pittura, verso i polimaterici, pubblicato in “Stile Futurista: estetica della macchina. Rivista mensile d’arte-vita” nell’agosto del 1934 <120. L’articolo è suddiviso in tre paragrafi: Evasione dalla pittura, L'agonia del quadro ultima esperienza romantica e Dal frammento alla composizione.
Nel primo paragrafo Prampolini sostiene il superamento della pittura come metodo espressivo: «noi – maestri dell'evoluzione dell'arte contemporanea – abbiamo portato con le nostre opere l'arte pittorica alle estreme conseguenze di intensità espressiva accelerando il ciclo storico, così da esaurire il significato di un tempo dei canoni plastici, per evadere dalla pittura, verso un nuovo mondo estetico e tecnico, chiamato ad esprimere – plasticamente – le contingenze umane della nuova mistica spirituale che viviamo». Nella seconda parte, afferma di considerare il quadro ormai obsoleto, espressione anacronistica di una società in mutamento: «I bifolchi del sentimento – i romantici – continuarono a lungo a speculare sopra questa misera superficie di pochi centimetri quadrati illudendosi di riassumere in un rettangolo di modeste proporzioni evaso dall'ambiente funzionale, la potenza suggestiva del linguaggio plastico dei primitivi o dei classici, di coloro cioè che a contatto con Dio o con la terra, con l'immagine plastica e con l'architettura avevano compreso il compito umano dell'arte».
Nell’ultima sezione dell’articolo infine, Prampolini spiega il passaggio a nuovi mezzi espressivi di cui i futuristi sono fautori: «Solo noi futuristi, e alcuni maestri dell’avanguardie straniere, abbiamo reagito, portando per primi il concetto dell'universale nella creazione e quindi nella composizione delle nostre opere. E se le contingenze sociali e pratiche ci avessero dato la possibilità di realizzare il nostro principio spirituale dell'arte-vita legandolo all’architettura lo avremmo fatto da tempo. […] Decretata così la fine del frammento, eredità d'oltr’alpe e simbolo di un periodo di decadenza, noi italiani dobbiamo trovare nella quiete di una nuova mistica spirituale e sociale gli elementi e i simboli delle nostre composizioni future».
Dopo la metà degli anni Trenta, nonostante la diffusione delle varie Mostre nazionali di Plastica murale, i termini “polimaterico” e “plastica murale” tendono ancora a confondersi – confusione che spesso ritroviamo nello stesso Prampolini che li concepiva a volte distinti.
Nel suo programma per un’Università per la Plastica murale, l’artista modenese divide in corsi distinti la “plastica murale” (professori Marino Marini e Mario Mirko Vucetich) e il “polimaterico” (professori Prampolini stesso e Bruno Munari) <121. In un altro promemoria per la fondazione dell’Università d’Arte plastica, Prampolini nell’elencare le diverse materie descrive l’arte polimaterica come «impiego e risultanza artistica ed emotiva delle differenti materie», mentre confina la plastica murale «nelle esigenze formali e ambientali dei vari materiali (legno, vetro, metallo, materie plastiche ecc)» <122. Nella definizione del corso «Tecnica della plastica murale», Prampolini riporta le seguenti specifiche: «ornamentale, figurativa; legno, pietra, stucco, metallo, ceramica, terracotta, vetro, materie plastiche ecc.»; mentre per «Tecnica del polimaterico» specifica: «composizione di materie diverse e intarsio» <123.
In un articolo pubblicato su “Il secolo XIX” nel 1934 sulla prima Mostra di Plastica murale, Prampolini ribadisce la distinzione tra plastica murale e polimaterico: «la plastica murale supera e abolisce la vecchia pittura murale e gli affreschi, per spaziare nelle numerose possibilità espressive e illustrative offerte dai polimaterici e dalle simultaneità plastiche documentarie-parolibere, mediante l’uso di tutti i materiali e di tutte le tecniche» <124. In un altro articolo, sempre del 1934, dal titolo Dalla pittura murale alle composizioni polimateriche. Manifesto dell’arte murale Prampolini scrive: «La nascita del polimaterico, mezzo futurista che coordina armonicamente il contrasto dei differenti materiali, ha offerto alla fantasia dell’artista creatore una nuova tavolozza plastica che, in sostituzione della tradizionale tavolozza pittorica, apre possibilità infinite e insospettate all’artista sensibile, il quale può trovare nel giuoco emotivo plurimaterico una ricca e inesauribile fonte di ispirazione.» <125.
