mercoledì 30 marzo 2022

Taviani annunciò dalla stazione radio sulle alture genovesi la liberazione di Genova, un discorso ripreso dalla BBC


Qualche settimana più tardi, insieme a una cinquantina di giovani dell'Azione Cattolica e della Fuci, che si sono segnalati per il proprio pensiero e la propria attività nel corso degli anni precedenti, Taviani partecipa al convegno di Camaldoli, dal 18 al 23 luglio 1943, organizzato per “non disperdere il patrimonio di uomini, organizzazione e mezzi editoriali realizzato durante il periodo d'oro della Fuci” <69 e in cui viene elaborato un documento, il codice di Camaldoli contenente quelli che saranno i principi cardine della futura politica economica democristiana.
Due giorni più tardi la chiusura del convegno, Mussolini viene arrestato e il fascismo crolla. Taviani a Genova può così partecipare alla fusione del vecchio Partito Popolare con i Cristiano Sociali.
Nelle settimane seguenti come rappresentante del nuovo movimento chiamato Partito Democratico Sociale Cristiano, riveste un ruolo di rilievo, partecipando ai numerosi incontri che si tengono a Roma con gli altri esponenti dei vari partiti cristiani che stanno cercando di riorganizzarsi nel paese e di formare un partito unico che raggruppi i vari cattolici. <70
In questa occasione ha l'opportunità di conoscere importanti personalità della futura Dc come De Gasperi, Scelba, Gronchi, Andreotti e Spataro e di aderire al progetto di De Gasperi, affinché tutte le formazioni politiche cattoliche presenti nel paese assumano la stessa denominazione.
Tuttavia la scelta di Taviani non verrà condivisa dal fondatore dei Cristiano Sociali, Gerardo Bruni, che mantenendo posizioni più vicine ai socialisti, dopo il periodo della resistenza tenterà, con scarso successo, di separarsi, fondando un partito cattolico alleato ai partiti di sinistra.
Nei medesimi mesi Taviani, attraverso le conferenze tenute un po' in tutta Italia sia all'interno dell'Azione Cattolica che delle prime formazioni democristiane, conosce La Pira, Piccioni, e altri importanti personaggi della politica del secondo dopoguerra. <71
Taviani a questo punto è definitivamente inserito tra i grandi personaggi della Dc che nel secondo dopoguerra sono chiamati a svolgere un ruolo determinante per la ricostruzione del paese e delle istituzioni.
Nel settembre del 1943 otteneva il trasferimento a Genova, insieme alla moglie e al primo figlio che era nel frattempo nato e dove finalmente riceveva la cattedra di docente di Demografia presso la locale università. <72
E' all'8 settembre, quando viene annunciato l'armistizio con gli angloamericani e con la fuga del re a Brindisi e la feroce rappresaglia dei nazisti che occupano rapidamente tutto il territorio nazionale da Napoli al Brennero, che inizia il periodo della resistenza.
Durante i 18 mesi successivi Taviani, come rappresentante della Dc all'interno del CNL, alla cui nascita in Liguria presiede, ha modo di partecipare attivamente alla resistenza, occupandosi delle questioni politiche, della stesura dei programmi, e dei contatti tra i politici delle varie forze politiche, svolgendo da collegamento e da mediatore tra le parti, promuovendone la coesione e prendendo spesso parte alle decisioni politiche. <73
Ruolo favorito anche dalla sue simpatie socialiste in campo economico, che lo rendono ben visto da parte dei gruppi socialisti e comunisti, e che assume sempre più importanza nel momento in cui dopo la liberazione di Roma, c'è il rischio che i movimenti nelle regioni del nord Italia possano assumere maggiore autonomia.
Durante questi mesi, può così spostarsi per mediare e trasportare soldi e documenti tra i diversi gruppi partigiani che operano nelle regioni del nord, frequentando e conoscendo i maggiori dirigenti della resistenza democristiana nel nord Italia, tra cui Mentasti <74 e Mattei, e partecipando alla nascita in Liguria delle associazioni giovanili legate alla Dc e al tesseramento dei primi iscritti, conoscendo anche i maggiori esponenti della resistenza degli altri partiti, tra cui il socialista Pertini e il comunista Longo. <75
Taviani è anche l'ideatore del decreto con cui il 10 marzo 1944 viene varato dal Cnl per la Liguria per finanziare l'attività dei partigiani, drammaticamente a corto di fondi per rifornire i loro combattenti di indumenti e alimenti.
Tale decreto stabilisce l'emissione di buoni di prestito che sarebbero stati rimborsati una volta conclusa la guerra, per evitare il pericolo di falsificazioni o ancora peggio il rintracciamento da parte del nemico delle stamperie utilizzate per la loro stesura. Pittaluga, questo era il suo nome di battaglia, adotta il semplice, ma efficace stratagemma di utilizzare delle normali banconote, forate con una stella e il cui valore è cento volte quello nominale; la loro validità veniva inoltre ristretta ad un limitato numero di serie, così da permetterne il controllo dell'emissione ed evitare falsificazioni. <76
A luglio 1944 nasce anche il secondogenito di Taviani che viene battezzato il giorno dopo la nascita in gran segreto a causa dei pericoli che incombono sul padre, ricercato dalle autorità repubblichine.
Qualche settimana dopo, gli viene presentato un agente inglese, inviato in Liguria per avvertire e preparare i partigiani ad un imminente sbarco degli alleati, così come al possibile tentativo tedesco di ritirarsi verso il Po, organizzando a Genova una piazzaforte assediata, che grazie alla conformazione fisica del territorio si sarebbe ben prestata ad una resistenza ad oltranza tesa ad ostacolare le operazioni alleate.
Dopo alcuni giorni è ancora lui a scortare l'ufficiale britannico e ad accompagnarlo sino al confine con la Francia, dove ha occasione di incontrare alcuni partigiani francesi che lo ospitano per una notte in una loro tenda, e gli rivelano l'intenzione del loro governo di reclamare all'Italia tutta la zona alpina da Dronero a San Remo una volta conclusa la guerra.
A fine agosto gli alleati sbarcheranno davvero, ma in Costa Azzurra anziché in Liguria e dopo aver rapidamente raggiunto il confine italiano punteranno a nordovest per ricongiungersi con le truppe provenienti dalla Normandia invece di valicare le Alpi; ciò causa la delusione e il malumore della popolazione ligure e degli stessi partigiani che capiscono di essere stati utilizzati dagli alleati per ingannare le truppe dell'Asse e spingerle così a spostare la loro attenzione. <77
L'inverno seguente vede Pittalunga sempre più impegnato nelle operazioni della resistenza verso cui le truppe dell'asse tentano con crescente ferocia, ma minori risultati di rispondere, per fermare i numerosi attacchi che vengono compiuti sulle linee di comunicazione tra la pianura padana e la costa e che renderebbero difficoltoso un eventuale ripiegamento delle loro forze costiere verso il Po. <78
A conclusione di questo periodo, la notte del 23 aprile 1945, Taviani partecipa come presidente alla riunione tra i capi del Cln Liguria in cui, a dispetto del fatto che le truppe alleate pur avendo sfondato il fronte non erano giunte nemmeno a La Spezia, si doveva decidere se e quando lanciare l'insurrezione di Genova, correndo il rischio che, nel caso le divisioni di stanza sulle riviere si fossero ricongiunte con le forze acquartierate a Genova o che gli alleati fossero stati bloccati lungo la loro avanzata, essa fallisse e venisse soffocata nel sangue come era successo a Varsavia pochi mesi prima.
Il pericolo è reale, in quanto a Genova è schierato un intero corpo d'armata tedesco che oltre alla città, controlla l'artiglieria pesante dislocata nei forti che la sovrastano e nel porto, e può contare sull'appoggio dalle milizie repubblichine e dal corpo scelto del X Flottiglia MAS, inoltre tra la posizione delle truppe alleate e Genova; ci sono, inoltre, 100km di strade strette e tortuose che ben si prestano ad una strenua resistenza tedesca per bloccare l'avanzata degli alleati. La discussione si protrae sino a notte fonda e i presenti pur unanimi sulla necessità di lanciare l'insurrezione, sono profondamente divisi sui tempi, alcuni la vorrebbero subito, mentre altri preferirebbero prendere tempo e aspettare alcuni giorni per dare il tempo alle truppe alleate di avvicinarsi a Genova.
Alla fine l'intervento di Taviani è nuovamente decisivo per chiudere la riunione e scongiurare una rottura tra le diverse forze politiche della resistenza genovese, proposto di votare dapprima il metodo con cui si deciderà la data dell'insurrezione e poi la data stessa: si stabilisce il voto a maggioranza semplice visto che l'unanimità non esiste, e così per quattro voti favorevoli contro due contrari si decide che l'insurrezione inizierà la sera stessa.
L'insurrezione inizia la sera del 23 e dura due giorni, ma alla fine, grazie al supporto delle bande partigiane che in tutto il territorio ligure alla notizia della sollevazione in corso nel capoluogo hanno attaccato le divisioni tedesche in ritirata impedendone il ricongiungimento, e al sostegno attivo della popolazione genovese che si schiera in aperta rivolta: l'obiettivo viene raggiunto.
La sera del 25 aprile il Generale Meinhold comandante delle forze tedesche a Genova, constatata l'impossibilità di eseguire gli ordini e di ritirarsi verso il Po, ordina a tutte le forze tedesche sotto il suo comando, a partire dalle 9 del giorno successivo la cessazione delle ostilità.
La mattina del 26 aprile, dalle alture di Genova è ancora Taviani a sfidare gli ultimi colpi delle artiglierie nemiche e ad annunciare dalla stazione radio sulle alture genovesi la liberazione della città, in un discorso che verrà ripreso e trasmesso dalla Bbc.
Le truppe angloamericane arriveranno a Genova solamente la mattina seguente, trovando davanti a se, per la prima volta dall'inizio della campagna d'Italia, una città già libera. <79
 


