mercoledì 28 settembre 2022

La prima segreteria Fini durerà poco


2.2 Rivalità con Tarchi, lavoro nel Secolo d’Italia e coordinatore nel Fronte della Gioventù (1971-1986)
In qualche modo, Marco Tarchi è stato una manna dal cielo per Fini. Il giovane Tarchi, pacifista e antimilitarista, allievo di Pino Rauti, è l’astro nascente della destra missina. Intellettuale, scrittore e giornalista, ha tutte le carte in regola per avere un ruolo non marginale. Tuttavia, non incontra i favori del grande capo missino Giorgio Almirante, che, infatti, cerca un esponente da contrapporgli, per ridimensionarlo e limitarlo. E lo trova in Fini. Entrambi vengono cooptati nella Direzione del Fronte della Gioventù, l’uno come membro della maggioranza almirantiana, l’altro come esponente dell’opposizione rautiania.
Tra il ’76 e il ’77 avviene la traumatica svolta: in seguito alla mutilante scissione di Democrazia Nazionale, Almirante perde quasi tutti i punti di riferimento nel partito e anche nel Fronte. È il gennaio del ’77, Congresso del Msi: tra i vari punti all’ordine del giorno bisogna eleggere una nuova Direzione del Fronte: la sfida è tra Fini e Tarchi. Il programma di quest’ultimo è rivoluzionario: nessun richiamo al regime o al fascismo e un partito più vicino alla società civile. Almirante cerca di mediare e di convincerlo a un compromesso, ma Tarchi non si lascia convincere. Con uno stratagemma, allora, con l’aiuto di Ignazio La Russa (altro storico collaboratore di Fini), Almirante riesce a far passare ai voti la propria proposta: nessuna elezione diretta della Direzione del Fronte, solo l’elezione di sette candidati da sottoporre alla scelta del segretario del partito. Al momento delle votazioni, nonostante il litigio col proprio maestro Rauti, che arriva addirittura boicottarlo perché il suo allievo persisteva nel voler arrivare allo scontro finale, Tarchi vince con 49 voti. Fini arriva solo quinto, primo almirantiano, con 33 voti. Ma la scelta del segretario del FdG sta ad Almirante e ricade, guarda caso, proprio su Fini, che racconterà di aver sempre creduto che Almirante lo avesse scelto come “meno peggio” <28 tra i candidati. Tarchi sarà vicesegretario. Il rapporto tra i due non sarai mai idilliaco e il primo terreno di scontro sarà riguardo i campi Hobbit, campi di “svago” con musica, teatro e socializzazione, proposta dei giovani rautiani che agli almirantiani e a Fini non piacciono nemmeno un po’. Se ne faranno solo tre. La segreteria del Fronte, che terrà per dieci anni, è il trampolino di lancio per Fini. Così diventerà il delfino di Almirante. Nello stesso periodo svolgerà l’unico lavoro, oltre all’attività politica, che abbia mai praticato: si farà assumere dal "Secolo d’Italia", giornale ufficiale del partito e lavorerà come pastonista nella redazione del giornale tra il ’77 e l’83. Ma la sua strada è un’altra.
2.3 Tenere accesa la fiamma di Giorgio (1987-1991)
Fini si candiderà per la prima volte all’inizio degli anni ’80, prima come consigliere comunale a San Felice Circeo, in provincia di Latina, poi per le politiche dell’83 a Roma, nelle quali sarà eletto deputato per la prima volta.
Ma il grande salto Fini sta per farlo nelle gerarchie interne del partito.
Nel 1986 si ammala Giorgio Almirante, che, alla Festa del Tricolore a Mirabello, prima del Congresso di Sorrento dell’87, annuncia che non si ricandiderà e indica come suo successore proprio Gianfranco Fini. Questo avvicendamento, in pratica una cooptazione di un delfino più che il frutto di una scelta competitiva, è del tutto in linea con la tradizione di un partito che ha avuto, in quasi cinquant’anni, cinque segretari in tutto, un partito in cui, quindi, successioni concordate nel segno della continuità e gestioni di lungo periodo sono sempre state la norma. <29
Il congresso di Sorrento non sarà tranquillo. I fedelissimi di Almirante, a fianco del segretario per vent’anni, saranno sorpresi (e, forse, anche un po’ delusi) dalla scelta del loro leader di preferire loro un giovane militante di soli trentasei anni. Scelta che, come detto, Almirante fa perché è convinto che il futuro del Msi sia lontano dalle nostalgie ma vicino al moderatismo. Fini non è in alcun modo compromesso col regime fascista né con la RSI, è nato ben dopo l’estinzione di entrambi. Inoltre, la cultura politica di Fini è ben diversa dal militantismo neofascista ed oltre a rappresentare un punto di svolta per il partito, egli potrà mantenere una certa continuità con la linea almirantiana.
Gli almirantiani, però, non trovano un’intesa e si presentano al congresso in liste divise. Si presentano quattro liste totali: i giovani almirantiani con Gianfranco Fini, i radicali intransigenti della sinistra interna di Pino Rauti, i veterani almirantiani con Franco Maria Servello, braccio destro dello stesso Almirante per decenni nonché vicesegretario, e la lista di Domenico Mennitti, candidatosi all’ultimo momento. La lotta è serrata, il partito non si può governare col 51% delle preferenze: i voti di Servello diventano decisivi. Interviene, quindi, Almirante:
"Il vecchio leader scende direttamente in campo e convoca Servello per convincerlo a ritirarsi allo scopo di favorire Fini: vuole evitare a tutti i costi che Rauti approfitti della loro divisione. Il vicesegretario temporeggia, si consiglia con i suoi e cerca di resistere. Solo quando si riuniscono gli stati generali dell’aerea almirantiana il dualismo Servello-Fini si risolve con un compromesso: corrono ambedue per la segreteria, ma chi arriva secondo alla prima votazione, nel ballottaggio farà convergerei suoi voti sull’altro". <30
Nel frattempo, Giuseppe “Pinuccio” Tatarella, lo storico braccio destro di Fini, conduce una incessante ricerca di consensi per il suo amico Gianfranco, guadagnando alcune decine di voti.
Arriva il momento delle votazioni: il primo scrutinio termina con Fini a 532 voti, Rauti a 441, Servello 224 e Mennitti 157. Sarà Fini ad andare al ballottaggio contro Rauti: Servello ora deve far confluire i suoi voti su Fini. Avviene l’ultimo, determinante incontro, in cui Servello accetta una volta per tutte di far confluire i suoi voti su Fini, però, in cambio, sarà il nuovo capogruppo alla Camera. Al ballottaggio, con uno scarto di appena 119 voti, Fini viene eletto segretario. <31
Il nuovo segretario non esordisce nelle migliori circostanze: il partito è diviso, quasi la metà dei delegati non lo ha votato, a maggio ’88 dovrà affrontare la scomparsa di Almirante e Romualdi. Finché il vecchio segretario era ancora in vita, Fini poteva godere della sua protezione e proseguire nella sua linea neo-almirantiana non solo al sicuro dalle opposizioni interne, ma anche guidato dallo stesso Almirante. Ma dopo la sua morte, per il nuovo segretario sarà più difficile gestire i dissidi interni e cablare il proprio operato. Andrea Ungari, in un saggio sulla trasformazione del Msi, delinea puntualmente l’ambiguità ideologica del primo Fini:
"In Fini vi era un’ambivalenza, probabilmente personale ancor prima che tattica, tra un’adesione, più o meno frutto di riflessione convinta, ai principi ispiratori del fascismo e la volontà di far sì che questa adesione non portasse a una cristallizzazione politica, ma fosse il presupposto dell’agire concreto del partito". <32
La prima segreteria Fini durerà poco. Nel gennaio ’90, al XVI Congresso del Msi, a Rimini, Pino Rauti riesce a prevalere su Fini per 740 voti a 697: la linea dello sfondamento a sinistra tanto cara al neosegretario, convinto che il fascismo fosse “rivoluzionario”, può finalmente trovare esecuzione. <33 Tuttavia, tale approccio non riserverà i risultati sperati: alle prime, e uniche, elezioni amministrative vissute dalla sua segreteria, il Msi di Rauti, ne esce praticamente dimezzato ottenendo il peggior risultato di sempre, 3.9%; declino simile anche in Sicilia un anno dopo. Il Comitato Centrale sancisce il fallimento della segreteria Rauti, già dimissionario e caduto, fra l’altro, sulla posizione adottata (pro USA) riguardo la guerra del Golfo, spaccando la sua stessa corrente, e il 6 luglio del ’91, all’hotel Ergife di Roma elegge, di nuovo, Gianfranco Fini alla segreteria, paradossalmente nel nome del recupero della tradizione; <34 una carica, questa che manterrà per altri quattro anni. Sarà l’ultimo segretario del Msi.
[NOTE]
28 G. LOCATELLI - D. MARTINI, Duce addio: la biografia di Gianfranco Fini, Loganesi, Milano, 1994, p. 57 e ss.
29 M. TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia, Rizzoli, Milano, 1995, p.169
30 G. LOCATELLI - D. MARTINI, op. cit., p. 94-95
31 Ibidem
32 A. UNGARI, Da Fini a Fini. La trasformazione del Movimento sociale italiano in Alleanza nazionale in Due Repubbliche. Politiche e istituzioni in Italia dal delitto Moro a Berlusconi, M. GERVASONI - A. UNGARI (a cura di), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014, p.242
33 A. ROVERI, Gianfranco Fini. Una storia politica. Dal movimento sociale italiano a futuro e libertà, libreriauniversitaria.it, Limena, 2011, p.15
34 P. IGNAZI, op. cit, p. 90.
Pietro Blandini, Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale: da Almirante a Fini, Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2019/2020

