mercoledì 23 dicembre 2020

La Granda, la provincia di Cuneo, accompagna e colora l'intero romanzo

A sinistra Dantilio Bruno, a destra Carlo Gallinella (che dà la mano a Carlo Carletto Cattaneo, già comandante partigiano, deceduto l'anno scorso): fotografia scattata in Fontane, Frazione di Frabosa Soprana (CN) in occasione della manifestazione citata infra

[...] Da esso traspaiono episodi che possono assomigliare ad altri già letti in epoche diverse. Ma in essi traspare un afflato di umanità e di freschezza che corrisponde a delineare la statura portante dell'autore.
L'episodio del partigiano incolpevole, che trascina dentro di sé il rimorso per lo sterminio di una famiglia di contadini fino ad arrivare a suicidarsi è tra le pagine più belle.
In quelle zone descritte nel romanzo Dantilio ha voluto tornarci recentemente, contattando partigiani protagonisti di quelle pagine epiche e dolorose, promuovendo un ritorno nella località di Fontane (Frabosa) ove i partigiani delle brigate di Cascione e di Vittò trovarono rifugio nell'ottobre del 1944. Insieme all'ANPI ha voluto esprimere con quell'incontro, avvenuto lo scorso ottobre, la sua gratitudine e la sua riconoscenza per quelle popolazioni con la grande umanità che connota il suo modo di intendere la vita.
[...] al primo posto continua a porsi l'affetto e la riconoscenza verso quei protagonisti superstiti che scrissero le pagine più belle del popolo italiano (o per lo meno quella parte migliore di esso, è forse meglio precisare) incontrando ovunque i partigiani, i loro eredi, le famiglie, porgendo loro il nostro saluto e la nostra presenza gentile e partecipe, a significare che ci si ricorda di loro.
Il libro, scorrevole e delicato, che vi accingete a leggere, se ne comprenderete l'afflato più pregnante, è portatore di questo messaggio, fatto soprattutto di una grande carica di coerenza, di coraggio e di umanità.
Carlo Gallinella, Segretario ANPI di Ventimiglia
[...]
Nota dell'autore
Nell'immediato dopoguerra, periodo in cui ho ambientato liberamente questo mio lavoro, nelle cucine di tantissimi italiani si poteva quasi sempre trovare almeno una caffettiera sempre pronta, una radio sempre accesa ed un fiasco impagliato di vino, comprato alla Cooperativa.
Inoltre, attaccate ai muri c'erano immancabilmente le foto di qualche giovane col vestito da sposa e un'altra dove c'era un giovanotto con la divisa d'alpino. Appoggiata sopra un seggiola o custodita accanto a un divano c'era quasi sempre "Grand Hotel", una rivista femminile avidamente letta da tutte le donne della famiglia: quelle più anziane, quelle più giovani e le giovinette più curiose. Veniva letta, magari facendo gli schizzinosi, anche da uomini maturi e da ragazzetti appena svezzati dal "Vittorioso" o in certi quartieri operai dal "Pioniere", simpatico giornaletto per ragazzi che rivaleggiava col giornale cattolico con gran disappunto di parroci e di curati.
Rina, la protagonista di questo breve romanzo, era una di quelle che ogni venerdì attraverso la lettura di quel giornale entrava in un mondo virtuale, dove poteva emancipare, leggendo racconti d'amore e di vita, continuando nel frattempo ad immaginare un mondo che forse non sarebbe mai venuto.
"Grand Hotel", più ancora della "Domenica del Corriere", più del "Vittorioso", più di tanti fumetti, contribuì a formare in maniera meno bigotta un'intera generazione di italiani che attraverso quelle pagine cominciò ad amare la lettura.
"Grand Hotel" fu in quegli anni confusi un veicolo importante, spesso una locomotiva, con cui partire per soddisfare sempre nuove curiosità. Innumerevoli furono gli analfabeti e le analfabete che, sillabando su quelle pagine, cessarono di esserlo
[...]
Poca carne, molte ossa
Ogni volta che ripenso a Mario, e questo mi capita spesso, mi viene alla mente Pin, l'imberbe protagonista del romanzo di Italo Calvino Il sentiero dei nidi di ragno.
Perché Mario facesse di cognome Giordano e non portasse invece quello del marito di sua madre, né tantomeno quello del padre, è stato per me un dilemma non facile da sbrogliare.
Il vero padre, un facoltoso proprietario terriero di un paese in provincia di Cuneo che, dopo aver sedotto l'allora giovanissima mamma di Mario, l'aveva, come ci si esprimeva allora, vilmente abbandonata.
Non ha mai portato neppure quello della mamma che, poco tempo dopo averlo messo al mondo, era stata costretta ad affidarlo a una balia, la quale, un giorno, aveva fatto perdere le proprie tracce.
Mario fin dalla prima infanzia ha invece portato il cognome di una modesta famiglia contadina di Vinadio che, dopo averlo ottenuto in affidamento quando aveva appena poche settimane di vita, lo aveva poi adottato davanti alla legge. Una famiglia di gran brava gente, dignitosamente povera e laboriosa, dove per anni, ignaro di tutto, Mario si è sempre sentito circondato dallo stesso affetto riservato agli altri suoi fratelli più grandi.
Anzi, come a volte succede all'ultimo arrivato, il più vezzeggiato e il più protetto
[...]
Occhi giovani e ingenui che ci offrono una visione, senza esaltazioni o ideologie, di quanto accadde a uomi e donne di quelle vallate. Avvenimenti che inevitabilmente e indelebilmente hanno profondamente inciso, nel bene e nel male, nelle coscienze degli abitanti della Granda, terra dura, aspra e difficile, ma sempre madre e non matrigna dei suoi figli. E la Granda, la provincia di Cuneo, accompagna e colora l'intero romanzo, anche quando siamo trasportati in altri luoghi, dalla Costa Azzurra alla montagna del Gangapurna. Un territorio marginale geograficamente, di tradizioni e costumi solo apparentemente immutabili e immodificabili, in realtà solo difficilmente degradabili. Una terra feconda che ospita, come conclude l'autore, i semi che, germogliando, porteranno ai frutti di un indefinito oggi che, forse, arriverà domani. Un libro scritto col cuore in mano. Un libro che ha rubato, nella memoria dell'autore, momenti vissuti che volevano restare nascosti... forse. Leggendolo rendiamo a Dantilio un'assoluzione per aver rubato a se stesso memorie che col tempo potevano perdersi e non rivivere come noi volevamo. Alfredo Schiavi 

Dantilio Bruno, La donna che leggeva Grand Hotel, Antea Edizioni, 2014

sabato 19 dicembre 2020

Non c'è notte... non c'è giorno

 

Non c'è notte che non manchi il respiro,
non c'è notte che non veda i tuoi occhi,
non c'è notte che non sorrida al tuo sorriso,
non c'è notte che non senta il battito del tuo cuore battere
all'unisono col mio,
non c'è notte senza luna, senza stelle, dolci note dell'infinito
spartito dell'universo,
non c'è notte senza il volo del gabbiano,
senza il sole che illumini il tramonto sul tuo volto,
sul tuo sguardo malinconico e ridente.

Non c'è giorno senza il tuo pensiero.

Non c'è giorno che non aspetti il tuo bussare alla porta,
chiusa ad altri che non sia tu.

Non c'è giorno, non c'è notte, non c'è nessun tempo se non
quello della sera,
nell'attesa del sonno, del sogno, dove so che tu ci sei.

Carlo Pizzella

 

venerdì 18 dicembre 2020

Il sindaco del rione Sanità


Scritta nel 1960 e subito messa in scena da Eduardo, "Il sindaco del rione Sanità" è dotata di un linguaggio simbolico e realistico al tempo stesso e rappresenta uno spaccato di realtà napoletana.
Portandola in scena, Eduardo dà vita al personaggio centrale dell’opera in modo superlativo, attraverso un’interpretazione calda e misurata, cosicché certi passaggi, pure se trattano una vicenda scabrosa, assumono il tono solenne, ma naturale, dell’antica tragedia e diventano pertanto elegia.
Molti registi e critici hanno creduto di rinvenire nell’opera il dramma di un capo camorra, che alla fine, come spesso succede nella realtà, viene ammazzato da un suo nemico. Questa interpretazione però è fuorviante, perché difficilmente Eduardo avrebbe portato sulla scena uno dei tanti fatti di criminalità organizzata che si leggono ogni giorno sui giornali.
E’ per questa ragione che non ci sentiamo di avallare la recente versione cinematografica del Sindaco del rione sanità, realizzata da Mario Martone, valente regista che abbiamo apprezzato in precedenti lavori;  tantomeno possiamo condividere la recensione che ne ha fatto Andrea Pocosgnich, il quale scrive: "Martone sacrifica eleganza, speranza e leggerezza per calare la vicenda nell’inferno di una Gomorra contemporanea, operazione giustificata se serve ad avvicinare i giovani al teatro del più importante drammaturgo napoletano”.
Noi invece riteniamo che, per avvicinare i giovani al teatro, piuttosto che puntare sulle mode narrative del momento, gioverebbe riproporre le riprese degli spettacoli originali allestiti dallo stesso Eduardo e i video degli incontri da lui tenuti con gli studenti universitari e i ragazzi del Filangieri e Nisida, documenti quanto mai utili, istruttivi ed edificanti.  
E’ comunque Renzo Tian  che ha colto il significato profondo del testo originale de Il Sindaco del rione Sanità, rilevando che: “Don Antonio Barracano è qualcosa di assai diverso da quel capo camorra che all'inizio sembrerebbe che fosse: egli è un visionario che cerca di ristabilire nel mondo un ordine andato fuori sesto”.
Ed è lo stesso Eduardo a confermare la correttezza di questa interpretazione: “A Napoli videro erroneamente nel sindaco un capo camorra, tant'è vero che il pubblico si identificava con lui, lo scambiava per un mammasantissima e non lo voleva morto. Don Antonio Barracano non è un padrino, ma un uomo che ha vissuto sulla propria pelle l'ingiustizia e che, per amore della giustizia e sfiducia negli uomini, se la fa da sé”.
La commedia originale dunque non è la celebrazione del mondo delinquenziale e nemmeno la rappresentazione di un universo pericoloso e deviato, ma la desolata  constatazione che certe anomalie della società nascono per l’assenza delle Istituzioni. 

