lunedì 28 febbraio 2022

Nella stagione in cui vi collabora anche La Capria, la struttura dialogica del Ridotto è spesso costruita attorno alle figure di alcuni personaggi immaginari


Accanto al variegato repertorio drammatico di cui si è data ampia testimonianza, la carriera radiofonica di La Capria si regge su un secondo pilastro della Rai, del tutto parallelo al primo: quello costituito dai periodici appuntamenti delle rubriche culturali. A partire dal 4 giugno 1948 fino al 13 luglio dell’anno successivo, La Capria si era già alternato a Della Seta nella conduzione di una ventina di puntate del Pomeriggio letterario, una rubrica divulgativa della Rete rossa che si proponeva di «colmare una lacuna sentita soprattutto negli ambienti culturali». <2 Sulla scia dell’analoga formula inaugurata dal Pomeriggio musicale, la trasmissione va in onda ogni venerdì dalle 17 alle 18 fino al 10 novembre 1948, quando l’introduzione del nuovo Pomeriggio teatrale impone una puntata ogni quindici giorni. Dal 12 gennaio 1949 la rubrica viene poi spostata al mercoledì, senza subire ulteriori variazioni fino alla chiusura estiva, quando la «prima e riuscita serie» di questi appuntamenti si interromperà per riprendere «sotto nuova forma» nell’inverno seguente. <3
Ottenuto il plauso degli ascoltatori più colti, il bilancio dell’esperienza non può che dirsi positivo. Nel suo primo anno di messa in onda, la striscia quindicinale del pomeriggio ha passato in rassegna una ricca selezione di classici, aggiornando altresì i radioascoltatori sulle ultime novità in campo editoriale. Fra gli argomenti affrontati da La Capria meritano considerazione: le recensioni del Cristo di Levi, della Cronaca di poveri amanti di Pratolini, de La romana di Moravia, e di Menzogna e sortilegio della Morante; l’introduzione all’esistenzialismo di Sartre attraverso le immagini simboliche offerte da alcune sue opere, come L’Âge de raison, Les Mouches, La Nausée e Le Mur; gli speciali sulla poetica di Leopardi, sulla prosa verghiana dei Malavoglia e sui capolavori di Alain-Fournier e Raymond Radiguet; le riletture dei racconti di Gogol’, Cechov e della Mansfield; e gli approfondimenti sulle Memorie di Dostoevskij, sulle Interviews imaginaires di Gide e sulla narrativa afroamericana di Richard Wright.
Dopo un lungo periodo di pausa finalizzato alla riorganizzazione del programma, il Pomeriggio letterario conosce il rinnovamento annunciato alla fine della stagione precedente. Pur avendo frequentato i palcoscenici in maniera discontinua fino a quel momento, La Capria si dedica alla critica teatrale in senso stretto curando insieme a Della Seta una rubrica per gli «amatori del teatro» ideata da Patroni Griffi e intitolata, per l’appunto, Il Ridotto. Teatro di oggi e di domani. <4 La nuova formula prevede che i due curatori non si avvicendino più alla conduzione, ma che dividano il microfono in simultanea per confrontarsi direttamente sull’«attualità teatrale in Italia e nel mondo». <5
Si è detto che, fin dall’adolescenza, La Capria ha intrattenuto con il teatro rapporti «sempre controversi», in parte dovuti a una formazione più letteraria che teatrale, in parte determinati dal modo in cui «si fa il teatro qui da noi». <6
Sul suo gusto ha agito infatti un’avversione per le «prevaricazioni teatrali» di chi impone al testo il proprio punto di vista limitandone la polisemia a un solo senso, o di chi, in mancanza di un’idea teatrale che muova da un’autentica spinta conoscitiva, rappresenterebbe Cechov perché odia Cechov o Shakespeare «per metterlo “tra virgolette” e per “inventarsi qualche sorpresa”». <7 Ciò non ha impedito allo scrittore di lanciarsi anche in questo progetto, affrontando i problemi volta per volta con un approccio curioso e garbato. Un tono che ben si presta a trasmissioni di servizio come le sue, seguite tanto da ascoltatori istruiti e selezionati quanto dal pubblico popolare, desideroso di attingere a un sapere che gli era stato fino ad allora precluso.
A partire dal 10 dicembre 1949 fino all’8 luglio 1959, Il Ridotto diventa un appuntamento fisso del palinsesto radiofonico, suscitando «tanta simpatia» tra i suoi affezionati ascoltatori. <8 Originariamente trasmessa dalla Rete rossa ogni sabato pomeriggio, tra le 16:30 e le 17, la rubrica cambierà più volte frequenza e collocazione, migrando al Programma Nazionale dal gennaio del ’52, per divenire poi una striscia quindicinale della sera. La regia è affidata a Rossi per le prime otto puntate, al quale subentrerà il collega Pietro Masserano Taricco fino alla fine delle trasmissioni. In alcune sue nostalgiche «notarelle», Della Seta avrebbe in seguito ricordato la fine del contributo di La Capria al Ridotto con lieve amarezza: "La nostra collaborazione durò per alcuni anni, finché venne il giorno in cui Raffaele fu assunto. Dovette allora sottostare a un severo regolamento, che impediva ai dipendenti di prestare la propria opera creativa a favore dell’Ente, in una sorta di automutilazione per cui i nomi più belli e importanti della nuova generazione letteraria venivano ridotti al rango di impiegati amministrativi". <9
La conduzione di La Capria si sarebbe conclusa il 31 dicembre 1954, quando l’autore passa il testimone all’amico Weaver, chiamato ad apportare un contributo alla «conoscenza del teatro americano, e in particolare del musical». <10
Nella stagione in cui vi collabora anche La Capria, la struttura dialogica del Ridotto è spesso costruita attorno alle figure di alcuni personaggi immaginari, ai quali spetta il compito di mettere in scena un dibattito virtuale, dando voce «a tutte le opinioni» dei radioascoltatori. <11
Proprio come si è soliti fare nel foyer di un teatro, anche questi personaggi discutono sui nostri Visconti, Ugo Betti, Alberto Perrini, Diego Fabbri, Ezio D’Errico, ma anche su Eliot, Shaw, O’Neill, Capote, Christopher Fry, Ronald Duncan, Thornton Wilder, Arthur Miller, Tennessee Williams, Samuel Albert Taylor, Samson Raphaelson, o ancora su Gide, Albert Camus, Roger Vailland, Armand Salacrou e molti altri. Si tratta del prototipo di un talk show nel quale, tuttavia, nessuno spazio è riservato all’improvvisazione. Ogni battuta è scritta per garantire all’«ascoltatore intelligente» la possibilità di «approfondire i temi proposti» e di «trarre delle conclusioni vitali» sull’argomento, parteggiando per il personaggio che ha espresso le idee più vicine al suo pensiero. <12 Perciò, se la voce di Tizio (alias Michele Malaspina) esprime l’opinione «piccolo borghese» di chi bada soprattutto al «lato pratico della cosa», al Professor Klamm (Giorgio Piamonti) spetta, «come al solito, la parte del conservatore», così che Domitilla (Gemma Griarotti) possa mediare fra i due interlocutori, entrando nel discorso non appena un’osservazione le appaia «particolarmente ingiusta», fino a risolvere la diatriba di turno riconducendo tutto a una «questione di gusto e di misura». <13 Sembrerebbe che La Capria e Della Seta avessero qui adottato la strategia aziendale secondo cui in radio era consigliabile essere sempre assertivi, tanto con i «partigiani del sì» quanto con i «partigiani del no», per restare «al centro in posizione di equilibrio» e sottrarsi così ad «ogni possibile coda polemica». <14
Rispondendo alle domande di Anna Grazia D’Oria, rievocando gli anni della Rai, La Capria avrebbe sottolineato questa sua funzione: "Seguivo i programmi culturali leggendo i testi delle conversazioni con gli scrittori, ero il filtro che controllava la grammatica e anche l’opportunità dei programmi che poi andavano in onda. I testi non dovevano urtare la sensibilità dell’ascoltatore medio, dovevano essere adatti a lui, senza offenderlo né prevaricarlo". <15
Non bisogna dimenticare che all’indomani delle elezioni del 18 aprile 1948 era stata la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi a mettersi alla guida del Paese, proponendo un modello di rassicurante morigeratezza nel quale, per anni, la maggioranza delle famiglie italiane si sarebbe riconosciuta. Di conseguenza, anche il gruppo dirigente della Rai legato al partito cattolico seguiva una “linea centrista”, facendo propria la mission del direttore della BBC John Reith («inform, educate, entertain») per produrre trasmissioni rispondenti alle «esigenze di tutti», avendo cura di evitare «qualsiasi genere di shock» agli ascoltatori provati dalla guerra. <16
Ma l’equidistanza democristiana alla quale La Capria avrebbe poi opposto il diritto di essere «decisamente equicontrastante», respingendo così lo stigma sociale che marchia chi sceglie di «non collocarsi» politicamente, non è la sola inderogabile norma per la redazione di un testo radiofonico. <17
Il celebre vademecum dell’ingegner Gadda, pubblicato dalla ERI nel ’53 come a formalizzare le regole non scritte già in uso nell’azienda, è senz’altro una lettura che egli deve aver tenuto in grande considerazione. I testi di La Capria sembrano infatti seguire alla lettera le prescrizioni perentorie dell’opuscolo gaddiano, che tutti i dipendenti della Radio erano tenuti a prendere sul serio, nonostante l’umorismo involontario di alcune circonlocuzioni da «linguaggio notarile». <18 Menzionando il ritratto che ne fece Giulio Cattaneo, anche La Capria ricorda molto bene «le sue fisime», risalenti a quando i due erano impiegati «praticamente nello stesso settore» della Rai: <19 "Lui aveva questo rispetto per le regole, non perché fosse una persona gregaria, è che aveva un rispetto maniacale per le cose che funzionavano, i rapporti da rispettare, era un uomo da Italia risorgimentale. Era curioso il contrasto tra la sua capacità di essere letterariamente rivoluzionario e questa specie di disciplina del comportamento, che a volte era francamente esagerata". <20
Fra tutte le norme elencate con millimetrica precisione dall’ingegnere, quella che La Capria non manca mai di rispettare è soprattutto la cautela che suggerisce ai radioautori che avessero voluto «ottenere ascolto fino a trenta-quaranta minuti», di elaborare i testi «in forma di dialogo», "sia ricorrendo alla dialettica domanda-risposta, sia a quella per tesi-antitesi, sia ancora (più blandamente) a una successione di frasi espressive di cui l’una consegua all’altra con un certo distacco sviluppandola e completandola". <21
Facendo tesoro dei consigli redazionali di Gadda, alcune puntate del Ridotto si occupano del mezzo radiofonico e dei suoi rapporti con il teatro, il cinema e la neonata televisione, che dopo alcune trasmissioni sperimentali avrebbe inaugurato ufficialmente i suoi servizi il 3 gennaio 1954. <22
[NOTE]
2 **, Nuovi orientamenti nei programmi radio, «RC», 25:22 (1948), p. 3. Stando al palinsesto del «RC», 25:23 (1948), p. 22, a curare il primo Pomeriggio letterario fu Della Seta con una divagazione sulla Poesia amorosa italiana da Federico II a Petrarca, mentre all’A. spettò la seconda puntata sull’Ultima narrativa italiana, trasmessa l’11 giugno 1948 dalle 17 alle 18.
3 Pomeriggio letterario: “La morte del piccolo borghese” di F. Werfel, «RC», 26:28 (1949), p. 8.
4 Per gli amatori del teatro, «RC», 26:49 (1949), p. 8.
5 Il Ridotto, in ORTOLEVA e SCARAMUCCI, Enciclopedia della radio, cit., pp. 736-37: 736.
6 RAFFAELE LA CAPRIA, Rispettate Pirandello, «CdS», 23 aprile 1987; poi Le prevaricazioni teatrali, in Letteratura e salti mortali, cit., pp. 1293-98: 1293. Per una testimonianza dell’alter ego giovanile dello scrittore, si veda RAFFAELE LA CAPRIA, Esperienze teatrali di Candido dal ’38 al ’43, «Tempo presente», 10:8 (1965); poi Il morto che parla. Esperienze teatrali di Candido dal ’38 al ’43, in False partenze (1974), cit., p. 35, dove leggiamo che le sue esperienze teatrali erano «strettamente legate a quelle letterarie (anche perché spesso le commedie le leggeva soltanto)».
7 RAFFAELE LA CAPRIA, Cecov, come ti odio, «CdS», 20 giugno 1987; poi Il teatro, le idee e le trovate, in Letteratura e salti mortali, cit., pp. 1299-1304: 1300. Sull’argomento, si veda anche RAFFAELE LA CAPRIA, Prefazione a GIORGIO PROSPERI, Sinceramente preoccupato di intendere. Sessant’anni di critica teatrale, a cura di Mario Prosperi, Bulzoni, Roma 2004, vol. I, 1940-1969, pp. XXXI-XXXV.
8 Prosa: Il Ridotto, «RC», 27:40 (1950), p. 12. Nella voce enciclopedica sul Ridotto, cit., p. 736, è scritto che l’ultima puntata, a cura di Gian Domenico Giagni, fu trasmessa l’8 luglio 1959, anche se il palinsesto del «RC TV», 36:52 (1959), p. 30, annuncia un ulteriore appuntamento il 28 dicembre dello stesso anno. Non è però da escludere che si tratti di una replica.
9 DELLA SETA, Raffaele La Capria, cit., p. 18.
10 Il Ridotto, cit., p. 737.
11 Per gli amatori del teatro, cit.
12 Ibid.
13 LA CAPRIA e DELLA SETA, Il Ridotto, cit., 6 febbraio 1953, TR, fald. 845, fasc. 17, pp. 7, 4, 6 e 13. Si veda ivi, 3 marzo 1952, TR, fald. 844, fasc. 16, pp. 3 e 5, per l’attribuzione delle voci ai personaggi.
14 ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 160.
15 ANNA GRAZIA D’ORIA, Intervista a Raffaele La Capria, «l’immaginazione», 34:303 (2018), p. 6.
16 ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 161. MONTELEONE, Storia della radio, cit., p. 264. Si veda FRANCO MONTELEONE, L’occupazione cattolica, in Storia della RAI, cit., pp. 201-22.
17 LA CAPRIA, La mosca nella bottiglia, cit., p. 1516.
18 Cit. in DANTE ISELLA, Note ai testi, in CARLO EMILIO GADDA, Saggi, giornali, favole e altri scritti, a cura di Liliana Orlando, Clelia Martignoni e Dante Isella, Garzanti, Milano 1991, vol. I, pp. 1362-63: 1362.
19 VELARDI, Albergo Roma, cit., p. 90. L’A. si riferisce a GIULIO CATTANEO, Il gran lombardo, Garzanti, Milano 1973.
Luca Federico, L'apprendistato letterario di Raffaele La Capria, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2020