mercoledì 21 settembre 2022

L'eccidio nazista di Bolzano del 12 settembre 1944 fu a lungo dimenticato

Fonte: Carla Giacomozzi, Op. cit. infra

All’alba del dodici settembre 1944 dal Campo di Concentramento Bozen di via Resia, allestito nel quartiere di Gries, ventitré prigionieri vennero prelevati e condotti presso la Caserma di Artiglieria “Francesco Mignone”, in zona Oltrisarco a Bolzano. Provenivano tutti dalle carceri di Verona, situate in diversi luoghi della città, dal carcere degli Scalzi, a luoghi divenuti detentivi in quelle circostanze buie, tra i quali le celle del Palazzo INA, sede del Sicherheitsdienst (SD) e della Gestapo. Tra la fine d’agosto e i primi di settembre del ’44 essi erano convogliati a Bolzano, che costituiva con le province di Belluno e Trento, per volontà di Hitler che l’aveva stabilito con un’ordinanza l’undici settembre del ’43, la Zona di Operazioni nelle Prealpi, Ozav. Ai ventitré fu da subito riservato un trattamento diverso dagli altri internati del Campo di Bozen, essi mantennero i loro indumenti, non vennero immatricolati e non fu chiesto loro di lavorare; rimasero sempre uniti, in un blocco separato dagli altri detenuti, senza mai uscire, se non per essere uccisi. Nelle stalle della Caserma Mignone, venne sparato a ciascuno di loro un colpo alla nuca, i corpi, privati di ogni segno identificativo, furono gettati in un’unica fossa, poi coperta di terra, nel cimitero comunale di Bolzano.
Fu un eccidio dimenticato fino a quando l’Archivio Storico della Città di Bolzano, non decise, nel 2004, di avviare una ricerca storica che recuperasse la conoscenza del luogo di esecuzione sul quale vi erano incertezze, luogo oggi ricordato da una lapide posta su uno dei muri superstiti della Caserma Mignone, abbattuta nel ’99. Per sessanta anni, ha ricordato la dott.ssa Carla Giacomozzi, funzionaria dell’Archivio Storico di Bolzano, autrice di un bel volume dedicato all’eccidio dei ventitré, non si è nemmeno tentato di indagare sulla vicenda. Le ragioni che mossero alla ricerca sono da rintracciare in due diversi fattori: una relazione iscritta del ’45, ad opera di don Daniele Longhi, e la circostanza che due lapidi, contenenti i ventitré nominativi, poste presso il Cimitero Militare di San Giacomo, a Bolzano, non recassero date, indicazioni sulle cause della morte, né informazioni di alcun tipo. Lo stesso sacerdote, l’anno successivo alla strage, compose l’elenco dei nominativi che, sottoposto a verifica, ha rivelato ventitré identità, individui provenienti da diverse località del territorio italiano, la maggior parte dei quali militari di professione, tutti accomunati dalla scelta, operata all’indomani dell’otto settembre del ’43, di non appoggiare la Repubblica Sociale o i nazisti.
Sulla tragica vicenda vi sono ancora dei punti oscuri importanti, per esempio, un aspetto che dovrà essere chiarito in futuro è quello della responsabilità dell’eccidio, di chi ha firmato per la decisione di uccidere. E’ nota una parte delle testimonianze dell’ex comandante del lager, Karl Gutweniger, che aveva partecipato al commando, vi sono delle testimonianze su chi avrebbe eseguito materialmente l’eccidio, ma la responsabilità burocratica è ancora tutta da chiarire.
Vilores Apollonio, nativo di Pola, era il più giovane dei ventitré, aveva ventuno anni quando lo uccisero; il più anziano era Guido Botta, un militare di Bari di anni quarantanove, che non risulta facente parte di alcuna missione. Il primo era coinvolto nella missione “Prune team Lemon/Radio Lupo”, organizzata da ORI e OSS, allo scopo di svolgere compiti informativi in Alto Adige. Alla stessa missione prese parte Domenico Montevecchi, sarto di Faenza, che troverà la morte con Apollonio nell’eccidio alla Mignone.
La storia di questi ventitré è una storia esplosiva perché la maggior parte di essi fanno parte di missioni, erano a disposizione del Servizio Informazioni militari del governo Badoglio, che era in collaborazione con gli alleati angloamericani. Vennero, infatti, organizzate delle missioni clandestine da inviare nel territorio dell’Italia occupata del centro-nord: la missione di cui fece parte Gian Paolo Marocco, di Varese, ventiquattro anni al tempo dell’eccidio, era una missione che fu importantissima per la Resistenza in tutto il Veneto, una missione di carattere informativo chiamata Rye, partita dal porto di Brindisi, a bordo del sommergibile italiano Nichelio alla fine di novembre del ’43.
Un tema scottante, affrontato anche dallo scrittore e saggista statunitense Peter Tompkins, nel libro 'L’altra resistenza', in cui rileva come vi fossero tre missioni al completo, un unico sommergibile, il Nichelio appunto, e le missioni Rye, Orchard, Rick, con l’alta possibilità, durante lo sbarco, di una cattura degli agenti impegnati nelle missioni. Tompkins menziona nel suo libro anche Antonio Pappagallo, uno dei ventitré, nativo di Molfetta e domiciliato a Roma, marconista nella missione di carattere informativo Nino La Fonte Chain: scopo di tale missione era quello di stabilire e mantenere il contatto radio con la Quinta Armata americana in vista della liberazione di Roma.
Non è noto il nome della missione di cui fece parte il maresciallo del regio esercito, Domenico Di Fonzo, nativo di Campodimele, si sa che la missione fu organizzata dagli americani, poiché la famiglia ricevette nel ’47 una lettera dal governo americano (Claims officer Myrtle V. Quinn) che elogiava il ruolo svolto da Di Fonzo all’interno delle Forze Armate degli Stati Uniti. Rivestiva, invece, un carattere di sabotaggio la missione Advent, nata dalla collaborazione tra SIM e No.1 Special Force, a cui presero parte due caduti nell’eccidio del dodici settembre, Pompilio Faggiano di San Donaci ed Ernesto Paiano di Maglie.
Nella missione Dulwich/Ambleside, il cui carattere non è noto, nata dalla collaborazione delle stesse componenti che organizzarono Advent, furono impegnate altre due vittime dell’eccidio: Francesco Battaglia, di Bitonto e l’aviere Tito Gentili di Fano. Dante Lenci di Arcevia, altro caduto del 12 settembre, ex ufficiale della regia marina, era impegnato nella missione, di matrice interamente statunitense, OSS, Croft, di carattere informativo, avente lo scopo di collegare la Resistenza toscana con il Regno del Sud. Cesare Berardinelli e Antonio Baldanello parteciparono alla stessa missione Alleata Berardinelli/Rick, nata dalla collaborazione tra SIM e ISLD, uccisi anch’essi alla Caserma Mignone, il primo militare veneziano, il secondo bolognese studente di musica, oltre che militare.
Permangono ancora sconosciuti i compiti della missione dell’Office Strategic Services, Prune/team Grape I, che vide al lavoro due delle vittime dell’eccidio, Antonio Fiorentini di Bologna e Domenico Fogliani di Reggio Emilia, l’uno comandante della missione, l’altro marconista. La missione Viola, matrice statunitense, di tipo informativo, prende il nome da Margherita Mezzi, agente, unico componente oltre al comandante Francesco Colusso, nativo di San Michele al Tagliamento, tenente di complemento del 26° reggimento di Fanteria a Latisana, maestro elementare, laureando in giurisprudenza, catturato dai tedeschi, secondo il documento americano, sbarcando da un sottomarino a Caorle, insieme alla Mezzi, che fu poi liberata.
Singolare la vicenda vissuta da Andrea Dei Grandi, veneziano, motorista navale, catturato una prima volta nel giugno del ‘40 dagli inglesi in Mar Rosso, insieme all’equipaggio del sommergibile Galileo Galilei. Prigioniero, fu inviato in un campo di concentramento a Bombay, ma era in Egitto alla data dell’armistizio, come prova la lettera che il Maggiore inglese John Polimeni scrisse alla famiglia Dei Grandi. Andrea, non ancora venticinquenne il giorno dell’eccidio, si era offerto volontario per un servizio speciale presso gli Alleati, un’organizzazione, composta da ex prigionieri di guerra evasi, per il salvataggio del territorio italiano, occupato dai nazifascisti. La sorte, dopo tante vicissitudini, decise di farsi beffe del suo coraggio, della sua intraprendenza, lasciando che, dopo un lancio con il paracadute, un fascista lo derubasse, arrestandolo e denunciandolo ai tedeschi.
Il modenese Annibale Venturi, militare non di professione, era impiegato in una distilleria a Ferrara e voleva far parte di qualche missione, ma non vi riuscì, il capitano inglese Cooper lo interrogò, non venne comunque ingaggiato e si ignora quel che fece dopo il fallito contatto con il No. 1 Special Force, e come venne arrestato.
Militare marconista e panettiere, Angelo Preda, di Monza, si trovava in Sicilia con l’esercito, giunti gli inglesi, vi collaborò; quasi sicuramente era impegnato in una missione di Intelligence, di cui non si conosce il nome, fornendo informazioni agli inglesi sugli spostamenti delle truppe tedesche. Fu denunciato e sorpreso in casa con il materiale di lavoro dai fascisti, arrestato, finì a San Vittore e, dopo vari spostamenti, da Verona giunse a Bolzano.
Del padovano Milo Pavanello, delle sue attività militari, non si conosce quasi nulla se non che era elettrotecnico nel regio esercito e disegnatore, e che finì recluso a San Vittore con Angelo Preda, uscirono, infatti, lo stesso giorno. Si ipotizza che possa avere operato con lui per il servizio segreto britannico, dato che li ritroviamo entrambi tra le vittime del dodici settembre. Sergio Ballerini, Ferdinando Ferlini e Ernesto Pucella, paracadutisti della divisione Folgore, parteciparono alla battaglia di El Alamein, vennero fatti prigionieri dagli alleati e trasferiti nei campi di prigionia in Egitto. Si ignora come fossero giunti a Bolzano, non si ha nemmeno notizia di loro come agenti segreti degli alleati; i dati biografici riferiscono che Sergio Ballerini era un militare di Firenze, Ernesto Pucella, nativo di Castel Madama, era soldato dell’ottantunesimo Reggimento Fanteria, mentre di Ferdinando Ferlini non si ha alcun dato anagrafico.
Quasi certamente non fu una rappresaglia, i ventitré non furono uccisi a caso per vendicare altre morti, si trattò, invece, di una strage organizzata, in cui le vittime furono scelte per essere uccise, a motivo delle posizioni assunte dopo l’otto settembre del ’43 [...]
Paola Milli, Nel lager di Bolzano, La voce di New York, 2 ottobre 2011 

Bolzano: Cimitero Militare. Fonte: Carla Giacomozzi, Op. cit. infra

1.2 L’eccidio del 12.09.1944
All’alba di martedì 12 settembre 1944 a Bolzano 23 uomini furono prelevati dal Lager di via Resia e condotti nella Caserma di Artiglieria “Francesco Mignone”, <6 situata a Bolzano in via Claudia Augusta nel quartiere di Oltrisarco.
Nel Lager di Bolzano erano giunti a più riprese tra la fine di agosto e i primi di settembre 1944, in provenienza da Verona. Contrariamente agli arrestati civili che venivano spogliati di vestiti ed averi al momento dell’ingresso nel Lager, i 23 avevano mantenuto i loro abiti; non erano stati immatricolati né separati tra di loro né uniti ad altri deportati in altri blocchi, bensì tenuti insieme e isolati in un blocco a parte.
Nel corso della loro breve permanenza nel Lager non uscirono per andare a lavorare, come invece la maggior parte degli altri deportati uomini e donne; uscirono dal Lager solo per essere uccisi. A ciascuno di essi fu sparato un colpo alla nuca nelle stalle della Caserma Mignone; i corpi furono portati al Cimitero Maggiore di Bolzano situato in via Claudia Augusta (quartiere Oltrisarco), gettati in una fossa comune, in terra sconsacrata, senza che la tomba fosse contrassegnata in alcun modo.
L’eccidio di Bolzano è stato a lungo dimenticato. E’ uno dei tanti vuoti di conoscenza intorno a fatti di storia locale avvenuti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Mai indagate fino ad ora la motivazione e le modalità delle esecuzioni, così come l’identità dei responsabili e degli esecutori. Ignoti sono rimasti per decenni anche gli uccisi, pur figurando tra di loro sette decorati al valor militare proprio a motivo dell’impegno che ne causò la morte a Bolzano.
1.3 Memoria, memorie
Per 60 anni non si è costruita alcuna indagine storica sull’eccidio nonostante la sua memoria pubblica sia stata mantenuta viva per almeno 5 anni, dal 1945 al 1950, grazie a cerimonie commemorative organizzate il 12 settembre nel Cimitero Maggiore da sacerdoti ex deportati, familiari, associazioni e autorità cittadine. Altre forme di memoria si sono mantenute vive nell’arco di sei decenni: innanzitutto la memoria privata, la memoria che appartiene alle famiglie dei 23, e poi la memoria di alcune amministrazioni locali che hanno dedicato vie e luoghi pubblici ad alcuni dei 23, loro concittadini.
Nel 2004 il Comune di Bolzano ha avviato la ricerca storica sull’eccidio dei 23, presentandone alla cittadinanza un primo resoconto nel settembre 2006, e recuperando alla memoria anche il luogo in cui l’eccidio avvenne. Dal 2004 il Comune di Bolzano ha posto una lapide in ricordo dell’eccidio su uno dei muri superstiti della Caserma Mignone, abbattuta nel 1999.
E’ fondamentale recuperare i luoghi teatro di fatti storici significativi perché è un modo di trasmetterne memoria; il lento processo della trasmissione di memoria avviene non solo con studi scientifici ma anche con la conservazione di ciò che rimane dei luoghi di storia, con la loro conoscenza e con la loro frequentazione.
1.4 L’avvio della ricerca
La ricerca sull’eccidio del 12 settembre 1944 a Bolzano ha preso avvio da una serie di domande sorte dal confronto tra due lapidi del Cimitero Militare di San Giacomo (Bolzano) e una relazione scritta da don Daniele Longhi <7 nel 1945.
Le lapidi del Cimitero Militare riportano nomi e cognomi di 23 uomini senza altro dato riferito né a un luogo né a un periodo né a motivazioni della morte; la vaghezza di queste lapidi determina di per sé sola il sorgere spontaneo di tante domande.
Gli stessi nomi compaiono in un elenco <8 che don Longhi stilò nel 1945, di cui egli specifica che "lo ebbe dal cappellano delle carceri di Verona, Don Carlo Signorato il quale l’ha desunto da una lettera dell’internato Duca, partito per la Germania, scrittagli il giorno stesso dell’esecuzione. Mi consta, per confronti avuti, che è ufficiale".
Nell’elenco don Longhi indica vari dati personali di alcuni dei 23: città di provenienza e/o di nascita, indicazione relative alle professioni esercitate e alle modalità di arresto.
"Elenco dei 23 italiani soppressi dalla Gestapo il giorno 12 settembre 1944 a Bolzano e a Bolzano sepolti nello stesso giorno nella fossa comune.
1 Apollonio Vilores, Trieste
2 Baldanello Antonio Venezia, S. Cassiano 1840. Figlio di fu Giuseppe e di Prosdocimi Dora nato il 21.11.91 a Bologna e residente a Venezia; appartenente alla Missione Inglese in qualità di Sergente genio R.T. marconista del Capo Missione.
3 Ballerini Sergio, Firenze. Il 6 giugno scorso, giorno della riesumazione, era casualmente presente la mamma e il fratello a Bolzano.
4 Battaglia Francesco, Bitonto (Bari). Figlio di Vincenzo e di Abbattantuona Anna nato il 6.9.1919 residente a Bitonto (Bari) V. Castelfidardo 47, primo aviatore motorista della Missione, chiamato il “bravo ragazzo”: arrestato coi compagni di Missione a Padova nel marzo 1944 dal famigerato maggiore Carità.
5 Berardinelli Cesare, Venezia Via Chio 5. Figlio di Berardinelli Alfredo (pure ucciso dalle SS in Dalmazia, Ammiraglio) e della Baronessa Alba Galvagna, nato a Venezia il 5.5.1927. Era civile. Capo Missione.
6 Botta Guido, Roma Viale Mazzini
7 Collusso Francesco, S. Michele Tagliamento (Venezia). Figlio di fu Guglielmo e di Monni Anna nato nel 1914 a San Michele al Tagliamento, catturato da tre repubblicani al suo sbarco da un sottomarino a Caorle (Venezia) ai primi di aprile e poi tradotto a Bolzano.
8 Dei Grandi Andrea, Venezia Cannaregio 3353
9 Di Fonso Domenico, Napoli ?
10 Faggiano Pompilio, S. Donaci (Brindisi). Figlio di fu Vincenzo e fu Storto Vita Maria nato il 4.6.16 residente a S. Donaci Via 28 ottobre 3, catturato il 27 febbraio 1944
11 Ferlini Ferdinando, Firenze
12 Fiorentini Antonio, Bologna
13 Fogliani Domenico, Verona Via S. Paolo 17. Figlio di Leonida e di De Petri Giuditta nato a Reggio Emilia il 17.4.1921, residente a Verona, Via S. Paolo 17.
14 Gentili Tito, Fano Via Flaminia 23. Figlio di Vito e di Porfiri Maddalena nato a Fano (Ancona) il 3.10.1913, aviere scelto R.T. residente a Fano.
15 Leuci Dante. Di questo nulla siamo riusciti a rintracciare tranne il nome.
16 Marocco Gianpaolo, Varese, Figlio di Domenico e di Rossi Giuditta nato l’1.4.1920 residente a Varese Via Marzorati 15, sottocapo R.T. di marina
17 Montevecchi Domenico, Faenza
18 Paiano Ernesto, Bari. Figlio di Angelo e di Cossa Leonida nato il 29.10.1916 a Maglie (Lecce) residente a Bari Via Isonzo 92, già paracadutista.
19 Pappagallo Antonio, Roma Via della Giuliana 70
20 Pavanello o Pavanelli Milo, residente a Milano con la Signora in Via Pier Lombardo 8
21 Preda Angelo, Monza Via Cairoli
22 Rucella Ernesto, Roma Piazza di Spagna
23 Venturi Annibale, Rimini"
I 23 nomi compaiono con varianti sulle lapidi del Cimitero Militare e nel discorso di don Longhi; questo ha dato l’avvio a ricerche sui registri degli atti di morte dell’Ufficio di Stato Civile dell’Anagrafe Comunale di Bolzano.
Qui figurano dati anagrafici più completi relativi però solo a 20 dei 23. Un dato che compare costantemente nei documenti, che contengono dati anagrafici degli uccisi, è che l’eccidio venne compiuto nella Caserma di Artiglieria Mignone di Bolzano il 12 settembre 1944 [...]
[NOTE]
6 Sezione staccata Artiglieria e magazzini “Francesco Mignone”, 9° Reggimento di Artiglieria di Corpo d’Armata, costruita nel 1938 e abbattuta nel 1999.
7 Don Daniele Longhi (Pedemonte Vicenza 1913 - Trento 1996) sacerdote nel quartiere operaio delle Semirurali di Bolzano, arrestato nel 1944 perché membro del Comitato di Liberazione Nazionale clandestino di Bolzano, rinchiuso nel Lager di Bolzano con la matricola 7459 come deportato politico.
8 Archivio della famiglia Battaglia.
Carla Giacomozzi, 23. Un eccidio a Bolzano, Quaderni di Storia Cittadina, Volume 4, Città di Bolzano / Assessorato alla Cultura, alla Convivenza, all’Ambiente e alle Pari Opportunità, Ufficio Servizi Museali e Storico-Artistici, Archivio Storico, 2011