Antonio Magliulo, Eduardo De Filippo. Questioni Critiche, Youcanprint, 2018

martedì 15 dicembre 2020

La libertà incisa nella roccia


Il ciclo delle canzoni su Sacco e Vanzetti fa parte di una fase molto importante della storia artistica e politica di Woody Guthrie. E' il momento in cui, dopo avere cantato il dramma dei profughi dei disastri naturali della dust bowl, Guthrie studia la storia del mondo operaio e dei movimenti democratici negli Stati Uniti e usa la sua voce per tenerne viva la conoscenza e il significato. Finora, aveva cantato soprattutto esperienze vissute in prima persona; adesso amplia le sue fonti, usa libri, giornali, archivi, e ritraduce tutto nei linguaggi della musica popolare. Così, scrive due delle sue ballate più drammatiche su due stragi operaie d'inizio secolo, 1913 Massacre e Ludlow Massacre a partire dall'autobiografia della militante sindacale Ella “Mother” Bloor, e le canta su motivi di tradizione orale (Bob Dylan prenderà la prima come base della sua Song to Woody. A proposito: ci sono echi sorprendenti fra We Welcome to Heaven Sacco and Vanzetti nel disco di Woody Guthrie, e Rainy Day Women 12 & 35 di Bob Dylan). In quegli anni, Woody Guthrie e l'organizzazione di cui fa parte, People's Songs, hanno ancora un pubblico sindacale e operaio; queste ballate sono un modo per consolidare la memoria di storie che appartengono all'America operaia e che nessun altro racconta. “Voi anime di Boston, chinate il capo: i nostri due figli più nobili sono morti; Sacco e Vanzetti sono stati uccisi, e portati via dalla marea dell'oceano...”. I nostri figli più nobili: Boston è la patria della rivoluzione americana e della fondazione dell'America coloniale. Ma i suoi figli più nobili adesso sono un pescivendolo e un calzolaio, immigrati di seconda classe, colpevoli di non aver voluto partecipare all'ultima guerra, lontanissimi da quelle origini patriottiche e puritane con cui Boston si identifica: “Versatemi un bicchiere di rosso vino italiano, lo voglio gustare per richiamare ancora una volta alla mente, ancora una volta all'anima, questa storia grande, forse più grande di tutte”.
Per prima cosa, dunque, Woody Guthrie riconosce in Sacco e Vanzetti la nuova tradizione democratica dell'America, i nuovi Padri Pellegrini: “Sono qui sulla roccia, Vanzetti, qui sulla roccia dove uomini come te hanno poggiato il piede”. E' la roccia di Plymouth, dove sbarcarono i fondatori; su questa roccia che è insieme un luogo storico e un immagine biblica, stanno insieme il martire Bartolomeo Vanzetti e l'aedo Woody Guthrie, a fondare di nuovo una storia di libertà: la democrazia in America adesso sono loro. Adesso, dice la canzone, attorno a questa roccia vengono i turisti, con le macchine e gli occhiali da sole; ma un giorno verranno gli operai, “quando le statue di questo paese avranno anime come la tua”.
Woody Guthrie si identifica con Bartolomeo Vanzetti e vede in lui non solo il militante rivoluzionario e il martire politico, ma anche un maestro della parola, un artista proletario come lui stesso: “il tuo ritratto è dipinto, Vanzetti, e le tue parole sono incise sulla cornice: le tue canzoni, le tue poesie, i tuoi sogni proletari arderanno coi nostri nomi più grandi”. Woody aveva fatto il pittore di insegne, amava disegnare, e adesso canta: “Dipingerò il tuo nome sulle mie insegne, sulle mie strade, le mie montagne, i miei negozi; le tue speranze, i sogni che hai sognato - farò in modo che il tuo lavoro non si fermi mai. Inciderò sulla roccia le parole che tu hai detto agli operai, gli insegnerò a lottare come te e come i Pellegrini che sbarcarono su questa roccia, le spargerò sulle acque, alle navi, ai pesci, ai gabbiani; rifonderò la tua carriola di pescivendolo nei metalli più fini e la spingerò attorno al mondo”. E' la visione di This Land Is Your Land, ma in più nitidi termini di classe.
Così, Woody Guthrie attinge direttamente alle parole di Vanzetti. Riscrive in musica la lettera di Bartolomeo Vanzetti al governatore dello stato: “non parliamo inglese troppo bene, ma rischiamo la vita per parlare chiaro... io sono un sognatore, un oratore, uno scrittore, lotto dalla parte dei lavoratori; Sacco è il ciabattino più veloce di Boston, abbiamo cercato la vostra terra sperando di trovare la libertà della mente... non chiediamo la grazia perché siamo innocenti, non abbiamo niente da farci perdonare. E sei lei scuote la testa e dice di no, il nostro destino è segnato; noi terremo alta la testa e cammineremo lungo questo corridoio della morte come altri lavoratori hanno camminato prima di noi, ma combatteremo la nostra lotta di classe, dovessimo avere altre mille vite da vivere”.
Il ciabattino, il pescivendolo: sono i figli più nobili di Boston perché sono i più umili, perché appartengono al mondo della gente comune, delle strade, dei vicoli. Non sono solo eroi e martiri a cui costruire un monumento, sia pure di parole e di note; sono anche due persone comuni a cui lo stato spezza la vita nel momento stesso in cui li proietta nella storia. “Se non fosse stato per questa vicenda”, scriveva Vanzetti, “avrei forse passato la vita a parlare agli angoli delle strade a gente che non mi ascoltava. Sarei forse morto ignoto, sconosciuto, fallito. Adesso non siamo più dei falliti... Mai in tutta la vita avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, per la giustizia, per la comprensione fra gli uomini quanto facciamo adesso per caso”. Ma Woody Guthrie cantava anche: “La moglie di Sacco aveva tre bambini, Sacco era un buon padre di famiglia; Vanzetti era un sognatore, sempre con un libro in mano”, Vanzetti era l'oratore, l'agitatore; ma anche Sacco aveva qualcosa da dire. Ed è giusto allora che il disco si chiuda con le sue parole, musicate e cantate dall'allora giovanissimo Pete Seeger. E' l'ultima lettera di Sacco a suo figlio, e non parla subito di politica ma di vita, di affetti: “E quando vorrai distrarre tua madre dalla pena che le stravolge l'anima, portala a camminare nel silenzio della campagna, raccogliendo fiori e riposando all'ombra degli alberi, accanto alla musica delle acque. La pace della natura le darà piacere, e lo darà anche a te. Ma ricordati, figlio, non tenerlo tutto per te, ma chinati anche tu per aiutare i deboli che ti sono vicini, i perseguitati, le vittime, i compagni che lottano e a volte cadono come tuo padre e come Bartolo. Nella lotta per la vita troverai più amore, e nella lotta anche tu sarai amato”.
Quasi quarant'anni dopo, uno dei nuovi gruppi del folk revival americano, Magpie, reincise questa canzone. Pete Seeger prese carta e penna, scrisse la musica e il testo, mise il disco in una busta, e li mandò ai suoi amici italiani, affinché aiutasse anche noi a non dimenticare. Prima e dopo di Woody Guthrie, questa è una storia che ha un rapporto intenso con la musica - dalle Lacrime `e cundannate incise a Little Italy già negli anni `20 a Here's to You Nicola and Bart, cantata da Joan Baez nella colonna sonora del Sacco e Vanzetti di Montaldo. E' una storia che va e viene tra l'America e l'Italia, Pete Seeger spedisce in Italia la sua canzone, e noi dei Dischi del Sole che facciamo un disco di canzoni popolari italiane destinato all'America e lo apriamo con Giovanna Daffini che canta la Sacco e Vanzetti dei cantastorie padani ... la stessa che, appresa dalla sua voce, cantano nel 2002 insieme in concerto e in disco Giovanna Marini e Francesco De Gregori. E' una storia che sta bene con la musica perché smuove emozioni profonde - il senso di giustizia, la rabbia contro il pregiudizio e la discriminazione, il rispetto per due uomini dignitosi, l'amore per il mondo e per la vita che hanno affermato fino alla fine, il senso di identità di chi, come Woody Guthrie, sente di appartenere a quella storia e di volerla continuare - e perché queste emozioni le traduce in parole elementari ed eloquentissime.
La più bella canzone su Sacco e Vanzetti però non è di Woody Guthrie. L'ha scritta un dolcissimo barbuto folk singer del New England, negli anni `80, Charlie King. Si chiama Two Good Hands: “chi ricorderà le mani bianche e fini che toccavano le stoffe più fini, che versavano il vino migliore, che tirarono la leva e cancellarono la vita di due brave persone per servire i ricchi?”. Alle mani dei giudici, dei boia, dei cappellani, dei governatori, Charlie King risponde, anche lui, con le parole di Bartolomeo Vanzetti: “Tutti quelli che conoscono le mie mani sanno che non ho avuto bisogno di rubare e di uccidere. Posso vivere con le mie mani, e vivere bene. E tutta la mia vita ho lottato per liberare la terra da questi crimini”.
Woody Guthrie aveva ragione: la lotta di Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco non è ancora finita, le loro parole hanno ancora bisogno di essere cantate.

