|
Una vista da Seborga (IM)
|
Ricordavo Ventimiglia
di trent’anni fa: una stazione grande, lunga; noiosa e burocratica;
senonchè sui marciapiedi si incontravano doganieri italiani e francesi; e
questa era una novità per lo spirito giovane. Anche fuori se ne
incontrava qualcuno, che tra due servizi ciondolava sulle panchine del
grande viale di palme che andava al mare, lungo il mercato dei fiori.
Tra qualche palma rimasta, quel viale oggi è diventato di platani, e la
stazione è più bella. Ho cercato là in fondo la vecchia passerella di
legno che cavalcava la foce del Roja; ce n'é un’altra di cemento. Non ho
voluto vedere altro che la lunata, derelitta spiaggia di ciottoli che
geme di sporchi relitti, slabbrata dalla foce del fiume: sempre eguale.
Dal breve frangiflutto di massi ho ficcato gli occhi lungo l’ispido
letto ciottoloso, verso le Alpi, per la cara via che porta al colle di
Tenda: cara Liguria estrema, Liguria di monte! [...] Sboccavo in paesi, Ventimiglia alta, Bordighera
alta, e più lontano, dalle strade boscose, a Sasso, a Seborga, e
scoprivo nelle vie ripide la vena dell’antico esistere paesano, quando
avevo appena lasciato il chiasso motorizzato e le nudità multicolori
della Riviera; e tra le case vecchie l’antico silenzio, nelle chiese
spesso maestose, e nell’ora meridiana deserte, una capacità d’attesa
infinita, perchè la fede non si misura con le statistiche, la verità è
miracolo. La stessa letteratura ligure, splendidamente fiorita in questo secolo
sulle due coste (di ponente e di levante), dal tempo di “Riviera Ligure” e dei primi accenti di Mario Novaro per venire a Sbarbaro, a Boine, quindi al primo Montale (il più ligure), a Barile, Grande, Descalzo, Caproni,
coi movimenti attivissimi di altre riviste come “Circoli”, come
“Maestrale”, e poi rinnovata dopo la guerra coi narratori della
resistenza (a Bordighera è Seborga)
e i giovani di questi anni, anch’essa ha agito con questi medesimi
caratteri, di assidua ripresa e cultura del tessuto della civiltà
letteraria nazionale che andava a marcire nel disfarsi dei vuoti
estetismi; e lo ha fatto quasi al margine, con una operazione
penetrante, col rimedio di una sanità, di una schiettezza senza riserve o
finzioni, sull’opera viva inserendo le sue migliorie, quasi in
cantiere, senza chiasso di demolizioni: quanto meglio, si osservi, tra
il ’15 e il ’30 dei suoi futuristi, o dello strapaesanesimo fiorito in
Toscana. La virtù ligure nasce lì, si fa riconoscere per tale, ma ha una
fioritura più diligente, se meno vistosa, una mira più lontana, dello
spiccato individualismo toscano di allora: e quasi si direbbe, più
pensiero delle basi su cui costruisce, di ciò che sarà, della eredità da
lasciare. [...] Carlo Bo
è venuto ad essere uno degli spiriti più preziosi dell’Italia moderna:
la cui informazione e documentazione, e le cui proposte per il futuro,
sono fatte sul vivo d’una ricerca spirituale fondata su un patrimonio
autentico, su dei beni reali. Ricordo, nell’anticamera dello studio
notarile paterno, la buona gente che s’aspettava l’entrata, come usa,
col pugno chiuso nell’altra palma aperta, la testa china, quasi
stringendo nel gesto gli interessosi pensieri: e accompagnando Carlo più
giovane, ma grande e grosso anche allora, per le strette vie dietro il
porticciolo di Sestri, quel ricambio fitto ma schivo di saluti che lo
accompagnava, sugo di conoscenza vecchia, di meritata stima e di
familiare rispetto. Su queste basi di probità, tra l’altro, è nato a Bordighera in questi anni il premio letterario “Cinque Bettole”, che si circonda di altri di pittura e di giornalismo. Quello letterario fu vinto l’anno scorso da Giacomo Natta,
originale ed estroso scrittore in cui si raccoglie, si può dire
tradizionalmente, lo spirito vivo dei rapporti tra la letteratura ligure
militante e la migliore cultura italiana [...] Vederla, per esempio,
questa pittura; come mai si è formato un centro d’interesse per la
pittura, così vivace ed attivo, a Bordighera. È Giuseppe Balbo,
buon pittore e segretario di tutti i premi, che ha fatto questa sua
scuola; e che spera di animare se avrà i mezzi, un artigianato di
ceramiche artistiche. C’è a Bordighera un gruppo di artisti attivissimo;
e un vivaio di giovani. Mi sono avvicinato ad uno di essi, Maiolino,
che insegna disegno ai ragazzi nelle scuole medie, e ne ottiene dei
risultati eccellenti. Si va da Maria Pia [Pazielli], alla Piccola Libreria, dove si
può sapere sempre qual’è un libro buono, dov’è uno spirito fine, da
quelle parti; e mi ha fissato un appuntamento col giovane pittore. Allo
studio gli ho accennato a ciò che vedevo ripetersi nelle loro pitture di
giovani, lì intorno, di fedeltà al loro paese, di sincerità di
espressione; ed egli mi ha ripetuto, come Camarca, che deve a Balbo,
oltre a tutto, la serietà dell’impegno, la passione per l’onestà del
lavoro. Lontani da Roma, da Milano, da Firenze, senza albagia, pochi
guadagni, punto chiasso, forse ancora modesti artisti, ma veri uomini,
anime vive.