giovedì 15 settembre 2022

Graziani suggeriva la Cia come modello ideale di forza controrivoluzionaria


Sempre nel 1963, a seguito del Trattato sulla messa al bando parziale dei test nucleari stipulato da Usa e Urss, Clemente Graziani redasse un pamphlet di 33 pagine dal titolo La guerra rivoluzionaria. Quest’opera, scritta da un membro di Ordine Nuovo, costituì il punto di svolta nella trattazione di questo argomento da parte degli intellettuali italiani. Con questo pamphlet, in Italia l’argomento “guerra rivoluzionaria” emerse da una nebulosa semantica, nella quale il termine si trovava ed era stato impiegato, sulla scorta di quanto scritto da Lenin e Mao, con diverse accezioni, senza una precisione lessicale, ad esempio come sinonimo di “guerriglia” o di “guerra al capitalismo”. Quella costituita da Graziani e poi da altri neofascisti come Guido Giannettini, che due anni dopo avrebbe pubblicato il pamphlet Tecniche della guerra rivoluzionaria, fu una rielaborazione di un concetto introdotto da Lenin e teorizzato ampiamente da Mao in diversi scritti a partire dagli anni ‘30, letto e interpretato, anche da americani e francesi, secondo un filtro esclusivamente militare che “pone in primo piano solo le tecniche di guerriglia” <427. Quindi, a partire da quest’opera del 1963 l’espressione “guerra rivoluzionaria”, esistente dall’inizio del Novecento, ebbe, a seguito di una rielaborazione filtrata, una sua limpida definizione e trattazione. Un procedimento di rielaborazione di cui si diede atto nel manifesto del gruppo di “Pagine Libere”, pubblicato nel maggio 1965, alcuni giorni dopo che si svolse il convegno La guerra rivoluzionaria:
"Confrontando comunque la guerra rivoluzionaria cinocomunista con gli schemi teorici di solito ad essa riferita dai dottrinari, vediamo come questi schemi vengano seguiti soltanto in parte dai capi comunisti cinesi. La loro parziale eterodossia era dovuta anche al fatto che la teorizzazione delle tecniche della guerra rivoluzionaria è stata da noi ricavata a posteriori, cioè per astrazione (secondo l’accezione etimologica del termine). Mao e gli altri leaders della Cina rossa avevano impartito soltanto degli orientamenti generali, dei quali il maggiore è senz’altro questo: studiare a fondo, con metodo rigidamente logico, le leggi della guerra in generale, le leggi e gli insegnamenti particolari della guerra antigiapponese, quelle della guerra rivoluzionaria interna; dall’esame attento, scientifico, della situazione, sarebbero scaturite tutte le indicazioni necessarie per affrontarla in modo adeguato". <428
Tornando al pamphlet di Graziani, esso è composto da otto paragrafi: 1) Guerra atomica o guerra rivoluzionaria?; 2) Strategia tattica e tecnica della guerra rivoluzionaria; 2) L’azione psicologica; 4) Il terrorismo; 5) “Le gerarchie parallele”; 6) “Le forze rivoluzionarie” in America e in Europa; 7) Le possibilità di una azione rivoluzionaria in Italia; 8) La guerra rivoluzionaria come “esperienza interna”. Egli nel primo paragrafo precisa subito che la guerra rivoluzionaria, scatenata nel mondo dal “comunismo internazionale” per i suoi “obiettivi di bolscevizzazione totale del mondo” <429, si basa su un “genere nuovo, particolarissimo dell’uso della forza armata”. Scrivendo poi che quello attuale era uno “stato permanente di guerra mondiale ufficialmente non dichiarata” <430, richiamava a distanza il famoso articolo di Tedeschi di due anni prima, testé citato, Il PCI prepara il terrorismo organizzato, del quale citiamo di nuovo due frasi chiave:
"(…) un conflitto che ufficialmente non esiste, e quindi non obbliga all’intervento né russi né americani; un conflitto svolto al di fuori delle regole tradizionali, e quindi ideale per cogliere di sorpresa gli impreparati (…)". <431
Graziani poi passava in esame le modalità con cui veniva condotta la “guerra sovversiva” o “rivoluzionaria”, combattuta dall’Occidente - incarnato nell’esercito francese - per la prima volta in Indocina, dove i Viet Minh per scacciare gli imperialisti applicarono tutte le sue regole “con metodo e rigorosità scientifica” <432. Le modalità principali di condotta della guerra rivoluzionaria, o sovversiva, erano “l’azione psicologica scientificamente condotta”, il “terrorismo sistematico”, il “deliberato svuotamento delle strutture sociali esistenti” e l’organizzazione delle “gerarchie parallele”, che progressivamente si sostituivano a quelle esistenti, inglobavano la popolazione “in una rete dalle maglie sempre più strette” <433 e avevano il fondamentale compito di tenere quanti più possibili cittadini “sul doppio fronte del sabotaggio civile e dell’azione militare” <434. Condizioni sine qua non del successo della guerra rivoluzionaria erano “una congiuntura favorevole della politica internazionale” <435 e “il favore della popolazione” <436. Per ottenere quest’ultimo si poteva procedere in due modi: o galvanizzandole e suggestionandole “intorno ad un’idea”, ovvero “costringerle entro schemi psicologici precostituiti” <437, o terrorizzandole sistematicamente. La guerra psicologica e il terrore sistematico, “spietato e indiscriminato”, andavano di pari passo:
"si tratta, cioè, di condizionare le folle non solo attraverso la propaganda ma anche agendo sul principale riflesso innato presente tanto negli animali tanto nella psiche di una grande massa: la paura, il terrore, l’istinto di conservazione" <438.
Ci si trova di fronte, insomma, anche alla dichiarazione della necessità di agire contro certi schemi morali, ad esempio tramite l’uccisione di cittadini innocenti, qualora si riscontri nella popolazione “l’agnosticismo, lo stato di passività, l’indifferenza morale” <439, quasi si trattasse di una sorta di “strategia della tensione” che sproni la massa all’azione. Per Graziani, dinanzi alla “progressiva penetrazione rivoluzionaria della dottrina marxista-leninista nei paesi dell’Occidente e del terzo mondo afroasiatico” <440 e alla “frana a sinistra della diga democristiana al comunismo” <441 era necessario approntare al più presto una “elite di professionisti della guerra rivoluzionaria” che sapesse combattere ad armi pari “sul terreno di lotta” che il comunismo aveva scelto, ovvero l’“azione rivoluzionaria” <442. Estremamente significativa è la parte conclusiva del pamphlet, nella quale Graziani delineava la figura incaricata di condurre la guerra controrivoluzionaria.
Se da un lato tale ipotetica figura veniva connotata idealmente come un “nuovo tipo umano portatore di nuovi valori” che sia in contrasto con quelli propri dell’attuale “degenerescente civiltà borghese” e che sia in grado di “dominare e trascendere le forze disanimate insorte in una civiltà meccanizzata e materializzata” <443, dall’altro essa per l’autore è incarnata pienamente dalla Cia:
"Per il genere di incarichi che ricopre questa organizzazione di spionaggio e controspionaggio americana, per le tecniche e i mezzi che deve necessariamente usare per la raccolta d’informazioni sia politiche che militari, essa è, come il Deuxième Bureaux francese e come, in misura più o meno estesa, tutti i servizi d’informazione di una qualche importanza, particolarmente sintonizzata alle idee e ai metodi di una lotta sovversiva" <444.
Due anni prima che si svolgesse il convegno La guerra rivoluzionaria del 1965, alla fine del quale veniva auspicata da Beltrametti una proficua collaborazione tra la destra e le forze dell’ordine, Graziani suggeriva la Cia come modello ideale di forza controrivoluzionaria (e dei metodi richiesti per combattere efficacemente la guerra rivoluzionaria con le sue stesse armi), augurandosi che anche in Italia si creassero reparti che operassero similmente: “è tempo di dar vita a dei centri d’irradiazione delle idee controrivoluzionarie in tutti i settori della vita pubblica e privata della nazione, con particolare riferimento agli ambienti dell’esercito e delle forze dell’ordine” <445.
Forse il pamphlet di Graziani venne adottato come manuale di guerra controrivoluzionaria dai soldati italiani, che, per ordine del generale Giuseppe Aloja <446, come documentato dal Centro militare di studi strategici, proprio tra 1963 e il 1965 seguirono “corsi di addestramento antiguerriglia” ai fini di dotare del “maggior tasso di prontezza operativa (…) proprio l’aliquota [delle forze armate] incaricata di fronteggiare le minacce interne” (designate in termini di “strategia indiretta”, “guerra non ortodossa”, “guerra clandestina”, “guerra psicologica”, “guerriglia”) <447 e aver acquisito abilità ed avviato operazioni segrete, delle quali la Cia fu supervisore, come avvenne con il Piano Solo <448. Dopo la pubblicazione del pamphlet di Graziani, la seconda grande cesura degli anni ‘60 sarebbe stata quella del Convegno all’Hotel Parco dei Principi sulla 'Guerra rivoluzionaria'.
[NOTE]
427 “[l’espressione “guerra rivoluzionaria”] usata per la prima volta nel suo attuale significato [sic] da Mao Tse-tung nel 1963, di essa si impadronirono gli ufficiali francesi fatti prigionieri dai Viet-Minh dopo il 1949 che, al loro ritorno in patria, la introdussero nella terminologia militare francese.” Bernard B. Fall, Dall’Indocina al Viet-Nam: storia di due guerre, Milano, Sugar, 1968, p.367.
428 “Pagine Libere”, n.18, maggio 1965, pp.7-8. Corsivo mio.
429 La guerra rivoluzionaria, op.cit., p.5.
430 Ivi, p.5.
431 “L’Italiano”, Mario Tedeschi, Il PCI prepara il terrorismo organizzato, n.7, luglio 1961, p.39.
432 La guerra rivoluzionaria, op.cit., p.7.
433 Ivi, p.8.
434 Ivi, p.16.
435 “L’azione rivoluzionaria, comunque sia condotta, corre sempre verso la disfatta qualora i suoi capi non siano riusciti ad inserirla in una congiuntura favorevole della politica internazionale.”, Ivi, p.17. Corsivo mio.
436 Ivi, p.9.
437 Ivi, p.11.
438 Ivi, p.13. Corsivo mio.
439 Ivi, p.9.
440 Ivi, pp.17-18.
441 Ivi, p.30.
442 Ivi, pp.30-31
443 Ivi, p.32.
444 Ivi, pp.27-28. Corsivo mio.
445 Ivi, p.30. Corsivo mio.
446 Egli, tra l’altro, nel 1965 avrebbe poi commissionato a Rauti e Giannettini, celati sotto lo pseudonimo di “Flavio Messalla” la redazione di un libello, Le mani rosse sulle Forze armate, poi fatto distribuire agli ufficiali attraverso i canali di Ordine Nuovo. Franco Ferraresi, Minacce alla democrazia. La destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Milano, Feltrinelli, 2005, p.124.
447 Guido Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli 2003, p.102.
448 Ivi, p.100.
Pier Paolo Alfei, La guerra rivoluzionaria nella Destra italiana (1950-1969), Tesi di Laurea, Università di Macerata, Anno Accademico 2015/2016