Sandro Portelli, Il manifesto, 22 agosto 2002

sabato 12 dicembre 2020

Anno 2020... Ricordi


 

2020... Siamo alla fine di quest'anno

Andrà via lontano e scomparirà...

Ne verrà un altro e passerà

Insieme a quello di prima

A tanti altri che sono già passati.


Svaniranno nell'aria, nel cielo,

Per l'universo con il fragore

Dei boati, delle luci, dei brindisi...

E come sempre sentiremo tante voci,

Commenti, i fatti avvenuti,

Il virus... la malattia che ha colpito

L'umanità.

 

Il pensiero andrà a tutti quelli che ha portato via

Lentamente poi... il fragore

Diverrà rumore. Il rumore diverrà

Un sussurro, e poi il silenzio, quel ricordo

Che rimarrà nella tua mente, nel tuo cuore,

Nell'aria che respiri.

 

E non vuoi raccontarlo a nessuno...

Perchè sai che è solo tuo.

 

Peppe Di Fraia, 8 dicembre 2020


venerdì 11 dicembre 2020

Giacomo Sartori: scrivere sulle proprie radici (trentine)


Nei libri di Giacomo Sartori la famiglia è un trauma sempre presente, spesso in forme (magari velatamente) autobiografiche. E per estensione si arriva induttivamente anche alle radici territoriali, trentine, del trauma familiare. Ma il tema non era mai stato affrontato con la chiarezza che trovo nei suoi ultimi recenti scritti: la raccolta poetica in morte della madre Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), ed il breve racconto La geografia della mia infanzia, il suo contributo alla antologia di scrittori triveneti Lettere da Nordest (Helvetia, 2019).
Il libro in cui aveva affrontato più di petto le questioni familiari, fino ad ora, era stato Anatomia della battaglia, pubblicato nel 2005. È un romanzo dedicato - ovviamente con tutte le libertà della fiction - al rapporto di un figlio ex-sessantottino con l’anaffettivo padre, vecchio fascista impenitente, ma ormai melanconicamente nostalgico in un secondo Novecento che si muove in tutt’altre direzioni, mentre lui rimane organicamente avvinghiato alle radici storiche, culturali ed anche psicologiche del suo fascismo. Del mito superomistico del fascismo è rimasta in campo solo una passione ideologica per la montagna (molto trentina), come luogo in cui si sublima la fatica, i propri limiti vitali, nella “Grande” impresa della conquista delle cime alpine. E la famiglia, per altro tutt’altro che coesa, si ritrova unita solo in questo: nelle marce in montagna condotte col fiato in gola dietro al padre che impone il ritmo, come un ubbidiente manipolo alpino dietro al suo comandante.
Il rapporto padre-figlio, agli inizi visceralmente conflittuale, man mano che scorrono gli ultimi decenni di fine-secolo, e si costruisce l’esperienza del mondo del figlio, diventa non meno conflittuale ma più problematico, per qualche somiglianza che il figlio riscontra, nel proprio intimo, fra la sua esperienza e quella del padre.
«Il ventennio e la guerra erano ormai lontani anni-luce, appartenevano a un periodo senza più mordente sul presente: un capitolo come un altro della Storia. La depressione che lo aveva assalito quando aveva smesso di lavorare, e dalla quale non si era ancora completamente rimesso, si era portato via le ultime scorie di quel passato che per lui era sempre stato così importante, come una mareggiata che lava e spiana la sabbia. Tutte le sue certezze erano crollate. Ma anche le nostre velleità rivoluzionarie, mi dicevo ricalcando i suoi passi lenti e implacabilmente regolari, erano ormai una nebbia lontana. La Storia aveva fatto una delle sue piroette da illusionista, aveva trasformato la lucente lama di acciaio in un fazzoletto senza consistenza né peso» (p.42).
In quel romanzo familiare era la figura del padre ad essere sotto i riflettori. La figura materna risultava laterale: un personaggio anche lei in fuga da quel giogo, sempre pronta a partire per lidi lontani. In questi ultimi due testi, invece, è la componente femminile della famiglia che si prende il centro della scena, la madre e la nonna, con la sua casa in collina, in mezzo alle vigne, che infidi contadini coltivavano per lei. Ed insieme a loro, il contesto della città natale di Trento, alla quale Giacomo aveva già dedicato un pezzo al vetriolo in Autismi.
L’ultimo libro, Mater amena, devia dall’abituale terreno di scrittura di Sartori - la razionale consequenzialità della narrativa - verso la più ambigua poesia: è un testo che attraversa la contraddittorietà, e il modo migliore per prenderlo è decriptarlo analiticamente.
Mater amena nasce da una esperienza lacerante, la morte recente della madre dell’autore. Sartori aveva scritto di famiglia spesso in modo sarcastico. Ma si può fare sarcasmo in questo caso?  E poi, soprattutto, c’è un altro sentimento, stavolta, che tarpa le ali dell’ironia.
 

Non si può dire che mi manchi

anzi è un sollievo

(come dopo tante parole

si predilige il silenzio)

mi manca

la mancanza

d’averti mancata

Qui è evidente la contraddittorietà dell’abbinamento mancanza / sollievo: due termini che dovrebbero essere divergenti e che qui invece si fondono nella stessa poesia, per raccontare una mancanza che reca sollievo. Se c’è qualcosa di lacerante e contraddittorio sono proprio i rapporti familiari: fusione / separazione, somiglianza / differenza, affetto / ripulsa, potere / insubordinazione, perpetuazione / distacco. In questo libro, cogliendo l’occasione della celebrazione di un distacco, Sartori mette in scena proprio questa doppiezza sfuggente, facendola vivere nei suoi versi. Chi siamo, noi ed i nostri genitori? Da dove veniamo?


Ciò che mi orripilava 

lo ritrovo in me

(è anzi il fulcro?)

l’impossibilità di amarti

è l’incapacità di amarmi

Qui siamo al dualismo originario dell’uno e l’altro fusi assieme: madre/figlio. Siamo al proprio contraddittorio doppio. È la doppiezza originaria della vita, la sua non linearità, l’indistricabile ambivalenza dell’animo umano.
Ma Sartori riesce comunque a condurre anche questo intrico indistricabile ad una radice storica del rapporto madre/figlio, al successivo sviluppo in esperienze storiche diverse, a diverse culture generazionali. Alla differenza che nasce nella Storia, nel chi viene prima e chi dopo, e insomma in quella che ormai è la non trasmissibilità dell’esperienza storica fra una generazione e l’altra, o forse su una trasmissibilità familiare ormai inevitabilmente distorta.


Il tuo fascismo



il tuo fascismo

erano le libidini

d’un corpicino

indomito e ligio

i severi precetti

che gli imponevi

la tua perseveranza

il tuo fascismo

era febbre

di forme

bellezza

vestiti

mobili antichi distinzione

il tuo fascismo era dispatia

il sentirti superiore

a volgo e cafoni

alla gentucola

sprezzo di debolezza

inclusa la tua

(figuriamoci la mia)



il tuo narcisismo

sintetizza la terapeuta

«I versi di Sartori - dice nella postfazione Helena Janeczek - riportano ad una radice inaudita la diagnosi della sua terapeuta … la premessa nell’epoca che ha forgiato persino la madre nel disprezzo dell’empatia e della debolezza, ha consegnato il figlio ad una mancanza originaria» (p.151). Ha ragione Janeczek, questo è un passaggio molto interessante, che usa la poesia in maniera insolitamente produttiva, capace di farla transitare dal terreno delle profondità psichiche espresse dalla contraddittorietà condensata nel linguaggio, al campo esterno - collettivo - della Storia, e quindi ad una dimensione narrativa ed autobiografica: i “severi precetti” imposti al “corpicino indomito” ricordano le pagine della Anatomia della battaglia sulle marce in montagna, sulla cultura paterna della sublimazione dei propri limiti nei “Grandi” obiettivi.
 

Giacomo bambino e la madre

Dove si ferma Mater amena riprende il discorso il racconto La geografia della mia infanzia. E il termine che traghetta da un testo all’altro è, questa volta, dispatia: «il tuo fascismo era dispatia». Un contrario della simpatia, quella che certo nonna e madre non provavano per i contadini dei dintorni della villa sulla collina di Trento: un Trentino rurale, antropologicamente lontano dalla sottostante città dove la madre si rifugiava con rapide fughe per fare acquisti, portare ad aggiustare le pellicce, incontrarsi nei caffè con le amiche ed andare al cinema. Dispatia per questo popolo di contadini, come quello che le curava la campagna: «lui entrava dalla porta sul retro, e salutava con la testa bassa, scalcagnato Sancho Panza con il cappello in mano. Lo stesso uomo sovrappeso avanzava però tra i filari di viti con ondeggiamenti spavaldi da vincitore».
Giacomo ci offre in queste poche pagine un efficacissimo ritratto dall’interno di una declinante borghesia con proprietà agrarie, che le stanno sfuggendo di mano, le sono ormai estranee, diventano un territorio nemico, in cui «imperversavano» i contadini. E Giacomo ce ne spiega la ragione: «perché i tempi - questo non potevo saperlo - erano cambiati, la mezzadria era stata abolita». Una borghesia declinante in questi modesti inizi di modernità, che non è ancora l’età del benessere (qui arriverà negli anni ’70-’80), ma in cui il mondo popolare, che in Trentino non è operaio ma rurale, dopo la guerra e il fascismo, non piega più davvero la testa, ormai forte della sua egemonia in epoca democristiana.