Carlo Betocchi, Rapporto ligure, febbraio 1957
È un merito, il tuo [di Joffre Truzzi], di poesia, del quale tu sai che penso quello che pensa il finissimo amico Natta.
Carlo Betocchi, 1959
È un mare fermo, rosso,
un mare cotto, in un’increspatura
di tegole. È un mare di pensieri.
Arido mare. E mi basta vederlo
tra le persiane appena schiuse: e sento
che mi parla. Da una tegola all’altra,
come da bocca a bocca, l’acre
discorso fulmina il mio cuore.
Il suo muto discorso: quel suo esistere
anonimo. Quel provocarmi verso
la molteplice essenza del dolore:
dell’unico dolore:
immerso nel sopore,
unico anch’esso, del cielo. E vi posa
ora una luce come di colomba,
quieta, che vi si spiuma: ed ora l’ira
sterminata, la vampa che rimbalza
d’embrice in embrice. E sempre la stessa
risposta, da mille bocche d’ombra.
- Siamo - dicono al cielo i tetti -
la tua infima progenie. Copriamo
la custodita messe ai tuoi granai.
O come divino spazio su di noi
il tuo occhio, dal senso inafferrabile.
Carlo Betocchi, Dai tetti, L’estate di San Martino, Mondadori, 1961
Al figliolo
Ritorniamo sulle vie antiche,
ricalchiamo i passi qui, dove
con furore innocente corse
l’infanzia fra i tronchi alle rive,
amorosa di sassi, sulla
terra fulva: perpetuo mòdulo
la sera ritorna alla culla
del mondo, ed anima l’“a solo”
della creatura, e ignoto è il fine
che lo ripercuote lontano
da una medesima mano
sui profili delle colline:
ciò che ci unisce e ci divide
scoscesi su una impervia età,
padri e figliolo, senza fine….
Ora la luna sorgerà,
quale pace attendiamo? Fonte
di una luce che la precede,
come da lei sospinti, il piede
movendo da ciechi pel monte
che ci copre d’ombra, soltanto
vivi di quel che ci separa
ed unisce, andremo anelando
vicini, vòlti a quell’aurora.
Carlo Betocchi, Prime e ultimissime, Mondadori, 1974, pp.143-4
"il passante, il camminante Betocchi appartiene soltanto al vento della poesia e alle sue voci […] quando lo rivediamo ci capita quasi inavvertitamente di guardarlo con quell’antica gratitudine del cuore che ci aveva acceso dentro, al tempo delle prime poesie, insomma con quel sentimento antichissimo di aver ricevuto direttamente, per virtù di natura, la luce della poesia".
Carlo Bo, Introduzione a Carlo Betocchi, Prime e ultimissime, Op. cit.
Ciò che occorre è un uomo
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo
in spirito e verità;
non un paese, non le cose
ciò che occorre è un uomo
un passo sicuro e tanto salda
la mano che porge, che tutti
possano afferrarla, e camminare
liberi e salvarsi.