domenica 27 febbraio 2022

Anche nel periodo dopo la seconda guerra mondiale le partite di calcio sono spesso disturbate da episodi di violenza


La nascita del fenomeno dei movimenti ultras in Italia si deve datare alla fine degli anni Sessanta: il primo gruppo avente tali caratteristiche è la Fossa dei Leoni milanista, che si forma nel 1968; il primo nucleo ad utilizzare invece questo nome è quello degli Ultras Tito Cucchiaroni, tifosi sampdoriani che si compattano sotto questa sigla nel 1969; <5 è però opportuno segnalare che sarebbe errato credere che è a partire da questi anni che si verificano episodi di violenza attorno a una partita di calcio.
In Italia, fatti simili si sono verificati fin dagli anni Venti (il primo morto in uno stadio è il viareggino Augusto Morganti, durante il match tra la squadra della città versiliese e la Lucchese, il 2 maggio 1920). <6 Sempre durante quel decennio, si registrano dei pesanti tafferugli, oltre all’esplosione di alcuni colpi di pistola, presso la stazione di Torino Porta Nuova tra le tifoserie del Genoa e del Bologna, nel 1925, in occasione della finale per l’assegnazione dello scudetto, <7 giacché in quegli anni il campionato non è ancora a girone unico, come sarà decretato a partire dal 1929. Come scrive Valerio Marchi nel saggio Italia 1900-1990: dal supporter all’ultrà, contenuto in Ultrà, "oltre alla violenza, è il fenomeno del tifo calcistico nel suo insieme a caratterizzare questo periodo: proseguendo nel trend d’anteguerra, il tifo si trasforma sempre più da fenomeno privato a evento pubblico, e le prime carovane di supporters a seguito della squadra iniziano a trasformarsi in quelle trasferte più o meno di massa che si registrano già da decenni in Gran Bretagna". <8
L’8 dicembre 1929, presso il campo della Rondinella, sito nei pressi dell’attuale Flaminio, si disputa il primo derby tra e la Società Sportiva Lazio e l’Associazione Sportiva Roma, nata due anni prima dalla fusione di tre società calcistiche precedenti, ossia l’Alba-Audace, la Fortitudo-Pro Roma e il Foot Ball Club di Roma, meglio noto col nome di Roman: <9 il risultato finale è di 0 a 1 in favore dei giallorossi. I dirigenti della Lazio, in preparazione al match, decidono di portare la squadra in ritiro fuori dalla città, ai Castelli, perché i giocatori non siano disturbati «dall’atmosfera caldissima che si respirava nella capitale». <10 Le autorità fasciste avevano inoltre deciso di schierare seicento tra poliziotti, carabinieri e volontari della milizia; <11 la Roma, secondo uno schema che è stato valido per diversi anni ma che ormai oggi appare decisamente superato, è all’epoca la squadra tifata nelle borgate e dal popolino, il che fa sì che, nonostante si giochi in casa della compagine biancoceleste, le cronache riportano che il pubblico presente è in gran parte di fede romanista, dato che i tifosi laziali, di estrazione decisamente più borghese, decidono di tenersi lontano dal proprio stadio. <12 In quell’occasione il clima si mantiene sostanzialmente tranquillo, ma già per il derby che si gioca il 24 maggio 1931 presso lo stadio Nazionale (poi demolito nel 1957 per far posto al Flaminio) La Gazzetta dello Sport del giorno successivo così scrive: "l’arbitro ha appena fischiato la fine che vediamo giocatori laziali e romanisti alle prese; accorrono dirigenti a separarli e accorre anche la folla che stazionava sulla pista; la confusione è grande e ad accrescerla sopravviene l’invasione di campo da parte del pubblico. La forza pubblica ha un gran da fare per sgomberare il terreno di gioco e vi riesce solo dopo molti stenti e senza aver potuto impedire molte colluttazioni non precisamente verbali". <13
Anche la stracittadina del 21 febbraio 1937 è caratterizzata da scontri piuttosto pesanti tra gli stessi giocatori e, successivamente, tra i tifosi, con la polizia che incontra non poche difficoltà a ristabilire l’ordine. <14
Molto interessante appare infine un fondo anonimo databile alla metà degli anni Trenta, secondo il quale "nella grande, entusiasta, educata, sportivissima massa di tifosi che segue la Roma si sia da qualche tempo infiltrata una minoranza tumultuosa di mascalzoni, che macchiano con il loro contegno teppistico il buon nome della gloriosa società romana. Crediamo perciò di gettare un buon seme rivolgendosi ai dirigenti della Roma, invitandoli a intervenire con energia per una eliminazione severa dalle scale del Testaccio degli elementi indesiderabili. Essi sono pochi, sempre gli stessi, e con molta facilità individuabili; una minoranza fuori dalla legge che sbava solo livori e provocazioni. Testaccio [lo stadio dove la Roma gioca in quegli anni, collocato nell’omonimo quartiere, ndr] deve essere ripulito presto. Non sarà difficile, volendo". <15
Insomma, già agli albori della storia dello sport più popolare del nostro paese c’è chi propone per i tifosi più esagitati una sorta di D.A.Spo. ante litteram.
Anche nel periodo dopo la seconda guerra mondiale le partite sono spesso disturbate da episodi di violenza: ma si tratta, nell’ampia maggioranza dei casi, di situazioni legate all’andamento della partita, in particolare a decisioni dubbie da parte dell’arbitro, mentre hanno un netto calo gli episodi di tafferugli verificatisi tra tifoserie rivali. Il turbolento decennio degli anni Cinquanta è pieno di episodi che confermano ciò, <16 ed è proprio la dubbia direzione di gara da parte di un fischietto a causare, pur se indirettamente, la seconda vittima registrata in Italia su un campo di calcio.
Il 28 aprile 1963, giorno cruciale per la storia del nostro paese visto che si tengono le elezioni politiche da cui scaturirà, con l’ingresso del PSI, il primo governo di centrosinistra, presso lo stadio Donato Vestuti di Salerno è in programma la partita tra la Salernitana e il Potenza, valevole per la quint’ultima giornata del girone meridionale della Serie C, di importanza cruciale per entrambe le squadre: per sperare nella promozione in Serie B, raggiungibile solo tramite il primo posto nel girone, alla squadra campana non serve altro risultato all’infuori della vittoria, mentre il Potenza capolista, poi vincitore finale del campionato, può anche accontentarsi di un pareggio. Come ricorda l’arbitro Gandiolo in una dichiarazione del 2001, «andava tutto per il verso giusto, la partita scorreva tranquillamente quando, all’improvviso, successe davvero il finimondo». <17
Gli animi si scaldano in seguito alla rete del Potenza al 42° minuto del primo tempo, viziata secondo i giocatori e la tifoseria della squadra di Salerno da una netta posizione di fuorigioco; alla fine la marcatura viene però convalidata. A 10 minuti dalla fine del match, sul punteggio ancora di 0 a 1, non è assegnato quello che al pubblico appare come un netto calcio di rigore in favore della Salernitana. Vi sono un paio di invasioni di campo isolate, alla seconda delle quali la reazione da parte della polizia è veemente, accanendosi con rabbia sul tifoso che aveva scavalcato le recinzioni del Vestuti arrivando in campo. Citando Cuori tifosi di Maurizio Martucci, «il malcapitato non oppone resistenza, ma, seppur ferito, riesce a divincolarsi dai poliziotti, dirigendosi verso la tribuna, dove chiede aiuto alla folla, con ampi gesti, per liberarsi dal blocco delle forze dell’ordine. In cambio, nuove manganellate». <18
Di fronte a questo nuovo sopruso da parte della celere, la reazione del pubblico diviene veemente: in risposta a ciò, la polizia utilizza dei candelotti lacrimogeni, dopo i quali vengono sparati alcuni colpi di pistola in aria, uno dei quali colpisce il quarantottenne Giuseppe Plaitano, ex ufficiale della Marina in pensione, seduto in tribuna in compagnia del figlio Umberto, che così racconta quei tragici momenti: «[mio padre, ndr] venne mortalmente colpito alla tempia, nell’encefalo sinistro, una parte del cranio non protetta, dove non c’è cartilagine, nemmeno una vertebra. Il colpo fu sparato in aria. Certamente non per uccidere, ma il caso volle che mio padre morì. Morì immediatamente». <19
Il decesso del tifoso salernitano, cui è stato dedicato nel 1978 uno dei primi gruppi ultras al seguito della squadra campana, <20 è seguito da un vespaio di polemiche: i giornali e i periodici, naturalmente condizionati dall’orientamento politico di cui sono espressione, commentano con toni molto diversi quell’episodio. Masullo, il corrispondente de l’Unità, l’organo ufficiale del PCI, così scrive nell’edizione del 29 aprile 1963, in un articolo dal titolo “Si chiede la punizione dei responsabili”: "l’esito, le fasi della partita, i presunti errori arbitrali, sono completamente estranei alle discussioni che si svolgono animate in tutta la città. Non si discute che delle violenze della Celere, dei caroselli cui essa si è abbandonata, delle decine di circostanze che aggravano e sottolineano queste manifestazioni poliziesche. Pare che, iniziato il lancio dei lacrimogeni, i cancelli non siano stati aperti al pubblico, che, disperatamente, cercava una via di scampo. Corre anche voce che i carabinieri si siano astenuti dall’aprire il fuoco, malgrado i ripetuti incitamenti che, si dice, sarebbero stati loro rivolti". <21
L’articolo prosegue sottolineando che i deputati comunisti Pietro Amendola e Feliciano Granati, quest’ultimo originario della provincia di Salerno, <22 avevano inviato un telegramma di protesta al Presidente del Consiglio, al Ministero degli Interni e al Prefetto di Salerno.
La Stampa del 29 aprile 1963, invece, sotto al titolo centrale sulle elezioni, di cui sottolinea l’alta affluenza alle urne, scrive in prima pagina di «tifosi scatenati a Salerno e a Napoli» <23 [erano avvenuti dei gravi disordini anche nel capoluogo partenopeo, anch’essi causati da dubbie decisioni arbitrali, ndr]. Risulta chiaro lo spostamento delle responsabilità, che, mentre dal quotidiano comunista appare sulle spalle forze dell’ordine, per l’organo torinese, di proprietà allora come oggi della FIAT, sembra invece nettamente a carico dei tifosi. Alla morte del povero Plaitano, inoltre, viene dedicato solo il sottotitolo, che parla di «un morto e 200 feriti», <24 sommando gli episodi verificatisi nelle due città campane.
Ho voluto dedicare ampio spazio a questo fatto di cronaca, che dal punto di vista giudiziario si risolverà con un nulla di fatto, <25 per dimostrare come di calcio si muoia già prima dell’avvento dei gruppi ultras, e di quanto esso, nel nostro paese, sia già allora un fenomeno sociale avente delle pesanti ripercussioni che vanno ben oltre la cronaca sportiva di ciò di cui si rendono protagonisti i ventidue giocatori in campo.
[NOTE]
5  Cfr. Marchi, Ultrà, cit., p. 218. Il saggio citato è in realtà scritto da Fabio Bruno, dal titolo Storia del movimento ultrà in Italia.
6  Cfr. Maurizio Martucci, Cuori tifosi. Quando il calcio uccide: i morti dimenticati degli stadi italiani, Sperling & Kupfer, Milano, 2010, pp. 1-11.
7  Cfr. Marchi, Ultrà, cit., p. 163
8  Ibidem.
9  Cfr. http://www.asroma.com/it/club/storia, ultimo accesso il 29/10/2016
10 Cfr. Marco Impiglia, Il campo Testaccio, Riccardo Viola editore, Roma, 1996, p. 53, citato da Valerio Marchi, Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio, DeriveApprodi, Roma, 2005, p. 6.
11 Ibidem.
12 Ibidem
13 Ibidem.
14 Ivi, p. 8.
15 Ivi, pp. 7-8.
16 Un elenco si può trovare in Marchi, Ultrà, cit., a p. 167.
17 Cfr. Martucci, Cuori tifosi, cit., p. 23.
18 Ivi, p. 24.
19 Ivi, p. 28.
20 Ci si riferisce agli Ultras Plaitano (1978), citati in ivi, p. 33.
21 Cfr. http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1963_04/19630430_0010.pdf&query=plaitano, ultimo accesso il 21/10/2016.
22 Cfr. http://storia.camera.it/deputato/feliciano-granati-19220426, ultimo accesso il 21/10/2016.
23 Cfr. http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,avanzata/action,viewer/Itemid,3/page,1/articleid,0091_02_1963_0100A_0001_24681866/, ultimo accesso il 21/10/2016.
24 Ibidem.
25 Cfr. Martucci, Cuori tifosi, cit., pp. 32-33.
Umberto Resta, Il rapporto tra controcultura ultrà e sinistra. Il caso di Roma sotto le giunte guidate dal PCI, Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno Accademico 2015/2016