Da questo territorio nemico, invece, il figlio ribelle viene attratto: «potevo scorrazzare come mi piaceva, entrare nelle stalle. A differenza dei miei avevo messo le radici in terra nemica» (non è dunque un caso che Giacomo Sartori sia diventato un agronomo, uno studioso del suolo).
Dalla collina il figlio ribelle scende per andare a scuola, a fare il liceo, fra i «rampolli delle famiglie che consideravano il tedesco una lingua più importante dell’inglese. Le famiglie che per secoli avevano intrallazzato con i conti del Tirolo. Lì si era ancora in pieno Ottocento clericale, l’Italia era ancora molto lontana». La conclusione del raccontino è lapidaria, e perfettamente autobiografica: «Sapevo già che sarei andato via, nel mondo».

Giacomo Sartori, Mater amena, postfazione di Helena Janeczek, Osimo (AN), Arcipelago Itaca, 2019
Lettere da Nordest, a cura di Elisabetta Tiveron e Cristiano Dorigo, Venezia, Helvetia, 2019
Giacomo Sartori, Anatomia della battaglia, Milano, Sironi, 2005

Roberto Antolini in Spiccioli di storia, letteratura e altra umanità, 6 novembre 2019

martedì 8 dicembre 2020

Il Poema del candore negro


Il Poema del candore negro fu pubblicato dall’editrice milanese La Prora, nel 1935, la stessa che aveva pubblicato nel 1933 Noi miliardario della fantasia.
Angelo Barile si proverà ad indicare qualche influenza forse ricevuta dai testi di poeti afro-americani come Langston Hughes e Countes Cullen, che talora insistevano sul tema del contrasto cromatico.
Ma in realtà, come ben intuisce Pier Luigi Ferro nella prefazione alla riedizione del libro farfaiano, “il tema del contrasto o del semplice accostamento tra il bianco e il nero che Barile riscontra nei testi nordamericani su cui fa leva, attraversa con insistenza quasi ossessiva” la produzione di Farfa [Vittorio Osvaldo Tommasini].
Qualche spunto, se non altro per il titolo, proveniva da un articolo di Mario De Silva del 1928, ma le fonti sono ben altre, e diverso è l’humus su cui nasce il poema: il negrismo (cioè l’interesse per la cultura africana, interesse dal quale era nato, fra l’altro, anche il cubismo), la musica jazz, la curiosità per la spiritualità del mondo primitivo, il fascino della gioiosa figura di Josephine Baker…
E l’interesse per le culture africane non finirà qui, se ancora il termine hippy, molti anni dopo (termine che ha fra l’altro una delle sue prime attestazioni in Stan Kenton) sarà così definito: hippy è colui che “acted more Negro than Negroes”.
Ma torniamo al nostro Farfa.
Cosa ci racconta nel poema?
Semplicemente dà la voce a un abitante dell’Africa equatoriale, insofferente della sua condizione di negro e desideroso di accoppiarsi con una donna bianca. Nulla di provinciale o razzistico in questa leggerissima struttura, sia chiaro, ma semplicemente l’espediente narrativo per stendere un componimento dove si intrecciano e si rincorrono ritmi musicali (affiora persino un gong, a pagina 27, e un sax, a pagina 49, e il grido “alehòo” a pagina 59), passione per la “selvaggeria”, abilità e divertimento nel coniugare l’amore per un’assoluta semplicità a versi audacemente sperimentali (e sulla metrica e la retorica farfaiana si leggono precise osservazioni nella prefazione di Ferro, che ci dice anche un mucchio di altre cose interessanti), trovate visive (dall’uso grandioso degli spazi bianchi - finalmente in quest’edizione anastatica il Candore è restituito alla sua giusta dimensione, candida e dilatata - ai giochi grafici della copertina disegnata da Farfa e della palma disegnata da Acquaviva).
Un poema (di soli 258 versi!) felicemente strambo e irriverente, che mantiene tutta la sua freschezza e il suo gusto, tant’è che ancor oggi Giovanni Fontana ne fa oggetto delle sue letture-performances e il suo candido autore ci appare sempre più come uno dei più originali, inventivi protagonisti della letteratura del ’900.

FARFA, Poema del candore negro, a cura di Pier Luigi Ferro, Viennepierre edizioni, Milano 2009, (rist.an. dell’edizione La Prora, Milano 1935), pp. XXXVIII, 102, ill., euro 20,00.


Foresta
radici di serpenti
tronchi di fiere
rami di scimmie
foglie di uccelli
verdità totale
oscillata dalle palme
non mi basti più
Foglia cantante
ramo gorilla
tronco belva
radice nomade
io stesso
non mi basto più [...]

(incipit del Poema del candore negro di Farfa)

Marco Innocenti in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno I, n° 2, aprile-giugno 2010

[Marco Innocenti è autore di diverse opere, tra le quali: Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010] 

Farfa (Vittorio Osvaldo Tommasini) esordisce come pittore, ma nel 1929 si avvicina a Tullio Mazzotti, iniziando una proficua sperimentazione nell’ambito della ceramica futurista. Grande sperimentatore, soprattutto nel campo dei materiali, apporta un fondamentale contributo sia nella cartellonistica pubblicitaria, sia in campo editoriale. In occasione della realizzazione di un complesso plastico (Prue), nel 1903, per il quale utilizza la latta della ditta di Vincenzo Nosenzo, gli viene l’idea di sfruttare lo stesso materiale anche per delle pubblicazioni. Si realizzano così i primi libri “lito-latta” di Tullio D’Albisola (1934) e di Marinetti (1932), preceduti dal manifesto di Farfa del 22 novembre 1931, Lito latta sincopatia distagnata in libertà, con versi organizzati in una “sincopatia visiva” da Giovanni Acquaviva. Si veda: Silvia Bottaro, Farfa, Acquaviva e la “Lito-Latta”: aspetti del futurismo savonese, in “Risorse”, Savona, n. 4, 1989, pp. 24-28. Silvia Vacca, Periodici Futuristi negli anni Trenta: comunicazione ed innovazione visiva, Tesi di dottorato di ricerca, Università degli Studi di Milano, anno accademico 2012/2013

Dire di tutti gli artisti è impossibile, impossibile è anche di penetrare nelle teoriche che ogni artista ha forgiato per suo uso. Ma possiamo notare i processi con i quali Enrico Prampolini dà espressione al «divenire della materia» ricavando da presupposti scientifici gli elementi che dispone nei suoi quadri con una reale finezza plastica; i modi con i quali A. G. Ambrosi, Baldo Mariotti, Alessandro Bruschetti, Francesco Bagnaresi, Angelo Caviglioni, Armando Dal Bianco, Bruno Tano ed altri vogliono dare liricità ai temi del volo di guerra sono di un’efficacia rappresentativa che supera i modi soliti del primo futurismo dinamico. Tullio Crali raggiunge, anzi, un’ampiezza decorativa che esce dal tentativo per diventare realtà pittorica. Similmente Tato dà visioni di guerra di una suggestione profonda.
Gerardo Dottori, felice inventore di mezzi pittorici seppe trovare anche novità paesistiche inedite; così come Carlo [sic!] Forlin e Farfa.
Dalla mostra si può ricavare, quindi, che il futurismo sta uscendo dalla pura fase di tentativi per dare forme concluse. Anche le opere di aderenti al futurismo sono un indice della diffusione della fiducia che il movimento sta suscitando attorno a sé. Tra questi merita attenzione Francesco Torri, un pittore che si rivela per la prima volta, credo, e che ha una sicura conoscenza dei mezzi e dei fini pittorici. Un «Tramonto vicentino», la «Casa rossa», «Bianche vele», «Sera» traducono così controllate facoltà di osservazione, e un così giusto criterio dei rapporti coloristi, che la visione paesistica si allarga in un commosso alone di felicità poetica" <692.
[...]
1932 MAGGIO 2
Lett. ds. di E. Zorzi a Farfa, Venezia, 2 maggio 1932, p. 58.
Venezia 2 maggio 1932
Egregio Signore
Per poter partecipare la concorso del “Gondoliere” Ella deve con tutta
sollecitudine inviare a questa Segreteria le quattro copie mancanti anche
dattilografate della sua lirica.
Con tutta stima
Per la Segreteria
Elio Zorzi
Signor
Farfa
Savona
[...]
692 G. Nicodemi, Gli artisti italiani alla XXIII Biennale, in «Arte Mediterranea», II, 3-5, maggio-ottobre 1941 [ma 31 agosto 1942].
Alberto Cibin, I futuristi alle Esposizioni Biennali Internazionali d’Arte di Venezia (1926-1942), Tesi di dottorato di ricerca, Università degli Studi di Padova, 2016