[NOTE]
69 PAOLO EMILIO TAVIANI, Politica a memoria d'uomo, p.28
70 Ibid., pp.242-243
71 CARLO BRIZZOLARI, Profilo di un protagonista: posizione e attività di Taviani fino al 25 luglio, in <<Un Archivio della resistenza in Liguria>>, Genova, Di Stefano, 1974 pp.375-385
72 DANIELA PREDA, L'Europa di Paolo Emilio Taviani... cit., p.170
73 Al racconto dell'esperienza della resistenza Taviani dedica un intero volume: PAOLO EMILIO TAVIANI, Pittalunga racconta, Bologna, Il Mulino, 1999.
74 Piero Mentasti, nato a Treviglio in provincia di Bergamo nel 1897, politico e deputato del partito popolare, durnate la resistenza fu segretario della Dc per l'alta Italia, morì a Venezia nel 1958 dopo essere stato membro della costituente.
75 DANIELA PREDA, L'Europa di Paolo Emilio Taviani... cit., p.171
76 PAOLO EMILIO TAVIANI, Pittalunga racconta, cit., p74
77 Ibidem, p.86
78 Ibidem, pp.91-101
79 PAOLO EMILIO TAVIANI, Breve storia dell'insurrezione di Genova, Firenze, Le Monnier, 1982
Federico Actite, Taviani e la politica estera italiana degli anni cinquanta (1949-1954), Tesi di dottorato, Middlesex University, 2011