giovedì 24 febbraio 2022

Spesso invariati restano anche, ed è altrettanto decisivo, i dirigenti della radio


Le continuità nella radiofonia e nell’industria editoriale italiana a cavallo della guerra non sono difficili da dimostrare. In effetti, se si sfogliano i numeri del Radiocorriere, organo ufficiale della Rai che prosegue la pubblicazione dalla Milano occupata dai tedeschi fino al 29 aprile 1945, e riparte dopo una breve pausa nel gennaio del 1946 (unificando l’edizione del Nord e quella del Centrosud nel 1947), <21 l’unico segno di rottura apparente è la sparizione della propaganda contro americani ed inglesi. Le orchestre che affollano il palinsesto sono le stesse, e così i direttori che le dirigono, e la musica che suonano. Il ventennio fascista alla radio sembra allora allargarsi fino a diventare un «Trentennio», (Fabbri 2015a), che si estende dal 1928 (il primo anno di attività dell’Eiar) fino al 1958, l’anno della vittoria di Modugno al Festival di Sanremo, e del boom del microsolco.
Una figura emblematica di questa continuità è quella di Mauro Ruccione, già autore di «Faccetta nera», «La sagra di Giarabub», «Camerata Richard», e «Tacete!» (bastino, in questo caso, i titoli). Negli anni cinquanta Ruccione crea un «sedicente Fronte nazionale per la difesa della canzone italiana» (Salvatore 1998, p. 331) e si schiera a favore delle «più belle tradizioni canore del nostro Paese» in una lettera aperta a Sorrisi e canzoni. <22 Soprattutto, rimane in attività come uno degli autori di maggiore successo, e fra più tipici, della canzone italiana, con brani come «Serenata celeste», «E la barca tornò sola», e «Buongiorno tristezza» (che vinse a Sanremo nel 1955). Spesso invariati restano anche, ed è altrettanto decisivo, i dirigenti della radio, a partire da Giulio Razzi, «forse il singolo attore di maggior rilievo» nel passaggio da Fascismo a democrazia (Fabbri 2015a, p. 232): direttore dei programmi dell’Eiar e poi della Rai e, in seguito, estensore del regolamento del primo Festival di Sanremo.
La tesi della continuità delle istituzioni nel passaggio dal Fascismo al dopoguerra non è una novità in ambito storiografico (Pavone 1995), e riguarda in particolar modo la radiofonia.
La nuova Rai nasce dal compromesso fra la necessità di mantenere la struttura amministrativa e tecnica dell’era fascista, e la «subordinazione diretta al potere esecutivo» (Ortoleva 1993, p. 462), che finisce quasi subito con l’avvantaggiare la DC. È quasi naturale, allora, che la Rai divenga uno strumento dell’azione anticomunista e della creazione del consenso: <23 la Democrazia Cristiana mette le mani sull’ente radiofonico già nel 1945, quando il Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni del primo governo De Gasperi viene affidato a Mario Scelba.
Se la continuità gestionale dell’ente radiofonico non viene mai messa in dubbio, nel 1947 si avvia comunque una riorganizzazione con l’insediamento di un Comitato per le direttive di massima culturali e una Commissione parlamentare di vigilanza.
Dopo le elezioni del 1948 è facile per la DC consolidare un controllo già esercitato nei fatti. Fin dall’anno seguente si insedia la Commissione di lettura per la musica leggera, poi Commissione d’ascolto (Fabbri 2015a, p. 239; Bonato 2007-2008), che esprime pareri vincolanti su cosa può e su cosa non può essere trasmesso, e il cui influsso sulla produzione musicale nazionale rimane ancora in buona parte inesplorato.
Le politiche dell’Eiar prima, e della Rai poi, in un sistema di monopolio della radiofonia e nel momento che precede l’esplosione del mercato del microsolco, dettano di fatto la linea al settore editoriale.
Si spiega anche così l’omologazione dell’offerta di questi anni, e la grande uniformità dei testi e dei soggetti delle canzoni. Ma il controllo ha conseguenze dirette anche sulla musica. La Rai democristiana diviene protagonista di una politica di «moralizzazione» e di una restaurazione crescente che emargina il repertorio più «moderno» e americano a vantaggio di un «ritorno alla melodia» (Prato 2010, p. 265). Non a caso, quel filone che Salvatore ha definito di «swing all’italiana» (forte di autori come Carlo Alberto Rossi, Gorni Kramer, di interpreti come Natalino Otto, Alberto Rabagliati, Trio Lescano, dell’orchestra di Pippo Barzizza) che aveva trovato i propri spazi durante il ventennio, e che prolunga la sua parabola nei primi anni dopo la Liberazione con il successo del boogie-woogie, perde poco a poco centralità (Salvatore 1998, p. 331), anche nella programmazione radiofonica (Ortoleva 2003, p. 465).
La Rai del dopoguerra, i cui abbonati superano i 5 milioni nel 1954, con un bacino di 18 milioni di utenti, punta decisamente sulla canzone, che un sondaggio del 1946 aveva dato come il genere più gradito (96%; ibidem). Lo permette anche il nuovo palinsesto in tre canali, con la musica colta sempre più relegata nella «riserva» della terza rete (che nasce nel 1950), e con la seconda riservata prevalentemente all’intrattenimento.
È in questo contesto che viene varato, nel 1951, il Festival di Sanremo. Il Festival nasce per iniziativa e all’interno delle politiche promozionali del Casinò di Sanremo, ma la Rai vi viene coinvolta da subito, e contribuisce alla definizione della sua formula.
[NOTE]
21 Sulle vicende del Radiocorriere si veda anche Malvano 2015.
22 Mauro Ruccione, «Lettera aperta di Ruccione alla Rai», Sorrisi e canzoni, a. 4, n. 50, 11 dicembre 1955, p. 3.
23 Sulle modalità di creazione del consenso e i metodi della DC, si veda Crainz 1996.
Jacopo Tomatis, I generi della canzone in Italia: teoria e storia. Dal fascismo al riflusso, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Torino, 2016

lunedì 21 febbraio 2022

Dopo la Liberazione, la situazione di Perugia rimane precaria ancora per qualche giorno