Carlo Betocchi
Oggi, qualche volta congetturando come mi capita di rado, e spesso dividendo il mio cuore fra i due grandi canoni che possono servire di base alla costruzione della poesia, poesia soggettiva, poesia oggettiva, mi par di capire che la rima è stata il primo grandissimo mezzo per connaturare alla poesia il dono d’una sublime oggettività. La rima è in questo senso tutt’altro che abbandono alla musicalità: è figura dell’oggettività che riflette le grandi e superbamente ordinate costruzioni metafisiche dell’intelletto d’amore. Simula, e riecheggia, nelle sue, le corrispondenze che regolano le grandi forze dell’universo, ed inquadra in esse il discorso fluente e corrusco della vita. […]
Si capisce, e va da sé, che la mia leggerezza non vuole tuttavia dare peso, per i casi miei, a queste vicende che mi capitavano, parallele a tant’altre, come quando, da giovane, la poesia passava come un’allodola per il mio cielo, e la mia crudeltà giovanile le sparava: e mi avveniva, per caso, di non fare cilecca: ma poi era un povero, uno stento pennuto, che raccoglievo. Ebbene, voglio dire che da quei casi pullulanti di parole quasi incomprese nell’atto che le conoscevo, deboli e forti d’amore e di peccati, ho appreso a considerare appunto le parole come un universo di persone straordinariamente libere, e capaci di tutti i tiri.
Carlo Betocchi, Diario della poesia e della rima in Poesie del Sabato, Mondadori, 1980
[...] «questa voce inconfondibile, così simile alla voce segreta e irrecuperata della poesia» <1. (Carlo Bo)
In una delle sue prime lettere a Carlo Bo, nel 1935, Betocchi dichiara di scrivergli dal margine di quegli stati d’animo entrando dentro ai quali troverai pane o poesia: fame o poesia. Io ho bisogno di questo, per scrivere a te; è sempre il minuscolo lago di me stesso che io costeggio […] <2.
Il poeta, che per tutta la vita si considerò primariamente un geometra, si dedica con una passione che ha «sempre presente e calda nel cuore» <3 alla scrittura epistolare, a quella poetica e a quella critica. Con la parola scritta, infatti, egli tenta sempre di costeggiare «il minuscolo lago» del sé e, insieme, di aprire il suo cuore alla verità «che ha per tema il sasso […] perché non siamo che parte del tutto» <4.
A poco a poco negli anni, con le poesie e le numerosissime lettere inviate a Bo e a tanti altri corrispondenti, egli cercherà di affinare la conoscenza di sé e del mondo e, attraverso la pratica quotidiana della scrittura, lavorare su se stesso e sulla propria voce. La poesia e il pane della vita, il lavoro necessario al sostentamento dell’uomo e frutto del suo impegno quotidiano, sono i cardini di un’anima che, come una «luminosa meteora che ascende» <5, si dichiara amorosamente ai suoi fratelli e, «faticosamente», tenta di diventare «l’anima di tutti: / uomini e sassi, ed animali e piante» <6.
Fin dall’infanzia Betocchi impara a riconoscere l’importanza della famiglia e dei luoghi dell’anima: già dal 1906, anche se era nato a Torino, egli si era trasferito a Firenze, città che resterà negli anni «la propria città stabile […], la sede di elezione e di adozione: […] la città di ogni riferimento» <7. È a Firenze, infatti, che conoscerà Bargellini e Lisi, che incontrerà Carlo Bo, Mario Luzi, Leone Traverso, ed è sempre qui che continuerà soprattutto a lavorare e a vivere, nonostante i numerosi spostamenti: come scrive nel 1952, progettando la pubblicazione della nuova rivista fiorentina «Chimera», «possiamo costruire soltanto sul terreno di Firenze» <8.
Solo pochi anni dopo il trasferimento a Firenze, nel 1911, il padre muore e Carlo cresce accanto alla madre, quella che resterà per lui, anche nella vecchiaia, l’immagine della dignità umana e della bontà d’animo di fronte ad ogni difficoltà. Nella poesia Al Caffè, che Betocchi allega alla lettera a Bo del 28 aprile 1966, essa viene così rappresentata:
[…] mia madre, religiosa
natura, sempre pronta per altro a non montare
in boria per la sua età veneranda, che le ridusse
la testa come un caro tentennante birillo
con cui la morte, ed essa con lei, giocava,
giocavano, dico, insieme, come due bambinucce:
tra loro tornano, spesso, certe sorde parole
come: - I’ mi ricordo… - con nell’occhio ed agli angoli
della bocca di chi le rivolge al vicino
un trèmolo, un luccicore biancastro di peli,
e nella gialla cornea, quasi un ghigno, o un rictus
che forse è della stessa carne che già li abbandona,
intrattenibile; […] <9.