venerdì 25 marzo 2022

I soldati della Nembo non difendevano la patria, ma il Terzo Reich


Dopo la battaglia di Roma, il Rgt. “Folgore” risultò essere stato quasi dimezzato dalle perdite lungo il fronte. Fu quindi necessaria una ricostruzione interna dei reparti con l’aggiunta di nuovi determinati servizi che resero più efficiente il tutto. Con la fine dell’addestramento, che si svolse a nella scuola di Tradate, il “Folgore” partì per la Val di Susa in attesa di un nuovo impiego. A loro vennero aggiunti anche degli effettivi della X Mas e del Btg. “Mazzarini” del GNR. L’obiettivo principale del loro servizio in Val di Susa fu quello di rispondere alle esigenze della “Bandenbekampfung”, ovvero il termine usato per descrivere la lotta alle bande Partigiane.
[...] Per questo nuovo impiego il Reggimento fu costretto a cambiare il modus operandi facendo leva sulle tattiche di controguerriglia già sperimentati precedentemente nel 1943.
Le prime operazioni concrete presero inizio nel 1944 quando nel nord Italia scoppiarono tutta una serie di scontri causati dall’infervoramento dell’attività partigiana. Questo aumento delle azioni clandestine fu stimolato soprattutto dai comandi alleati che, arrivati lungo la linea Gotica, chiesero a gran voce l’avvio di operazioni nelle retrovie nemiche per alleggerire le pressioni lungo il fronte e creare disagi ai tedeschi. I punti nevralgici furono essenzialmente in Valdossola ed in Garfagnana dove dovettero intervenire i reparti paracadutisti del “Mazzarini e del Rgt. “Folgore”.
In particolare nell’Ossola, venne fondato un governo di stampo antifascista, presieduto dal Prof. Tibaldi e gestito dal CLNAI. Tibaldi fece affidamento a sua volta ad un gruppo di professionisti locali per gestire al meglio la situazione. Come primo atto del Governo, venne deciso, tramite un referente tedesco, una sorta di periodo di non belligeranza nel quale i vari presidi tedeschi sarebbero stati traferiti a differenza di quelli del GNR che rimasero in balia degli attacchi partigiani. Solo ad alcune famiglie di noti gerarchi fascisti, venne data la possibilità di trasferirsi, anche se, tuttavia, non furono esenti da atti di ostilità. Una volta sgombrata la zona dai tedeschi e dalla Polizei, il 3 Settembre 1944, i partigiani avviarono una serie di attacchi contro i militi della GNR che vennero di conseguenza massacrati e torturati. Lo stesso Mussolini resosi conto della criticità della situazione, decise di intervenire impostando un piano di rioccupazione che previde il dispiegamento di Legionari, Waffen SS, Brigate Nere, Marò del X , paracadutisti del “Mazzarini” e del Rgt. “Folgore”. Il 9 Settembre 1944, gli allievi ufficiali del GNR occuparono Cannobio e presero contatto con i partigiani che furono messi in fuga. Prontamente venne ristabilita la normalità nella cittadina mentre il Rgt. “Folgore” avviò la costituzione di un 4° Btg. con elementi di tutti i reparti regimentali. Dal 10 Ottobre venne avviata una violenta offensiva nei confronti delle due principali Brigate partigiane ovvero la “Piave” e la “Garibaldi” di cui la prima venne totalmente annientata. A questa operazione parteciparono i 3 Battaglioni “Folgore”, “Nembo” e “Azzurro” supportati dalla Cp. Com. Reggimentale che fu quella che subì lo scontro più drammatico. Infatti, mentre tentavano di conquistare la diga del Toce presso Le Casse, nel tentativo di superare il letto del fiume a valle, i partigiani decisero di aprire le paratoie della diga. I paracadutisti, rimasti nel letto del fiume, vennero raggiunti immediatamente dall’acqua che per poco non li trascinò via. Solo grazie all’intervento di alcuni rinforzi, che videro la scena con il livello dell’acqua salire all’ altezza del torace, i paracadutisti vennero tratti in salvo. Poche settimane dopo il “Folgore” pose fine alle azione e si ritirò nei propri accampamenti nel Varesotto. L’operazione costò al Reggimento la morte di otto paracadutisti fra cui un ufficiale e due sergenti, 26 feriti con 4 ufficiali e 14 dispersi catturati dai soldati elvetici e successivamente scambiati. Alla data del 31/12/1994 le perdite del Raggruppamento Paracadutisti ammontarono a 196 caduti, 43 dei quali uccisi in attentati, agguati, scontri a fuoco con i partigiani” <70.
Il 1945 si aprì con diverse sortite in Valle Viù dove furono segnalati diversi gruppi partigiani. Le azioni iniziali del “Folgore” consistettero nel rendere sicura la zona e difendere le varie vie di accesso al fronte come strade e ferrovie dalle bande partigiane. Infatti come primo provvedimento venne programmato un vasto rastrellamento delle zone montuose in modo da rendere sicuro ed efficiente il rifornimento logistico. Per questo compito vennero schierati i 3 Battaglioni che vennero frammentati per rendere l’azione più efficacie. In effetti dal 1 al 15 Ottobre la missione ebbe come risultato “958 ribelli morti accertati, 872 prigionieri e un totale di 2600 soldati italo tedeschi liberati dalla detenzione pur subendo 111 caduti italiani e tedeschi e 268 feriti”. <71 Alle operazioni parteciparono le Cp. 11a e 12a del 3° “Azzurro” e la 6a e 7a del 2° “Nembo”, supportati dalle autoblindo AB41 del gruppo “Leonessa”, per un totale di circa 450 effettivi. A metà giornata venne avviato l’attacco verso Viù partendo da Lanzo dove, prima di entrare, fu incontrata una blanda resistenza da parte di alcuni partigiani che venne soppressa dalle autoblindo. Lanzo fu quindi liberata e posta sotto presidio. Nei giorni successivi, alcuni rastrellamenti portarono alla conquista di Col San Giovanni, Airetta e Colle di Lis. Sulla cima di quest’ultimo rimasero di vedetta 10 uomini della 11a Cp. pronti a rispondere a qualunque sortita da parte dei ribelli. La restante parte della compagnia si portò alla conquista dei principali punti strategici quali, località Monfellato, Madonna della Bassa, Malandrino e Casa Rana. In questo modo le bande della zona vennero obbligate a recarsi nelle zone più accessibili e dunque vulnerabili. Pochi giorni dopo, esattamente il 14 gennaio 1945 venne segnalata la presenza di un forte contingente di ribelli presso Pessinetto dove fu inviata parte della 11a Cp. del 3° Btg.. Prima di procedere verso il centro del paese venne deciso di inviare una pattuglia comandata dal 1° Av. Mussano la quale venne immediatamente fatta a segno dalle mitragliatrici. In supporto si attivò la pattuglia del Serg. Cherin la quale attaccò il paese dalla destra, dirigendosi poi verso il centro e bloccarsi di conseguenza per via della forte resistenza. Nel frattempo si apprese che poco distante da lì, a Procaria, un gruppo di 60 ribelli si accampò e poté essere colto di sorpresa facilmente. Venne deciso dunque che mentre il gruppo del Ten. Carriere avrebbe continuato a combattere a Pessinetto, il gruppo del Serg. Cherin si sarebbe recato presso Procaria. Una volta giunti sul posto, notarono immediatamente un posto di blocco partigiano e decisero di attaccarlo. I partigiani colti di sorpresa e convinti di avere di fronte preponderanti forze, decisero di ritirarsi abbandonando sul posto numerose armi e gran parte dell’equipaggiamento. Il giorno successivo, il reparto, dopo aver liberato Pessinetto e messo in sicurezza il perimetro, si diresse verso Ala Stura dove stanziò fino a fine operazione. Più a nord il 1° Btg. operò diversi rastrellamenti in Val di Susa su diverse direttrici spesso anche impervie mentre il 3°Btg “Azzurro” proseguì la sua missione fino a Pian della Mussa per poi rientrare per riposo a Mathì. Nel mese di Febbraio, dopo avere effettuato una nuova operazione di rastrellamento presso Cafasse, il 2°Btg. “Nembo” ed il 3° “Azzurro” furono impiegati in operazioni per annientare definitivamente qualsiasi segno di ribellione nelle retrovie del fronte. A fine operazioni le formazioni partigiane videro completamente distrutti i propri comandi grazie anche alla grande quantità di informazioni giunte dal Servizio I di intelligence con l’avvicinamento di numerosi informatori Militari. In questo modo sia la Val di Lanzo che di Susa furono rioccupate dalle truppe nazi-fasciste che riuscirono a ristabilire la situazione.
Nel mese di Febbraio, il 1° Btg. fu in attesa di spostarsi sul Moncenisio, mentre il 2° Btg. stazionò nella valle della Stura di Lanzo assieme al 3° Btg. di stanza in Valle Viù. Fu a fine mese che si ebbero i primi movimenti di truppa, quando il 2° Nembo si spostò tra Rocca Canavese e Corio, mentre il Btg. Azzurro prese le posizioni tra Fogliazzo e Val Soana dove furono segnalati movimenti di truppe nemiche. Venne collaudata una nuova strategia basata sull’istituzione di una serie di presidi nelle zone cruciali che svolsero il compito di sostegno e pattuglia. Oltre allo scopo di sostegno e pattuglia, queste manovre aiutarono i paracadutisti a mantenere un certo standard di preparazione tecnica per un successivo impiego sul fronte. Man mano che le zone furono pulite vennero cedute ai vari reparti della GNR del RAU e della “Monterosa”. Il giorno 19 Febbraio, un consistente reparto del “Nembo” partì da Barbania per arrivare a Rivara, per poi spingersi verso Pratiglione. In questo tragitto vennero effettuati diversi rastrellamenti che non portarono a vistosi risultati. Nei giorni successivi furono condotte altre operazioni presso Buana dove fu incontrata una modesta resistenza che coinvolse la 7° Cp. Alla data del 24 Febbraio “il 2° “Nembo” custodiva 23 ribelli dichiarati e 5 elementi sospetti, numericamente sufficienti per eventuali scambi di prigionieri di cui il comando di battaglione aveva diffuso la notizia tramite il Clero per un potenziale accordo” <72. Infatti, il 5 Marzo, rientrò al Nembo dopo essere stato prigioniero dei partigiani, il S. Ten. Moroni che venne scambiato con una staffetta. Tuttavia la caccia incessante nei confronti dei ribelli, portò sia la “Nembo” che, di conseguenza, il “Folgore” ad essere inclusi in una direttiva del CVL nella quale vennero elencati tutti i reparti considerati “fuorilegge” e passibili di pena di morte da eseguirsi entro tre ore dalla cattura, compresi i feriti. Questa direttiva suscitò molte discordie nel dopoguerra per via del diritto internazionale che tutela i soldati regolari quali erano quelli della “Nembo”.
“Ai primi di marzo il Nembo ricevette dei complementi che gli permisero di ricostituire il Battaglione che si articolò in Comando, V.E., Servizi logistici, Sanitari e Tecnici, Reparto Personale, Autoparco, e Amministrazione. Per quanto riguarda i comandanti invece si ebbe il Comando sotto la responsabilità del Ten. Augusto Lucchetti, 5a Compagnia con il Ten. Piero Cimenti e Ten. Bruno Bean, 6a Cp. Ten. Cherici Alvaro, 7a Cp. Ten. Chesi Ezio e 8a Cp. A.A Ten Mario Angelici” <73. “Fra il 18 ed il 28 Marzo il “Nembo” con 350 uomini su due Cp. 5° e 7°, portò a termine una serie di missioni di controllo” <74. Queste operazioni, coordinate dal Cap. Bernardi con i Ten. Monti, Clerici, Chesi, Lucchetti e Sandro Rizzati, figlio del Magg. Mario Rizzati, portarono a diversi scontri con morti e feriti. La conclusione di queste operazioni si ebbe il 29 Marzo con l’episodio dell’assedio presso Rocca Canavese, apice del dramma dell’intera missione. Infatti, data l’azione invasiva ed opprimente svolta dal Nembo, i capi partigiani decisero di rispondere con la violenza e decisero di attaccare il presidio di zona per annientarlo radicalmente. Fu deciso di attaccare il presidio di Rocca Canavese dove era stanziata la 7° Cp. sotto il Ten. Chesi. L’edificio principale, consistente in una scuola, era ubicato in una posizione infelice e a favore degli attaccanti poiché era sul fondo di una vallata e quindi facilmente assaltabile da più lati. L’attacco venne condotto da circa 200 partigiani della 4° Div. “Garibaldi” e dalla 7° Div. G.L, armati di tutto punto con equipaggiamento pesante inglese. L’attacco iniziò alle ore 1:30 del 29 quando un gruppo di partigiani si avvicinò alle postazioni del “Nembo” grazie al favore della notte e sparò un razzo all’interno dell’edificio, uccidendo un paracadutista e ferendone altri tre. A questo punto, i ribelli offrirono ai paracadutisti di arrendersi ma ricevuto un secco rifiuto ripresero l’attacco. La battaglia durò qualche ora fino a quando una voce proveniente dai ribelli ordinò la ritirata. Al mattino la zona era completamente sgombra e fu possibile uscire dalla scuola, diventata ormai un cumulo di macerie, ed effettuare una rapida perlustrazione che dimostrò le gravi perdite arrecate ai ribelli. Alle ore 9:00 arrivò anche la 5° Cp. ma poté fare ben poco visto che la situazione fu ristabilita. Nella notte tra il 4 ed il 5 Aprile venne tentata la stessa operazione al presidio di Volpiano, anche questa volta senza successo. Tuttavia, l’attacco più doloroso fu sferrato in maniera subdola allorquando il 6 Aprile un gruppo di partigiani, con divise tedesche ed italiane, entrò in una casa di tolleranza presso Ivrea, aprendo il fuoco ed uccidendo il Ten. Ezio Chesi, più altri 5 presenti e ferendone altri 11. In sostituzione del Tenente Chesi venne scelto il Ten. Piero Cimenti, audace veterano del “Nembo”.
[NOTE]
70 Nino Arena, Nembo!, pag. 234
71 Nino Arena, Nembo!, pag. 237
72 Nino Arena, Nembo!, pag. 268
73 Nino Arena, Nembo!, pag.268
74 Nino Arena, Nembo!, pag 272
Francesco Braneschi, Come Nembo di tempesta: storia ed analisi della divisione paracadutisti Nembo, Tesi di Laurea, Università Luiss, Anno accademico 2015/2016