Fonte: Portale Umbria Giovani cit. infra

Nella decade tra il 10 e il 20 giugno 1944, l’ottava armata britannica attraversa quasi tutta l’Umbria: il 13, con la partecipazione dei partigiani della brigata Gramsci, viene liberata Terni, mentre battaglioni slavi e bande antifasciste anticipano gli alleati a Norcia, Cascia, Spoleto e Foligno; il 14 è la volta di Orvieto ed il 17 di Gualdo Tadino <83. L’attesa ansiosa dei perugini è rotta il 20 giugno dai soli britannici, senza un significativo contributo dei partigiani: nemmeno i membri del Cln, per eccesso di prudenza, onde evitare possibili scontri armati con i fascisti, vanno incontro agli inglesi <84.  Agli alleati, l’accoglienza della “capitale della rivoluzione fascista” sembra un benvenuto «forzato» <85. Le campane suonano a festa, ma l’arrivo delle truppe britanniche - simbolicamente raffigurato da Baduel in un elmetto capace, come un rito di passaggio, di fargli superare la fase dell’infanzia caratterizzata
dall’obnubilamento fascista - rappresenta per i perugini motivo di sollievo e tensione al contempo. I partigiani catturano alcuni fascisti che, «pallidi come morti» e «inerti fra spinte, schiaffi, calci, pugni, sputacchi, strattoni», vengono messi al muro «proprio di fronte al grande portone spalancato dell’Università» <86: sono alcuni dei cecchini lasciati dai tedeschi per infastidire l’arrivo degli alleati e favorire la ritirata dei nazisti verso nord, in direzione di monte Tezio. Il loro linciaggio viene evitato da un ufficiale inglese. Fatta eccezione per momenti di apprensione come questo, i perugini festeggiano i liberatori che distribuiscono, come altrove, razioni di cioccolato, pane bianco, sigarette, bacon o lo sconosciuto chewing-gum. L’attenzione degli abitanti del capoluogo è attratta dalla compostezza e dai turbanti delle truppe indiane, dai lunghi coltelli alla cintura degli australiani, dalla grossa Corona del
Rosario portata dai polacchi. Fuori da palazzo dei Priori, storica sede del comune, vengono appesi due grandi drappi degli Stati Uniti e dell’Urss; al loro fianco, ad onta degli sconfitti e dei liberati, un tricolore minuto privato anticipatamente dello stemma sabaudo. Il clima cambia repentinamente: i locali della casa del Fascio vengono occupati dalla casa del Popolo e sui muri compaiono scritte che inneggiano a Mario Grecchi e ai fratelli Ceci. Alcuni fascisti repubblicani vengono arrestati, mentre Rocchi riesce a fuggire al nord. In molti si schierano con i liberatori aiutandoli ad individuare le ex camicie nere «per rifarsi verginità di antifascismo assai improbabili» <87.
Dopo la Liberazione, la situazione di Perugia rimane precaria ancora per qualche giorno. L’ordinata fuga dei tedeschi viene protetta da alcuni membri della Wehrmacht, attestati in zona S. Marco, in una piccola casa da cui sparano colpi di granate sulla città per disturbare gli inglesi e ritardarne l’avanzata. «Per paradosso - ricorda Baduel - anche la gente che tanto aveva festeggiato gli inglesi, finì per parteggiare per quei tedeschi che tenevano in scacco i superpotenti angloamericani» <88. I tiratori distruggono tank inglesi e danneggiano alcuni palazzi di via Antinori, resistono per quasi due settimane ma poi devono arrendersi per mancanza di rifornimenti alimentari. A Liberazione conclusa i danni al centro cittadino sono relativamente contenuti e le vittime si aggirano attorno alla settantina.
Il 20 giugno, data già storica per Perugia <89, assume il significato profondo di termine a quo per una ricostruzione materiale e politica. Da allora la memoria della “capitale della rivoluzione fascista” inizia ad essere cancellata.
Nel resto della provincia, le truppe naziste si muovono in ritirata verso nord, lasciando alle loro spalle una scia di distruzioni di varia entità. A Magione, ad esempio, nel tentativo di rallentare l’avanzata degli alleati, viene perfino minato il corso <90. Eliminate le ultime resistenze tedesche, gli inglesi procedono entro luglio alla Liberazione del comprensorio perugino <91. Sono giorni convulsi, durante i quali non mancano brutalità e tentativi di vendetta. In qualche caso, le abitazioni degli ex fascisti vengono appositamente segnate per additare i proprietari al pubblico ludibrio. Altre volte ancora si arriva addirittura ad infastidire i figli degli sconfitti <92: la cieca crudeltà di una guerra fratricida è l’epilogo simbolico di una regione che per oltre vent’anni si era vantata di aver ospitato il “quartier generale” della marcia su Roma, atteggiandosi - tra retorica e realtà, tra propaganda e rivendicazioni politiche - a «regione più fascista d’Italia».
 


[NOTE]
83 Cfr. L. Clausi, Fasi e caratteri dell’’attività militare partigiana in provincia di Perugia, in L. Brunelli e G. Canali (a cura di), L’Umbria dalla guerra alla resistenza, op. cit., pp. 221-226. Sull’avanzata militare alleata e sulla Liberazione si rinvia, in particolare, agli approfonditi lavori promossi dalla Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation: R. Ranieri (a cura di), Gli Alleati in Umbria (1944-45), atti del convegno “Giornata degli Alleati” (Perugia, 12 gennaio 1999), 3Effe, Perugia, 2000; J. Kinrade Dethick, The Trasimene Line. June-July 1944, 3Effe, Perugia, 2002 (poi riproposto in edizione italiana: La battaglia dimenticata. Alleati, tedeschi e popolazione civile sulla Linea del Trasimeno, 3Effe, Perugia, 2004).
84 G. Gubitosi, Forze e vicende politiche tra il 1922 e il 1970, in A. Grohmann (a cura di), Perugia. Storia delle città italiane, op. cit., p. 239. In proposito si veda anche F. Innamorati, Perugia non riuscì a liberarsi, in Ruggero Ranieri (a cura di), Gli Alleati in Umbria (1944-45), op. cit., pp. 62-64, e R. Covino, Dall’antifascismo alla resistenza, in R. Rossi (a cura di), Perugia. Storia illustrata delle città dell’Umbria, op. cit., p. 832.
85 Cfr. R. Rossi, La liberazione e la ripresa democratica, in R. Rossi (a cura di), Perugia. Storia illustrata delle città dell’Umbria, op. cit., p. 849.
86 U. Baduel, L’elmetto inglese, op. cit., pp. 280-281.
87 Ibidem, p. 303.
88 Ibidem, p. 287.
89 Solo 85 anni prima i perugini avevano cercato di resistere alle truppe papaline contribuendo ad aprire la via ai piemontesi. Molte le analogie tra i due momenti storici, a partire dalle condizioni meteorologiche, pioggia in ambedue i casi, e dall’ingresso delle truppe straniere, sempre da Porta S. Pietro. «Entrambe le volte questa data portò, insieme al tepore della nascente estate, il rombo dei cannoni entro la città. Entrambe le volte qualche cosa cadde, qualcosa mutò, qualche cosa di nuovo sorse. Migliore o peggiore del precedente? Entrambe le volte, come sempre avviene, la parte vittoriosa non seppe indulgere alla perdente, la parte perdente non seppe perdonare ai vincitori l’umiliazione
della sconfitta. (…) La memoria è patrimonio di tutti, di chi gioì e di chi soffrì, di chi vinse e di chi perse, di chi vi partecipò e di chi solo ne udì il racconto» (20 Giugno 1859-20 Giugno 1944, due momenti di storia perugina, in Tramontana. Libero foglio di vita e costume, anno VI, n. 6, Perugia, giugno 1957).
90 Cfr. A. Caligiana, Vi racconto, op. cit., p. 73.
91 Il 22 giugno 1944, prima della Liberazione - avvenuta il 24 luglio successivo -, Gubbio è teatro di un drammatico eccidio, perpetrato dai nazisti in ritirata. Le vittime sono 40. Sulla strage, costellata ancora di molti punti interrogativi, si veda L. Brunelli e G. Pellegrini, Una strage archiviata, op. cit. Per ulteriori considerazioni sul tragico episodio si rinvia anche a G. Severini, L’eccidio di Gubbio tra storiografia e giustizia denegata (note a margine di un recente volume), in Diomede. Rivista di cultura e politica dell’Umbria, n. 1, anno I, settembre-dicembre 2005, pp. 61-76. Due giorni prima di Gubbio, il 22 luglio, viene liberata anche Città di Castello (sulle vicende dell’Alto Tevere dalla guerra alla Liberazione si rinvia ad A. Tacchini, Il fascismo a Città di Castello, op. cit., pp. 72-82).
92 Cfr. A. Caligiana, Vi racconto, op. cit., pp. 74, 77.

Soldati dell'VIII Armata britannica - Fonte: Portale Umbria Giovani cit. infra

Leonardo Varasano
, "La prima regione fascista d'Italia". L'Umbria e il fascismo (1919-1944), Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2007 

La Liberazione di Perugia - Fonte: Portale Umbria Giovani cit. infra

[...] È il 1943 quando si formano le prime bande di partigiani. Una resistenza armata contro fascismo e nazismo. La natura è una fedele alleata e le fresche montagne permettono la buona riuscita di attacchi improvvisi contro i nemici. L’Umbria infatti ha visto, fra i suoi monti, centinaia di uomini pronti a tutto, disposti a far risplendere di resistenza i suoi borghi medievali.
La Brigata San Faustino - Proletaria d’urto conta circa 350 partigiani, fra di loro ci sono sopratutto contadini e proletari che operano nella parte alta dell’Umbria e nelle vicine terre marchigiane: Pietralunga (dove nasce), Montone, Gubbio, Apecchio, Cagli, Umbertide e Città di Castello. Molti giovani e qualche decina di jugoslavi scappati dai campi di concentramento sull’Appennino umbro-marchigiano, fra cui Colfiorito, formano invece, tra Foligno, Nocera Umbra e Gualdo Tadino, la 4ª Brigata Garibaldi. La loro maggiore preoccupazione è attaccare i comandi tedeschi senza arrecar alcun danno alla popolazione civile.
E ancora, la Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci” che si forma subito dopo l’armistizio dell’otto settembre, composta principalmente da uomini appartenenti alla Valnerina e alle zone limitrofe; contadini, operai ternani, centinaia di jugoslavi e qualche prigioniero di guerra sovietico.
Nel 1943 un gruppo di giovani sale sul monte Malbe per dare inizio all’impresa, sono pochi, non hanno esperienza militare e mancano di equipaggiamento. Ci troviamo nel pressi di Perugia e parliamo della Brigata Francesco Innamorati nata più tardi rispetto le altre bande. Difatti la città, capoluogo di regione, vede non soltanto lo stanziamento del prefetto e molteplici realtà politiche al suo interno ma anche tutte le strutture militari e di polizia tedesche. Il gruppo, in seguito, si sposterà sui colli della piana del Tevere fra Torgiano e Deruta, operando insieme alla Brigata Leoni che lì si è formata, precisamente a Castelleone, frazione collinare di Deruta. Moltiplicheranno le azioni e vedranno molti più combattenti tra le loro fila.
Durante la guerra di liberazione come precedentemente detto operò la brigata Garibaldi “Antonio Gramsci”: un suo battaglione venne intitolato, nel Febbraio del 1944, a Germinale Cimarelli (Germinal), partigiano nativo di Terni con una lunga storia di militanza antifascista alle spalle. Fin dalla prima metà degli anni ’30 Germinal è un fervente comunista all’interno delle acciaierie di Terni, e per le sue attività politiche, il 22 Settembre del 1936, viene condannato al confino nelle isole Tremiti, dove si distinguerà per continue opere di insubordinazione nei confronti delle autorità del luogo. Quindi il carcere dell’isola di Ponza dove rimane per due anni, fino alla sua liberazione avvenuta nel 1943 in seguito alla caduta del regime fascista in Italia. Nonostante soffra di un grave disturbo alla vista, Germinal si unisce senza indugio alla Resistenza nelle fila del Pci, organizzando nella zona del Ternano una formazione di circa trenta uomini tra i quali anche ex prigionieri di guerra russi. L’episodio che lo rese famoso e gli valse tra gli altri riconoscimenti anche una medaglia d’oro al valore militare avvenne il 20 gennaio del 1944 sul Monte Torre Maggiore, una vetta montuosa posta sopra l’abitato di Cesi (Terni). Quel giorno, infatti, un drappello di fallschirmjäger (paracadutisti) tedeschi condusse una forte operazione di rastrellamento contro le bande partigiane della zona, durante il quale Germinal per impedire la distruzione del suo reparto, oramai accerchiato, rimase indietro per coprire la ritirata dei compagni battendosi solitario contro l’intero distaccamento nemico. Dopo la morte gli venne conferita la medaglia d’oro al valore militare, le motivazioni scolpite in calce recitano così: “Dopo l’8 settembre fu tra i primi a insorgere contro l’invasore. Comandante di un distaccamento partigiano, durante un potente rastrellamento tedesco, allo scopo di evitare la distruzione del suo reparto in procinto di essere accerchiato, ne ordinava il ripiegamento che proteggeva, rimanendo al suo posto, col fuoco di una mitragliatrice diretto contro i tedeschi incalzanti. Quale sfida al nemico issava il tricolore e dopo una lunga ed impari lotta, crivellato di colpi, cadeva da eroe sull’arma salvando così con suo cosciente sacrificio tutti i suoi compagni. Umbria, 20 gennaio 1944”. Terni venne liberata il 13 giugno del 1944.
Fra i componenti delle brigate non mancheranno di certo vittime, senza distinzione d’età o sesso. I rastrellamenti da parte della fazione nemica saranno violentissimi e non risparmieranno i civili. I partigiani riusciranno a scacciare il nemico e resisteranno fino all’arrivo delle truppe alleate amministrando e salvaguardando, come meglio potevano, il territorio e le sue ricchezze. I fascisti, perugini e ternani, cercheranno riparo fra Lombardia, Veneto e Emilia Romagna, molti di loro saranno però protagonisti di efferati episodi commessi, in seguito, dalle Brigate Nere presenti in quell’aria d’Italia.
Pochi giorni dopo la liberazione di Terni, uno scalpitio di ordine militaresco perfettamente ritmato incombe sul selciato di Borgo XX giugno, a Perugia. Nella tarda mattinata del 20 giugno 1944 il Frontone accoglie le truppe dell’ottava armata britannica. Gli alleati, i liberatori, non sono soltanto aitanti inglesi, scozzesi o canadesi, fra di loro si conta anche qualche indiano. [...]
 