lunedì 12 settembre 2022

Il governo di Washington era a conoscenza del tentativo di golpe ben prima che del Piano Solo si avessero le prime notizie


Rispetto alla questione delle interferenze statunitensi nella lotta al comunismo in Italia, gli anni del mandato di Johnson comportarono grandi cambiamenti rispetto al passato, a partire dalla realizzazione del primo governo di centrosinistra <709. Sin dai primi giorni del suo mandato, Johnson proseguì il cammino intrapreso da Kennedy in favore dell’apertura a sinistra e seguì con interesse le trattative di Moro e Nenni per la costituzione del governo <710.
Il primo incontro ufficiale di Johnson avvenne proprio in relazione alla situazione italiana. Il 25 novembre 1963, Johnson incontrò alcuni esponenti del governo italiano: il presidente del Senato Cesare Merzagora, il Ministro degli Esteri Piccioni e l’ambasciatore italiano negli Stati Uniti Fenoaltea <711. Durante l’incontro, i rappresentanti del governo italiano rassicurarono gli americani che, nonostante la transizione in atto verso il centro-sinistra, i rapporti tra i due paesi avrebbero continuato ad ispirarsi ai principi della fedeltà atlantica e agli impegni derivanti. Tuttavia alcune questioni in particolare generavano perplessità a Washington. La prima era relativa agli scontri tra Dc e Psi nell’assegnazione degli incarichi ministeriali, che lasciavano presagire qualche difficoltà di collaborazione sulla strada delle riforme e dello sviluppo. Inoltre, a Washington preoccupavano le divisioni interne ai singoli partiti di governo, le cui ripercussioni avrebbero potuto produrre effetti negativi sulla stabilità del governo <712. Ciononostante, in questa fase gli Stati Uniti apparivano piuttosto fiduciosi sulle possibilità del centro-sinistra di isolare il Pci e promuovere una vasta attività di riforme, soprattutto nel Mezzogiorno <713. Per timore che la crisi economica e la necessità di adottare misure di austerità potessero compromettere la realizzazione delle riforme, a conferma della fiducia riposta nel gabinetto gli Stati Uniti erogarono un prestito di circa un miliardo di dollari <714. Questo intervento non va letto come il frutto di un assistenzialismo disinteressato, in quanto rientra nella logica anticomunista legata all’esigenza di evitare che l’Italia si avvicinasse al blocco comunista: un pericolo reso ancora più reale dall’accordo commerciale tra Italia e Cina per l’apertura di uffici commerciali nelle rispettive capitali e da alcune considerazioni allarmanti sul futuro della stabilità italiana provenienti dagli esponenti delle istituzioni italiane più allineati a destra. Uno dei questi, il Presidente della Repubblica italiana Antonio Segni, si diceva pronto a dare il suo contributo per porre fine all’esperimento il prima possibile <715. Anche il gen. De Lorenzo guardava con preoccupazione gli sviluppi italiani. L’imminente pericolo di disordini di piazza e di scioperi rendeva necessario adottare atteggiamento di grande fermezza da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine, che con determinazione (“backbone”) e una linea d’azione ben definita (“a definite line of action”), anche a costo di vittime avrebbero dovuto arrestare la deriva verso il comunismo <716. Il generale si dimostrava poi abbastanza fiducioso sul fatto che, attraverso i suoi contatti con le più alte sfere istituzionali, sarebbe riuscito a trovare un sostegno per delle “proposte eccezionali” da adottare contro le forze di opposizione.
I timori espressi nei documenti americani anticiparono i fatti che, nel giugno 1964, avrebbero segnato la fine del primo esperimento di centro-sinistra. Il 25 giugno infatti si aprì la crisi di governo a causa del mancato accordo dei partiti sui finanziamenti alle scuole religiose <717. Il governo venne così posto in minoranza e Moro fu costretto alle dimissioni. Nonostante la confusione generata dalla caduta del governo, tuttavia, nei documenti americani continuava ad emergere l’atteggiamento di fiducia nella figura di Aldo Moro, in cui gli Stati Uniti riponevano le speranze per un ruolo di guida della Dc e di mediazione con gli altri partiti, e un’avversione nei confronti della formazione di un governo di destra quale antidoto all’instabilità democratica italiana <718. La strada del centro-sinistra, per quanto ardua, continuava dunque ad essere l’unica alternativa percorribile per fronteggiare i cambiamenti sociali che l’Italia stava vivendo e che erano all’origine di un grande allarme comunista <719.
Se il centro-sinistra non sembrava governare i cambiamenti della società italiana in maniera efficace come alcuni esponenti delle forze dell’ordine e delle destre si sarebbero aspettati, questi stessi ambienti si convinsero che fosse giunto il momento di intervenire direttamente <720. La convinzione che l'esperienza del centro-sinistra determinasse una modificazione della collocazione atlantica della penisola e una deriva a sinistra della società, convinsero queste forze della necessità di un’eventuale azione di forza <721. In questo contesto, tra il 15 e il 19 giugno 1964 maturò l’ideazione di un progetto di golpe ad opera del Gen. De Lorenzo. Il nome del progetto, “Piano Solo”, derivava dal fatto che la sola Arma dei carabinieri (oltre 20.000 uomini) avrebbe preso parte alla sua attuazione, per ragioni di maggiore sicurezza e affidabilità. Concordato fra William Harvey, nominato direttore della stazione Cia di Roma nel giugno 1963, e il comandante generale dell’Arma Giovanni de Lorenzo, il piano fu studiato per fronteggiare una situazione emergenza determinata da un asserito complotto in preparazione da parte dei comunisti. Di tale complotto, peraltro inesistente, fu messo al corrente l’allora presidente della Repubblica Antonio Segni, per condizionarlo e ottenerne l’avallo. Il Piano era basato sull’adozione di misure eccezionali il cui scopo consisteva nel sovvertire l’ordine costituito attraverso l’esclusione dei socialisti dal governo o, quantomeno, un ridimensionamento dei progetti riformisti in atto (riforma regionale, legge urbanistica e patti agrari) e, in ultima istanza, nel mettere fuori legge il Pci e costituire un governo vicino alle forze di destra. Il progetto prevedeva l’occupazione di centri nevralgici del potere come prefetture, stazioni radio, sedi del partito e centrali telefoniche delle principali città italiane, nonché l’arresto e la deportazione nella base Gladio in Sardegna degli esponenti politici di primo piano <722. In caso di sommossa o avvenimenti gravissimi, i carabinieri sarebbero stati affiancati da militari in congedo, gruppi di civili ed ex militari arruolati e stipendiati dal Sifar in funzione anticomunista <723. Quest’azione di reclutamento clandestino era nota alla Cia sin dall’immediato dopoguerra e per certi versi incoraggiata dalla stessa agenzia statunitense con l’obiettivo di mettere a segno azioni illegali come piazzare bombe, compiere attentati o provocare incidenti da attribuire alle sinistre, in maniera tale da spingere il governo ad adottare misure eccezionali in difesa della sicurezza nazionale e bloccarne la deriva a sinistra <724 <725.
Il Piano Solo non fu mai attuato, forse perché non ricevette una accoglienza favorevole da parte delle istituzioni oppure, con maggiore probabilità, perché era stato pensato come una vera e propria “intentona”, con lo scopo di controllare il potere, non di conquistarlo <726. Un'involuzione autoritaria della politica italiana costituiva un esito estremo e non gradito dalle istituzioni. Il Piano Solo sarebbe stato quindi progettato con l’unico scopo di intimidire e avvertire le istituzioni delle possibili conseguenze di una deriva a sinistra del governo e di condizionare l’operato delle forze politiche italiane, quindi come uno strumento di pressione del “doppio stato” sulle istituzioni democratiche del paese per trovare una soluzione immediata alla crisi di governo <727.
In sostanza, il Piano si inserisce perfettamente nel quadro dei colpi di stato “regolarmente sventati al momento di divenire operativi e puntualmente occultati al momento di dover essere chiariti” grazie al costante appoggio e alla copertura delle istituzioni italiane e americane per esigenze politiche e istituzionali superiori. Allo stesso tempo, pur non riuscendo nelle loro finalità prettamente “militari”, connesse alla presa del potere, questi tentativi sono riusciti dal punto di vista politico, in quanto erano progettati per condizionare “verso il centro il sistema politico e ci si è riusciti anche quando l’intero continente era attraversato da un vento riformatore che ha fatto traballare strutture politiche e statali ben più salde della nostra” <728. Nel caso italiano, nello specifico, il tentato golpe serviva a bloccare il riformismo del governo Moro. Come è noto, infatti, la crisi fu subito risolta con la creazione di un nuovo governo (3 luglio 1964) sempre presieduto da Moro con la stessa base parlamentare del precedente, ovvero con la partecipazione del Psi, il cui programma riformatore risultava tuttavia notevolmente ridimensionato <729.
Quello che è importante rilevare è che il governo di Washington era a conoscenza del tentativo di golpe ben prima che del Piano Solo si avessero le prime notizie <730. Lo dimostrano tutta una serie di informative precedenti che forniscono dettagli sul pericolo imminente di un colpo di stato militare in Italia, da attuarsi in seguito ad una dimostrazione finanziata da industriali italiani e coordinata da Pacciardi. Si faceva anche riferimento al supporto dei Carabinieri nel caso di scontri o incidenti <731. Già si avvertiva, insomma, un gran “tintinnare di sciabole” come avrebbe scritto Nenni, ovvero un clima di grande tensione che era premonitore degli sviluppi cui la democrazia italiana sarebbe andata incontro nelle settimane successive. A questo proposito è interessante notare che dai documenti statunitensi sul Piano Solo non traspare un’ansia particolare per la gravità dei fatti eversivi in atto. Emerge invece un grande allarme rispetto al pericolo di infiltrazione comunista nelle istituzioni democratiche italiane, e l’identificazione nel gen. De Lorenzo dell’unica figura del panorama italiano in grado di gestire la complessità della situazione politica <732. Questa constatazione aiuta a definire meglio il quaadro di responsabilità degli Stati Uniti nel Piano Solo. Senz’altro, gli intenti dei golpisti corrispondevano pienamente agli interessi perseguiti da certi settori dell'amministrazione statunitense, contrari al centro-sinistra e in linea con ampi strati del ceto dirigente e imprenditoriale italiano. Pertanto è ipotizzabile gli Stati Uniti non solo sapessero, ma abbiano anche collaborato al progetto in quanto strumentale ai loro obiettivi in Italia. In quest’ottica, il Piano Solo si può collocare all'interno di un disegno strategico più ampio che, a livello nazionale, mirava a depotenziare la capacità riformista del governo di centro-sinistra e, a livello internazionale, puntava alla riduzione dell’influenza del comunismo nel mondo. <733 Il Piano Solo dimostra quindi l’annidarsi di forze sleali alla democrazia in settori molto delicati dell’apparato statale, nonché le simpatie da esse riscosse non solo nell’estrema destra, ma anche a livello internazionale. Il silenzio fatto calare sulla vicenda dell’estate 1964 è significativo del timore che venisse sollevato un velo su possibili e complicità di cui il generale De Lorenzo appariva sicuro al momento dell’ideazione del progetto.
[NOTE]
709 A. M. Schlesinger, I Mille giorni, cit., p. 873.
710 U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera, cit. p. 228.
711 Nara, Department of State, Central Files, Pol-It-US, Memorandum of conversation, Washington, 25 novembre 1963, Confidential.
712 Frus, 1961-63, vol. XII, Telegram From Secretary of State Rusk to the Department of State, Paris, 16 dicembre, 1963, pp. 893-94, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1961-63v13/pg_890; Cia Special Report, “The Moro Government’s program and prospects”, Office of Current Intelligence, 3 gennaio 1964; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit. pp. 442-443; S. Romano, Lo scambio ineguale: Italia e Stati Uniti da Wilson a Clinton, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 44.
713 Frus, 1961-63, vol. XII, Memorandum of Conversation,The Italian Political Situation, 14 gennaio 1964, pp. 175 e ss, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1964-68v12/pg_175; Cia, Special Report, “Problems and Prospects in Southern Italy”, Office of Current Intelligence, 21febbraio 1964.
714 Frus, 1961-63, vol. XII, Memorandum From Secretary of the Treasury Dillon to President Johnson, Financial Assistance for Italy, Washington, 13 marzo, 1964, pp. 183-184 , disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1964-68v12/pg_183.
715 Frus, 1961-63, vol. XII, Telegram From the Embassy in Italy to the Department of State, Rome, 10 gennaio, 1964, pp. 173-75, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1964-68v12/pg_173.
716 Frus, 1964-68, vol. XII, Intelligence Information Cable,Washington, 13 marzo, 1964, pp. 185-188, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1964-68v12/pg_185; Id., Airgram From the Embassy in Italy to the Department of State, Lt. Gen. De Lorenzo’s Comments on Security and Political Subjects, Rome, 26 maggio, 1964, pp. 189-192, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1964-68v12/pg_188; M. Franzinelli, Il Piano Solo, cit. p. 86.
717 G. Bedeschi, La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013.
718 Cia, Special Report, Italian Christian Democratic National Congress, Office of Current Intelligence, 26 giugno 1964.
719 U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova Frontiera, cit. p. 263.
720 Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Il terrorismo, le stragi ed il contesto storico-politico, Proposta di relazione, redatta dal Presidente della Commissione, senatore Giovanni Pellegrino, XII legislatura, 12 dicembre 1995, pp. 9-44, 74-76.
721 Frus, 1964-68, vol. XII, Telegram From the Embassy in Italy to the Department of State, 10 gennaio, 1964, cit. p. 173
722 Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno luglio 1964, Relazione di minoranza, Roma, 1971, pp. 88 e ss.; G. De Lutiis, Storia dei servizi segreti, cit. p. 82; S. Flamigni, Dossier Pecorelli, Milano, Kaos, 2005, p. 8.
723 Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno luglio 1964, cit. pp. 92-95, 267.
724 Negli archivi della stazione Cia di Roma sono state ritrovate le liste di queste formazioni paramilitari addestrate in funzione anticomunista. G. De Lutiis, Il lato oscuro del potere, cit. pp. 68-69.
725R. Faenza, Il Malaffare, cit. 367; Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno luglio 1964, cit. p. 281; F. Parri, Al fondo della crisi, in “L’Astrolabio”, 4 febbraio 1964; N. Tranfaglia, La strategia della tensione e i due terrorismi, in “Studi Storici”, 39, 4 (1998): pp. 989-998; M. Franzinelli, Il Piano Solo, cit. p. 35, 42.
726 G. De Luna, Necessità storica, uno strano concetto, in “La Stampa”, 24 dicembre 1990, p. 3.
727 U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera, cit. p. 270; A. Lepre, Storia della prima repubblica, cit. p. 207; P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit. p. 350; G. De Lutiis, Il lato oscuro del potere, cit. pp. 63-68; 93-100.
728 A. Giannuli, P. Cucchiarelli, Lo stato parallelo, cit. pp. 227-228.
729 Commissione Moro, 125; CS, 381-383; numerazione tematica 1, Memoriale Moro, La crisi del 1964: il Presidente della Repubblica Segni e il piano del Gen. De Lorenzo; Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno luglio 1964, cit. pp. 206 e ss.
730 L. Jannuzzi, Finalmente la verità sul SIFAR. 14 luglio 1964: complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano il colpo di stato, in “L’Espresso”, 14 maggio 1967; Id., Fatti del luglio 1964: ecco le prove, in “L’Espresso”, 21 maggio 1967.
731 Frus, 1964-68, vol. XII, Telegram From the Consulate in Frankfurt to the Department of State, Frankfurt, 25 giugno, 1964, pp. 192-194, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1964-68v12/pg_192; Frus, 1964-68, vol. XII, Telegram From the Commanding General, U.S. Army South European Task Force to the Commander in Chief, U.S. Army in Europe, Verona, 26 giugno, 1964, pp. 198-99, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1964-68v12/pg_198; Frus, 1964-68, Intelligence Information Cable, Washington, 26 giugno, 1964, pp. 194-97, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1964-68v12/pg_194; Incoming Telegram, spedito al Dipartimento di stato dal centro Setaf di Verona, al comando delle forze armate di heidelberg, 28 giugno 1964, in “L’Espresso”, 25 agosto 1995; U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera, cit. p. 309.
732 R. Faenza, Il Malaffare, cit. p. 364; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit. pp. 327-328.
733 Frus, 1964-68, vol. XII, Airgram from the Embassy in Italy to the Department of State, The July Rumors on an Italian Coup d’Etat, Rome, 14 agosto, 1964, pp. 208 e ss., disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1964-68v12/pg_208.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