Nella figura della madre, infatti, Betocchi condensa la verità della vecchiaia, l’invecchiamento e l’inevitabile deperimento fisico, dunque la vicinanza tra la vita e la morte. Dalla madre, che con la morte gioca amichevolmente come se fossero «due bambinucce», Betocchi impara a non aver paura di questo momento, ma anzi ad accoglierlo, come dirà poi nel 1983, «con un grande senso di allegria» <10. Quando riflette sulla morte, come dice nell’intervista, ma anche nelle lettere a Bo, Betocchi non ha altro che quel senso di allegria trasmessogli dalla sua natura, dalla madre, perché si sente unito all’universo e, alla fine, sarà poi con la madre che lo aspetta per ricongiungersi a lui <11. La figura della madre, con la forza dei toscani e la sua personale allegria, ha saputo infatti affrontare un periodo di ristrettezze economiche e dei «soliti rimedi» <12, dovuto alla morte del padre, che Betocchi non ha mai dimenticato: la povertà, come la morte, fa parte della vita e la sua ammirazione francescana per la povertà, per la figura di San Francesco, al quale la sua poesia è stata spesso accostata <13, passerà dunque anche dall’immagine della madre che vide «prendere le ultime due lenzuola e portarle al monte di pietà per campare, per mangiare» <14.
Come scrive a Bo nella lettera del 22 dicembre 1937, commentando i giorni del Natale che gli giungono «stupendi di conversioni e di interiorità», Ieri mattina il giorno era lucidissimo, gli uccelli volavano via dall’ombra e ad un tratto si circondavano di luci; le case, a Fiesole, come rosei giardini. Viceversa l’uomo si desterà all’alba in una povertà anche più estrema d’ogni possibile povertà; quivi sarà la fonte di tutte le sue ricchezze <15.
La povertà materiale, la sua infanzia e la situazione familiare, in cui ha vissuto, hanno reso Betocchi quel poeta umile, attento alla carità e al dato naturale che si cela dietro lo stesso stile delle lettere inviate a Bo. Anche nel trattare il tema naturale della morte, infatti, Betocchi si mostra sempre, come scrive Carlo Bo, «nell’umile atteggiamento di chi sta per ricevere una grazia e ne fa partecipi gli altri» <16.
[...]
Memore di questa difficile situazione familiare, la giovinezza di Betocchi è legata ai suoi studi tecnici, fino al conseguimento del diploma di perito agrimensore. Il lavoro così amato del contatto quotidiano con la pietra, lungo le strade, e gli anni della scuola, a Firenze, lo hanno condotto anche all’incontro con Piero Bargellini, col quale manterrà un’amicizia lunga una vita e documentata in un altro ricco epistolario <19. Le loro lettere, datate fra il 1923 e il 1938, mostrano al lettore come il rapporto fra i due corrispondenti si sia evoluto. Negli anni l’amicizia e la frequentazione di Bargellini, soprattutto attraverso la collaborazione alle riviste, ha attraversato quello che Maria Chiara Tarsi, nell’introduzione al loro carteggio, ha definito «un momento cruciale per la letteratura italiana, non solo cattolica, come il decennio del “Frontespizio” e dell’ermetismo» <20.
Nel biennio 1923-1924, però, Bargellini, Betocchi e Lisi avevano già organizzano e partecipato al «Calendario dei Pensieri e delle Pratiche Solari», che Bo ha definito «la prima rivista strapaesana molto prima della famosa rivista di Mino Maccari “Il Selvaggio”» <21. Accanto al lavoro per questa prima e comune esperienza redazionale, che è nata da «una posizione di ordine morale e non soltanto letteraria» <22, l’11 maggio 1924 Betocchi, alle prese anche con i suoi primi testi poetici, scriveva già a Bargellini: "Mi hai colto in piena rinascita. Me ne stavo qui chiotto chiotto a covare foco sotto la cenere. Ho una grande smania di seguitare. Fai bene molto a spronarmi e io non so che ringraziarti di vero a amichevolissimo cuore. Le tue buste gialle sono uno squillo per me: dunque non mi dimenticare" <23.