In occasione della commemorazione del 65° anniversario della difesa di Roma (8 settembre 1943), il Ministro della Difesa Ignazio La Russa dichiara: “Farei un torto alla mia coscienza se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell'esercito della RSI, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardarono con obiettività alla storia d'Italia”.
Le parole del Ministro La Russa suscitano polemiche, indignazione, proteste.
Suscitano anche risposte dirette e immediate da parte di giornalisti e di storici. Tra i giornalisti, Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera: “Ignazio La Russa ha mai sentito parlare di Hans Schmidt? Se conoscesse la sua storia, forse ci andrebbe più cauto, prima di stupirsi per le polemiche sul suo omaggio ai soldati di Salò e di lagnarsi di “una forma di razzismo culturale” che impedirebbe addirittura di parlare (bum!) a chi è di destra. Alberto Asor Rosa, anni fa, spiegò benissimo le cose: “Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buona fede, più idealista, c'erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l'Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c'era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono. Non ce ne importa nulla che i bravi “ragazzi di Salò” non sapessero cosa difendevano, insieme con l'onore della patria. Capita, talvolta, nella storia di trovarsi dalla parte sbagliata”. In quel 1944 in cui i repubblichini affiggevano sui muri manifesti grondanti di croci uncinate (“Arruolatevi nella legione SS italiana. L'Italia si riscatta solo con le armi in pugno” oppure “Operai italiani arruolatevi! La grande Germania vi proteggerà!”), Schmidt morì nel nome della democrazia, della libertà, della resurrezione dell'Italia occupata dai nazisti. […] Nell'agosto di quel penultimo anno di guerra, aveva messo a punto con altri quattro soldati anti-nazisti un piano per consegnare la postazione militare alla Resistenza. Non si sa chi li tradì. Fatto sta che poche ore prima del colpo di mano, Hans Schmidt, Erwin Bucher, Erwin Schlunder, Karl-Heinz Schreyer e Martin Koch furono arrestati. Hans ed Erwin furono torturati per ore e ore prima di essere finiti con una pistolettata in faccia. I loro amici vennero fucilati. […] Così morì, insieme coi suoi amici, Hans Schmidt. Il “nostro” Hans Schmidt. In tutta la guerra non aveva sparato un colpo. Un po' dell'onore tedesco, però, lo salvò lui. E a nessun ministro della difesa di Berlino verrebbe mai in mente di onorare chi, pensando di difendere la Germania, lo torturò a morte” <684.
Tra gli storici, Emilio Gentile, in un'intervista a Simonetta Fiori su Repubblica: "Il ministro La Russa ha reso omaggio al valore dei “patrioti di Salò”. “Quale patria? Una delle caratteristiche del fascismo fin dalle origini fu quella di negare l'esistenza di una patria di tutti gli italiani: esisteva soltanto la patria di coloro che aderirono al fascismo. Anche soggettivamente il patriottismo fascista fu liberticida [...]".
[...] Sulla questione interviene anche Giovanni De Luna con osservazioni che in qualche modo riguardano il nostro ragionamento: “La Russa può rivendicare il patriottismo dei soldati della Nembo perché viviamo in un abisso di ignoranza della storia. Perché nessuno sa che quei soldati erano inquadrati organicamente nella Wehrmacht, non difendevano la patria (neanche quella fascista), ma il Terzo Reich.[…] La colpa di questo stato di cose è di noi che insegniamo la storia, sia nelle scuole, che come me, nelle università. La scuola è ferma ai vecchi manuali che gli studenti non vogliono leggere, incapace di usare mezzi audiovisivi, raccontare ciò che si vede nelle foto e nei filmati”, mentre quella che viene raccontata nelle trasmissioni tv “è una storia usa e getta, che rifiuta la complessità: appiattita al presente consumista” <686.
[NOTE]
684 Gian Antonio Stella, Cautela a onorare i “ragazzi di Salò”. Ignazio La Russa sarebbe più prudente se conoscesse la storia di Hans Schmidt, “Corriere della Sera”, 10 settembre 2008.
686 Barbari in casa. Il razzismo che riemerge. La rivalutazione di Salò. La caccia al rom. Il consenso totale al Capo. Siamo al nuovo fascismo? No, rispondono storici e intellettuali. Ma la democrazia è in pericolo, di W. Goldkorn e G. Riva, “l'Espresso”, 30 settembre 2008.
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

domenica 20 marzo 2022

Scrittori francesi di fronte alla bufera della seconda guerra mondiale


In questa sede, più che il ruolo assunto dagli intellettuali italiani nella Resistenza partigiana - alla quale essi approdarono perlopiù solo tra il 1942 e il 1943 e soltanto «dopo un lungo girovagare attraverso le illusioni e le prospettive del regime» <384 - preme mettere in evidenza il caso francese, poiché in esso si riconosce un’essenziale continuità personale e soprattutto ideale con l’impostazione che i membri francesi avrebbero cercato a più riprese di imporre alla SEC negli anni Cinquanta. <385
Epicentro della Resistenza da parte degli intellettuali francesi fu il Comité national des écrivains (CNE), strumento letterario di lotta, che ebbe i suoi rappresentanti più insigni in Jacques Decour (1910-1942), Jean Paulhan, Jacques Debû-Bridel (1902-1993), Jean Guéhenno (1890-1978), Jean Blanzat (1906-1977), Charles Vildrac e nel padre domenicano Jean-Augustin Maydieu al Nord, in Louis Aragon, Elsa Triolet, Claude Aveline (1901-1992), Albert Camus (1913-1960), Jean Cassou, Pierre Emmanuel (1916-1984), Louis Martin-Chauffier (1894-1980), Claude Roy (1915-1997), Pierre Seghers (1906-1987) e altri nella zona Sud. <386 Tra questi principali rappresentanti del CNE, Maydieu, Aveline, Cassou, Emmanuel, Martin-Chauffier e Roy avrebbero accettato di entrare a far parte della Société européenne de culture (alcuni svolgendovi un’attività continuativa e di primo piano come Maydieu).
Il CNE si diede principalmente tre ordini di funzioni: la promozione di opere letterarie a sostegno della Resistenza ai tedeschi, lo scambio di informazioni e la denuncia degli scrittori collaborazionisti. Esso divenne ben presto un’istanza fondamentale nel contesto bellico e punto di non ritorno per l’organizzazione degli intellettuali europei. Si trattava, infatti, di un «[g]roupement littéraire à vocation politique» da considerare pienamente erede delle forme di mobilitazione collettiva degli intellettuali sviluppatesi a partire dall’affaire Dreyfus e giunte a maturità nel corso della lotta antifascista degli anni Trenta. <387
In un quadro nel quale lo sforzo individuale dell’uomo di cultura si univa in senso profondamente democratico allo spirito di decine di altri combattenti, di tutte le condizioni e classi sociali, il senso di comunità che ne scaturiva possedeva una grande forza emblematica. Nella nuova gerarchia sociale che emergeva dalla Resistenza, l’intellettuale, fino a quel momento spesso proveniente dalla media o alta borghesia e dotato di un capitale di studi e conoscenze che lo aveva integrato all’élite della nazione, poteva assicurarsi di mantenere una posizione centrale e insostituibile, al di là di quanto sarebbe potuto accadere all’organizzazione della società nel corso di una guerra che sconvolgeva le fondamenta stesse della convivenza civile. <388
Il CNE doveva la sua origine all’incontro «entre des écrivains dépossédés de leurs moyens d’expression et les structures organisationnelles et mobilisatrices du parti communiste clandestin».389 Tale convergenza faceva certamente notizia nei primi anni Quaranta: il PCF, infatti, in seguito alla guerra civile spagnola e al patto di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania, si era trovato in cattive acque, costretto a rinunciare a fare politica nella legalità e diviso dalle altre forze di sinistra. La conferenza di Monaco del settembre del 1938 aveva in effetti provocato una profonda spaccatura tra i propugnatori di un pacifismo integrale, disposti a non porre limiti alle concessioni da accordare a Hitler pur di evitare la guerra, e gli antifascisti convinti della necessità di frenare a ogni costo le pretese naziste. <390 Per queste ragioni, il ricostituirsi dell’alleanza a sinistra era da considerarsi in toto frutto delle particolari condizioni dell’Occupazione, e non per caso tale politica unitaria non sarebbe sopravvissuta alla conclusione della guerra. <391
Per chiarire il grande successo della mobilitazione degli scrittori nel CNE non è sufficiente rifarsi alle pratiche associative degli anni Trenta, sebbene esse si rivelassero punto di riferimento imprescindibile, dato che oltre la metà degli intellettuali del CNE era già stata attiva nelle organizzazioni antifasciste. Neppure la politicizzazione di nuovi elementi (ad esempio cattolici, anche di destra, o personalità come Jean-Paul Sartre, come si vedrà fino a quel momento distante da qualunque coinvolgimento politico) poteva chiarire in maniera convincente tale espansione, in quanto quella dello scrittore rappresentava plausibilmente «la “profession” la plus individualiste, la moins organisée, la moins réglementée». <392 Solamente il riferimento alla volontà di sfuggire all’irreggimentazione che anche il regime di Vichy aspirava a imporre agli intellettuali, sulla scorta dei progetti sviluppati negli anni precedenti anche dal fascismo italiano e dal nazismo, nonché alla minacciata (e attuata) soppressione della libertà d’espressione era in grado di spiegare l’affermazione del CNE. <393
La difesa dell’autonomia del campo letterario da ogni ascendente esterno rappresentava, in effetti, la prima forza motrice in grado di sollecitare gli scrittori all’arruolamento. Lo stesso carattere corporativo (e, di conseguenza, difensivo) del CNE era precisamente una delle chiavi del suo successo, dal momento che «[c]’est parce qu’on a offert aux écrivains les moyens de lutter avec leurs armes propres que, réactivant la dimension subversive de la littérature, ils ont assuré à la Résistance intellectuelle son prestige». <394
Il CNE costituiva pertanto, in qualità di istanza collegiale, l’espressione di un «principe de protestation collective»: <395 fu probabilmente in riferimento a esso che molti membri francesi della Société européenne de culture, diversi dei quali, come si è visto, attivi nel CNE durante la guerra, avrebbero tentato di influenzare e condurre l’azione dell’associazione veneziana. L’epoca della guerra fredda, tuttavia, si presentava come un tempo profondamente differente rispetto al periodo del conflitto antitedesco e le stesse strutture del CNE, che finì per essere debitore per la sua organizzazione al partito comunista francese, non erano equiparabili a quelle della SEC. Dalla mancata comprensione di questa fondamentale differenza sarebbe nata all’interno della Société européenne de culture negli anni Cinquanta una lunga serie di polemiche e malintesi.
Gli intellettuali che si rifacevano all’esperienza acquisita nel CNE erano, almeno nel frangente della guerra, scrittori dominati nel campo letterario <396 e uomini della sinistra laica già partecipi alle lotte antifasciste degli anni Trenta, <397 così come sarebbero stati prevalentemente dominati e appartenenti alla sinistra laica molti dei membri più attivi della SEC. Nonostante le differenze di vedute tra i diversi gruppi nazionali o con il Segretario generale Umberto Campagnolo, questa affinità avrebbe comportato una similare aspirazione all’autonomia del mondo della cultura dalle strettoie politiche imposte dalla guerra fredda.
Il progetto (mai realizzato) di un codice di comportamento per tutti gli scrittori, che il CNE sembrava intenzionato a stilare, si fondava sull’affermazione dell’autorità del giudizio dei pari su questioni di natura etica. Nel desiderio di fare approvare da De Gaulle, quale dirigente capo della Resistenza, un simile regolamento, vi era per prima cosa proprio la sentita necessità di garantire «l’autonomie du champ littéraire en imposant une instance propre face aux autres instances de la Résistance». <398 La stessa esigenza di salvaguardare l’autonomia del mondo intellettuale sarebbe stata fatta propria dalla SEC, ma le nuove minacce all’indipendenza dell’uomo di cultura, diverse da quelle esperite dagli aderenti al CNE in tempo di guerra dichiarata, avrebbero portato a ricercare strumenti possibilmente più efficaci.
[NOTE]
384 ASOR ROSA, La cultura, cit., p. 1584.
385 Per ovvi motivi non sussiste il confronto con la situazione tedesca su questo specifico punto. L’emigrazione intellettuale, intervenuta a partire dal 1933, per i suoi caratteri di Resistenza armata contro il nazismo (ancora una volta in senso sia metaforico sia letterale, come si è ricordato, nel corso della guerra di Spagna) potrebbe essere considerata valido termine di paragone, ma si tratta di un tema tangente rispetto alla presente ricerca. Per questi aspetti cfr. comunque ENZO COLLOTTI, L’emigrazione come resistenza, in NATOLI (a cura di), La Resistenza tedesca, cit., pp. 104-126.
386 LEYMARIE, Les intellectuels et la politique en France, cit., pp. 63-64.
387 SAPIRO, La guerre des écrivains, cit., p. 467.
388 WILKINSON, The Intellectual Resistance in Europe, cit., pp. 49-50.
389 SAPIRO, La guerre des écrivains, cit., p. 467.
390 Cfr. WINOCK, Le siècle des intellectuels, cit. pp. 315-323.
391 SAPIRO, La guerre des écrivains, cit., pp. 468-469.
392 Ivi, p. 469.
393 Ibid.
394 Ivi, p. 467.
395 Ivi, p. 535.
396 Gisèle Sapiro ha calcolato che «la moitié des membres du Comité seulement accèdent à la reconnaissance littéraire de leur temps et entreront dans la postérité» (ivi, p. 544).
397 Ivi, p. 546.
398 Ivi, p. 549.
Fabio Guidali, Uomini di cultura e associazioni intellettuali nel dopoguerra tra Francia, Italia e Germania occidentale (1945-1956), Tesi di dottorato, Freien Universitàt Berlin ed Università degli Studi di Milano, Berlino, 2013