giovedì 8 settembre 2022

Alla vigilia della liberazione del Nord Italia, il governo Bonomi istituì delle Assise straordinarie (Cas)


Il 12 febbraio 1946 la Sezione speciale della Corte d’Assise di Verona sottoponeva a processo i latitanti Maria Luisa Bonizzato, studentessa scaligera nata nel 1920, suo padre Gaetano e l’ufficiale superiore della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) Giovanni Roggiero, con l’accusa di aver collaborato con l’occupante tedesco. Secondo il pubblico ministero, Roggiero avrebbe denunciato alcuni antifascisti con la complicità di Gaetano Bonizzato e di sua figlia Maria Luisa. Una sera dell’agosto 1944, l’ufficiale della Gnr si recò in visita dal Bonizzato e si imbatté in tre giovani, lì ospitati, che durante la serata lanciarono pesanti critiche al fascismo e al regime nazista, auspicando la vittoria degli Alleati. Roggiero prese nota di quelle dichiarazioni e si recò immediatamente dalle autorità tedesche a riferirle. La retata avvenne la notte stessa e provocò l’arresto di Giuseppe Leone e Giovanni Campioni, mentre il terzo denunciato riuscì a fuggire. L’indomani, Maria Luisa Bonizzato confermò la denuncia del Roggiero, compromettendo ulteriormente la posizione degli arrestati: uno di questi, Giuseppe Leone, venne deportato in un campo di concentramento in Germania dove morì il 3 dicembre 1944. Durante il dibattimento la testimonianza principale fu rilasciata dal Campioni, uscito dal carcere all’indomani della Liberazione, che dichiarò di aver scorto la firma dell’ufficiale della Gnr nella denuncia mostratagli la notte in cui fu arrestato e confermò che Maria Luisa Bonizzato, l’indomani mattina, si era recata in gendarmeria a testimoniare contro di lui e l’amico Leone. La Corte, presieduta da Gennaro Punzo, condannò Roggiero e la Bonizzato, mentre assolse con formula dubitativa il padre della ragazza, dato che non esistevano prove sufficienti per stabilirne la complicità nell’azione delatoria del Roggiero. La giuria si interrogò sulle ragioni che avevano indotto la ragazza a collaborare con l’ufficiale fascista; ipotizzò che Maria Luisa volesse vendicarsi di qualche torto commesso dai giovani antifascisti ospiti del padre, ma non poté provarlo. La Corte decise di infliggerle 4 anni e 5 mesi di detenzione, una pena decisamente modesta se confrontata con i 20 anni di prigionia comminati al Roggiero. La giuria giustificò la disparità di trattamento sottolineando innanzitutto le maggiori responsabilità dell’ufficiale e rimarcando, in secondo luogo, l’inesperienza e l’ingenuità dell’imputata oltre al fatto che, in precedenza, la ragazza aveva aiutato alcuni ricercati dalla polizia tedesca. Il Roggiero, ufficiale della Gnr autore della delazione, non fu mai identificato: il provvedimento di condanna giunse a un tale Giovanni Roggiero, ma costui fece subito ricorso per dimostrare il caso di omonimia in cui la Corte era incappata e la Cassazione gli diede ragione. Al contrario Maria Luisa, che aveva fatto perdere le proprie tracce dal maggio 1945, venne ugualmente a conoscenza della condanna inflittale dalla Corte scaligera e ricorse in Cassazione; quest’ultima il 27 giugno 1946 l’assolse da ogni accusa «perché il fatto non costituiva reato» <1.
Quello appena descritto rappresenta uno dei numerosi processi andati in scena a Verona, così come nel resto d’Italia, al fine di punire chi collaborò con l’occupante tedesco. Il reato di collaborazionismo venne introdotto dal regio decreto legge (rdl) n. 134, varato il 26 maggio 1944 dal secondo governo Badoglio. L’articolo 6 affermava che: "chiunque, posteriormente all’8 settembre 1943, anche non rivestendo la qualità di militare, abbia commesso delitti contro la fedeltà e la difesa militare è punito a norma delle disposizioni […] del codice penale militare di guerra. Ai fini di questo articolo è considerato delitto contro la fedeltà e la difesa militare qualunque forma di collaborazione attiva, di aiuto o di assistenza prestata al tedesco invasore" <2.
Con questo decreto - confermato nella sostanza nei mesi successivi - il governo stabilì di non rinviare a giudizio tutti gli aderenti alla Repubblica sociale italiana (Rsi), bensì solo chi aveva infranto alcuni articoli del Codice penale militare di guerra (in particolare il 51, il 54 e il 58) cui la legge del maggio 1944 rimandava. L’articolo 51 del Codice militare sanzionava chi aveva compiuto operazioni finalizzate «a favorire le operazioni militari del nemico», il 54 condannava chiunque avesse intrattenuto con il tedesco forme di «intelligenza o corrispondenza», infine l’articolo 58 puniva chi aveva favorito «i disegni politici dell’occupante» <3. Per i colpevoli erano previste lunghe pene detentive e, nei casi più gravi, la condanna a morte <4.
I processi ai presunti collaborazionisti vennero inizialmente affidati alle Corti d’Assise ordinarie, che però non erano nelle condizioni materiali per condurre centinaia di procedimenti giudiziari. Perciò, alla vigilia della liberazione del Nord Italia, il governo Bonomi istituì delle Assise straordinarie (Cas). Le Cas avrebbero dovuto garantire giudizi rapidi e severi, in sintonia con le richieste del popolo e della Resistenza; sarebbero dunque state composte da un magistrato togato e da quattro giudici popolari, estratti a sorte da una lista redatta da ciascun Comitato di Liberazione provinciale, ed avrebbero beneficiato di diverse deroghe alla procedura penale ordinaria per accelerare l’istruttoria e la fase dibattimentale. Affidando poteri straordinari a queste Corti, lo Stato aveva ingenuamente ipotizzato di poter sanzionare penalmente i fascisti e i collaborazionisti in soli sei mesi, ma la mole di rinviati a giudizio obbligò ad estendere l’attività di queste Assise speciali fino alla fine del 1947 <5.
Il numero complessivo di processati in Italia non è ancora stato stabilito con certezza. Secondo Hans Woller, «tra il 1945 e il 1947 […] vennero istituiti, contro fascisti e collaborazionisti, più di 20.000, forse perfino 30.000 processi, e vennero inflitte pene molto severe, tra cui 1.000 condanne a morte e migliaia di condanne a lunghe pene detentive»; l’autore, però, non riporta le fonti da cui trae queste cifre, in ogni caso approssimative <6. Sono invece più precisi alcuni studi locali e regionali, come quelli dedicati al Piemonte, alla Valle d’Aosta e al Veneto <7.
Secondo Neppi Modona, ad esempio, gli imputati processati dalla Corte di Aosta e da quelle piemontesi furono più di 3.600, di cui più di 400 donne; il numero complessivo di condannati fu 2.200 circa, tra cui poco più di 200 appartenenti al genere femminile <8. Il numero di processi penali condotti in Veneto contro i collaborazionisti tra il 1945 e il 1946 si aggirò invece sulle 2.000 unità, anche se è difficile stabilire con precisione il numero di imputati e la divisione per genere <9; nella sola provincia di Rovigo - studiata da Gianni Sparapan - i processi furono 340 e riguardarono 466 imputati, tra cui 20 donne.
Questi dati rivelano l’ampiezza del processo di epurazione; tuttavia la maggior parte degli storici ritiene che l’elevato numero di rinviati a giudizio non fosse sinonimo di severità ed efficienza delle Corti e che la gran quantità di assoluzioni, condoni e amnistie abbiano decretato il sostanziale fallimento dell’epurazione <10.
È innegabile che quest’ultima fu costellata da numerose contraddizioni; siamo tuttavia convinti che, prima di giungere a conclusioni così radicali, si debbano ancora chiarire numerose questioni: non è stata condotta sino ad ora un’analisi complessiva dell’operato delle Corti d’Assise straordinarie, scarseggiano gli studi sull’epurazione dei corpi professionali, non si è posta sufficiente attenzione al ruolo svolto da magistrati e legali nella giustizia di transizione e non si è riflettuto abbastanza su quanto la pressione mediatica abbia pesato sui processi <11.
[NOTE]
1. Archivio dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (d’ora in poi Ivrr), Fonti Ivrr, Sentenze (copie) della Corte d’Assise straordinaria di Verona (d’ora in poi Cas Vr), b.1, fasc. 1946, sentenza n. 24/46.
2. Vd. rdl n. 134 del 26 maggio 1944 pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia» del 31 maggio 1944.
3. Così il Codice penale militare di guerra dell’epoca.
4. Il decreto legge luogotenenziale (dll) n. 224 varato il 10 agosto 1944 abolì dal Codice penale la pena di morte, che era stata riportata in vigore dal regime fascista; ciò nonostante la condanna a morte mediante fucilazione rimase prevista nel Codice penale militare e nelle legislazioni speciali come quella riguardante l’epurazione.
5. Le Cas furono istituite il 22 aprile 1945 con il dll n. 142. Inizialmente avrebbero dovuto operare nelle sole province del Nord Italia, dove il numero di collaborazionisti da giudicare sarebbe stato più elevato che nel resto della penisola, data la maggiore durata dell’occupazione nazifascista; nelle altre regioni d’Italia i processi contro i fascisti e i collaborazionisti avrebbero dovuto rimanere affidati alle Corti d’Assise. Tuttavia, la celerità e l’iniziale efficienza mostrate dalle Cas del settentrione indussero il governo ad estenderle a diverse province dell’Italia centrale (dll n. 434 del 20 luglio 1945 e n. 186 dell’11 maggio 1945); infine il dll n. 625 del 5 ottobre 1945 uniformò la legislazione, estendendo l’operato delle Cas - rinominate Sezioni speciali delle Corti d’Assise - all’intera penisola.
6. Hans Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia tra il 1943 e il 1948, Il Mulino, Bologna 1997, p. 419.
7. Si vedano - a titolo esemplificativo - i seguenti studi: Giustizia penale e guerra di liberazione, a cura di Guido Neppi Modona, Franco Angeli, Milano 1984; Fascisti e collaborazionisti nel Polesine durante l’occupazione tedesca. I processi della Corte d’Assise Straordinaria di Rovigo, a cura di Gianni Sparapan, Marsilio, Venezia 1991; Alessandro Naccarato, I processi ai collaborazionisti, le sentenze della Corte d’Assise straordinaria di Padova e le reazioni
dell’opinione pubblica, in La società veneta dalla Resistenza alla Repubblica, a cura di Angelo Ventura, Cleup, Padova 1997, pp. 563-602.
8. Cfr. Luigi Bernardi, Il fascismo di Salò nelle sentenze della magistratura piemontese, in Giustizia penale e guerra di liberazione, a cura di Neppi Modona, cit., pp. 61-172. Per la precisione gli imputati furono 3.634, di cui 3.197 uomini e 437 donne. Il numero esatto di condannati fu pari a 2.288 (2.072 uomini e 216 donne).
9. Nello studio di Naccarato, I processi ai collaborazionisti, cit., non è preso in considerazione il 1947 nonostante i processi siano proseguiti anche quell’anno; i dati dell’autore sono dunque parziali.
10. Sono molti gli studi che contestano l’efficacia dell’epurazione: tra gli altri cfr. Zara Algardi, Processo ai fascisti, Vallecchi, Firenze 1973 (ed. or. 1958); Marcello Flores, L’epurazione, in L’Italia dalla liberazione alla repubblica, a cura di Guido Quazza, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 413-467; Lamberto Mercuri, L’epurazione in Italia 1943-1948, L’Arciere, Cuneo 1988; Domenico Roy Palmer, Processo ai fascisti. 1943-1948: storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano 1996; Romano Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini&Castoldi, Milano 1999. La pensano in modo differente, seppur parzialmente, Woller, I conti con il fascismo, cit., e Giovanni Montroni, The professors in and after the fascist regime. The purges in the universities of Italy (1944-1946), «Journal of modern Italian studies», 2009, n. 3, pp. 305-328.
11. Vi sono comunque alcune eccezioni. L’epurazione dei professori universitari, ad esempio, è stata studiata da Montroni, The professors in and after the fascist regime, cit., e Id., Professori fascisti e fascisti professori. La revisione delle nomine per alta fama del ventennio fascista (1945-1947), «Contemporanea», XIII (2010), n. 2, pp. 227-259. Sui magistrati si veda Giovanni Focardi, Le sfumature del nero: sulla defascistizzazione dei magistrati, «Passato e Presente», 2005, n. 64, pp. 61-87. Sull’epurazione nei ministeri si veda: Guido Melis, Note sull’epurazione nei ministeri (1944-1946), «Ventunesimo secolo», 2003, n. 4, pp. 17-52. Sui prefetti si veda Valeria Galimi, L’épuration des préfets dans la transition après la guerre en Italie, in Fonctionnaires dans la tourmente, a cura di Marc Bergère e Jean Le Bihan, coll. Equinoxe, Genève 2009, pp. 263-281. Sul ruolo di giudici e legali nel processo di epurazione si veda Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione, a cura di Giovanni Focardi e Cecilia Nubola, Il Mulino, Bologna