Partigiani umbri e jugoslavi della Brigata Gramsci - Fonte: Portale Umbria Giovani cit. infra

Federica Magro
e Gianmarco Leti Acciaro, La Liberazione dell’Umbria: storie di Resistenza, Portale Umbria Giovani, 24 aprile 2020

domenica 20 febbraio 2022

Ajò, il gatto rosso di Trilussa


Caratteristica essenziale della legislazione razziale in Italia e in particolare della sua attuazione era il duplice aspetto utilitario e pratico in quanto, a parte i sempre esistenti meschini profittatori e/o corrotti presenti in ogni regime, la questione politica apriva anche delle prospettive economiche (per spoliazioni in particolare), imponendo sia dei limiti al possesso dei beni (e poi la loro confisca sotto la Rsi) sia restrizioni a molte attività professionali e commerciali.
Sin dai primi tempi dall’entrata in vigore della cosiddetta legislazione a “difesa della razza” cominciarono a circolare voci e sospetti, sempre più evidenti, di corruzioni e profitti a vario livello. Una singolare denuncia giunse anche dal poeta Carlo Alberto Camillo Salustri (meglio noto come Trilussa) il quale nel 1940 pubblicò una poesia dal titolo, evidentemente eloquente, "L’affare della razza". La denuncia del poeta fu poi accolta anche da fedelissimi sostenitori della “difesa della razza”. Basti citare, in proposito, Telesio Interlandi, il quale su “Il Tevere” del 5-6 giugno 1941 accanto alla poesia di Trilussa pubblicata in prima pagina fece cenno, sotto il titolo "La satira e la razza", alla “dolorosa realtà di falsi nomi ariani” sottoposti alla nuova legislazione “con la deplorevole compiacenza di funzionari permissivi”, auspicando pertanto una legislazione più netta e severa; un auspicio accolto e rilanciato anche da Giovanni Preziosi il quale, sulla rivista da lui fondata, “La vita italiana” - divenuta negli anni uno dei fulcri della campagna di stampa antiebraica e punto di riferimento dei maggiori teorici dell’antisemitismo italiano e internazionale - pubblicò in quello stesso mese di giugno sia la poesia che parte dell’articolo di Interlandi sotto l’eloquente titolo "La parola a Trilussa".
Vale la pena soffermarsi su questa pagina della biografia di Trilussa. Egli amava definirsi “non fascista”, ma, in realtà, con il suo sarcasmo romanesco, sincero ed irriverente, fu un reale oppositore del Regime; la sua decisione di non prendere la tessera del partito gli pregiudicò peraltro anche la nomina di accademico d’Italia. I versi della sua poesia - pubblicata anche all’estero, su fogli di esuli antifascisti come la “Voce d’Italia” del 1º giugno 1941 - traevano ispirazione, come sovente, dalla cronaca quotidiana e suscitavano ironia sulla idiozia delle leggi razziste del 1938 e sull’invenzione della razza cosiddetta ariana, tale da risultare irriverente verso l’autorità. Ecco una parte del testo:
Ci avevo un gatto e lo chiamavo Ayò
ma dato c’era un nome un po’ giudio
agnedi da un prefetto amico mio
pe’ domannaje se potevo o no,
volevo sta’ tranquillo, tantoppiù
ch’ero disposto a chiamarlo Ajù
- Bisognerà studià - disse er prefetto -
la vera provenienza de la madre… -
La poesia accenna poi all’origine della madre (“àngora”), del padre (“siamese”, anche se “bazzicava er Ghetto”) e del gatto, nato “a casa der Curato”; e così continua con le parole del prefetto:
Se veramente ciai ‘ste prove in mano,
- me rispose l’amico - se fa presto.
La posizzione è chiara: - E detto questo
firmò una carta e me lo fece ariano.
- Però - me disse - pe’ tranquillità,
è forse mejo che lo chiami Ajà.
Nella realtà Trilussa aveva effettivamente un bel gatto rosso, da lui chiamato Ajò, nome di un avvocato ebreo, Ugo Ajò, caro amico di Trilussa; ma ebrei erano anche il suo primo editore Enrico Voghera e il modenese Angelo Fortunato Formiggini, che nel 1931 pubblicò, nella collana classici del ridere, l’antologia di favole di Trilussa "Campionario".
Nel 1938 l’avv. Ugo Ajò mise in atto una burla provocatoria. Fece stampare della cartoline con il titolo beffardo "Cartolina razzista romana", sulle quali erano riprodotte due poesie di Trilussa: da un lato "Questione di razza" del 1935 e dall’altro un risalente sonetto "Questioni de razze" del 1890 (di cui l’avvocato conservava gelosamente l’autografo); entrambe con toni diversi, ma echeggianti una posizione non razzista dell’autore. L’avv. Ayò inviò una cartolina per posta (timbro del 6 ottobre 1938, giorno in cui fu approvato dal Gran consiglio del fascismo il testo della successiva legge del 10 novembre 1938) ad Arnaldo Mondadori, ingenuamente confidando su una benevola considerazione dell’iniziativa, essendo Mondadori editore unico di Trilussa dal 1921. L’editore, allarmato per i rischi di un intervento della censura, anche perché la cartolina citava le sue edizioni in calce a ciascuna poesia, il 9 dicembre 1938 scrisse una accorata lettera a Trilussa invitandolo a pretendere dall’avvocato Ayò la distruzione immediata di tutte le cartoline stampate.
Della risposta di Trilussa non c’è traccia nell’Archivio Mondadori, dove invece è conservata la minuta della lettera dell’editore. È probabile che, fermo nelle sue convinzioni, il poeta non abbia risposto e anzi, con ancora più rischiosa ironia, riprese il nome di Ajò nella citata poesia del 1940.
La corrispondenza tra l’avv. Ajò e Trilussa continuò anche nei mesi successivi. Il 23 settembre 1940, scrivendo da Serra di Lerici, dove si era rifugiato dopo essere stato costretto a lasciare la professione, l’avvocato, con amara ironia, confidò a Trilussa che se non si era “fatto vivo dall’aprile 1939 […] è perché sono morto, ucciso dalla Questione de razza, che mi ha allontanato dal Palazzo di Giustizia e dall’insegnamento al quale tenevo”.
Riccardo Chieppa, Persecuzioni razziali (1939-1945): episodi di speculazione e meschini profittatori in (a cura di) Antonella Meniconi e Marcello Pezzetti, Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, Consiglio Superiore della Magistratura - Consiglio Nazionale Forense, 2018