Per quanto riguarda gli elementi pubblicitari sulla seconda uscita di “Dinamo futurista”, questi sono limitati alla sovracoperta, ad un motivo decorativo dello stesso Depero, realizzato per un cuscino, ma che chiude l’articolo di Farfa, Signora…sluigiatevi prego! <64, in maniera ornamentale, alle poesie parolibere “pubblicitarie” di Gerbino <65, e agli elementi grafici dell’ultima pagina per le ditte Radi e Komarek <66.
[...] L’ultimo intervento teorico che Marinetti dedica alla comunicazione scritta, e nella fattispecie alla rivoluzione visuale della pagina compiuta dal futurismo, L’arte tipografica di guerra e dopoguerra, viene ospitato sul numero del maggio 1942 di “Graphicus”, rivista torinese pubblicata dagli anni ’10, che dal decennio successivo offre largo spazio al dibattito sulla tipografia futurista. La rivista infatti, un po’ come “Campo Grafico”, non ha una matrice né una predilezione futurista, anche se - oltre alla polemica fra Giulio Lagoni e Carlo Frassinelli negli anni Venti e la successiva tra Lagoni e Farfa (Vittorio Osvaldo Tommasini) - negli anni Trenta pubblica sempre più interventi di futuristi e sul futurismo: lo stesso Farfa, Anton Giulio Bragaglia, Ugo Pozzo e Paolo Alcide Saladin trovano posto sulle pagine del periodico; fino al numero del febbraio 1941, quando viene pubblicato l’appello di Marinetti ai tipografi d’Italia, affinché celebrino la guerra attraverso “l’italianità espressiva della pagina del libro, del giornale con colpi esplosioni e dinamismi di lettere fuori e contro l’antica soavità graziosa ed equilibrata a tono pacifista e anemico”, e a quello dell’ottobre 1941, in cui è presente una sintesi della conferenza tenuta dallo stesso Marinetti al Gruppo tecnico culturale dei poligrafici di Roma, nella quale vengono ribaditi gli stessi concetti.
64 Farfa, Signora…sluigiatevi prego!, ivi, p. 3. Lo stesso motivo decorativo viene riutilizzato da Depero come immagine di copertina dell’invito per l'Esposizione privata Depero. Quadri in stoffa, quadri ad olio, disegni e cuscini, Milano, Corso Plebisciti 12, 1-15 giugno 1934.
65 Giovanni Gerbino, Poesia pubblicitaria di Giovanni Gerbino, in “Dinamo futurista”, n. 2, marzo 1933,, p. 10.
66 Come specificato sui due primi numeri del periodico (Op. cit., n. 2, p. 2), “i disegni pubblicitari riprodotti in ‘Dinamo futurista’ sono offerti gratuitamente” alle ditte, che pagano - come risulta dal quaderno di appunti di Depero (MART, Archivio del ‘900, Fondo Fortunato Depero, Dep.5.18.3) solo il costo dell’inserzione.

Silvia Vacca, Op. cit. 

sabato 5 dicembre 2020

Riverberi (di Carlo Cantagalli )


[...] il libretto di Carlo Cantagalli, anche questo di recentissima edizione. Un piccolo gioiello non facilmente reperibile perché l’autore ha un carattere così schivo che i suoi libri sono stampati in poche copie e usa regalarli solo agli amici più stretti.
Una scelta quanto meno originale visto che qualsiasi autore farebbe capriole pur di presentare la sua opera.
Eppure sono poesie talmente gradevoli che meriterebbero una diffusione massiccia vista la quantità di opere di bassissimo livello che sono in circolazione.
Carlo Cantagalli non ama fare presentazioni e forse questa mia piccola cosa sarà l’unica che potrete trovare sulla raccolta poetica RIVERBERI. Sono quasi tutte poesie brevi, improvvisazioni, flash di momenti, di paesaggi, d’immagini raccolte nella memoria. Lo stile di Carlo Cantagalli è inconfondibile, profondo conoscitore della metrica classica si spinge anche in sperimentazioni come per il verso tredecasillabo, poco o pochissimo usato nella poesia italiana. Da tempo frequenta l’associazione Accademia Alfieri con la quale ha intrapreso il sentiero della conoscenza metrica e con la quale partecipa a numerosi eventi e pubblicazioni.
Ama la lingua portoghese perché ha soggiornato lungamente a Lisbona e in varie parti del Portogallo dove ha lavorato a lungo e si è sposato. Molti ricordi portano a quei luoghi e forse anche la vena malinconica che pervade le poesie proviene dalla “saudade”tipica della popolazione portoghese. Versi sfuggenti come il tempo, tragici o grotteschi , qualche volta estremamente pungenti e ironici che fanno pensare e sorridere. Il carattere appartato dell’autore si delinea attraverso di essi , lui osserva e giudica dal suo angolino, la società che forsennatamente gli corre intorno. Conoscitore profondo e estimatore di Dino Campana ha pubblicato alcuni anni fa un saggio sul poeta di Marradi suo concittadino, del quale a tratti si trovano dei riflessi anche nella sua poesia. Carlo Cantagalli personaggio introverso, filosofo che ironicamente si commuove e ci commuove con questo un libretto di piccole dimensioni ma di grande interesse e di piacevole lettura assolutamente da avere se vi riesce di trovarlo.
Potete cercarlo e acquistarlo nel sito della casa editrice
a tutti buona lettura

Tiziana Curti in questo blog, aprile 2015

la scelta è stata difficile però alla fine ecco:

LISBONA

Questo fado  di pietre arabescate

questa luce che intarsia dentro il vento

di antica stirpe che ancora respira

crome disperse della tua canzone.

Questa canzone afflittiva che ascolto

riprodotta nel cuore della strada

da un vecchio carro funebre ancorato

come per gioco, al futile destino.

 

SERA DI VIGILIA  (strambotto)

La mamma che impastava i cappelletti

privilegio sul desco del natale

e il babbo ritagliava dei pezzetti

di stagnola su un canto angelicale.

Io, dai vetri, con l’ansia che ti aspetti

cullavo il buio leso da un fanale:

L’arrivo della stella che rintocca

l’incanto lieve di una filastrocca.


Carlo Cantagalli (dalla raccolta RIVERBERI, Improvvisi e strambotti, Società SEF, editrice fiorentina Marzo 2015)

 

venerdì 4 dicembre 2020

Elisabeth Junek, la prima donna a vincere un evento del Grand Prix di automobilismo

Fonte: F1Amarcord

[Eliška Junková, nata Alžběta Pospíšilová e nota anche come Elisabeth Junek (Olomouc, 16 novembre 1900 - Praga, 5 gennaio 1994)] Considerata uno dei più grandi piloti femminili nella storia delle corse automobilistiche del Grand Prix, con il dominio comunista in Cecoslovacchia, è stata ampiamente dimenticata fino a poco tempo fa. Ha quasi vinto la Targa Florio del 1928 con la sua Bugatti di tipo 35B.

Nata come Alzbeta Pospíailová, usava il nome Elisabeth Junek e proveniva dalla città di Olomouc in Moravia.

Soprannominata “smisek” per il suo sorriso sempre presente, sognava di viaggiare per il mondo e amava studiare le lingue straniere. Ha trovato lavoro nella banca di Olomouc ed è lì che ha incontrato Vincenc “Cenek” Junek, un giovane ambizioso che era stato dimesso dall’esercito dopo essere stato colpito alla mano.

Fonte: F1Amarcord

Vincenc adorava le auto e le corse e nel 1922 vinse la salita in collina Zbraslav-Jiloviste. 

Con il marito il giorno delle nozze - Foto: Archiv. Ladislava Samohýla - Fonte: Aktuálně.cz

Nello stesso anno ha anche sposato Eliska. Iniziarono a correre insieme in occasione di eventi locali, ma a causa della sua ferita durante la guerra, Cenek ebbe difficoltà a cambiare marcia e così Eliska assunse la guida.

Quell’anno acquistarono una Mercedes e una Bugatti Type 30 che avevano gareggiato nel Grand Prix de France a Strasburgo. Cenek diede la Bugatti a sua moglie nel 1923.

Man mano che Eliska acquistava fama in tutta Europa, il suo nome era anglicizzato in Elisabetta e nel 1926 era abbastanza brava da  poter competere in gare in giro per l’Europa contro i migliori piloti maschi dell’epoca.

Sulla Bugatti 32 con il marito - Foto: Archiv. Ladislava Samohýla - Fonte: Aktuálně.cz

Nel 1926, gareggiò  nella Targa Florio in Sicilia, una gara in cui la forza fisica era una necessità a causa della natura del percorso molto accidentato e spesso fangoso. Sebbene il suo veicolo si fosse schiantato ed era fuori gara, la sua prestazione le valse un grande rispetto. Poco dopo, vinse la classe di auto sportive da due litri a Nürburgring, in Germania, rendendola l’unica donna nella storia ad aver mai vinto una gara del Grand Prix.

Eliška Junková alla Targa Florio del 1928 - Foto: Archiv. Ladislava Samohýla - Fonte: Aktuálně.cz

Grazie alla vittoria della Targa Florio del 1928, acquisì una nuova Bugatti Tipo 35B che le consentì di essere su un piano di parità con i migliori piloti maschi che avrebbero gareggiato. Alla fine del primo giro, Junek era quarta,  dietro il famoso Louis Chiron, ma nel secondo giro prese il comando.

Eliška Junková con la scuderia Ferrari (tra cui Tazio Nuvolari ed Enzo Ferrari) ed altre persone - Foto: Archiv. Ladislava Samohýla - Fonte: Aktuálně.cz

Nell’ultimo giro ebbe problemi quando due pietre comparvero  all’improvviso in mezzo alla strada, due rocce che non erano state lì nel giro precedente. Arrivò quinta, ma ha comunque battuto altri 25 piloti tra cui Luigi Fagioli, René Dreyfus, Ernesto Maserati e Tazio Nuvolari.