2015. Per il caso veneto si veda Marco Borghi, Tra fascio littorio e senso dello stato: funzionari, apparati, ministeri nella Repubblica sociale italiana, 1943-1945, Cleup, Padova 2001 e Carlo Monaco, Dei doveri che il pubblico ufficio mi impone: burocrazie statali e ceti di governo nel Veneto dal fascismo al dopoguerra, tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari di Venezia, Dottorato in Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea, XXI ciclo [2010].
Andrea Martini, Il collaborazionismo femminile a Verona tra guerra e Liberazione (1943-47) in (a cura di) Nadia Olivieri, Santo Peli e Giovanni Sbordone, I tanti volti del 1943-45. Storia, rappresentazione e memoria, Venetica, n. 32, 2015

martedì 6 settembre 2022

I GAP dipendono esclusivamente dal PCI


Decisivo per la creazione dei GAP è quel nucleo ristretto di militanti e dirigenti comunisti che, forte dell’esperienza della concreta organizzazione della lotta armata di città, compiuta tra l’autunno del 1942 e i primi mesi del 1943 nella Francia meridionale, soprattutto a Lione e a Marsiglia, importa in Italia la conoscenza acquisita.
Così si esprime Giorgio Amendola: "L’esperienza di lotta armata vissuta a Marsiglia fu molto importante per gli sviluppi futuri della guerra partigiana in Italia. […] quando si trattò di iniziare a Roma la lotta armata, io mi ricordai delle lezioni marsigliesi di Ilio [Barontini <25, N.d.A.] e cercai di metterle a profitto" <26.
Parimenti, Francesco Scotti <27: "A Parigi, Marsiglia, Lione, Tolosa, Nizza, Grenoble, Bordeaux e in tante altre città francesi, gli invasori tedeschi e i loro collaboratori da tempo ormai venivano colpiti con ogni mezzo e in ogni luogo dai Francs tireurs et partisans. Molti antifascisti italiani si onoravano di militare nelle file dei FTP. Fu quella per noi un’esperienza preziosa" <28.
Come detto, i gappisti combattono secondo le modalità classiche del terrorismo, ovvero sia con uccisioni mirate ed esemplari di singoli individui, quali quadri militari, spie e altre figure ritenute pericolose, sia con attentati dinamitardi contro sedi, installazioni e luoghi di svago del nemico nazifascista. Per il contesto in cui è sorto e per gli obiettivi per cui si è battuto, il terrorismo resistenziale esula nettamente dal significato che il termine ha assunto, dagli anni Settanta fino ai giorni nostri, di «violenze intimidatorie contro alte personalità del mondo economico, politico e statale in generale, e di attentati dinamitardi contro la popolazione civile, circondando così di una valenza criminale e sinistra vocaboli che nella storia dei movimenti di liberazione dei vari paesi hanno avuto e sono stati usati in un’accezione affatto diversa» <29. Il terrorismo urbano, proprio dei GAP, è «la punta estrema della reazione armata al nazifascismo, con motivazioni e implicazioni lontane tanto da quelle degli attentatori ottocenteschi quanto da quelle dei terroristi degli anni settanta e ottanta del Novecento» <30. Esso rappresenta «una tappa obbligata per chiunque intenda creare le condizioni favorevoli alla nascita e allo sviluppo di una lotta armata di massa. Se si sceglie di non delegare la liberazione a forze esterne, l’asimmetria di quelle in campo e il soffocamento delle libertà democratiche non consentono alternative valide» <31.
Nell’importare in Italia la pratica del terrorismo urbano, il PCI opera una scelta ritenuta necessaria, per quanto dolorosa, nella convinzione che: "Il terrore instaurato dal nemico poteva essere spezzato soltanto col terrorismo partigiano, unito a una decisa azione di massa. Se il terrorismo individuale e isolato poteva come tale essere facilmente battuto, di fatto neppure l’azione di massa da sola poteva bastare: per battere il terrore nemico occorreva sostenere e rafforzare l’azione delle masse con la lotta armata. Quella dei G.A.P. era la forma più valida di lotta armata che si potesse portare nel cuore delle città occupate" <32.
1.4 Il retroterra della guerra civile spagnola
Oltre alla militanza nei FTP, un altro rilevante background di cui possono giovarsi uomini quali, ad esempio, Ilio Barontini, Ateo Garemi <33, Francesco Scotti ed Egisto Rubini <34, che giocano un ruolo di primo piano nell’organizzazione iniziale e nello sviluppo dei nuclei gappisti nell’Italia settentrionale, è la guerra combattuta in Spagna tra 1936 e 1939. La ribellione dei reparti dell’esercito di stanza in Marocco nei confronti del governo repubblicano di Spagna, iniziata il 17 luglio 1936, alla cui guida si erge ben presto il generale Francisco Franco <35, rappresenta il casus belli. All’immediata internazionalizzazione del conflitto contribuisce il sostegno militare di Germania ed Italia ai militari golpisti, cui l’Unione Sovietica risponde con l’invio di materiale bellico e consiglieri militari. Il 29 settembre il Comintern <36 autorizza la formazione delle Brigate internazionali, unità militari composte da battaglioni di gruppi di volontari di diverse nazionalità, ed il 22 ottobre Francisco Largo Caballero, primo ministro del governo repubblicano spagnolo, a sua volta ne approva la costituzione.
Di lì a pochi giorni, in seguito all’accordo politico tra PCd’I, PSI e PRI, nasce il battaglione italiano, intitolato a Garibaldi, decisione «funzionale alla volontà di trovare un consenso diffuso e trasversale tra le diverse correnti politiche che convivevano al suo interno. Fu nel nome di Garibaldi e della tradizione risorgimentale italiana che i partiti antifascisti invocarono la loro unità e impostarono la campagna di reclutamento» <37.
Il momento topico per i volontari antifascisti italiani è rappresentato dalla battaglia di Guadalajara, che ha luogo tra 8 e 23 marzo 1937. In questo scontro, in cui i sostenitori della repubblica riescono a contrastare vittoriosamente l’offensiva franchista verso Madrid, si combattono, per la prima volta, italiani fascisti e antifascisti, i primi facenti parte del Corpo Truppe Volontarie <38, i secondi del battaglione Garibaldi, inserito all’interno della XII Brigata. L’importanza che tale battaglia assume, più per i suoi risvolti politici che militari, è ben evidenziata dall’enfasi retorica di Luigi Longo: "La vittoria dei garibaldini rappresentò un prezioso investimento sul piano dell’esperienza politica e della capacità di combattimento degli antifascisti. […] Comprendemmo allora che i fascisti potevano essere battuti in ogni campo e su tutti i piani; comprendemmo che lo slancio combattivo, la certezza degli ideali e la fantasia politica organizzativa, potevano ben compensare la disparità dei mezzi di lotta a disposizione. Traemmo da quell’evento nuova fiducia nelle nostre possibilità, nuovo stimolo a non cessare mai la lotta, a prepararci anche per la prospettiva della riscossa definitiva contro il fascismo" <39.
Malgrado gli esiti del conflitto, conclusosi con la sconfitta delle forze repubblicane e l’instaurazione di un regime dittatoriale da parte di Franco, esso va a costituire un significativo bagaglio esperienziale per i suoi partecipanti:
"Se è vero che in terra spagnola il fascismo fece la prova generale della successiva aggressione all’Europa è altrettanto vero che in Spagna si formarono, si temprarono i valorosi combattenti della Resistenza italiana ed europea. […] Ed è proprio in virtù degli antifascisti italiani delle Brigate Internazionali che la Resistenza italiana potè contare, fin dall’inizio, su molti uomini politicamente e militarmente preparati, pronti cioè ad affrontare con mezzi di
fortuna un nemico bene organizzato" <40.
1.5 Le caratteristiche dei GAP
Come affermato da Francesco Scotti, i GAP sono un’organizzazione strutturata su nuclei base composti da tre a cinque elementi: "Tre-quattro uomini e un capo squadra costituivano un GAP; tre o più gruppi un distaccamento GAP, con un comandante e un commissario politico. Solo i componenti della stessa squadra erano in contatto tra di loro, quasi sempre senza conoscere il nome vero dei compagni di gruppo, ma soltanto quello di battaglia. Il capo squadra era collegato con il comandante e il commissario di distaccamento" <41.
I GAP dipendono esclusivamente dal PCI. Mentre le brigate Garibaldi sono aperte a combattenti di ogni opinione e credo politico, nei Gruppi di azione patriottica vengono reclutati esclusivamente i comunisti. I candidati ad entrare nei GAP vanno trovati, contattati con cautela e vagliati per quel che riguarda motivazioni ed affidabilità. Combattere in pieno giorno in città, laddove il controllo nazifascista è più capillare ed asfissiante, richiede coraggio, prontezza di riflessi, freddezza, capacità di dominare la paura e stretta disciplina, ma soprattutto una tenuta nervosa tanto forte da sopportare il logoramento che la condizione di clandestinità e di isolamento comporta:
"[…] non a caso vedremo quanto spesso il gappista che ha compiuto un’azione non resista a tornare sul luogo a tendere l’orecchio, al bar, in tram, per strada, per sentire i commenti che la sua azione ha suscitato; e quante volte, e quanti rischi o drammi abbia comportato l’incoercibile bisogno di narrare le proprie imprese: è la mancata socializzazione della propria vita a costituire uno dei massimi problemi del gappismo, e una ragione intima della sua scarsa durata" <42.
Sono leggerezze di questo tipo che, spesso, comportano fatali cadute ed arresti a catena tra le file dei gappisti. Ed è contro tali devianze di condotta che si scaglia Giovanni Pesce <43, in quel momento comandante gappista a Milano, nel luglio 1944: "Per la salvaguardia di ogni membro e per la salvaguardia dell’organizzazione, ogni gappista deve evitare di tenere relazioni superflue e di dare luogo a sospetti sulla sua attività. […] Se si pensa di essere seguiti non andare all’appuntamento: è meglio perdere un appuntamento che fare arrestare dei compagni. […] Risulta che dopo aver fatta l’azione i GAP che hanno partecipato, vanno a vedere sul luogo come è riuscita l’azione, si deve categoricamente proibire questo stato di cose. Dopo l’azione i GAP devono tornare nelle proprie case e non uscire per nessun motivo. […] Deve cessare che ogni giorno alcuni GAP vanno al caffè a giocare a carte, o divertirsi al cinema o ritrovi" <44.
Il primo passo per entrare in clandestinità consiste nel lasciare il lavoro e le certezze minime che esso comporta, quali permessi di circolazione e tessere annonarie. Un simile atto, di per sé molto arduo, risulta ancor più difficoltoso per chi abbia una famiglia a carico. Tuttavia, anche tra i giovani privi di moglie e figli, «chi per validi motivi familiari, chi per il timore di non saper resistere alle torture in caso di arresto o per altre buone ragioni, molti preferivano andare a combattere in montagna piuttosto che fare la guerriglia in città» <45. Questo in quanto il centro urbano «non è il microcosmo della banda, dove la condivisione del pericolo lo fa sembrare minore o pare renderlo più affrontabile. […] In città, c’è soltanto la claustrofobica consapevolezza di ritrovarsi da solo in mezzo a una realtà insidiosa e a un nemico che può celarsi ovunque» <46. Per questi motivi, il reclutamento gappista risulta sempre problematico. L’esiguità del bacino da cui attingere «gli arditi della guerra di liberazione, i soldati senza divisa, i più audaci, i più rapidi e pronti» <47, connesso all’urgenza dell’azione immediata a tutti costi, porta, in molti casi, al venir meno di una selezione meditata e rigorosa, con il rischio di prendere in considerazione anche candidature di aspiranti gappisti che, in seguito, si sarebbero rivelati inaffidabili o non all’altezza del compito assegnato loro.
 