Camus parlò pubblicamente della sua esperienza nella Résistance solo con scrupolosa discrezione. La scelta primordiale di prender partito nel movimento di Resistenza «Combat», certificata alla fine del 1943, non è testimoniata né giustificata, al di fuori degli editoriali di «Combat» e della selezione di articoli operata nelle "Actuelles", da nessun frammento dei "Carnets", né da alcuna intervista posteriore alla Libération.
Il redattore capo del più influente tra i fogli clandestini sorti dalla Résistance scelse di stendere sulla questione un velo di censura volontaria.
In realtà, sappiamo che Camus non rivelò mai i dettagli della sua esperienza vissuta tra la fine del 1943 e il settembre 1944 per una questione di coerenza e di fedeltà.
Egli riteneva infatti di aver recitato un ruolo ai margini della grande lotta per la Liberazione della Francia.
[...] Camus restò, di fatto, sempre fedele a questa affermazione paradossale secondo cui gli unici ad aver il diritto di parlare della Resistenza sono i suoi morti. Queste parole sono dettate dallo sconforto per la perdita dell’amico Leynaud e dalla consapevolezza che uomini come Leynaud «étaient entrés dans la lutte, convaincu qu’aucun être ne pouvait parler avant de payer de sa personne» (CAC 8, 292) <179. Questo punto di vista è condiviso da molti esponenti della Resistenza intellettuale a cominciare da Canguilhem secondo cui parlare dei morti della Resistenza «ne va pas sans quelque sentiment de honte, puisque, si on lui survit, c’est qu’on a fait moins que lui» <180.
La Resistenza fu per Camus una «absurde tragédie» riassumibile nella sventura dei suoi morti.
Esiste, di fatto, una questione sacra in seno alla Resistenza: la morte. In tutti i memoriali di coloro che hanno preso parte alla Resistenza europea sono presenti parole di commiato destinate ai morti, alle vittime, agli “eroi caduti”. I “martiri” <181 sono considerati “eroi” poiché hanno dato la vita in nome di quei valori che la Resistenza si proponeva di difendere e di riaffermare. Il motivo della “morte del rivoltoso” è un ingrediente essenziale di cui Camus si serve per tracciare i contorni morali e psicologici dell’atto della rivolta in "Remarque sur la révolte", nota pubblicata un anno dopo la Liberazione della Francia dall’Occupazione tedesca. La disposizione alla morte viene concepita da Camus come quell’esperienza fondamentale che genera la presa di coscienza della frontiera - e del valore da essa custodito - nel movimento di rivolta del funzionario, nella "Remarque sur la révolte", e dello schiavo rivoltoso, ne "L’homme révolté": «Plutôt mourir debout que de vivre à genoux» (III, 73) <182. Lo schiavo che prende coscienza della frontiera nella rivolta sa che «quella parte dell’uomo» che intende far rispettare è al di sopra di tutto, anche della propria vita. Il «bene supremo» presuppone un «Tout ou Rien» che non ammette compromessi. Quel «Rien» annuncia la possibilità del sacrificio dell’uomo a quel «Tout». In apparenza, queste parole sembrano collocate nel regno dell’astrazione; come cercherò di dimostrare, invece, esse sono tinte del sangue dell’esperienza, sostengono il peso e lo sguardo di chi come Leynaud ha dato la vita per quel «Tout».
La discrezione con cui Camus si è approcciato a un tema intricato come quello della Resistenza è inoltre stata generata da una motivata svalutazione dell’azione degli intellettuali “in situazione”. Il giudizio dell’ex redattore capo di «Combat» muove da una pura e semplice convinzione: la Resistenza l’ha fatta chi ha preso le armi: «Je n’ai jamais mis très haut l’action des écrivains (at d’abord la mienne) pendant la Résistance. En particulier, elle ne souffre aucune comparaison avec l’action de ceux qui ont pris les armes» (III, 936). Gli unici intellettuali che possono definirsi resistenti tout court sono quelli che hanno rischiato la vita, come René Char, la cui opera è «le miroir fidèle d’une vertu libre et fière dont le souvenir nous soutient encore» (III, 937). Il vincolo che Camus stabilisce tra Resistenza e morte - o rischio assunto responsabilmente di perdere la vita - è dunque strettissimo. Gli scrittori, in realtà, hanno fatto relativamente poco per la Résistance; al contrario, la Résistance ha dato molto agli scrittori perché ha fornito loro un insegnamento fondamentale: «Elle leur a enseigné le prix des mots» (III, 936). Con questo Camus vuole intendere che lo scrivere non è un semplice diverissement, un esercizio accessibile a tutti; le parole hanno un prezzo e quel prezzo, a volte, coincide con la vita: «risquer sa vie, si peu qui ce soit, pour faire imprimer un article, c’est apprendre le vrai poids des mots. [...] Et l’écrivain, découvrant soudain que les mots sont chargés, est porté à les employer avec mesure» (III, 936-937). Non si tratta insomma di dissertare sull’impegno, ma di impegnarsi anche senza combattere, come uomini <183. L’impegno, per coloro che hanno preso volontariamente parte alla Resistenza, era «un fatto dell’esistenza quotidiana, di una esistenza pericolosa dedicata completamente alla lotta senza quartiere» <184.
[NOTE]
179 Trad. it. da: Ibidem: «erano entrati nella lotta con la convinzione che nessun essere potesse parlare prima di pagare di persona».
180 G. CANGUILHEM, Vie et mort de Jean Cavaillès, 1903-1944, Éditions Allia, Paris, 1996, p. 38.
181 In tutti i paesi in cui Resistenza vi è stata, i morti ammazzati durante atti di resistenza sono chiamati comunemente anche “martiri”. Questo fatto, come vedremo testimonia della complessità del fenomeno della Resistenza europea, sempre in bilico tra mito e storia. Già nel primo numero di «Combat» - come si è mostrato - il linguaggio della morale e della religione era cominciato a penetrare nei fogli clandestini dei movimenti. Molti termini del vocabolario religioso verranno presi a prestito dal lessico resistente anche nei discorsi finalizzati a “ripensare” la Resistenza dopo la Liberazione.
182 Trad. it. da: A. CAMUS, L’uomo in rivolta, cit., p. 635: «Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio».
183 «J’aime mieux les hommes engagés que les littératures engagées» (II, 1070). Queste convinzioni saranno al centro della polemica con Sartre, dopo la pubblicazione de L’homme révolté.
184 V. JANKÉLÉVITCH, Omaggio alla Resistenza universitaria, in Perdonare?, Giuntina, Firenze, 1987, p. 54.
Andrea Trabaccone, Esperienza e Rivolta. Implicazioni storico-filosofiche dell’esperienza dell’assurdo e della Resistenza in Albert Camus (1939-1947), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2011/2012