La Plastica murale sembrerebbe quindi un prodotto dell’arte polimaterica, intesa quest’ultima come macrocategoria artistica innovativa alla stregua di pittura e scultura. La plastica murale diventa quell’elemento distintivo del movimento futurista nel contesto dell’arte murale applicata alle nuove architetture del regime fascista, in alternativa alla pittura murale e diviene elemento caricato di valenze oltre che sociali, anche politiche.
Ed ecco dunque l’ulteriore passo in avanti di Prampolini nella ricerca “polimaterica”: il passaggio dalla “plastica murale” all’”arte polimaterica”.
In un articolo del 1935 sulla I^ Mostra nazionale di Plastica murale, Prampolini enuncia per la prima volta la sua definizione di “arte polimaterica”: «L’arte polimaterica è una nuova espressione plastica, dove le materie stesse foggiate e orchestrate fra di loro hanno il potere suggestivo di stabilire delle nuove dimensioni volumetriche ed emotive e di creare delle nuove armonie plastiche rappresentative. La nuova architettura funzionale esige infatti una altrettanto nuova e assoluta interpretazione plastica delle vaste superfici spaziali; è naturale quindi che ad una nuova realtà architettonica corrisponda una nuova ed adeguata realtà tecnica» <126.
101 E. Prampolini, Picasso, in “Noi”, giugno 1917.
102 E. Prampolini, Conquiste della plastica futurista, in “L’Impero”, 8 luglio 1932; testo pubblicato come anticipazione dell’intero scritto apparso su “Les Cahiers Jaunes” del 1932 e pubblicato nel catalogo della Mostra di aeropittura della Galleria Pesaro di Milano sempre del 1932; apparso inoltre sulle pagine di “Poligono” nel 1933 e nel catalogo della mostra alla Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roma del 1961 col titolo La plastica futurista. Dal dinamismo plastico all’architettura spirituale, pp. 57-59.
103 E. Prampolini, Un’arte nuova?..., cit. In una lettera inviata a Guglielmo Jannelli, editore de “La Balza”, del 16 maggio 1915 Prampolini gli chiede nel pubblicare questo manifesto di sostituire “Un’arte muova?” con “Arte pura”, in G. Lista (a c. di), Enrico Prampolini …, cit., 1992, p. 123.
104 Ibid.
105 Ibid.
106 G. Lista, Enrico Prampolini …, cit., 2013, pp. 52-53.
107 E. Prampolini, Un’arte nuova? …, cit.
108 Scheda biografica, in “La Fiera Letteraria”, XII, n. 30, 28 luglio 1957.
109 In realtà il manifesto venne pubblicato sulla rivista “Bollettino spirituale, filosofico, letterario, artistico, ascetico, sentimentale”, III, gennaio-febbraio 1916, n. 1-2. La prima stesura del testo risale all’ottobre 1913 mentre alcune parti sono state modificate dall’artista tra marzo e aprile 1914. Il manoscritto ultimato del manifesto venne poi inviato da Prampolini a Boccioni nel giugno 1914.
110 Su questi scritti, si veda G. Lista, Enrico Prampolini …, cit., 2013, p. 35.
111 Si veda come declinazione del polimaterismo il Manifesto Tecnico della Aeroplastica futurista pubblicato in “Sant’Elia”, II, 1 marzo 1934, n. 5, e firmato da Bruno Munari, Carlo Manzoni, Gelindo Furlan, Ricas e Regina (del gruppo futurista di Milano). Questa espressione plastica che si andava ad aggiungere alla plastica futurista prevedeva «complessi plastici polimaterici tattili da viaggiarvi dentro, […] progetti di paesaggio da volarvi dentro anche solo con la fantasia, questo aeroplano senza motore della realtà».