Trilussa e il razzismo
Prima di confluire nella raccolta "Acqua e vino" (stampata da Mondadori a Roma liberata nel dicembre 1944, in edizione provvisoria), "L’affare de la razza" era apparsa su «La Voce d’Italia» del 1° giugno 1941 con l’avviso «Riproduzione vietata». Il divieto fu ignorato dal giornale fascistissimo «Il Tevere», che la ripubblicò sulla prima pagina del numero 188 (5-6 giugno 1941), accompagnandola con un lungo articolo, "La satira e la razza", non firmato ma presumibilmente dello stesso direttore, il tristamente famoso Telesio Interlandi. Vi si sosteneva che, dietro lo schermo della satira, la poesia trilussiana denunciava una pericolosa realtà: troppi ebrei si nascondevano sotto falsi nomi ariani con la deplorevole compiacenza di funzionari permissivi dello Stato. Facendo proprie le teorie razziste più estreme, l’articolista invocava leggi più severe e più severamente applicate: «Non vogliamo né Ajà, né Ajù, ma nettamente Ajò: vogliamo conoscere gli ebrei per quello che sono, per quello che furono e per quello che saranno [...]. Abbisogna all’Italia una legislazione antiebraica più netta, meno tortuosa, meno ingenua. Non alimentiamo il fenomeno dell’ebreo ariano per decreto. Questi errori si sconteranno». Idee aberranti e parole minacciose che preannunciavano la tragica svolta dalla discriminazione alla persecuzione e allo sterminio, già in atto del resto, nel 1941, nella Germania nazista.
Il motteggio di Trilussa celava la previsione di una imminente follia sanguinaria: non per nulla il suo “scherzo” poteva infiammare d’ira e di sdegno un razzista come l’autore dell’articolo del «Tevere». Il poeta, notoriamente amante dei gatti, ne aveva realmente uno a cui aveva dato il nome di Ajò e che continuò a chiamare così sfidando le regole del regime. Di Ajò si può vedere la fotografia in un libro di memorie di Fiorella Frapiselli, che da bambina frequentò insieme al padre, Armando Frapiselli, il favoloso studio di Trilussa ricolmo di strani oggetti, soprattutto di animali impagliati o imbalsamati. Quella foto la scattò lei stessa, con le mani inesperte della sua giovanissima età, nel giardinetto retrostante lo studio di via Maria Adelaide. «Ajò», scrive la Frapiselli a distanza di tanti anni, «era un bel gattone rosso che quando Trilussa non era in casa, misteriosamente ne sentiva l’approssimarsi, anche quando egli era molto lontano. Allora il micio correva verso la porta di casa e Rosa [la governante] diceva: “Il padrone sta arrivando!”. Infatti dopo un po’ egli appariva, recando spesso “il fagottello degli avanzi” che spontaneamente i camerieri dei ristoranti da lui frequentati si ricordavano di consegnargli “per il gatto”, essendo noto l’affetto che egli aveva per la bestiola. Poi, un brutto giorno Ajò morì e, come ebbe a raccontarmi mio padre, fu pietosamente sepolto, avvolto in una vecchia vestaglia di seta, sotto le zolle del bel giardinetto della fotografia» ("Trilussa con noi", Roma, Bardi, 2001, pp. 19-23).
Perché proprio quel nome Ajò? Per spiegarlo, bisogna retrocedere al 1938, l’anno nero del "Manifesto della razza". In alcuni sonetti giovanili Trilussa aveva ironizzato sugli usurai ebrei, di cui era stato vittima a causa della sua vita dispendiosa, ma non ne aveva mai fatto una “questione di razza”, e d’altronde non pochi suoi amici erano ebrei. Lo era il suo primo editore, Enrico Voghera, e lo era un altro geniale editore, il modenese Angelo Fortunato Formìggini, che nella prestigiosa collana dei «Classici per ridere» gli pubblicò, nel 1931, la fortunata antologia di favole intitolata "Campionario": Formìggini nel ’38 si suicidò in segno di estrema protesta contro le leggi razziali e alla sua memoria Trilussa restò sempre devoto con affetto e ammirazione. Tra questi amici ed estimatori dell’“altra razza”, va annoverato anche l’avvocato romano Ugo Ayò (si firmava così, con la y), il quale combinò una burla provocatoria, facendo stampare una serie di  cartoline intestate beffardamente «Cartolina razzista romana», con la riproduzione di due poesie trilussiane: sul dritto "Questione de razza", tratta dall’antologia mondadoriana "Lo Specchio e altre poesie" del 1938, ma già in "Libro muto" del 1935; sul rovescio "Questioni de razze", un sonetto che forse risale al 1890. In entrambi i testi, con toni diversi, è inequivocabile la  posizione antirazzista dell’autore.
Ebbene, Ugo Ayò ebbe la temerarietà di far recapitare una di quelle cartoline (con timbro postale «6 ottobre 1938», proprio il giorno in cui il Gran Consiglio aveva approvato il testo contro gli ebrei che sarebbe diventato legge il 10 novembre) ad Arnoldo Mondadori che alloggiava all’Hotel Excelsior di via Veneto. Forse Ayò aveva pensato ingenuamente che Mondadori, dal 1921 editore unico di Trilussa, si sarebbe compiaciuto della sua iniziativa. Ma non fu così. Mondadori se ne spaventò perché le cartoline citavano, in calce ai testi, le sue edizioni e - temendo l’intervento della censura - scrisse a Trilussa una lettera, datata 9 dicembre 1938, che si concludeva con questa perentoria esortazione: «Vorrai [...] pretendere dall’Avv. Ayò la distruzione immediata di tutte le cartoline stampate, distruzione che ti consiglio di controllare di persona con le maggiori cautele». Nell’Archivio storico della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori - dove ho trovato copia della lettera insieme all’incriminata cartolina - non esistono risposte di Trilussa. Tuttavia si può supporre che egli non tenesse affatto conto della richiesta dell’editore, dal momento che tre anni dopo si espose ancor più pericolosamente giocando proprio col nome di Ajò nella poesia "L’affare de la razza.
Quanto all’avvocato Ayò, va detto che egli continuò a scrivere a Trilussa con la disperazione e l’amara ironia dell’esule perseguitato, arrovellandosi di non ricordare perfettamente i versi di "Questione de razza".
Giova rileggerli integralmente perché essi diventarono una sorta di piccolo manifesto clandestino degli antifascisti e antirazzisti romani:  
- Che cane buffo! - E dove l’hai trovato? -
Er vecchio me rispose: - È brutto assai,
ma nun me lascia mai: s’è affezzionato.
L’unica compagnia che m’è rimasta,
fra tanti amichi, è ’sto lupetto nero:
nun è de razza, è vero,
ma m’è fedele e basta.
Io nun faccio questioni de colore:
l’azzioni bone e belle
vengheno su dar core
sotto qualunque pelle.
Una poesia dolente e di alta moralità, in cui Trilussa rinuncia significativamente ai consueti motti di spirito (con un’arguzia si chiudeva il sonetto giovanile "Questioni de razze": «se vojo fa’ na vita da cristiano/bisogna che ricorra da un giudìo!», riferito allo strozzino Isacco dei versi precedenti).
"Questione de razza" restò nel cuore di Ugo Ayò, come attestano due sue lettere conservate nell’Archivio Trilussa del Museo di Roma in Trastevere, e spedite da La Serra di Lerici, dove l’avvocato si era rifugiato dopo essere stato costretto ad abbandonare la professione. La prima è datata «Lunedi 23 Sett. 1940/LXX dalla Breccia di Porta Pia» (si noti che l’“anno fascista” è sostituito da quello della proclamazione di Roma capitale):
Egregio amico,
nun so’ de razza - è vero
ma so’ fedele (a l’amichi)
e basta!
Se non mi sono fatto vivo dall’Aprile 1939 ad oggi, è perché sono morto - ucciso da la Questione de razza, che mi ha allontanato dal Palazzo di Giustizia e dal l’Insegnamento al quale tenevo. Ti ricordo la mia tesi di Laurea 1931 su la Musa romanesca [evidentemente Ayò era laureato anche in Lettere] e poiché ho avuto autografo il Sonetto 1890 “Questioni de razza” [sic per Questioni de razze] vorrei altrettanto autografo l’idillio:
“Che cane buffo!
e dove l’hai trovato” 1936.
Per guadagnare tempo, trascrivimelo sull’acclusa pagina ed abbimi fraternamente
Ugo de Roma
La seconda lettera è datata «Mercoldì, 6 Nov. 1940/< XX», dove il segno < sta a indicare che si è alle soglie, deprecate, del ventesimo anno dell’era fascista, che si compirà nel 1941. Al centro del foglio è ricopiata a macchina "Questione de razza", seguita, in basso da queste righe a penna:
Chiarissimo ed Altissimo Poeta, da questo Èremo, dove - come già Dante e il Petrarca - “io vo cercando pace pace pace!”, vorrei insistere per l’autografo; ma almeno perché mi segni correttamente se sono terzine o quartine.
Scusami ed abbimi
aff.mo Ugo Ayò
Avvocato in sito...
Per inciso, va ricordato che gli amici chiamavano Trilussa «Altissimo Poeta» con scherzosa allusione alla sua statura (era alto quasi due metri). Per alleggerire la tristezza delle sue lettere, Ayò si sforza di scherzare, facendo autoironia anche con l’amarissimo «Avvocato in sito...»; ma Trilussa in quegli anni non sa più sorridere e scrive versi angosciosi come quelli di "Mania de persecuzzione":
La notte quanno guardo l’Ombra mia
che s’allunga, se scorta e me vi è appresso,
me pare, più che l’ombra de me stesso,
quella de quarcheduno che me spia.
Se me fermo a parlà con un amico
l’Ombra s’agguatta ar muro, sospettosa,
come volesse indovinà una cosa
che in quer momento penso, ma nun dico.
Voi me direte: “È poco ma sicuro
che nun te fidi più manco de lei...”.
No, fino a questo nun ciarriverei...
Però, s’ho da pensà, penso a l’oscuro.
Che Trilussa fosse un fermo oppositore del regime (non prese mai la tessera del partito e gli fu negata la nomina ad Accademico d’Italia) ben lo capirono i fascisti di stretta osservanza, mentre non lo capirono - o finsero di non capirlo - certi letterati miopi o invidiosi o con la coda di paglia. Per conferma, nell’Archivio di Stato di Milano si può andare a leggere una relazione del 24 giugno 1943 scritta da Giorgio Almirante capo di gabinetto di Fernando Mezzasoma, ministro della Cultura popolare della Repubblica di Salò. In essa Almirante lamenta che alla Mondadori restano «gli stessi elementi giudaici» di un tempo e che si continuano a ristampare «tutte le opere di Trilussa, di Bontempelli ed altri scrittori che hanno tradito». Non sono molti gli scrittori italiani dell’epoca che possano vantare simili attenzioni da parte dei “repubblichini”.
Lucio Felici, Trilussa e il razzismo in Academia.edu: [ n.d.r: Lucio Felici ha accompagnato il suo scritto con questa significativa spiegazione: pubblicato come introduzione (pagine non numerate) al vol. "Ajò 1991-1982 - Aldo Ajò Ceramiche", a cura di Giancarlo Bojani e Ettore A. Sannipoli, con un testo di Lucio Felici, Fano, Omnia Comunicazione Editore, 2008. Volume lussuoso in carta patinata, dedicato da Ines Spogli alla memoria e all’opera del marito Aldo Ajò, celebre ceramista eugubino (1901-1982) perseguitato dalle leggi razziali. Non c’è parentela con l’avvocato Ugo Ajò di Trilussa, ma, per l’omonimia e per le comuni disgrazie dei due personaggi, piacque aprire il libro con la poesia trilussiana, e me ne fu chiesta una presentazione ]
 
Gli ebrei italiani accolsero i provvedimenti che li costringevano all’emarginazione con atteggiamenti diversi: la reazione più forte ed estrema furono i suicidi, <307 quello più noto e sensazionale fu quello dell’editore Angelo Fortunato Formiggini, l’ideatore dei Classici del ridere, che il 29 novembre 1938 si lanciò dalla torre della Ghirlandina, la torre campanaria della sua città natale Modena, al grido «Italia! Italia! Italia!», nella speranza che il suo sacrificio potesse divenire un monito. <308
[NOTE]
307 Michele Sarfatti ne ha individuati circa una trentina, in Id., Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 210.
308 Sulla figura di questo eclettico e acuto editore si vedano Angelo Fortunato Formiggini, Parole in libertà, Roma, edizioni Roma 1945; Luigi Balsamo, Renzo Cremante, a cura di, A. F. Formiggini un editore del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1981; Piero Treves, Formiggini e il problema dell’ebreo in Italia, in Scritti novecenteschi a cura di Alberto Cavaglion e Sandro Gerbi, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, Bologna, Il Mulino 2006, pp. 105-117 e il profilo a lui dedicato da G. Turi in Il fascismo e il consenso degli intellettuali, il Mulino, Bologna, 1980.
Giulia Dodi, La spoliazione dei beni ebraici e l'attività dell'Egeli a Bologna e Ferrara, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2021 

sabato 19 febbraio 2022

Era la prima volta che i lavoratori del porto industriale occupavano il cuore di Venezia