La questione dell’epurazione divise in maniera chiara e netta gli intellettuali francesi. I comunisti, in particolare, si mostrarono intransigenti e perseguirono una giustizia terrena necessaria, a loro dire, per bilanciare gli orrori perpetrati dal regime nazista durante la guerra, grazie anche alla collaborazione più o meno decisiva di alcuni intellettuali francesi. Il PCF (Partito Comunista Francese), sfruttando la sua posizione egemonica in seno al CNS (Comitato Nazionale degli Scrittori) e grazie al ruolo chiave di Louis Aragon (indiscusso riferimento culturale del partito), condusse una meticolosa e inflessibile politica di epurazione. Dall’altro lato i cosiddetti “indulgenti”, i quali includevano, tra gli altri, due figure di particolare spessore come Jean Paulhan ma soprattutto François Mauriac, erano di tutt’altro avviso. Continuare a seminare odio non avrebbe aiutato in alcun modo a superare il dramma della guerra e della barbarie nazista. Bisognava andare avanti e concentrarsi sulla ricostruzione materiale del paese.
Che posizione assunse Albert Camus in tale controversia? Lo scrittore di origini algerine, come vedremo, cambierà rapidamente opinione a riguardo, mostrando un dinamismo ed una capacità d’autocritica fuori dal comune, specialmente se paragonate a quelle dei suoi omologhi, poco importa se appartenenti al campo degli intransigenti o a quello degli indulgenti, che non furono quasi mai in grado di distinguere tra i singoli casi e di comprendere fino in fondo lo spirito dell’epoca. La sua opinione iniziale era già chiaramente percepibile dalla diatriba che Camus ebbe con François Mauriac nell’ottobre del 1944. Quest’ultimo aveva criticato gli eccessi dell’epurazione, promuovendo, in coerenza con la sua fede cattolica, gli ideali di carità e di perdono, condivisi peraltro dal generale de Gaulle.
Camus si oppose duramente a questa linea. Anche se fortemente contrario alla pena di morte e al sentimento di odio caratterizzante l’epurazione portata alle sue estreme conseguenze dai comunisti, lo scrittore si mostrò comunque avverso alla concessione del perdono incondizionato. L’11 gennaio del 1945, sulle colonne di Combat egli scrisse, in risposta a Mauriac: “[…], posso dire al signor Mauriac che noi non ci scoraggeremo e che, fino all’ultimo momento, rifiuteremo una carità divina che frustrerebbe gli uomini della loro giustizia” [Camus (1945), 1977, p.62]. Da quell’articolo emerse chiaramente l’opposizione tra gli ideali cattolici di Mauriac e la filosofia atea di Camus.
Un profondo senso di giustizia è il sentimento preponderante nell’animo irrequieto dell’autore de "Lo straniero".
Tuttavia, contro ogni attesa, la posizione di Camus sulla questione dell’epurazione evolse rapidamente e lo scrittore raggiunse in poco tempo il campo degli indulgenti. Il confronto con Mauriac, intellettuale di rilievo e sicuramente capace di stimolare una riflessione intima e personale nel più giovane collega giocò, senza alcun dubbio, un ruolo assai importante. Tuttavia, l’episodio decisivo per il cambio di fronte dello scrittore di origine algerina fu certamente il caso di Robert Brasillach, illustre scrittore francese pesantemente compromesso con il regime nazista e, per questo motivo, condannato a morte. Numerosi intellettuali, tra i quali spiccavano nomi come quelli di Paul Valéry, lo stesso François Mauriac, Jean Paulhan e Marcel Aymé, firmarono una petizione per chiedere la grazia al generale de Gaulle ed evitare così l’esecuzione di Brasillach. Aymé, incaricato di raccogliere l’adesione del maggior numero possibile di intellettuali francesi, riuscì a convincere Camus a firmare l’appello, malgrado i forti dubbi di quest’ultimo. Questa firma segnerà il suo distacco sulla questione da Sartre e da Simone de Beauvoir, i quali si mostreranno inamovibili in tal senso, rifiutando categoricamente di firmare la petizione. L’autrice de "Il Secondo Sesso" spiegherà in seguito la sua posizione, richiamando gli imperdonabili errori di Brasillach che portarono alla morte di alcuni suoi amici per mano dei nazisti: “è nei confronti degli amici morti o moribondi che mi mostrai solidale; se avessi alzato un dito in favore di Brasillach, avrei meritato che mi sputassero in faccia. Non esitai nemmeno un istante, la questione non si pose nemmeno” [Beauvoir 1963, pp.31-32, cit. in Dosse 2018, p.94].
Malgrado l’appello firmato da cinquantanove intellettuali e nonostante l’influenza che Mauriac già all’epoca esercitava sul generale de Gaulle, quest’ultimo rifiutò di accordare la grazia e Brasillach venne così fucilato. Lo scrittore di Perpignan fu però l’ultimo intellettuale celebre a essere condannato alla pena di morte: a partire da quel momento, le pene furono molto meno severe e la linea dettata dagli indulgenti prevalse nettamente.
Come ho già affermato in precedenza, il caso Brasillach rappresentò il punto cruciale per il cambio di rotta di Camus sulla questione dell’epurazione. Durante l’estate del 1945 egli visse una vera e propria crisi di coscienza, arrivando ad affermare, il 30 agosto su Combat: “è palese ormai che l’epurazione in Francia sia non solamente mancata, ma nemmeno più considerabile. La parola stessa, epurazione, era già abbastanza dolorosa. La cosa è divenuta odiosa” [Camus (1945), 1977, p.65]. Il caso in questione è quello di René Gerin, pacifista condannato ad otto anni di lavori forzati dalla stessa Corte che condannò a solamente cinque anni Georges Albertini, un reclutatore della LVF (Legione dei Volontari Francesi contro il bolscevismo). Camus affermò che “né in logica, né in giustizia, ciò sia ammissibile”, sottolineando poi il fatto che “bisognerebbe rispettare le proporzioni e giudicare gli uomini secondo ciò che realmente sono” [Id., p.66].
L’evoluzione del pensiero di Camus sulla questione dell’epurazione è un chiaro indice della complessità della vicenda stessa. L’opinione pubblica francese, ma anche gli stessi intellettuali, erano, come detto, nettamente divisi. Tuttavia, la maggior parte di loro privilegiò un rassicurante agnosticismo, evitando di esprimersi in maniera esplicita sulla questione. La difficoltà principale in questo caso, come afferma François Dosse, professore dell’Università Sciences Po di Parigi, è quella di coniugare “memoria ed oblio, […], necessario esercizio della giustizia e non meno necessario bisogno di ricucire i fili dell’unità nazionale” [Dosse 2018, p.98].
Alessandro Pucci, Intellettuali, politica e società: Albert Camus e il ruolo dell’intellettuale engagé, Università Luiss "Guido Carli", Anno Accademico 2018-2019