112 E. Prampolini, Valori spirituali della plastica futurista, in “Futurismo”, I, 19 ottobre 1932, n. 5.
113 G. Lista, Enrico Prampolini …, cit., 2013, p. 197.
114 E. Prampolini, Premessa, in XLI Mostra della Galleria di Roma con le opere del pittore futurista Enrico Prampolini, catalogo della mostra, Istituto Grafico Tiberino , Roma, 1941, p. 12.
115 E. Prampolini, I futuristi alla XVII Biennale Veneziana, in “L'Impero", 18 maggio 1930.
116 E. Prampolini, Dalla pittura murale…, cit.,10 settembre 1933.
117 B. G. Sanzin, Quadri polimaterici di Enrico Prampolini alla Biennale, in “Futurismo”, I, 13 novembre 1932 che risulta una riproduzione dell’articolo apparso sul “Piccolo della Sera” di Trieste.
118 G. Lista, Enrico Prampolini…, cit., 2013, p. 233; anche nel «manifesto polemico» della plastica murale viene ribadita l’invenzione della parola «polimaterico» ad opera di Prampolini (Marinetti, Ambrosi, Andreoni, Benedetta, Depero, Dottori, Fillìa, Oriani, Munari, Prampolini, Rosso, Tato, Un manifesto polemico…, cit., p. 3).
119 F.T. Marinetti, Italianità dell’arte moderna, in “Il Giornale d’Italia”, 24 novembre 1938.
120 E. Prampolini, Al di là della pittura verso i polimaterici, in “Stile Futurista: estetica della macchina. Rivista mensile d’arte-vita”, I, agosto 1934, n. 2.
121 MACRO, CRDAV, FEP, fascicolo 036, V 8 H/1, dattiloscritto “Elenco degli insegnanti”.
122 MACRO, CRDAV, FEP, fascicolo 036, T 8 E/1 8, manoscritto Promemoria per la fondazione di una Università d’Arte plastica, p. 3.
123 MACRO, CRDAV, FEP, fascicolo 036, S V B8 FE C 1-3, [promemoria seconda versione], manoscritto e dattiloscritto Corsi d’insegnamento, p. 4.
124 La prima Mostra di plastica murale sarà inaugurata…, cit.
125 Pubblicato col titolo Dalla pittura murale alle composizioni polimateriche. Manifesto dell’arte murale, in “Stile Futurista: estetica della macchina. Rivista mensile d’arte-vita”, agosto 1934 e pubblicato col titolo La II Mostra di Plastica Murale, in “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, XV, n. 11, novembre 1936. MACRO, CRDAV, FEP, fascicolo 047, S VII B2 C16, e fascicolo 053, diverse versioni di dattiloscritti non datati [ma 1936] di Prampolini Dalla pittura murale alle composizioni polimateriche. Manifesto dell’arte murale; manoscritto di 7 pagine La plastica murale fascicolo 53.
126 E. Prampolini, La Mostra nazionale di Plastica murale, in “Stile Futurista: estetica della macchina. Rivista mensile d’arte-vita”, II, marzo 1935, n. 6-7.
Eva Ori, Enrico Prampolini tra arte e architettura. Teorie, progetti e Arte Polimaterica, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Esame finale anno 2014, pp. 121-126
 
Da sinistra: Mondrian, Prampolini e Seuphor nello studio di Mondrian a Parigi nel 1934 - Fonte: Eva Ori, Op. cit.