Di ritorno a Nürburgring a luglio, condivise la guida con suo marito e aveva appena cambiato posto con lui quando uscirono di strada e Cenek morì all’istante.

Devastata, rinunciò a correre e vendette tutti i suoi veicoli. Come Hellé Nice, la sua grande controparte femminile in Francia, solo recentemente lo sforzo pioneristico di Junková è stato riconosciuto come merita.

Alla Targa Florio - Fonte: F1Amarcord

Dal 1948 al 1964 le autorità comuniste, disapprovando il suo stile di vita borghese, si rifiutarono di permetterle di viaggiare all’estero. Visse bene e in tranquillità fino agli anni Novanta, abbastanza a lungo da veder cadere la cortina di ferro e all’età di 91 anni, contro il parere del suo medico, partecipò a una riunione di Bugatti negli Stati Uniti come ospite d’onore.

Ferdinand Porsche, Eliška Junková, Hans Ledwinka - Foto: Archiv Ladislava Samohýla - Fonte: Aktuálně.cz         alia

È stata la prima donna a vincere un evento del Grand Prix.

Silvano Lonardo in F1Amarcord, 5 gennaio 2020

 

giovedì 3 dicembre 2020

Giornata del Contemporaneo 2020


5 - 11 Dicembre 2020

"Una Identità plurale" - un mosaico di opere di artisti internazionali sarà in mostra dal 5 all'11 dicembre 2020 per sottolineare il senso di comunità.

[...] Giornata del Contemporaneo - il grande evento promosso da AMACI, l'Associazione dei Musei Italiani d'Arte Contemporanea, che da sedici anni coinvolge musei, fondazioni, istituzioni pubbliche e private, gallerie, studi e spazi d'arte per raccontare la vitalità dell'arte contemporanea nel nostro paese.

Anche per questa edizione si conferma il coinvolgimento della rete estera del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale - che comprende Ambasciate, Consolati e Istituti Italiani di Cultura - che darà vita da sabato 5 a venerdì 11 dicembre 2020 ad una settimana di promozione dell'arte contemporanea italiana all'estero.

Nel 2020 la Giornata del Contemporaneo assume una veste necessariamente diversa da quella tradizionale. In questo anno complesso, profondamente colpito dall'emergenza pandemica, la sedicesima edizione della manifestazione mette al centro la comunità contemporanea - a cominciare dai Musei AMACI - e ripensa sé stessa partendo dal concetto di comunità, da sempre alla base l'evento e oggi - in epoca Covid - torna prepotentemente alla ribalta.

La Giornata del Contemporaneo 2020 è pensata per rispondere all'eccezionalità del momento che stiamo vivendo, che influenza così fortemente non solo la pianificazione e lo svolgimento delle attività culturali ma anche la percezione che ciascuno di noi ha del significato dell'arte e della cultura oggi. Quest'anno AMACI ha deciso di adottare un format ibrido, con proposte online e offline: il mutato contesto ha richiesto una sospensione del format tradizionale della manifestazione e un'edizione aggiornata con varianti che ne garantiscono lo svolgimento su doppio binario, incoraggiando tutti a contribuire su entrambi i livelli, aderendo alla grande campagna di comunicazione che verrà lanciata il 5 dicembre con l'hashtag #giornatadelcontemporaneo.

Inoltre, per raccontare le infinite sfaccettature della contemporaneità, l'identità stessa dell'evento si compone di un mosaico digitale delle opere di tutti gli artisti, come proposto da altrettanti musei AMACI, invece di utilizzare la tradizionale immagine guida creata da un artista.

[...]

A cura di Cristina Madini

Artisti: Janice Alamanou, Cecilia Álvarez, Alessandro Angeletti, Annabelle Art Gallery, Brian Avadka Colez, Ivana Bachová, Heike Baltruweit,  Nicola Barth, Federico Campanale, Lidia Chaplin, Lord Nicolaus Dinter, Bogdan Dyulgerov, Noemi Galavotti, Michael Jiliak, Robert Kalin, Alexandra Kapogianni-Beth, Monika Blanka Katterwe, Alan Lacke Cairo, Rosana Largo Rodríguez, Fiona Livingstone, Christina Mitterhuber, Amanda Narain, Eve Neeracher, Roanne O’Donnell, Britta Ortiz, Ann Palmer, Marika Pentikäinen, Gerhard Petzl, Steffi Pieters, Ludwika Pilat, Sal Ponce Enrile, Rebz, Belle Roth, Connie García Sainz, Greta Schnall, Taka & Megu, Nancy van Wichelen, Stéphane Vereecken, Andre Visser, Marja-Riitta Vuorela, Renate West

Anche quest’anno la Giornata del Contemporaneo si avvale del sostegno della Direzione Generale Creatività Contemporanea del MiBACT, della collaborazione della Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del MAECI e del patrocinio di Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Camera dei Deputati, Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, UPI – Unione Province d’Italia, ANCI – Associazione Nazionale Comuni Italiani e ICOM Italia. Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Camera dei Deputati, Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, UPI – Unione Province d’Italia, ANCI – Associazione Nazionale Comuni Italiani e ICOM Italia.

[...]

 

SENZA FINE di Renata Rusca Zargar

 

 

mercoledì 2 dicembre 2020

La carriera onorevole di un ciclista ligure


Angelo Brignole (Borzonasca, 10/03/1924 - Sestri Levante, 19/02/2006) è stato un ciclista su strada, professionista dal 1946 al 1951.
Ha corso tra la fine degli anni quaranta ed i primi anni cinquanta.
Fu gregario di Gino Bartali.
Brignole partecipò a cinque Giri d'Italia, classificandosi sesto nella corsa rosa del 1948 (in cui precedette lo stesso Bartali).
Ha partecipato anche all’edizione del Tour de France del 1949 con la squadra nazionale italiana, contribuendo al successo finale di Fausto Coppi.
Una carriera onorevole, disputata accanto ad indimenticabili campioni dei quali è stato fedele gregario.
 
 

La farina dei partigiani di Piero Purich e Andrej Marini


Racconto del «secolo breve» e di tre generazioni, La farina dei partigiani ha l’andamento di una tromba d’aria: comincia a ruotare in Bisiacaria - il territorio tra Trieste e il Friuli - per poi allargarsi all’Europa e al mondo intero.

Con il cuore che batte nella Resistenza e i piedi piantati nelle lotte sul lavoro, Piero Purich - storico e narratore - e Andrej Marini - discendente della dinastia operaia e antifascista Fontanot-Romano-Marini - ricostruiscono una vera e propria saga familiare e proletaria.

La storia, molte storie, vicissitudini di lavoratori comunisti a cavallo tra confini e culture, tra epoche ed epopee. Dai campi profughi austriaci durante la grande guerra all’emigrazione clandestina in America, dalle lotte nei cantieri navali di Monfalcone alla guerra partigiana in Italia e Slovenia, dall’idealistica partenza per «costruire il socialismo» in Jugoslavia alle amare delusioni nei confronti di Tito, dello stalinismo e del Partito comunista italiano, per arrivare al tardo Novecento, alle esperienze di Andrej a Panama, in Nigeria, in Libia e in Giordania.

Biografie incredibili ma vere, messe insieme col rigore di chi lavora sulle fonti e narrate con la penna del romanziere. Vite che incarnano il grande sogno della sinistra europea e mondiale. Vite di chi non si è mai arreso di fronte alle difficoltà e alle delusioni più cocenti. Vite all’insegna della libertà mosse da un ideale intramontabile: la fine dello sfruttamento.

«Corre su e giù per lo scalo, urla ai compagni, controlla i pezzi, fa ungere ancora qua e là le traversine dove gli sembra che l’attrito potrà creare problemi. Di tanto in tanto guarda su: un muro di venti metri di acciaio, altissimo. Ma ci è abituato. Ora l’importante è che tutto fili liscio. Sicuramente non per quegli sfruttatori dei Cosulich, per i dirigenti del cantiere o per gli ingegneri: su tutti i giornali hanno scritto che la nave è - assieme alla gemella varata l’anno prima - l’orgoglio della flotta. No, dei padroni non gliene frega niente: quella nave è l’orgoglio della classe operaia, di chi ci ha lavorato.»

Giap - Il blog di Wu Ming

domenica 29 novembre 2020

Non sono troppo provinciale?


La Torre Leon Pancaldo a Savona - Fonte: Wikipedia

Me lo sono chiesto di recente. Non sono troppo provinciale? A ben vedere, tutte le mie storie sono ambientate ossessivamente (è lecito affermarlo), nella città di Savona. L’unica licenza che mi sono permesso è stato con “L’ultimo dei Bezuchov” dove il protagonista se ne andava nell’isola di Egilsay, nell’arcipelago delle Orcadi a nord della Scozia.  Poi in “Cardiologia” ambientavo un racconto (“Riflessi”) a Roma. Per il resto: rigorosamente Savona. Ci si potrebbe fare un hashtag: #rigorosamentesavona. Magari potrebbe essere un grande successo! Ne dubito.
Ma abbiamo delle vere città?

La mia idea è che Milano sia la grande città italiana, l’unica. Il resto delle città della nostra Penisola sono centri storici attorno ai quali sono cresciute a dismisura le periferie (Roma; Genova). Niente Los Angeles, New York o Dallas da queste parti, nulla del genere. Ma periferie che hanno travolto quello che c’era attorno al centro storico. Con risultati spesso agghiaccianti. Ma non parlo certo di urbanistica in questo articolo. Semmai cerco di capire se questa mia dimensione provinciale tanto tenacemente perseguita (adoro quando scrivo in modo da sembrare un intellettuale), sia un limite; una risorsa, oppure un bel niente. Probabilmente la terza, esatto. Ma potrebbe essere un limite: per fortuna.