martedì 15 marzo 2022

Non si era ancora delineata la soluzione del Piano Marshall

Anne McCormick - Fonte: Ohio History

Nel suo commosso omaggio a Roosevelt, la McCormick aveva accennato alle difficoltà con i sovietici emerse subito dopo Yalta: «Non assistere alla vittoria per cui si è tanto adoperato può averlo salvato dalla delusione di speranze esagerate». Un commento che finiva per favorire chi in America prevedeva o auspicava un deterioramento delle relazioni Usa-Urss, che nei mesi passati la giornalista aveva anticipato cercando ripetutamente di prefigurare l’assetto internazionale postbellico, senza però criticare apertamente la diplomazia di guerra rooseveltiana.
Il successore di Roosevelt, Harry Truman, avviò una graduale correzione di rotta nei rapporti con l’alleato sovietico. Estraneo alla ristretta cerchia dei consiglieri di Roosevelt, Truman sapeva poco o nulla dello stato delle relazioni con l’Unione Sovietica, che Roosevelt aveva sempre gestito in modo personale. Decisiva per il nuovo presidente diventava dunque l’esperienza dei vertici del dipartimento di Stato e dei diplomatici, come l’ambasciatore a Mosca Averell Harriman e l’incaricato d’affari dell’ambasciata George Kennan, che in seguito all’atteggiamento sovietico in Polonia e in Romania avevano maturato non pochi timori sulla possibilità di continuare a collaborare con Stalin nel dopoguerra.
Pur non abbandonando l’idea rooseveltiana della ricerca del compromesso con i sovietici, Truman e i suoi consiglieri venivano convincendosi che l’America avrebbe potuto svolgere meglio il proprio ruolo nella costruzione di un nuovo assetto mondiale seguendo una linea meno accomodante verso l’Urss e facendo leva sulla propria posizione di forza. Su temi quali gli aiuti economici per la ricostruzione sovietica o il monopolio della bomba atomica, la McCormick, inviata a molte delle principali conferenze internazionali che si tennero nel 1945 dopo Yalta - San Francisco, Potsdam, Londra - sosteneva nei suoi commenti sul «New York Times» questa linea di maggiore fermezza verso l’Urss, fungendo da cassa di risonanza della correzione di rotta in atto tra i policy-makers americani <1.
Alla conferenza istitutiva delle Nazioni Unite di San Francisco si registrarono alcuni segnali di irrigidimento, come il diverbio fra Truman e Molotov, al loro primo incontro, e la minaccia di sospensione degli aiuti previsti dalla legge Affitti e Prestiti. Ma la tensione fra Usa e Urss emerse soprattutto sulla questione del governo provvisorio polacco, il governo di Lublino, che Mosca era restia ad allargare ad elementi filoccidentali, come era stato concordato a Yalta. Commentando «la temperatura politica tanto imprevedibile e capricciosa da confondere i veterani dei congressi internazionali», la giornalista si rifece alle ultime parole del presidente Roosevelt sulla determinazione americana a procedere anche unilateralmente nel processo di ricostruzione internazionale. «Ogni segnale mostra che questo paese non sarebbe solo. Ha un grande seguito quando prende un’iniziativa chiara [...] e ciò che è stato dimostrato nelle recenti controversie è che nessuna potenza prevarrà in questa conferenza» commentò in riferimento all’opposizione dell’assemblea al governo filocomunista polacco, con una fermezza che James Byrnes, nominato di lì a poche settimane segretario di Stato, elogiò come «importante contributo alla comprensione di alcune fra le questioni più complicate del momento» <2.
Ma la collaborazione con l’Urss non era ancora messa in discussione; piuttosto prevaleva un’oscillazione fra posizioni di rigidità e di disponibilità al dialogo, evidente nei commenti della McCormick. Alla conclusione della conferenza al Golden Gate la giornalista scrisse che nonostante «una crisi dopo l’altra», «il bisogno e il desiderio di lavorare insieme sono stati più forti di ogni altra ragione di divisione. Lo dimostra il fatto che ogni disputa è stata sistemata [...]. In verità c’è stato molto più accordo che disaccordo a San Francisco».
In questa fase gli Stati Uniti erano alle prese con un nodo ancora non completamente risolto, il possibile ritorno all’isolazionismo; ciò che la McCormick definì il «reale pericolo di un fatale rovesciamento del sentimento americano» tornava di attualità nel momento in cui la guerra si era conclusa vittoriosamente e varie parti della società americana - per nulla attratte dal ruolo di principale potenza mondiale che l’America stava per assumere - pensavano soprattutto a «riportare a casa i ragazzi».
Di nuovo la McCormick fu in prima fila nell’affermare che la «leadership che gli Stati Uniti hanno assunto a San Francisco nell’organizzare lo sforzo internazionale per prevenire un’altra guerra» doveva tradursi in un impegno diretto in Europa per riportare condizioni di stabilità e benessere. «La fame è la potenza più grande e può privare dei frutti della vittoria, minare i fondamenti di ogni struttura di pace». «Aumentare gli aiuti alimentari non è solo una questione di filantropia, ma di vitale interesse per gli americani. Finché non ci saranno cibo e lavoro non potranno esserci ordine e interesse alla democrazia politica». La sua visione internazionalista si saldava così ad un’analisi della situazione europea in cui riaffiora il nesso tipicamente rooseveltiano tra pace, prosperità e stabilità democratica.
Nel 1945 l’accento cade ancora più sui bisogni alimentari che sulla ripresa produttiva dell’Europa, ma il riferimento al «vitale interesse» americano nella crisi in corso al di là dell’Atlantico è già un segno della capacità del liberalismo americano di definire l’interesse nazionale in termini globali. Nei mesi successivi le forti tensioni sociali e politiche che percorrevano l’Europa distrutta dalla guerra e il peggioramento delle relazioni con Mosca segnaleranno l’urgenza di una strategia europea degli Stati Uniti: un forte impegno americano nella ricostruzione, per nulla scontato nel 1945, sarebbe diventato di lì a poco la chiave per «vincere la pace», nonché uno dei pilastri del «contenimento» dell’influenza sovietica.
L’ultima delle conferenze di guerra, svoltasi a Potsdam nel luglio-agosto 1945, fornì altri segnali dell’allentamento della collaborazione tra i tre grandi. Truman e Churchill da una parte e Stalin dall’altra si scontrarono sulle riparazioni tedesche, con i primi contrari ad una soluzione punitiva ed il secondo desideroso di utilizzare il bottino tedesco per alleviare la difficile situazione interna sovietica. La McCormick colse l’inasprimento del clima internazionale ed associò l’ennesimo allarme sulla gravità del quadro europeo alla difesa della «libertà»: «L’Europa ha bisogno di tutto [...], nell’aiutare questo continente a mettersi sulla via della ricostruzione noi abbiamo soprattutto vantaggi. Non solo mercati, non solo stabilità, [...] ma la nostra migliore possibilità di estendere la zona di libertà da cui dipende la nostra stessa libertà. In altre parole, la possibilità di vincere la guerra», scrisse la McCormick all’indomani della conferenza, guadagnandosi di nuovo gli apprezzamenti del segretario di Stato Byrnes, con cui gli scambi di opinione si facevano via via più fitti <3.
Le tensioni emerse a Potsdam si aggravarono nei mesi successivi, in un crescendo in cui si alimentarono reciprocamente politiche più intransigenti e percezioni della controparte viziate dal riemergere di diffidenze mai del tutto superate. La McCormick fu una testimone significativa di questo mutamento di clima, in cui si andavano diffondendo i germi della guerra fredda. «L’Urss sta deliberatamente cercando di fare andare le cose nel modo più difficile possibile», scriveva da Londra in settembre, in occasione della riunione del Consiglio dei ministri degli Esteri sui trattati di pace con l’Italia e con i paesi minori dell’Asse. In effetti la conferenza fu caratterizzata da un’aspra contrapposizione tra Byrnes e Molotov, in particolare sulle pretese jugoslave su Trieste e la Venezia Giulia, e si chiuse con un nulla di fatto.
Terminati i lavori della «prima conferenza finita senza una pretesa d’armonia», con «l’intero processo di pace tenuto in sospeso», la McCormick a soli sette mesi dal suo ultimo soggiorno europeo iniziò un nuovo viaggio tra i paesi devastati dalla guerra. «L’Europa l’attira come un magnete e ha deciso di riprendere a trascorrere parecchi mesi all’anno là» disse di lei la portavoce del «New York Newspaper Women Club».
E così l’americana, sempre accompagnata dal marito nonostante la malattia che lo aveva colpito l’anno prima, riprese la consuetudine di recarsi una volta l’anno in Europa, interrotta solo durante il conflitto <4.
Londra, Edimburgo, Berlino, Monaco, Francoforte, Vienna, Budapest, Parigi e Roma, e poi ancora Cambridge, Leeds, Wakefield (il paese natale dell’americana nello Yorkshire), Wiesebaden, Magonza, Colonia, Norimberga furono le tappe del primo reportage europeo dalla fine della guerra; per quasi quattro mesi la sua column «Abroad» avrebbe ospitato corrispondenze dall’estero.