Enrico Prampolini è, forse, un artista "inevitabile" (rubo l' aggettivo a Edmond Picard, che lo adoprò per Meunier): un artista cioè che il tempo stesso in cui visse ha suggerito e preteso che ci fosse, che ci dovesse essere. Una specie di esploratore: un ardimentoso che spia, per primo, i momenti in cui la storia si modifica e in cui le "cose" inspiegabilmente si trasmutano e quindi bisogna attentamente guardare e intuire; proprio perché l' arte ha il pregio di offrire una sensazione e un' intelligenza più profonda delle cose. Questa impressione-ipotesi ci venne in mente, alcuni mesi fa, in occasione della mostra che la Galleria Civica di Modena, città natale di Prampolini, dedicò ai suoi taccuini inediti: i quali sono, a vero dire, lo specchio più sincero del suo lungo e complesso operare. Ed è impressione che viene riconfermata ora dalla rassegna "Enrico Prampolini dal futurismo all' informale", che si è inaugurata a Roma presso il Palazzo delle Esposizioni come prima manifestazione della dodicesima Quadriennale. Anche a non dimenticare l' antologia che, sempre a Roma, Palma Bucarelli realizzò sull'artista alla Galleria Nazionale d' Arte Moderna nel 1961, si tratta stavolta della più vasta retrospettiva dell'opera di Enrico Prampolini (1894-1956). Curata da Enrico Crispolti con la collaborazione di Rosella Siligato, la mostra infatti documenta l'attività di Prampolini in tutti i suoi molteplici aspetti: pittura, scultura, architettura, ambientazione, arredo, scenografia, progettazione grafica pubblicitaria e tipografica, oggettistica, lavoro teorico, organizzazione culturale e, infine, il lavoro di sceneggiatore cinematografico. L'enumerazione basterebbe a farci intuire l'irrequietezza mentale e spirituale dell'artista, il suo deciso disporsi a sempre diverse esperienze e innovazioni, la sua capacità di avvertire le non svelate esigenze di ogni stagione. La traiettoria di Prampolini comincia in clima simbolista e registra, subito dopo, un' adesione alle poetiche del futurismo (1913), che lo induce a lavorare con Balla e Depero. Il mondo della tecnica e il mito della macchina ("Arte meccanica") caratterizzano le sue ricerche degli anni Venti che, in seguito, punteranno a una sorta di "idealismo cosmico": le proiezioni spaziali di Prampolini traducono, con forte impulso creativo, il tema futurista dell'"areopittura", anche con una serie di opere polimateriche (la materia costituisce per l'artista una presenza straordinaria, che racchiude forze insolite e misteri). E siamo agli anni Trenta, quando Prampolini partecipa, a Parigi, ai movimenti "Cercle et Carré" e "Abstraction-Création". Dopo la breve esperienza post-cubista picassiana, la mostra documenta quel forte rinnovamento del suo lavoro - entro i modi di una non-figurazione strutturale - che lo porterà, siamo ormai al Cinquanta, ad impegnarsi nell'ambito del Mac (Movimento arte concreta). La forza e l'inventività del suo regno lo avvicinano sempre di più all'ambito dell'arte informale. Come nota Crispolti in sede di prefazione al catalogo, la straordinaria attitudine a rinnovare e a rinnovarsi, che precipuamente distingue il lavoro di Prampolini, non viene risolta nei termini d'una dimensione intuitiva ma in quelli di una sistematicità di ricerca e di metodologia operativa e di fitta tessitura di relazioni culturali, che si situa entro una prospettiva internazionale. Al qual proposito bisogna dire che la mostra di Roma, impegnata a illustrare e spiegare tanta differenza di espressioni, di interventi, di scoperte, ha cercato di seguire e di "imitare" - nella realizzazione espositiva e con precisi riferimenti cronologici, rimandi e paragoni - lo stesso metodo dell' artista che sembra, di volta in volta, sostanzialmente nascere e svilupparsi da una profonda ispirazione progettuale. E' il modo migliore per capire ed apprezzare l'arte di Prampolini in cui non è sempre facile tener distinte la componente teorica e quella creativa perché - lo notava Umbro Apollonio in occasione della sala che gli dedicò, a due anni dalla scomparsa, la Biennale di Venezia - "molto spesso la lezione impartita