Bargellini rappresenta, per Betocchi, quell’amico e maestro che lo pungola e lo spinge al lavoro, anche nei momenti di abbandono o sconforto, di difficoltà familiari o economiche. Se in questi anni, ancora, non ha incontrato Bo, che poi diverrà uno dei suoi destinatari e maestri prediletti, la corrispondenza con Bargellini registra le modalità di revisione e pubblicazione dei primi testi poetici betocchiani. Betocchi utilizza fin da subito la scrittura epistolare per conoscere meglio se stesso e il 7 novembre 1927 scrive a Bargellini: "il nostro primo dovere è dunque questo: di vivere seriamente, come si conviene a noi uomini. Il nostro primo dovere è anche, dunque, di curare i nostri obblighi familiari, soddisfare alle nostre arti, ai nostri mestieri, compiutamente e senza lesinare. Il mio vanto sarà di essere un buon geometra, il tuo di essere un buon maestro: con questo saremo non cattivi padri, non cattivi figli. Ma pur nell’adempire a queste opere la nostra natura morale rimane libera […]" <24.
La dimensione umana e quella morale sono sempre le direttrici principali della scrittura betocchiana: negli autori e nelle opere che legge in questi anni, gli stessi che poi inizierà a recensire anche per il «Frontespizio» (e che vedremo essere per la maggior parte francesi), egli cerca sempre «quel sentire le cose per profondità e intimità, ma come un andare cercando in fondo agli abissi del creato e della misteriosa natura i moti più reconditi delle nostre anime» <25. [...]
1 C. Bo, introduzione a C. Betocchi, Poesie scelte, a cura di C. Bo, Mondadori, Milano, 1978, p. XVIII.
2 Betocchi, 4 gennaio 1935 [13].
3 Betocchi, 9 dicembre 1952 [129].
4 La citazione è tratta da un’intervista di Betocchi del 13 settembre 1981, pubblicata in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 65.
5 Betocchi, 22 dicembre 1937 [52].
C. Betocchi, A mani giunte. IV, in Tutte le poesie, a cura di L. Stefani, prefaz. di G. Raboni, Garzanti, Milano, 1996, p. 461.
7 N. Agnello, La poesia di Carlo Betocchi. Tra relativo e assoluto, Bastogi, Foggia, 2000, p. 31.
8 Lettera di Betocchi indirizzata a Bargellini, Bo, Piccioni, Vallecchi, del 1° febbraio 1952, allegata a quella per Bo del 31 gennaio 1952 [121] (cfr. Appendice n. 1).
9 C. Betocchi, Al caffè, in Tutte le poesie [1996], cit., pp. 331-332: nel carteggio il testo viene inviato a Bo in allegato alla lettera del 28 aprile 1966 [314], con l’intenzione di concorrere con esso al XIII Premio Lerici-Pea.
10 Così si è espresso Betocchi nell’intervista del 21 maggio 1983, pubblicata in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 165.
11 Ibidem.
12 S. Albisani, Cieli di Betocchi, Le Lettere, Firenze, 2006, p. 15.
13 Per farsi un’idea del debito di Betocchi nei confronti del santo francescano, basti pensare a un testo come Ode degli uccelli (inizialmente pubblicata su «L’Orto», a. II (1932), n. 1, e poi inserita in Realtà vince il sogno, cfr. Tutte le poesie [1996], cit., pp. 19-20): la poesia, che ha meritato al poeta anche i complimenti di Saba (cfr. Volpini, Carlo Betocchi, cit., p. 3) è considerata una sorta di novecentesco cantico delle creature, in cui il poeta canta la sua partecipazione al creato e la fratellanza di tutte le creature.
14 G. Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, Marsilio, Venezia, 2011, p. 57.
15 Betocchi, 22 dicembre 1937 [52].
16 C. Bo, Il poeta di passo, in C. Betocchi, Prime e ultimissime, Mondadori, Milano, 1974, p. 605.
19 Bargellini, Betocchi, Lettere, cit.
20 Ivi, p. 7.
21 Intervista di Bo del 26 febbraio 1979, in Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, cit., p. 23.
22 Ibidem.
23 Bargellini, Betocchi, Lettere, cit., p. 28.
24 Ivi, pp. 50-51.
25 Ivi, p. 57: lettera a Bargellini del 14 gennaio 1930 [16].
Annalisa Giulietti, «Una preziosa testimonianza» tra vita e letteratura. Il carteggio inedito Bo-Betocchi (1934-1985),
Tesi di laurea, Università degli Studi Macerata, 2019