Il primo innesto di Porto Marghera nelle priorità della Cgil veneziana avvenne nel 1950, all’apice di una crisi di commesse della Breda, che aveva reagito con sospensioni e licenziamenti. Durante un volantinaggio all’ingresso del cantiere la polizia aprì il fuoco: i panni insanguinati dei tre feriti gravi furono fatti sventolare dall’Ala napoleonica di piazza San Marco, mentre il sindaco e il segretario della Camera del lavoro tenevano un infuocato comizio ai piedi del campanile. Era la prima volta che i lavoratori del porto industriale occupavano il cuore della città, mostrando il volto di cittadini che si sacrificavano per le sorti del bene collettivo: nonostante la sconfitta (in 1.200 furono espulsi), la lotta della Breda fu esibita come una prova di responsabilità operaia, perché il cantiere era stato salvato <39.
Nel 1955 il Consiglio superiore dei lavori pubblici approvò il piano di ampliamento della zona industriale. Le domande di insediamento riguardavano in particolare un’impresa nuova, l’elettrica milanese Edison, che aveva scelto il polo veneziano per avviare i suoi investimenti nella petrolchimica. Già a partire dal 1950 diverse società affiliate, in compartecipazione o con brevetti americani, avevano messo in funzione i loro impianti nella “seconda zona”, nella completa assenza di pianificazione pubblica <40. Il riavvio delle fabbriche della “prima zona”, invece, avvenne senza significative innovazioni tecnologiche e l’aumento della produttività fu ottenuto tramite razionalizzazione e intensificazione del lavoro. L’occupazione si riportò sui livelli degli ultimi anni di guerra solo grazie alle nuove lavorazioni petrolchimiche, mentre in provincia rimaneva acuto il problema della sottoccupazione rurale. A Porto Marghera non ebbe particolare successo la “campagna produttivistica” americana, che trovò invece terreno fertile in alcune piccole e medie imprese regionali: a Porto Marghera, evidentemente, la collaborazione delle maestranze e le human relations - come un tempo il paternalismo rossiano - non rientravano tra le priorità delle aziende <41. Le basse qualifiche, il lavoro precario e stagionale, i picchi dei ritmi in occasione delle consegne, gli stili di comando autoritari della “prima Marghera” rimasero i tratti caratteristici del lavoro di fabbrica.
In questo contesto la formazione di sindacalisti di fabbrica procedette lentamente.
Il mutamento dei rapporti di forza nel paese e di riflesso nei luoghi di lavoro e in città, con la caduta della giunta Gianquinto, era solo in parte la causa della difficoltà del sindacato veneziano a investire le sue risorse nella zona industriale. La Cgil era polarizzata tra quadri provinciali di estrazione rurale e urbano-artigiani “insulari”: in entrambi i casi a mancare era una cultura attrezzata a fronteggiare i problemi della grande industria. Nonostante l’elezione delle commissioni interne e la tenuta delle liste della Cgil tra gli operai, l’azione di fabbrica soffrì del contesto degli “anni duri”: generalizzazione degli scioperi solo in occasione dei rinnovi contrattuali, scarso coordinamento di categoria, rivendicazioni sulla parte variabile del salario (cottimi e incentivi) e per i diritti minimi (mensa), soluzioni una tantum (premi di produzione) e, non da ultimo, subalternità dei sindacati ai partiti di riferimento <42.
L’esperienza delle conferenze di produzione, che avevano tentato di formare, almeno nelle fabbriche più vecchie, uno strato di “produttori” coscienti dell’organizzazione del lavoro ai fini della contrattazione aziendale, non fu incoraggiata dal Pci veneziano, su posizioni settariamente ostili a qualunque collaborazione con le direzioni sul tema della produttività. Tuttavia alla Sava le conferenze crearono le basi per l’ottenimento di un premio di produzione e per l’assorbimento dei lavoratori stagionali in organico, rafforzando una cultura della contrattazione che sarebbe rimasta il tratto distintivo della fabbrica <43.
All’iniziativa delle commissioni interne le direzioni risposero con sistematiche politiche antisindacali, come nel resto delle aree industrializzate del paese: premi di operosità per i dipendenti che non partecipavano agli scioperi e licenziamento degli attivisti. A pesare sugli assetti delle relazioni industriali non erano solo le incertezze sindacali e l’autoritarismo padronale; era anche la “complessa stratificazione culturale della classe operaia” <44, con i lavoratori più maturi ancora segnati da un rapporto di strumentalità con il mondo di fabbrica e dalla tendenza a “personalizzare” il disagio piuttosto che a generalizzarlo: alla San Marco, di fronte allo stillicidio di infortuni mortali, gli operai scesero in sciopero contro il capo reparto, accusato di inettitudine, mentre la Commissione interna si presentava al prefetto nel ruolo di calmiere <45.
Impotenti o passivi in fabbrica, gli operai margherini cominciarono a imprimere un segno riconoscibile nello spazio urbano: negli anni Cinquanta il quartiere di Marghera prese il volto di una popolosa borgata e iniziò il processo di sutura tra Mestre e le sue frazioni rurali. Gli architetti dell’Istituto di architettura (Iuav) progettarono un nuovo quartiere di terraferma - il Villaggio San Marco - in cui riprodurre l’ambiente popolare dei campi di Venezia, proprio mentre si innescava l’“esodo di classe” dei suoi residenti <46.
Allo sviluppo della città operaia si accompagnò l’innesto nel territorio delle subculture politiche bianca e rossa. A Ca’ Emiliani era sorta, grazie al lavoro volontario degli operai, la Casa del popolo <47. Poco distante, nel 1954, inaugurava alla presenza dal patriarca Angelo Roncalli la chiesa intitolata a Gesù operaio, la più concreta realizzazione dell’apostolato di don Berna a Marghera. Sedi di due primi maggio concorrenziali, questi luoghi (il primo oggi giace dismesso) testimoniavano l’autoriconoscimento di Marghera come quartiere operaio.
I petrolchimici
All’inizio degli anni Sessanta agli impianti petrolchimici della “seconda zona” si aggiunsero nuovi e più moderni stabilimenti della Sava, della Sirma e delle Leghe leggere. Nel 1966 le “nozze petrolchimiche” tra Montecatini ed Edison crearono un gigantesco kombinat in cui furono progressivamente integrate anche le fabbriche della “prima zona”. La marcia dell’industria in laguna sembrava così inarrestabile da far programmare una “terza zona” di ulteriori 3.000 ettari.
Il tumultuoso sviluppo della “seconda zona” mise fine alla pace sociale che aveva regnato a Porto Marghera anche dopo il fascismo. Nel 1964 la Sirma annunciò il licenziamento di un centinaio di operai: questa volta non per un calo degli ordinativi, ma per effetto del recupero di produttività reso possibile dal più moderno stabilimento in “seconda zona”. Le commissioni interne risposero con l’occupazione unitaria ma, su pressione della polizia, i lavoratori vennero sgomberati e i licenziamenti ancora una volta passarono.
La vertenza si era svolta in un clima completamente diverso da quella della Breda di quindici anni prima. Attorno agli operai si era accesa un’attenzione che coinvolgeva non soltanto le istituzioni, ma anche spezzoni di società civile: un gruppo di associazioni (dalle federazioni giovanili dei partiti di sinistra ai goliardi e agli studenti di architettura) promosse una partecipata “marcia di solidarietà con gli operai della Sirma” dal centro di Mestre ai cancelli della fabbrica.
I cambiamenti più significativi avvennero nel laboratorio petrolchimico. Nel corso del suo insediamento la Edison aveva proseguito in grande stile la tradizione di reclutamento e governo della forza lavoro dell’era volpiana. Centinaia di giovanissimi operai erano stati immessi in produzione grazie a segnalazioni di buona condotta fornite dalle parrocchie, dopo una breve formazione nella scuola aziendale. Provenivano da una “campagna urbanizzata” che non consentiva più la composizione di cicli di lavoro tra industria e agricoltura <48.
La fabbrica era diventata non solo un destino e un rimedio al trauma dell’emigrazione, ma un’ambizione. Vi entrarono con la necessità di restarci, con l’aspettativa di trovarvi condizioni di lavoro migliori e il soddisfacimento di bisogni nuovi: la continuità del reddito, la possibilità di avere una casa propria e di acquistare un motorino per rendere più sopportabile il pendolarismo.
Gli operai dell’Edison si erano fatti riconoscere come i grandi assenti dagli scioperi e fino alla fine degli anni Cinquanta per la Cgil fu impossibile presentare una propria lista di candidati nelle elezioni delle commissioni interne <49. La petrolchimica era un mondo completamente diverso non solo dalla cantieristica o dalla meccanica, ma dalle stesse fabbriche della “prima” chimica. L’addetto petrolchimico lavorava all’aperto, era sottoposto al ciclo continuo e alla turnazione, mangiava presso gli impianti con la propria squadra, la sua professionalità si esauriva nella vigilanza <50. L’insieme delle sue condizioni di lavoro, oltre che il retroterra che lo aveva selezionato, ostacolava la costruzione di una solidarietà e una coscienza collettive. La disciplina richiestagli era direttamente proporzionale al suo potere contrattuale: un semplice malfunzionamento in un punto del ciclo, infatti, poteva causare danni ingenti alla produzione.
In queste contraddizioni si inserì il primo gruppo operaista veneto, maturato negli interstizi della sinistra socialista tra Padova e Venezia. Dal 1959 il giornale “Il Progresso veneto” iniziò a propugnare posizioni classiste e di alternativa socialista al centro-sinistra <51. A Venezia questo fermento trovò il suo habitat nella sezione di campo San Barnaba dove, sotto la guida di Toni Negri, un gruppo di intellettuali cominciò a formarsi politicamente con qualche “avanguardia operaia” del porto e della Vetrocoke <52. Nel 1963 “Il Progresso veneto” introdusse il concetto - importato dalle lotte torinesi - del “potere operaio”, rivolgendo ai lavoratori di Porto Marghera l’incitamento all’azione rivoluzionaria e di classe <53.
Le posizioni radicali attecchirono soprattutto nelle fabbriche della nuova chimica, inizialmente tra figure accomunate da maggiore professionalità, istruzione e retroterra sindacale: manutentori come Italo Sbrogiò, Franco Donaggio e Toni Manotti, tecnici come Bruno Massa e Augusto Finzi <54. Essi condividevano i vissuti dei loro compagni di lavoro e coglievano l’intreccio esplosivo tra aspettative e delusioni: la promessa di miglioramento della grande fabbrica si era rivelata un inganno, nei reparti si vivevano le stesse relazioni autoritarie subite sui banchi di scuola e in parrocchia.
L’avvisaglia che tra i “crumiri” della Edison qualcosa stesse cambiando si ebbe nell’estate 1963, quando scoppiò uno sciopero contro la decurtazione delle ferie e della mutua interna: sintomo di bisogni e progetti di vita “moderni”, inconcepibili per gli operai delle precedenti generazioni.
Per la prima volta la sezione del Pci della zona industriale investì risorse per comprendere i fermenti dei nuovi chimici <55. Lo spostamento su posizioni radicali di alcuni quadri di fabbrica fu anche l’esito del rifiuto, da parte dei più giovani, di accettare un destino incarnato nella corporeità logorata degli operai anziani.
[NOTE]
42 Cesco Chinello, Classe, movimento, organizzazione. Le lotte operaie a Marghera/Venezia: i percorsi di una crisi. 1945-1955, Milano, FrancoAngeli, 1984.
43 Omar Salani Favaro, Le conferenze di produzione a Porto Marghera (1950-1953): tra sindacalismo e “sapere di fabbrica”, in Laura Cerasi (a cura di), Cent’anni di sindacato nel Veneto. Lavoro, lotta, organizzazione, “Venetica”, 2006, n. 13, pp. 121-142; Fioravante Pagnin, Portomarghera. Sindacato e partito comunista negli anni ’50, Venezia, Centro internazionale della grafica di Venezia, 2006.
44 F. Piva, G. Tattara, I primi operai di Marghera, cit., qui p. 394.
45 Commissione interna della San Marco al Prefetto, 17 agosto 1954, in ASVE, Gabinetto di prefettura (I serie), b. 67, fasc. 1954. Scioperi.
42 Cesco Chinello, Classe, movimento, organizzazione. Le lotte operaie a Marghera/Venezia: i percorsi di una crisi. 1945-1955, Milano, FrancoAngeli, 1984.
43 Omar Salani Favaro, Le conferenze di produzione a Porto Marghera (1950-1953): tra sindacalismo e “sapere di fabbrica”, in Laura Cerasi (a cura di), Cent’anni di sindacato nel Veneto. Lavoro, lotta, organizzazione, “Venetica”, 2006, n. 13, pp. 121-142; Fioravante Pagnin, Portomarghera. Sindacato e partito comunista negli anni ’50, Venezia, Centro internazionale della grafica di Venezia, 2006.
44 F. Piva, G. Tattara, I primi operai di Marghera, cit., qui p. 394.
45 Commissione interna della San Marco al Prefetto, 17 agosto 1954, in ASVE, Gabinetto di prefettura (I serie), b. 67, fasc. 1954. Scioperi.
46 W. Dorigo, Una legge contro Venezia, cit., qui p. 33. Il centro storico ha cominciato a perdere residenti dal 1951: dai circa 175.000 di allora si è passati ai 55.000 di oggi.
47 Fabio Brusò, La Casa del popolo di Ca’ Emiliani, 19 dicembre 2010, on line sul sito dell’Associazione storiAmestre, http://storiamestre.it/2010/12/cdp-caemi/ (25 luglio 2016).
48 Sul concetto di “campagna urbanizzata” cfr. Giacomo Becattini (a cura di), Lo sviluppo economico della Toscana con particolare riguardo all’industrializzazione leggera, Firenze, Irpet, 1975.
49 Omar Salani Favaro, La chimica nord-orientale. L’impresa, il lavoro e la politica, tesi di dottorato in Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea, Università Ca’ Foscari Venezia, XXV ciclo.
50 Cfr. l’intervento del dott. Elio Vianello in Franco Ferri (a cura di), Scienza e organizzazione del lavoro (Atti del convegno, Torino, 8-10 giugno 1973), vol. I, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci, 1973, pp. 213-220.
51 Luigi Urettini, L’operaismo veneto da “Il Progresso veneto” a “Potere operaio”, in Carmelo Adagio, Rocco Cerrato, Simona Urso (a cura di), Il lungo decennio. L’Italia prima del ’68, Verona, Cierre, 1999, pp. 173-204; Mario Isnenghi, Fra partito e prepartito. “Il Progresso veneto” (1961-1963), “Classe”, 1980, n. 17, pp. 221-238; Egidio Pasetto, Giuseppe Pupillo, Il gruppo “Potere operaio” nelle lotte di Porto Marghera: primavera ’66-primavera ’70, “Classe”, 1970, n. 3, pp. 95-119.
52 Antonio Negri, Pipe-line. Lettere da Rebibbia (I ed. 1983), Roma, DeriveApprodi, 2009, qui p. 64. Negri è tornato recentemente sulle sue esperienze venete nell’autobiografia Storia di un comunista, a cura di Girolamo De Michele, Milano, Ponte alle Grazie, 2015.
53 Cfr. l’editoriale Potere operaio, “Il Potere operaio dei lavoratori della Vetrocoke”, inserto de “Il Progresso veneto”, 1963, n. 53.
54 Italo Sbrogiò, Tuberi e pan secco. Itinerario autobiografico sociale, culturale e politico, Padova, Il Poligrafo, 1990; Id., La fiaba di una città industriale 1953-1993. 40 anni di lotte, Venezia, Edizioni El Squero, 2016; Franco Donaggio, In fabbrica ogni giorno tutti i giorni, Verona, Bertani, 1977. Testimonianze autobiografiche di Finzi sono in Memoria difensiva di Augusto Finzi, “Controlavoro”, 24 novembre 1980 e nei documentari di Manuela Pellarin Gli ultimi fuochi (2004) e Gli anni sospesi (2009).
55 Numero unico sulla Edison a cura del Pci-Comitato zona industriale Porto Marghera, s.d. [ma novembre 1964], in AIVESER, Cesco Chinello, b. 15. Cfr. anche gli articoli non firmati Corrispondenze di lotta. Chimici Porto Marghera e Portomarghera: proposte per l’agitazione, entrambi “Classe operaia”, 1964, n. 4-5, pp. 28-30 e 1964, n. 6, pp. 2-4.
Gilda Zazzara, I cento anni di Porto Marghera (1917-2017) in “Italia contemporanea”, FrancoAngeli, agosto 2017, n. 284