[NOTE]
25 Ilio Barontini (1890-1951). Fu consigliere comunale e segretario della sezione comunista di Livorno. Perseguitato dal regime fascista, nel 1931 espatriò in Francia. Fu inviato in Russia e, nel 1936, in Spagna, dove fu commissario politico del battaglione Garibaldi, divenendone comandante nella battaglia di Guadalajara. Fu combattente in Etiopia e organizzatore dei FTP in Francia. Ispettore e istruttore itinerante del PCI nel corso della Resistenza, nel 1944
divenne comandante del CUMER, in AA. VV., Ear, vol. I, La Pietra, Milano 1968, p. 251.
26 Amendola, Lettere a Milano, cit., pp. 61-62.
27 Francesco Scotti (1910-1973). Fu studente di medicina a Milano. Arrestato, restò in carcere dall’ottobre 1931 al settembre 1934. Espatriò in Francia, combatté nella guerra civile spagnola e nelle file dei FTP. Nel corso della Resistenza, diresse le formazioni garibaldine prima in Lombardia e poi in Piemonte, in Giannantoni e Paolucci, Giovanni Pesce “Visone” un comunista che ha fatto l’Italia, cit., p. 65.
28 Scotti, La nascita delle formazioni, in Comitato per le celebrazioni del XX anniversario della Resistenza (a cura di), La resistenza in Lombardia, cit., p. 69.
29 Luigi Borgomaneri, Li chiamavano terroristi. Storia dei Gap milanesi (1943-1945), Unicopli, Milano 2015, p. 58.
30 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 493.
31 Borgomaneri, Li chiamavano terroristi, cit., p. 57.
32 AA. VV., Ear, vol. II, La Pietra, Milano 1971, p. 475.
33 Ateo Garemi (1921-1943). Emigrato in Francia con la famiglia, combatté in Spagna e nei FTP. Fu organizzatore e primo comandante dei GAP di Torino. Arrestato in seguito a una delazione, venne fucilato insieme a Dario Cagno il 21 dicembre 1943, in Peli, Storie di Gap, cit., p. 32.
34 Egisto Rubini (1906-1944). Muratore, emigrato in Francia per sfuggire alle persecuzioni fasciste, fu volontario in Spagna e comandante dei FTP. Rientrato in Italia, organizzò i GAP milanesi. Fu arrestato il 19 febbraio 1944 e si suicidò in carcere per timore di non resistere ancora alle torture cui era già stato sottoposto, in Ivi.
35 Francisco Franco Bahamonde (1892-1975). Generale che, con la vittoria nella guerra civile del 1936-1939, instaurò in Spagna una dittatura militare, durata fino alla sua morte, in Giannantoni e Paolucci, Giovanni Pesce “Visone” un comunista che ha fatto l’Italia, cit., p. 261.
36 La Terza Internazionale, nota anche con il nome di Comintern (Internazionale Comunista), fu l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti, attiva dal 1919 al 1943.
37 Leonardo Pompeo D’Alessandro, Guadalajara 1937. I volontari italiani fascisti e antifascisti nella guerra di Spagna, Carocci, Roma 2017, p. 95.
38 Nel febbraio 1937, in sostituzione della Missione militare italiana in Spagna che aveva gestito l’intervento fino a quel momento, fu costituito il CTV, un corpo di spedizione composto da 4 divisioni, al comando del generale Mario Roatta.
39 Il saluto di chiusura dell’on. le Luigi Longo, in AA.VV., Guadalajara e Ilio Barontini, Debatte, Livorno 1977, pp. 48.
40 Giovanni Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, Milano 1967, p. 9.
41 Scotti, La nascita delle formazioni, in Comitato per le celebrazioni del XX anniversario della Resistenza (a cura di), La resistenza in Lombardia, cit., p. 71.
42 Peli, Storie di Gap, cit., p. 41.
43 Giovanni Pesce (1918-2007). Ancora bambino, emigrò in Francia con la famiglia. Combatté nella guerra civile spagnola, rientrò in Italia nel 1940, fu arrestato ed inviato al confino a Ventotene. Liberato dopo il 25 luglio 1943, entrò a far parte dei GAP, prima a Torino e poi a Milano, in DBI, ad nomen, consultato il 26-06-2019.
44 Giovanni Pesce (Visone), Il comandante dei GAP di Milano, Visone, ai comandanti e commissari dei distaccamenti GAP del 17-07-1944, in Gabriella Nisticò (a cura di), Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, vol. II, Giugno-novembre 1944, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 139-140.
45 Scotti, La nascita delle formazioni, in Comitato per le celebrazioni del XX anniversario della Resistenza (a cura di), La resistenza in Lombardia, cit., p. 69.
46 Borgomaneri, Li chiamavano terroristi, cit., pp. 54-55.
47 Mario De Micheli, 7ª Gap, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 58
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Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019

sabato 3 settembre 2022

Sia la pittura industriale di Pinot-Gallizio sia le ricerche per un'architettura liberata di Jorn e Constant saranno centrali per la pratica e le teorie situazioniste dei primi anni