Negli anni Sessanta un sacco di gente abbandonava le campagne per la città, le fabbriche. E a ragione: in campagna quando per esempio piove, devi uscire e andare a controllare che nei campi vada tutto bene. Che i torrenti e i rii non minaccino i campi. Hai la febbre, oppure il mal di schiena? Nessun problema: esci sempre e comunque, perché nella stalla gli animali reclamano il cibo, e i campi il lavoro. Ferie? Non esistono. Feste? Si andava a messa la domenica mattina con il vestito buono, e poi dopo il pranzo domenicale, nei campi. È evidente che la fabbrica poteva solo trionfare. Febbre o mal di schiena? Stai a casa. Ferie? Sì, ad agosto. Eccetera eccetera.  Lo so: nelle fabbriche di Torino non era esattamente una pacchia. Avevi i diritti (pochi) se rigavi dritto e dicevi sempre “Sissignore”. Non dovevi creare problemi.  Ma di certo se montagna e campagna si sono svuotate è perché quello che si poteva trovare in una fabbrica era superiore. Comunque in una fabbrica non ti pioveva in testa.

Eppure…

Benché il Paese sia stato travolto dalla modernità e intere zone siano state sfigurate da capannoni (ormai vuoti e abbandonati), e da quartieri dormitorio, mi pare di poter dire che sia rimasto provinciale. Dalla moda di infarcire il linguaggio di parole inglesi, all’idea di contare ancora qualcosa, di poter “battere i pugni sul tavolo”; all’ossessione di essere sempre e comunque un “modello” per gli altri Paesi (quando non ne imbrocchiamo una nemmeno per sbaglio): sono tutti sintomi di un evidente provincialismo italico.  Eppure questo limite, come ho scritto prima, potrebbe essere una grande risorsa. Siamo all’interno di un sistema che ride del limite. Lo considera una inaudita costrizione di tempi arcaici che quindi deve essere rimossa. E nonostante il Covid, questa ideologia resterà ancora per decenni ben radicata e produrrà non si sa bene che cosa: ma qualcosa di certo produrrà. Né varrà qualcosa affermare o ribadire che il limite esiste, che la libertà è disciplina. Le risate fioccheranno abbondanti. Ma restare provinciali; scegliere di restare provinciali non vuol dire restare indietro o tagliati fuori dal “progresso”. Vuol dire avere il panorama più completo.
Il provinciale (non il provincialismo)

Il provinciale per prima cosa non considera il proprio Paese un modello, bensì quello che è: un guscio vuoto. Un organismo che consapevolmente e con determinazione (perché vota) ha intrapreso il cammino verso la discarica della Storia.  Non infarcisce il suo linguaggio di parole inglesi. Non batte i pugni sul tavolo, né vuole contare qualcosa perché sa di non contare più nulla da almeno duemila anni.  A me piacciono le isole, soprattutto quelle del nord Europa (“Ma perché quelle italiane no?” domanda colui che è affetto da provincialismo. No, non mi piacciono, risponde il provinciale).

Le Orcadi, le isole Far Oer, le Shetland. Credo di averlo già scritto in passato. Sono comunità di persone che vivono ai margini di tutto. Che cosa sappiamo di esse, della vita che si conduce adesso? Ben poco. Siamo certi che (per esempio), i giovani appena possono scappino da là per le grandi città dell’Europa oppure degli Stati Uniti. A voler essere pignoli potremmo anche affermare che non sono nemmeno realtà provinciali. Sono qualcosa al di sotto.  O almeno, così pensiamo. Eppure è più probabile che esattamente da questi luoghi distanti, spesso cupi (gli inverni sanno essere feroci), si riesca a dare uno sguardo differente a quello che accade. Il provinciale quando osserva il resto del mondo evoluto, colmo di progresso, oppure vi si immerge (per le ragioni più differenti: magari pensa di dover “guarire”), trova probabilmente una nota stonata.
Qualcosa di fuori posto; che di certo è lui. Ed è lui perché il provinciale si deve adeguare per non sentire più la dissonanza. A questo punto deve scegliere se rinunciare alla sua libertà; oppure difenderla a ogni costo. Perché spesso il provinciale conosce una qualità che chi vive altrove non sa, non riconosce più, ha perso di vista.

Lui è libero. Bizzarro, non è vero?  Nella sua piccola e insignificante e soffocante realtà provinciale, il provinciale è libero perché è se stesso e unico, e ne è consapevole (o meglio: diventa consapevole quando si allontana dalla sua realtà chiusa, gretta e provinciale). Altrove è un numero, ma questo decadimento viene spacciato per evoluzione, e l’unico modo che ha a disposizione per non essere uno dei tanti (numeri), è diventare numero uno; a scapito degli altri. Ma alla lunga è e rimane solo un numero, appunto. Uno dei tanti (i numeri uno alla lunga sono tutti uguali. Quindi: di fatto sei fregato, ma in modo più sottile), uno che deve essere uno dei tanti altrimenti torna indietro, torna a essere un provinciale. E invece si deve adeguare a quello che la massa desidera, o altrimenti resterà indietro. Nella sua realtà provinciale, piena zeppa di limiti, e soffocante, lui era un piccolo re; senza reame.

Non era un illuso, uno di quelli che credono non ci debbano essere limiti. Si gira, e ovunque vede limiti, limiti, limiti. E sono proprio essi che lo rendono la persona che è: unica e di difficile (se non impossibile) catalogazione; il che è male per il mondo che non conosce, né vuole limiti.  Che stranezza, non è vero? Il mondo che urla di libertà e di libertà senza limiti, deve pianificare e catalogare. Altrimenti va in corto circuito. Sono i limiti che vede da ogni parte, che lo stringono, che spesso lo inducono a riflettere su di sé, e su tutto il resto. A interrogarsi su che cosa conti davvero, in quella massa di progresso che sale sempre più, lasciandoci però identici all’uomo che viveva durante il regno di Hammurabi. Dal suo piccolo e irriso osservatorio il provinciale osserva, e comprende, probabilmente, che il 90% di quello che vede altrove non lo renderanno più libero o migliore; ma solo più utile. Quindi, resta provinciale.

Il provinciale che detesta la sua “provincialità” osserva.  L’uomo evoluto guarda. E non vede niente.

Marco Freccero su raccontastorie, 16 novembre 2020

[ Nato in provincia di Savona nel 1966, Marco Freccero continua a viverci. Ha svolto diversi mestieri (garzone, operaio, aiuto magazziniere, magazziniere, addetto alla vendita), prima di mollare tutto e diventare Web editor per siti di commercio elettronico. È stato per anni parte del gruppo di autori che ha guidato il sito Web dedicato alla piattaforma Apple: "IlMac.net". Dal 2010 ha rispolverato la sua passione: la scrittura. In quell'anno ha pubblicato l'ebook "Insieme nel buio" (tre racconti neri liguri), iniziando così ufficialmente la sua carriera di autore indipendente. Nel 2012 c'è stata la sua unica incursione nel campo delle case editrici. Infatti per 40K pubblica l'ebook: "Starter kit per blogger". Il romanzo "L'ultimo dei Bezuchov" è il suo nono libro. Nel 2014 ha pubblicato la raccolta di racconti (ambientati soprattutto nella città di Savona) dal titolo "Non hai mai capito niente", prima parte del progetto ben più ampio e ambizioso della "Trilogia delle Erbacce". Progetto che ha visto nel 2015 l'apparizione del libro "Cardiologia", seguito nel 2016 dal capitolo finale intitolato "La Follia del Mondo". Nel 2017, assieme alla scrittrice Morena Fanti, ha pubblicato il romanzo a 4 mani "L'ultimo giro di valzer". Da questa esperienza è scaturito il libro "La scrittura a 4 mani", dedicato a questo "particolare" modo di raccontare le storie. Sempre nel 2017 ha pubblicato l'ebook "La scrittura è difficile - Manuale controcorrente" (aggiornato nel 2018) dedicato a chi desidera avvicinarsi al mondo della scrittura ]