congiunge ambedue gli stimoli in un' immagine paradigmatica che ne riassume i termini". L'importante è che ne esca, come infatti avviene, il pittore: i cui colori sotterraneamente violentano il controllato ordito della composizione. Basti pensare al Ritratto del padre del 1913 (uno strano divisionismo allusivo-simbolico) o alla Scomposizione di testa di pochi anni dopo (tutta geometrica, scompartita, astratta ma inaspettatamente risonante), alle Forme nello spazio del 1932, a Tensioni astratte del 1950. In questi quadri, per non restare che a pochi esempi, il contesto cromatico alternativamente si ravviva e si attenua, quando cupo, quando vibrante o secco o crudo o "incandescente", a seconda della lucida misura in cui gli viene consentito di emergere, di entrare nella enigmica dimensione del risultato, dell'esserci. E poi, il segno: figurazione, non-figurazione, sperimentazione si perdono e vengono annullate e sublimate da una inarrestabile ed invincibile originalità. E' quella del segno che, come un tracciato di lettere o di idea, come un'orma lasciata da penna o da matita, come un incidere o uno scolpire o un pensare o un graffiare rivela, quasi fosse un punto di massima convergenza, tutta la storia e l'animo e l'assillo di Prampolini: la sua novità, il non davvero trascurabile contributo che egli ha saputo dare all'arte e alla coscienza moderna.
Mario Novi, Prampolini, artista esploratore, la Repubblica, 25 aprile 1992
 
E. Prampolini, Bozzetto per il salone centrale per il padiglione dell’Autarchia, Mostra autarchica del Minerale Italiano, Roma, 1938 - Fonte: Eva Ori, Op. cit.

E. Prampolini, dettagli strutturali del Padiglione dell’Autarchia, Mostra autarchica del Minerale italiano, Roma, 1938 - Fonte: Eva Ori, Op. cit.

Prampolini, forte della favorevole accoglienza alla sua partecipazione alle mostre ed esposizioni in Italia e all’estero, partecipa anche alla Mostra autarchica del minerale italiano, inaugurata il 18 novembre del 1938 al Circo Massimo a Roma, dove già erano state organizzate la Mostra del Dopolavoro e la Mostra tessile <127.
A causa delle sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni che avevano colpito l’Italia a seguito dell’invasione dell’Etiopia, il governo fascista deve far fronte autonomamente alla necessità di materie prime: nonostante queste restrizioni, il governo fascista riesce comunque a sfruttare l’autarchia in modo propagandistico mettendo in mostra i prodotti nazionali utili per l’economia del paese.
L’organizzazione generale è nelle mani dell’onnipresente Oppo che, assistito da Mario De Renzi, Giovanni Guerrini, Mario Paniconi e Giulio Pediconi, chiama circa 40 architetti e oltre 60 fra scultori e pittori per realizzare 23 padiglioni all’interno dei quali trovavano posto i 39 settori delle varie attività minerarie. Diversi sono gli artisti presenti: Roveroni, Severini, Guttuso, Giulio Rosso, Mannucci, Ziveri, Afro, Gregori, Morbiducci, Toti, Monti e Girelli <128.
Tra gli architetti che si occupano degli allestimenti troviamo Montuori per il padiglione dei combustibili solidi; Guerrini per il padiglione dell’Arte; Paniconi e Pediconi per il padiglione dei combustibili liquidi e gassosi; Monaco, Luccichenti e Ventura per il padiglione dei minerali ferrosi; Albini e Palanti per quello del Piombo e Zinco; per quello dell’Alluminio e Magnesio: Saverio Muratori e Prampolini; per quello del Mercurio: Vaccaro; per quello dei minerali vari: Lapadula e Romano; per quello dei marmi, graniti e pietre: Fuselli, Cominotti e l’ing. Bruni; per il padiglione dell’Africa Italiana: Petrucci e Rava; per quello dell’Autarchia: Puppo e Vitellozzi, che si occupano anche del padiglione delle ricerche e invenzioni. Il padiglione dello Zolfo è opera di Franzi e Lombardi; in quello delle piriti troviamo Nizzoli; Morbelli e Scalpelli per il padiglione delle Sabbie silicee, e Petrucci, Mezzina e Catalana per il padiglione della difesa della razza nel settore minerario. Altri padiglioni sono costruiti da Peresutti, Tosi, Roveroni, De Renzi, Quaroni, Tedeschi, Paladini, Luccichenti, Guerrini, Adelasio, Cancellotti e Mancini.