È durante una riunione del Mouvement nel 1955 che Asger Jorn e Giuseppe Pinot-Gallizio si incontrano e danno vita al “Laboratorio sperimentale” che avrà sede nello studio di Pinot-Gallizio ad Alba e che avrà un ruolo cardine come centro degli incontri e manifestazioni internazionali che - in risposta all'affermarsi dell'arte funzionalista, tesa a fare dell'artista un servo dell'industria - diedero inizio a una ricerca teorica finalizzata alla costruzione di un'arte antagonista alla società e ai suoi valori commerciali e standardizzati <3.
Pinot-Gallizio si concentrò quasi esclusivamente sulla produzione di pitture industriali (allo scopo di dimostrare come le nuove tecnologie potessero e dovessero servire alla realizzazione di situazioni ludiche, antieconomiche e completamente inutili, oltre che allo scopo di inflazionare il mercato delle pitture stesse) <4, Jorn e Constant si dedicarono invece prevalentemente alle ricerche in campo architettonico.
Sia la pittura industriale di Pinot-Gallizio sia le ricerche per un'architettura liberata di Jorn e Constant saranno centrali per la pratica e le teorie situazioniste dei primi anni e verranno ampiamente argomentate in numerosi articoli della rivista.
È grazie a Enrico Baj <5 - anche lui artista e sostenitore della necessità di un'arte che fosse attivamente protagonista nell'imprescindibile conflitto per i mutamenti sociali - che il Mouvement entrerà finalmente in contatto con l'Internationale Lettriste <6 di Guy Debord. Quest'ultima parteciperà al “Primo Congresso mondiale degli Artisti liberi” organizzato dal Laboratorio Sperimentale di Alba e i due gruppi si scopriranno subito accomunati da innumerevoli interessi e obiettivi. Durante l'incontro verrà stesa una «piattaforma comune per definire la totalità dell'esperienza in corso» in cui si stabilirà la "necessità di una costruzione integrale della vita per mezzo dell'Urbanistica Unitaria, volta ad utilizzare l'insieme delle arti e delle tecniche moderne; l'inutilità di qualsiasi rinnovamento dell'arte dall'interno dei suoi confini tradizionali; il riconoscimento di una interdipendenza essenziale tra l'Urbanistica Unitaria e un nuovo modo di vita a venire; [la necessità di porre] questo modo di vita nella prospettiva di una maggiore libertà complessiva e di un più grande dominio sulla natura; l'unità di azione fra i firmatari del programma; l'enumerazione delle diverse modalità di reciproco appoggio". (La piattaforma d'Alba, in Potlatch, n. 27, 2 novembre 1956)
L'Internationale Lettriste portava già avanti, attraverso la pubblicazione dell'opuscolo Potlatch, ricerche sull'urbanismo unitario, sulle pratiche della deriva e sugli esperimenti psicogeografici: tali interessi, unitamente alle esperienze ad essi connesse di sperimentazione creativa del tempo e dello spazio, non potevano non convergere con gli studi di Jorn, Constant e Pinot Gallizio e non diventare l'elemento di unione tra i due gruppi.
A tutto questo l'Internationale Lettriste aggiungeva l'attenzione ai “loisirs” - nella duplice accezione di divertimenti e di tempo libero - come problema centrale per la lotta di classe, tutta giocata ormai proprio sul terreno del controllo e dell'organizzazione del tempo libero e del suo impiego, tempo libero che si accresceva sempre di più proporzionalmente allo sviluppo tecnico nella produzione.
"[…] La ricerca dell'Internationale Lettriste diede maggiore impulso al Laboratorio sperimentale di Alba, impegnato nella sperimentazione di una «nuova architettura per la vita». Infatti, l'interesse dell'Internationale Lettriste per […] la critica dell'architettura e dell'urbanistica si concentrò in un'analisi critica dei fattori che - in seguito alla ricostruzione postbellica - stavano uniformando l'habitat urbano, pianificando e condizionando la vita dei cittadini <7 sul «modello prefabbricato» di matrice U.S.A. e secondo l'unico principio dell'utilità".
L'incontro tra il Mouvement e l'Internazionale Lettrista - e il loro comune interesse per un'urbanistica e un'architettura fondate sulle passioni umane, insieme alla volontà di saldare la ricerca artistica alla critica rivoluzionaria della società - determinò il principiarsi dell'esperienza situazionista. Quest'ultima è dunque frutto di quel percorso di ricerca delle diverse avanguardie artistiche post surrealiste unite dal comune intento di costituire una nuova (e ultima) Internazionale di artisti liberi contro le tendenze retrograde e conservatrici in campo culturale <8 e di mettere radicalmente in discussione l'ordine sociale vigente.
L'“Internationale Situationniste” nasce ufficialmente il 28 luglio 1957 a Cosio d'Arroscia, un paesino in provincia di Imperia, durante il piacevole soggiorno di Guy Debord, Michèle Bernstein, Ralph Rumney, Asger Jorn, Pinot Gallizio <9, Walter Olmo ed Elena Verrone (un gruppo realmente cosmopolita di artisti e intellettuali) nella casa di famiglia di Piero Simondo, tra qualche bicchiere di vino buono, utopie amorose e disertori dell'arte mercantile […] un gruppo di artisti avvezzi alla disobbedienza e poco inclini alla mondanità del successo […] gettano lì i fiori, le pietre e gli architravi dell'Internazionale Situazionista <10.
L'anno seguente uscirà a Parigi il primo numero di 'Internationale Situationniste', la rivista semestrale di diffusione delle teorie e delle pratiche del gruppo.
In un clima bizzarro e festoso, ampiamente innaffiato dal dolcetto locale, ribattezzato da Debord “cosiate”, con il sottofondo musicale dei Platters e di Vivaldi, fu discussa e approvata la proposta di scioglimento dei gruppi preesistenti e la loro confluenza nella nuova organizzazione <11.
Nel Rapport sur la construction des situations et sur les conditions de l’organisation et de l’action de la tendance situationniste, presentato da Debord ai compagni della “Conferenza” di Cosio, si legge:
"L'unione di diverse tendenze sperimentali per un fronte rivoluzionario nella cultura, cominciata al Congresso tenuto ad Alba, in Italia, alla fine del 1956, presuppone che noi non trascuriamo tre fattori importanti. In primo luogo, si deve esigere un completo accordo tra le persone e tra i gruppi che partecipano a questa azione unita; e non facilitare questo accordo permettendo si dissimulino alcune conseguenze. Si devono cacciare i buffoni e gli arrivisti che abbiano l'incoscienza di voler procedere su una tale via. In seguito, si deve ricordare che se ogni attitudine realmente sperimentale è utilizzabile, l'impiego abusivo di questa parola ha molto spesso cercato di giustificare un'azione artistica in una struttura attuale, cioè trovata prima da altri. Il solo procedimento sperimentale valido si fonda sulla critica esatta delle condizioni esistenti, e sul loro deliberato superamento. Deve essere chiaro, una volta per tutte, che non si può chiamare creazione ciò che non è che espressione personale in un quadro creato da altri. La creazione non è combinazione di oggetti e di forme, ma l'invenzione di nuove leggi su tali combinazioni. Infine, si deve liquidare tra di noi il settarismo, che si oppone all'unità d'azione con possibili alleati, per scopi definiti, che impedisce l'infiltrazione di organizzazioni parallele".
E ancora,
"Insieme dobbiamo eliminare tutte le sopravvivenze del passato prossimo. Oggi riteniamo che un accordo per un’azione unitaria dell’avanguardia rivoluzionaria nell’ambito della cultura debba essere condotto sulla base di un tale programma. Non possediamo ricette né risultati definitivi. Proponiamo soltanto una ricerca sperimentale da condurre collettivamente verso alcune direzioni che stiamo definendo in questo momento e verso delle altre che devono essere ancora definite" <12.
Il Rapport... doveva quindi servire da base per traghettare le esperienze dei vari gruppi in un unico movimento. Si trattava di un testo che Debord aveva stampato a Parigi poco più di un mese prima e che, a quanto pare, almeno così ebbe a dire Piero Simondo, non venne mai discusso né approvato nei due giorni di Cosio. In ogni caso, il Rapport... viene generalmente identificato come la carta costitutiva dell’I.S. (e Debord lo definiva esplicitamente l’expression théorique adoptée à la conference de fondation de l’Internationale situationniste) e nella prefazione al Rapporto... pubblicato a Torino nel maggio 1958 da «Notizie», lo stesso Pinot-Gallizio scrive:
"Il rapporto di Debord è stato pubblicato a Parigi, nel giugno 1957, in quanto documento preparatorio per una conferenza di unificazione che doveva riunire il mese seguente l'Internazionale Lettrista, il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista e un Comitato psico-geografico di Londra. I delegati di questi movimenti alla conferenza di Cosio d'Arroscia (27-28 luglio 1957) hanno fondato l'Internazionale Situazionista. Tale organizzazione ha in questo momento sezioni in Algeria, Belgio, Francia, Germania, Italia e Scandinavia. Dobbiamo dunque intraprendere traduzioni e riedizioni in ciascuno di questi paesi […]. Bisogna capirci subito, perché le nostre esperienze andranno sempre più lontano".
Il Rapport..., in cui si esplicita la necessità di superare i movimenti d'avanguardia formatisi dopo il 1945 - e che si chiude a tal proposito con la frase «si sono interpretate a sufficienza le passioni: si tratta ora di trovarne di altre», si apre invece con un'affermazione che fa risaltare da subito, è bene mettere le cose in chiaro, quale fosse l'intento fondante del futuro movimento situazionista:
"Noi pensiamo innanzitutto che bisogna cambiare il mondo. Noi vogliamo il cambiamento più liberatorio della società e della vita in cui ci troviamo rinchiusi" <13.
È una frase che, come sottolinea anche Sandro Ricaldone nel sopracitato articolo, rimanda all'asserzione di Breton «Transformer le monde», a dit Marx ; «Changer la vie», a dit Rimbaud : ces deux mots d’ordre pour nous n’en font qu’un», e che sancisce "la necessità di un'arte imperniata sulle ricerche per un'azione diretta sulla vita quotidiana nell'ambito delle sole costruzioni che in definitiva ci interessano: situazioni capaci di sconvolgere tutti gli astanti".
L'intento principale è dunque quello di trasformare la vita quotidiana in una vita di qualità superiore, è questo il vero e unico compito dell'artista:
"Un'azione rivoluzionaria nella cultura non potrà avere come scopo tradurre o spiegare la vita, ma ampliarla. Si deve far arretrare l'infelicità ovunque. Con lo sfruttamento dell'uomo devono morire le passioni, le compensazioni e le abitudini che ne erano i prodotti. Si deve intraprendere ora un lavoro collettivo organizzato, tendente a un impiego unitario di tutti i mezzi di stravolgimento della vita quotidiana". <14
È un testo importante, che porta in grembo le principali tematiche in seguito sviluppate dall'I.S. e che facevano già parte, per lo più, del corredo delle pratiche elaborate dall’Internationale Lettriste: la dérive e la psicogeografia, il détournement, l'urbanismo unitario e la costruzione di situazioni.
"Noi dobbiamo mettere avanti le parole d'ordine dell’urbanismo unitario, del comportamento sperimentale, della propaganda iperpolitica, della costruzione di ambienti" <15.
L'idea di situazione viene inoltre qui connessa al concetto di spettacolo, introdotto nella sua prima formulazione e destinato a diventare il cardine della lucida analisi di Debord:
"la costruzione di situazioni comincia al di là del crollo moderno della nozione di spettacolo. È facile vedere in che modo sia legato all'alienazione del vecchio mondo il principio stesso di spettacolo: il non-intervento. […] La situazione è così fatta per essere vissuta dai suoi stessi costruttori". <16
Ma la novità più ricca di futuro del Rapport, non sta forse in questo […], quanto piuttosto nella cornice di analisi sociale e politica che Debord disegna attorno alle ipotesi d’azione dell’Internazionale situazionista: lo scenario di una società che non ha saputo comprendere le trasformazioni epocali in atto e che (non molto diversamente da oggi) rimane costretta in logiche superate anziché affrontare il nodo di una rivoluzione necessaria <17.
[NOTE]
3 Gianfranco Marelli, L'ultima internazionale, i situazionisti oltre l'arte e la politica, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 31
4 Dopo la sua morte Michèle Bernstein dirà che la pittura di Pinot Gallizio, “odorante o ludica”, era destinata a realizzare il superamento e la distruzione dell'oggetto pittorico. Altri evidenzieranno invece come il suo lavoro fosse immerso in una “pratica inflattiva tesa a provocare l'azzeramento del valore di scambio”.
5 «L'evoluzione in arte non è mai esistita; i mutamenti, sì. Ed è proprio l'avanguardia che mette in causa il sistema: il conservatore, invece, lo mantiene... a che varrebbe l'invenzione estetica mentre quello [Giuseppe “Pino” Pinelli... ] sta lì sfracellato per terra, in mano alla polizia, quella stessa che difende le nostre proprietà e incolumità e i nostri vernissages e non siamo forse tutti responsabili con le nostre convenzioni, con il nostro conformismo, colla sifilide mentale delle tradizioni e dei pregiudizi, che ancora oggi, dopo millenni, reclamano il capro espiatorio? E loro in via Fate Bene Fratelli te lo danno il capro, se proprio lo vuoi» (Enrico Baj).
6 L'Internationale lettriste nasce nel '52 a seguito della scissione - sollecitata proprio da Debord - di alcuni membri dell'ala di sinistra del movimento lettrista di Isidore Isou e si caratterizza subito per la stretta connessione stabilita tra ricerca artistica e critica rivoluzionaria della società.
7 Gianfranco Marelli, L'ultima internazionale, i situazionisti oltre l'arte e la politica, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 32, 33
8 Gianfranco Marelli, L'ultima internazionale, i situazionisti oltre l'arte e la politica, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 15
9 Partigiano della Resistenza e ora partigiano della “pittura industriale”, farmacista cattolico, assessore comunale...scompare improvvisamente nel 1964. Si porta dietro i baffi da zingaro e la bellezza cospiratrice della sua vita/opera, dove il sovvertimento culturale è inscindibile dal disvelamento della falsa felicità della società corrente. Pino Bertelli, Guy-E. Debord, Il cinema è morto, La Fiaccola, Ragusa, 2005, p. 33
10 Pino Bertelli, Guy-E. Debord, Il cinema è morto, La Fiaccola, Ragusa, 2005, p. 31
11 Sandro Ricaldone, La calata dei situazionisti a Cosio, http://www.alfabeta2.it/2014/07/27/calatadei-situazionisti-cosio/ [n.d.r.: pagina Web oggi visibile a questo link]
12 Guy-E. Debord, Rapport ..., in Guy Debord, OEuvres, Quarto Gallimard, 2006, pp. 321, 322 e 327
13 Guy-E. Debord, Rapport ..., in Guy Debord, OEuvres, Quarto Gallimard, 2006, p. 309
14 Guy-E. Debord, Rapport ..., in Guy Debord, OEuvres, Quarto Gallimard, 2006, pp. 320, 321
15 Ibidem, p. 328
16 Ibidem, p. 325
17 Sandro Ricaldone, articolo citato

Serena Becherucci, Guy Debord e l'Internazionale Situazionista: pensieri e "derive" nella società dello spettacolo, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2013/2014