venerdì 27 novembre 2020

Il mio incontro con Totò


Mi è sempre piaciuto molto passeggiare. Da ragazzo, mi facevo certe scarpinate da fare invidia a un maratoneta.
A volte, all’uscita da scuola, mi veniva una gran fame ed allora correvo dal pizzaiolo all’angolo e, con gli ultimi spiccioli destinati al biglietto dell’autobus, compravo una focaccia calda e la divoravo in tre bocconi. Poi, per tornare a casa, ero costretto a farmi otto chilometri a piedi, ma la cosa non mi pesava troppo e compivo il tragitto allegramente, chiacchierando del più e del meno con Eugenio, un amico d’infanzia, mio compagno di classe, che abitava nel mio stesso quartiere e condivideva il mio interesse sia per le pizze che per il movimento.
Il giorno in cui avvenne l’incontro con Totò mi trovavo proprio con quest’amico.
Era un pomeriggio d’autunno, splendeva il sole, l’aria era mite, l’atmosfera pigra e sonnacchiosa, tipica del meridione dove, dopo mangiato, tutti quelli che possono si concedono volentieri un pisolino.
Solitamente Eugenio ed io andavamo a zonzo senza meta, fin dove ci portavano le gambe.
Quel giorno, quasi senza accorgercene, percorremmo un bel tratto: partimmo da Fuorigrotta, superammo la collina di Posillipo ed arrivammo sino a Marechiaro.
Da lì, com’è noto, si gode un panorama mozzafiato. Tra le varie attrattive, c’è la “fenestella”, che invogliò Salvatore di Giacomo a scrivere le parole della celeberrima canzone: “Quanno sponta la luna a Marechiaro / pure li pisci nce fanno l’ammore / Se revotano ll’onne de lu mare / pe’ la priezza cagnano culore…”
Una volta arrivati, Eugenio ed io ci fermammo su una terrazza sul mare, dove spira incessantemente un’aria di gerani e di salsedine. Stemmo circa mezz’ora a chiacchierare di sport e di ragazze, mentre lo sguardo seguiva affascinanto il morbido profilo della costa, scorrendo, in un’ampia carrellata, il Vesuvio, Sorrento, Massalubrense e Capri, per perdesi infine all’orizzonte.
Napoli è una città difficile e tormentata, ma possiede degli aspetti luminosi e stupendi, come l’animo dei suoi figli migliori.
Terminata la visita, Eugenio ed io pensammo di far ritorno a casa e anziché seguire la rotabile, ci incamminammo per le scale, una comoda scorciatoia che porta a via Posillipo.
Qui, ogni rampa è intercalata da un ampio ballatoio, sul quale a volte s’affacciano piccole case, circondate da giardini.
Io e il mio amico salivamo a passo lento, la stanchezza cominciava a farsi sentire.
A un tratto, su uno di questi ballatoi, scorgemmo due signori che parlottavano fra loro. Uno armeggiava con una grossa cinepresa, come se fosse intento a ripararla. L’altro reggeva un “ciak”, la tipica tavoletta di legno che dà l’avvio alle riprese cinematografiche.
Arrivati all’ultimo gradino e superato l’angolo di un edificio, scorgemmo alla nostra sinistra un uomo vestito di nero, che teneva in mano un cappello a bombetta.
Costui portava dei grandi occhiali scuri e se ne stava addossato alla parete, come aspettando un segnale da parte degli altri due. Quell’uomo, nientedimeno, era Totò!
Eugenio ed io lo riconoscemmo subito, ma non dicemmo una parola, ci guardammo con aria interrogativa, come per dire: “Sognamo o siamo desti?” Quando capimmo che era tutto vero, i nostri visi sbiancarono. Totò, il divo dello schermo, l’asso del comico, l’attore prediletto, stava dinanzi a noi. La sagoma di luce era divenuta realtà!
In quel momento non c’era la schiera di addetti ai lavori che di solito segue le riprese di un film. La troupe era ridotta al minimo e non c’era neppure la folla di curiosi che si assiepa ai bordi di un set.
A parte l’operatore ed il ciacchista, Eugenio ed io eravamo gli unici presenti, testimoni di un evento per noi elettrizzante. Infatti, ce ne stavamo lì, impietriti, shoccati, ad ammirare il nostro beniamino. Sembravamo dei bimbi che all’improvviso vedono materializzarsi l’eroe del loro racconto preferito.
Totò non si era accorto di noi. Fissava il vuoto con un’espressione seria, pensosa, persino malinconica. Noi ci saremmo aspettati di vederlo sorridere, scherzare, improvvisare battute, come faceva sempre nei suoi film, e invece niente. Se ne stava immobile, tranquillo, come godendosi l’ultimo raggio di sole, prima che si dileguasse in fondo al mare.
Chissà cosa gli frullava per la testa. Forse stava raccogliendo le idee per girare la sua scena; oppure stava ripensando al passato, quando si presentava in teatro ed era accolto da un uragano di applausi e da grida di gioia e gratitudine.
Può darsi che la sua espressione amareggiata fosse dovuta alle stroncature della critica più intransigente, che lo accusava di fare sottocultura con i suoi film leggeri e “disimpegnati”. Taluni intellettuali avrebbero voluto che Totò agitasse la bandiera della contestazione. Costoro però dimenticavano che egli, più che un artista, era un prodigio della natura e non poteva interpretare altro che se stesso, ovvero lo scugnizzo irriverente, l’omino buffo e disarticolato, che con le sue battute surreali sapeva divertire le platee di tutto il mondo.
Un talento come Totò nasce una volta ogni mille anni e pertanto non è assoggettabile ad un’ideologia o a un progetto politico. Totò era una maschera vivente, un fuoco pirotecnico, un autentico artefice di comicità. E la comicità non ha bandiere, è già rivoluzionaria in sé, perché è libertà, strumento catartico, dunque l’antitesi della violenza e della sopraffazione.
L’intuito e la spiccata inventiva di Totò gli permisero di creare un linguaggio nuovo, corrosivo e dissacratorio, che mise in discussione il conformismo di certi benpensanti. Ciò avrebbe dovuto indurre i suoi denigratori a rivedere le proprie posizioni, riconoscendo in lui un innovatore, un progressista in senso lato, cosa che avvenne, ma soltanto dopo la sua morte.
 

Se il principe De Curtis non nascose mai le proprie simpatie monarchiche, il suo alter ego Totò usò la propria vis comica per stigmatizzare tic e difetti della borghesia e del potere, divenendo persino un elemento dirompente rispetto allo “statu quo”.
Quel pomeriggio, sulle scale di Marechiaro, il tempo sembrava essersi fermato e tutto si era condensato nell’immagine di due tredicenni imbambolati di fronte al loro mito.
A un tratto, vinsi l’esitazione e mi avvicinai a Totò. Da vicino riuscivo a distinguere bene i tratti del suo viso: mi parve stanco e provato dagli anni e dagli acciacchi.
Quell’uomo mi era così familiare, che sentii il bisogno di toccarlo, perciò allungai la mano e gli tirai la manica della giacca. Eugenio sgranò gli occhi e mi disse fra i denti: “Ma sei pazzo!”
Già mi ero pentito di quel gesto, quando improvvisamente Totò si girò lentamente verso di me, si tolse gli occhiali e fece uno sforzo tremendo per mettermi a fuoco.
Fremevo, mi aspettavo un rimprovero; lui invece distese le labbra e sfoderò un sorriso, paterno, bonario, dal quale traspariva tutta la sua umanità.
Eugenio, intanto, cercava di trascinarmi via, prima che qualcuno della troupe si accorgesse di noi e ci allontanasse. Per quanto svogliatamente, ripresi a salire le scale, ripensando all’incontro, un incontro che non avrei scordato tanto facilmente e che avrebbe contribuito a cambiare il corso della mia vita, anche se in quel momento non potevo sapere ancora che un giorno avrei scelto di dedicarmi al teatro.
Avevamo percorso mezza rampa di scale, quando sentimmo il caratteristico suono del “ciak”; ci voltammo e vedemmo Totò che si era tolto gli occhiali ed aveva indossato la sua inseparabile bombetta. Stava sempre addossato al muro della casa, ma adesso gesticolava, parlava, faceva smorfie e sembrava distinguere tutto intorno a sé, come se la vista gli fosse tornata di colpo.
Fu così che vedemmo compiersi il prodigio, la metamorfosi: l’uomo che cede il posto all’attore, all’omino che è in sé; la persona che rinunzia a se stessa per diventare maschera, strumento di buonumore, riuscendo così a divertire gli spettatori e ad onorare l’Arte.
 

Antonio Magliulo

Commediografo, nonché autore di articoli e saggi vari, Antonio Magliulo è nato a Napoli, da genitori musicisti, entrambi diplomati al locale Conservatorio. Terminato il consueto percorso di studi, entra nella scuola come insegnante di Arti Visuali. La passione per il palcoscenico sboccia piuttosto presto, perché in famiglia si “respira” un’aria fatta di arte. I suoi genitori sono infatti, oltre che musicisti, anche grandi estimatori di prosa e gli trasmettono la propria passione. Tredicenne, comincia a recitare nella filodrammatica di quartiere, sotto la guida di Oreste d’Amato, noto attore e regista partenopeo. Nello stesso periodo, ha la gradita sorpresa d’incontrare Totò, impegnato nella lavorazione del suo ultimo film, e rimane talmente colpito da quest’evento, che decide di dedicarsi anima e corpo al palcoscenico. Così, frequenta altri corsi teatrali ed entra a far parte di diverse compagnie cittadine. Più tardi, però si accorge che, al ruolo di attore, preferisce quello di autore e regista, e comincia a scrivere i suoi primi copioni ed a seguire dei corsi di regia. Nascono, una dopo l’altra, opere comiche ed impegnate, che vengono messe in scena dalla sua Compagnia "Maschere Nude", incontrando un crescente consenso di pubblico e critica. Ha all'attivo diverse pubblicazioni sul teatro e sul cinema. Da citare pure la sua collaborazione con i giornali: "Affari Italiani"; "Napoli.com"; "Fucine Mute", etc dove si occupa prevalentemente di arte e letteratura. Sino ad oggi A.M. ha scritto circa cinquanta copioni (tutti regolarmente depositati alla SIAE) di cui una dozzina per i più giovani. Uno dei più recenti: "Viva il Teatro", edito dalla Youcanprint e diretto agli allievi in età tra gli otto e i quindici anni. Ha pubblicato inoltre diversi saggi per varie case editrici e ha diretto circa settecento spettacoli, alcuni su testi di Shakespeare, Beckett, Ionesco, Pirandello, Eduardo, etc. Numerosi i riconoscimenti ottenuti. Attualmente è libero docente di storia del teatro all'Unitre. Mail to: antonio-magliulo@libero.it

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