Tra tutti questi nomi altisonanti, nella guida/documentario della mostra, compare anche quello di Prampolini, proprio in qualità di architetto, accanto a Saverio Muratori con cui realizza il padiglione dell’Alluminio e Magnesio: sembra essere un riconoscimento pubblico della sua attività in ambito architettonico <129. Oltre ad occuparsi del padiglione dell’Alluminio e Magnesio assieme a Muratori – di cui tuttavia non si hanno dati sulla natura della collaborazione –, egli segue pannelli e decori per il padiglione del Mercurio, della Difesa della razza e dell’Autarchia, come si evince dai disegni preparatori già pubblicati in diversi cataloghi sull’artista modenese.
Egli collabora quindi con Puppo (col quale aveva già collaborato alla Mostra del Dopolavoro) e Vitellozzi per il padiglione dell’Autarchia, dove realizza un’enorme composizione plastica fino al soffitto. Nel padiglione della Difesa della Razza, ossia della difesa e assistenza del minatore, collabora poi con gli architetti Petrucci, Mezzina e Catalana, (con Petrucci aveva già collaborato ad Aprilia) dove realizza un esercito di manichini tridimensionali con scafandri, raffiguranti i minatori con maschere antigas e piccone, che vengono ripresi come in proiezioni sulle pareti a fianco.
Nel padiglione dell’Alluminio e del Magnesio l’artista realizza un allestimento che richiama il padiglione dell’Elettronica alla Mostra dell’Oltremare napoletana: una spirale cilindrica che si dirama dal pavimento al soffitto, celebrando il ciclo di lavorazione che va dalla bauxite all’alluminio, e gigantografie con pannelli illustrativi appesi sulle pareti del salone circolare. Nel padiglione del Mercurio ad opera di Giuseppe Vaccaro, Prampolini realizza un pannello bidimensionale delle esportazioni del mercurio attraverso una sagoma dell’Italia, inoltre allestisce un’intera parete con i numeri delle percentuali del metallo liquido consumato nel mondo e un globo metallico avvolto da fasci luminosi indica i flussi di esportazione; una fontana di mercurio, ricavata da un alveo nel pavimento, conclude l’allestimento suscitando lo stupore del pubblico <130.
Attraverso fotomontaggi, gigantografie, cartelli pubblicitari, scritture luminose, l’uso particolare della luce, congegni metallici e polimaterici, uniti ad un efficace impiego degli elementi tipografici, i futuristi e in particolare Prampolini creano un sistema efficace di comunicazione di massa nelle esposizioni.
Nel 1939 Prampolini collabora con l’architetto Susini per allestimento e la decorazione del padiglione italiano all’Esposizione Internazionale di San Francisco <131, di cui tuttavia non è stato possibile rintracciare alcuna documentazione e, sempre nello stesso anno, è impegnato per l’Esposizione Universale di New York.
Quest’ultima, dal tema "Costruire il mondo di domani", era stata organizzata per celebrare il 150° anniversario dalla Fondazione del Governo degli Stati Uniti e l’insediamento del suo primo presidente George Washington. L’Italia è presente con una Sala d’Onore nel Padiglione delle Nazioni e con un suo padiglione nazionale, progettato da Michele Busiri Vici, che deve rappresentare un excursus storico della cultura e dell’industria italiana, attraverso l’esaltazione dell’energia elettrica e della produzione idroelettrica. L’architetto romano pone quindi sulla cima della torre del padiglione una statua, personificazione di Roma, sotto la quale scende un’imponente cascata d’acqua lungo i gradini di tutto il fabbricato, mentre in primo piano è una statua omaggio a Guglielmo Marconi <132.