L’inizio degli anni Cinquanta rappresenta anche la ripresa dei progetti di espansione della zona industriale di Marghera. Il primo progetto fu rilanciato dall’Ente del porto e della zona industriale di Marghera - riprendendo il progetto di massima elaborato nel 1925 dall’ing. Coen Cagli - e già 39 società si fecero avanti con le richieste di insediamento.
Questo progetto fu la base per la redazione - 27 agosto 1953 <92 - di un piano regolatore di massima per l’utilizzazione della restante zona della laguna (fino alla località Fusina e al Naviglio Brenta) <93.
Tale piano venne approvato dal Consiglio superiore dei lavori pubblici - 10 marzo 1955 <94 - e prevedeva l’estensione a una superficie complessiva di circa 1.100 ettari e una spesa di circa 8 miliardi (lire del 1953) in opere pubbliche.
Per la realizzazione di tali opere la Camera di commercio di Venezia - nell’ottobre del 1953 - prese l’iniziativa per la costituzione di un Consorzio per lo sviluppo del porto e della zona industriale di Marghera (1954) <95. Mediante questo consorzio - privo di particolari poteri legislativi - si avviò un’operazione di collocamento delle aree di espansione nel mercato in modo che si avviasse l’opera di industrializzazione di quella che fu chiamata “seconda zona” industriale, ma per la velocità e «incultura e abulia amministrativa e politica degli enti locali» - con aree in parte asciutte e in parte barenose - non raggiunse gli scopi di correzione e integrazione del complesso lasciato dal conte Volpi che molti si attendevano <96.
Dopo una serie di vicende si costituì il 22 dicembre 1958 <97 un secondo consorzio di enti pubblici - Comune di Venezia, Provincia di Venezia, Provveditorato al porto e Camera di commercio - che attese due anni prima di ottenere i poteri di intervento (legge n. 1233 del 20 ottobre 1960), ma esso dovette constatare che quasi l’80% delle aree della zona di ampliamento, quasi tutte bisognose di ulteriori rialzi di quota, erano state acquistate a prezzo agricolo, e spesso rivendute a prezzi significativamente più elevati, da società industriali milanesi, fra le quali spiccavano la Edison e la Montecatini, in proprio o attraverso società di comodo, affiliate e consociate <98.
Su circa 950 ha dell’area complessiva la Montecatini e la Edison, mediante società di comodo da loro dipendenti, acquistarono in gran parte direttamente, a prezzi agricoli seppure in progressiva lievitazione, oltre 750 ha di coltivati e di barene in gran parte bisognosi di ulteriori rialzi di quota, su cui sarebbe sorta la seconda zona. Sfuggendo bravamente all’esproprio - previsto dalla legge 20 ottobre 1960, n. 1233 - che sarebbe dovuto essere seguito da parte dell’allora Consorzio (cessato il 30 giugno 1963 ai sensi della legge 2 marzo 1963, n. 397), i due gruppi si ritrovarono così proprietari di terreni attrezzati a spese dello Stato e degli enti locali con canali, strade ferrovie, ecc.
Né mancarono  fra il 1959 e il 1963, ancora in spregio alla legge n. 1233, numerosi episodi di permuta e di compravendita fra la Montecatini e la Edison, e fra le aziende industriali medesime e altri gruppi <99.
Già nel 1956 in consiglio provinciale - durante una discussione sul consorzio - il consigliere Fioravante Pagnin (PCI) affermò: "Ma qual è l'attività del Consorzio? Perché non si è proceduto all’esproprio dei terreni in questione? Perché una Società, la Sicedison, ha già provveduto, pare, all’acquisto di oltre 200 ha.? Quali problemi si agitano fra i gruppo Edison, SADE, Montecatini che restano nascosti ai più e forse incidono sulla rapida attuazione dell’opera?" <100.
In campo sindacale uno dei primi articoli che citò il petrolchimico era datato 15 marzo 1957 dove si fece un brevissimo accenno alle nuove fabbriche che erano sorte in quegli anni.
[NOTE]
92 Cfr. ASVE, GP, b. 262, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Venezia-Marghera, sottofasc. Costruzione di raccordi ferro-stradali nella nuova zona industriale di Porto Marghera - Vincoli militari, Consorzio per lo sviluppo del porto e della zona industriale di Venezia-Marghera, Piano generale per la sistemazione della zona di cui alla legge 20 ottobre 1960 n° 1233. Delibera, p. 2.
93 C. CHINELLO, Forze politiche e sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia. 1951-1973, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 22.
94 Cfr. ASVE, GP, b. 262, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Venezia-Marghera, sottofasc. Costruzione di raccordi ferro-stradali nella nuova zona industriale di Porto Marghera - Vincoli militari, Consorzio per lo sviluppo del porto e della zona industriale di Venezia-Marghera, Piano generale per la sistemazione della zona di cui alla legge 20 ottobre 1960 n° 1233. Delibera, p. 2.
95 Ibid., b. 361, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Marghera, sottofasc. 1956, Atto costitutivo del “Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Marghera”. CHINELLO, Forze politiche e sviluppo capitalistico cit., p. 22. L’adesione della provincia di Venezia al consorzio fu discussa e approvata all’unanimità nella seduta del 15 maggio 1954 (PROVINCIA DI VENEZIA, Atti del consiglio provinciale. 1954, vol. II, seduta del 15 maggio 1954, pp. 26-32). Tale consorzio fu presieduto dal presidente della Camera di commercio Giovanni Barbini con la partecipazione del comune e della provincia di Venezia. Questi ultimi nominarono diversi consiglieri in base all’appartenenza politica: Umberto Sannicolò (PCI per la provincia), Alberto Toniolo (DC per la provincia), Sergio Fabbro (PSI per il comune), Angelo Scattolin (DC per il comune), Luigi Zecchin (DC per il comune) (ASVE, GP, b. 361, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Marghera, sottofasc. 1957, Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Marghera, Verbale del Consiglio di amministrazione del 20 ottobre 1956, pp. 1-2).
96 W. DORIGO, Una legge contro Venezia. Natura storia interessi nella questione della città e della laguna, Roma, Officina, 1973, p. 176.
97 ASVE, GP, b. 262, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Venezia-Marghera, sottofasc. Costruzione di raccordi ferro-stradali nella nuova zona industriale di Porto Marghera - Vincoli militari, Consorzio per lo sviluppo del porto e della zona industriale di Venezia-Marghera, Piano generale per a sistemazione della zona di cui alla legge 20 ottobre 1960 n° 1233. Relazione, p. 1.
98 DORIGO, Una legge contro Venezia cit., pp. 176-177. Sulle vicende della II zona si veda la ricostruzione CHINELLO, Forze politiche e sviluppo capitalistico cit., pp. 37-46. Quest’ultima si può considerare a tutt’oggi - a quasi quarant’anni di distanza - la più dettagliata, anche se fortemente deficitaria del punto di vista del principale partito di opposizione di quegli anni. il PCI, di cui in quegli anni Chinello era esponente di spicco e dai primi anni Sessanta segretario provinciale. Nello stesso anno dell’uscita del libro di Chinello uscì il già citato libro di Dorigo, uno dei protagonisti delle vicende della II zona in quanto assessore comunale all’urbanistica e estensore del PRG comunale.
99 DORIGO, Una legge contro Venezia cit., pp. 213-214.
100 Intervento di Fioravante Pagnin in PROVINCIA DI VENEZIA, Atti del consiglio provinciale. 1956, vol. III, seduta dell’8 ottobre 1956, p. 20.
Omar Salani Favaro, La chimica nord-orientale. L’impresa, il lavoro e la politica, Tesi di Dottorato, Università Ca' Foscari Venezia, 2014

Verso il porto, di recente - Fonte: Mapio.net

L’istituzione della Fondazione Santa Maria del Porto, oltre alle motivazioni assistenziali e spirituali più volte sottolineate dai suoi promotori, sottendeva un’altra valenza: gestire le crescenti tensioni legate alla crisi del porto commerciale di Venezia e alla conseguente riduzione del personale lavorativo. La vicenda, certamente complessa e già segnata dagli accesi scontri che nel 1950 avevano segnato col sangue i cantieri BREDA, spostava definitivamente l’asse della «questione sociale» veneziana verso Porto Marghera, soggetto dal 1953 ad una nuova fase di sviluppo con la costruzione di una seconda zona industriale.
L’insorgere di rivendicazioni sempre più incisive all’interno di quella che, nel 1958 Alfredo Orecchio e Felice Chianti avevano definito una «cittadella inesplorata in cui i sudditi, operai […] danno più grattacapi» <31, delineò infatti quello che in questo lavoro ho sottolineato come il «secondo tempo della questione operaia veneziana», ovvero un punto di discontinuità rispetto alla precedente gestione operata tra le maestranze dai patriarchi La Fontane, Piazza ed Agostini.
[...] Quali furono le risposte fornite dalle forze cattoliche ad un contesto atipico nel panorama veneto di quegli anni, sottoposto a continui processi di trasformazione ed ai riflessi di un accentuato scontro ideologico? Quanto queste modalità operative furono dettate dagli sviluppi capitalistici, e quanto dalle specificità locali rispetto alle direttive vaticane? Come tentò la Curia patriarcale di ricucire figurativamente gli otto chilometri che separavano le splendenti cupole della Basilica di San Marco dalle ciminiere di Porto Marghera? Nel rispondere a questa serie di domande, pur focalizzando l’attenzione sul lustro patriarcale del futuro Giovanni XXIII, analizzerò un arco temporale più ampio (dal 1927 al 1958, con quattro episcopati coinvolti) in grado di valutarne meglio la continuità e la discontinuità operativa. Relazionando e approfondendo i dettagli di questa rapida panoramica con le diverse congiunture (politiche, sociali ed economiche) nazionali, il primo punto che affronterò toccherà pertanto quello che reputo il perno dell’azione promulgata dalla Chiesa cattolica, specialmente durante il pontificato pacelliano (1939-1958): la costruzione di chiese e l’istituzione di nuove parrocchie come risposta ai processi di urbanizzazione. Lo farò cercando di valutarne tre aspetti: la correlazione con lo sviluppo abitativo lagunare; la base finanziaria statale; la funzione pastorale ed il tentativo di coniugare attraverso l’edilizia di culto la tradizione del centro storico con l’evangelizzazione delle nuove aree.
31 F. CHIANTI - A. ORECCHIO, Porto Marghera: una cittadella inesplorata, in «Paese sera», 3-4 marzo 1958. Il pezzo si trova in: 31 AFPGXXIII, busta 1.10/2., cart. 8, fasc. 49, Carattere sociale.
Federico Creatini, Dalla laguna a Porto Marghera. Lungo le questioni del patriarcato di Angelo Giuseppe Roncalli, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Bergamo, Anno accademico 2017/2018