All’interno del padiglione viene allestita un’esposizione nella sala delle arti e artigianato italiano, a cui Prampolini, unico fra i vari artisti ad appartenere al movimento futurista, partecipa con dei suoi lavori. Egli si occupa anche del progetto di allestimento della sala riservata ai futuristi – anche se in quasi tutti gli articoli riguardanti l’esposizione di New York non è menzionata <133 – della dimensione di circa 80 metri quadrati, con opere di Boccioni, Sant’Elia, Prampolini, Benedetta, Ambrosi, Azari, Fillìa, Farfa, Giuntini, Dottori, Buccafusca, Monachesi, Masnata, Scurto, Buzzi, Govoni, Jannelli, Vasari, Tullio d’Albisola, Tato, Sanzin, Somenzi <134.
Prampolini realizza per l’allestimento un plastico murale di cui rimane solo qualche bozzetto <135. Per la messa in opera dei suoi lavori, l’artista si era affidato a Michele Busiri Vici che in una lettera gli riferisce che tutto il suo materiale era giunto in cantiere e che avrebbe montato tutto secondo i suoi desideri in armonia con il padiglione <136.
Tornato in Italia, Prampolini partecipa alla VII Triennale, dove realizza l’allestimento di un Ufficio Turistico assieme a Cesare Andreoni.
127 A. Russo, Il fascismo in mostra, Editori Riuniti, Roma 1999; si veda inoltre G. Biadene, La Mostra del Minerale Italiano, in “L’Illustrazione Italiana”, LXV, 20 novembre 1938, n. 44.
128 C. Longo, Mostra autarchica del minerale italiano in Roma, in “Architettura”, 18 , aprile 1939, n. 4, p. 197. 129 P.N.F., Mostra autarchica minerale italiano. Documentario, Direzione della mostra autarchica del minerale italiano, Roma 1939, pp. 111, 114, 249; V. Orazi, L’ascesa autarchica della Nazione documentata nel Padiglione dell’Autarchia, in “La Provincia di Como”, 7 aprile 1939; V. Orazi, La mostra autarchica del Minerale Italiano. Nel Regno dell’Alluminio, in “Il Brennero”, 16 febbraio 1939.
130 V. Orazi, Alla mostra del minerale. Il mercurio italiano, in “Cronaca prealpina”, 16 marzo 1939.
131 MACRO, CRDAV, FEP, fascicolo 128, S VII, B8, c5, Elenco delle realizzazioni di Prampolini redatto da Alessandro Prampolini.
132 L’esposizione di New York 1939, in “Architettura”, XVII , ottobre 1938, n. 10, p. 592.
133 Si veda ad esempio M. Biancale, La decorazione artistica del padiglione d’Italia all’Esposizione di Nuova York, in “L’Italia Illustrata”, LXVI, 23 aprile 1939, n. 17, che descrive minuziosamente la presenza di Ferrazzi, Romanelli, Guerrini, Dazzi ed altri senza fare menzione degli artisti futuristi.
134 Italy and the world’s Fair, New York, 1939, p. 108, in E. Crispolti (a c. di), Nuovi archivi …, cit., p. 710.
135 MACRO, CRDAV, FEP, fascicolo 128, S VII, B8, c5, Elenco delle realizzazioni di Prampolini redatto da Alessandro Prampolini.
136 MACRO, CRDAV, FEP, fascicolo 016, corrispondenza 1937-39, Lettera di M. Busiri Vici a Prampolini del 4 aprile 1939.

Eva Ori, Op. cit., pp. 41-43 

E. Prampolini, Architettura nello spazio, tempera su carta, 1920, collezione privata, Roma - Fonte: Eva Ori, Op. cit.

E. Prampolini, Architettura di nudo, olio su tela, 1916 - Fonte: Eva Ori, Op. cit.