L’americana tornò a tratteggiare il clima politico dei paesi che visitava, l’atmosfera di ricostruzione nelle grandi città, ma anche le realtà economiche e sociali dei distretti agricoli, industriali e portuali.
In Inghilterra l’avvento dei laburisti di Attlee, che nell’estate era succeduto a Churchill, era espressione del «ritorno al tempo dell’uomo comune», del ripiegamento degli inglesi sulle loro faccende interne. La scelta degli elettori era stata per «uomini che rimuovessero il dibattito pubblico, meno militare e politico e più sociale ed economico», scriveva la giornalista, aggiungendo che si trattava di un «governo in prova», chiamato ad «alleviare le difficoltà della vita quotidiana». Il passaggio dall’Inghilterra alla Germania era la scoperta del «vuoto incommensurabile» che esisteva «tra la vittoria pagata a caro prezzo e la sconfitta senza speranza». Attraversando il territorio tedesco su quello che era stato il vagone privato di Hitler in compagnia di Byrnes, l’americana visitò città industriali come Francoforte, «praticamente morte e sepolte sotto la propria polvere», e constatò l’apatia e la demoralizzazione della popolazione. Berlino poi era «uno dei posti più strani in uno strano mondo», dove quattro governi lavoravano insieme e intanto erano in competizione tra loro. Qui criticò gli alleati per la loro incapacità a produrre in sette mesi «una politica congiunta» o almeno «un primo progetto di ciò che deve rimpiazzare la Germania distrutta». Quanto all’Ungheria, accessibile dalla Germania con il lasciapassare sovietico, aveva ripristinato una stampa relativamente libera, come poteva esserla quella di un paese occupato, e mostrava una certa ripresa della vita democratica; governata da un governo di coalizione in cui erano presenti solo due comunisti, nel 1945 tra tutti i paesi dell’Europa orientale era quello che presentava la situazione più aperta circa gli assetti interni e la collocazione internazionale futuri. La McCormick tuttavia sottolineò con preoccupazione che gli ungheresi da lei intervistati non si facevano illusioni sulla loro posizione rispetto all’Urss. Da Budapest tornò in Germania per seguire il processo di Norimberga, dove dall’ottobre le nazioni vincitrici erano riunite a giudicare 22 criminali di guerra nazisti, tra i quali Göring e Ribbentrop: uomini «così ordinari» all’apparenza, eppure «per questo più terribili», perché avevano dimostrato quanto «la loro limitata intelligenza e la loro perversa moralità avessero potuto fare con il potere di una nazione», dove ora regnavano solo «tremenda debolezza e malattia» <5.
A dicembre fu la volta di Parigi e Roma. Le sue impressioni erano positive, anche per il suo legame con i paesi dell’Europa latina e in particolare con l’Italia, dove la presenza del papa in Vaticano assumeva un valore particolare in quella fase di transizione; ma anche qui non mancavano note di preoccupazione. Chi come lei proveniva dalla Germania, «dalla spaventosa distruzione del popolo che non sorride», percepiva che «alla fine la Francia ha avuto la sua vendetta», «è sulla strada della ripresa, sta tornando nuovamente a vivere». Tuttavia nella sua descrizione di De Gaulle sembra riaffiorare la scarsa sintonia personale tra Roosevelt e il simbolo del riscatto francese, definito «l’uomo che riunisce in sé le più irritanti e le più eroiche qualità dei francesi». Anche in Italia, «fino all’anno scorso terra di rovina e disperazione, la ricostruzione - scrisse l’americana - è avviata a pieno ritmo»; «gli italiani, che contemplavano le loro rovine senza speranza, ora stanno sviluppando una sorprendente fiducia nelle loro capacità». In realtà il quadro economico non era così roseo: nell’inverno 1945-46 gli americani si stavano preoccupando soprattutto della Germania, e non avevano idee molto chiare sulla ripresa dell’economia in una fase in cui era già emersa l’inadeguatezza dei piani rooseveltiani sulla liberalizzazione degli scambi, ma non si era ancora delineata la soluzione del Piano Marshall.
Era soprattutto la politica a giustificare la soddisfazione della giornalista, poiché proprio in dicembre Ferruccio Parri fu sostituito alla guida del governo da De Gasperi che, scrisse la giornalista, «gode di grande consenso e fiducia fra la gente». L’avvicendamento ai vertici dell’esecutivo segnò un rafforzamento dell’influenza della Chiesa ed un declino di quella della sinistra; in un articolo la McCormick sottolineò che l’Italia, sconfitta e senza alcun peso sulla scena internazionale, poteva ancora contare sul Vaticano, rimasto «il solo centro internazionale» nel paese.
Accolta in udienza privata da Pio XII, riferiva di aver avuto la rassicurazione che «il pontefice sta lavorando per fare di Roma ancora una volta una capitale internazionale», per ridarle quel prestigio internazionale che - ricordava l’americana - solo il breve intervallo dell’impero fascista le aveva restituito <6.
Ora tuttavia la riproposizione del tema della grandezza di Roma, spesso declinata in senso classicista, non poteva più poggiare sull’impero fascista, ma solamente sul papato, centro del mondo cattolico. Inoltre influiva sulle posizioni della giornalista il suo affetto per l’Italia, che si saldava con l’interesse politico per il «precedente italiano», cioè per il primo paese in cui - in seguito alla caduta del regime - si era iniziato ad affrontare il dopoguerra in termini di assetti interni e collocazione internazionale. Il legame della giornalista con la comunità dei rifugiati antifascisti negli Stati Uniti continuava ad essere un altro elemento importante del suo rapporto con l’Italia, anche se dall’armistizio in poi - anche in seguito alle pressioni vaticane, prontamente accolte da Myron Taylor - divenne chiaro che gli alleati, magari a malincuore, avrebbero puntato sul partito cattolico più che sugli esuli di orientamento liberale nella ricostruzione politica del paese.
Max Ascoli, già presidente della ««Mazzini Society»», era stato tra coloro che avevano visto in Carlo Sforza il garante ideale di una transizione laica e moderata dal fascismo alla democrazia. Dopo il veto posto da Churchill sul suo nome, tra i più prestigiosi del liberalismo prefascista, Ascoli continuò ad avanzare proposte sulla ricostruzione dell’Italia; nell’estate del 1945 espose alla McCormick un piano per il rilancio dell’attività economica basato sulla rinascita della piccola impresa, e le chiese il suo aiuto per promuoverlo in Italia. E l’americana contattò l’ambasciatore in Italia Alexander Kirk pregandolo di «fare tutto il possibile per favorire il progetto» di Ascoli, «una voce molto influente negli Stati Uniti». Di fronte al «tragico dramma dell’Italia», dove «il vuoto politico seguito al fascismo» si sommava a condizioni di vita allarmanti, che non lasciavano spazio alla politica, il progetto di Ascoli era a suo giudizio «una delle poche costruttive idee uscite dalla confusa buona volontà degli amici americani e italoamericani» <7.
Il carattere centralistico dello stato italiano era stato frequentemente individuato come una delle tare storiche dello sviluppo democratico del paese e una concausa significativa del sorgere del fascismo; nel fermento di idee delle fasi finali della guerra e dell’immediato dopoguerra numerose proposte di decentramento politico-amministrativo venivano considerate una componente importante per trasformare il paese in direzione tale da evitare nuovi pericoli dittatoriali. Le tradizioni decentralizzatrici e localistiche del mondo cattolico, rinverdite ad esempio dalla proposte di Don Sturzo, vi giocavano una parte significativa ed è probabile che anche da questa fonte, oltre che dalla tradizione del federalismo americano, venisse la sensibilità della McCormick per questa proposta.
Altra figura di spicco della «Mazzini Society» era stato Alberto Tarchiani, ora ambasciatore italiano a Washington. Nella sua nuova veste egli era tra i fautori di un rafforzamento del ruolo degli Stati Uniti nelle vicende italiane, e subito dopo la liberazione utilizzò l’argomento del pericolo comunista per persuadere i vertici del dipartimento di Stato ancora esitanti a prendere l’iniziativa a scapito degli inglesi. Impegnato a presentare l’Italia agli americani come un paese amico e desideroso di intensificare i rapporti con Washington, Tarchiani nel settembre 1945 fu assai disturbato dalla pubblicazione sul «New York Times» delle dichiarazioni di un militare americano, il capitano Sidney Waugh, secondo il quale «gli italiani e i soldati americani si odiano, i G.I. devono guardarsi dalle insidie dei partigiani, e gli italiani non fanno il più piccolo sforzo per nascondere il loro rancore verso l’America, comportandosi come una grande potenza, anziché da paese di quarta o quinta classe». Queste parole sollevarono reazioni immediate nella stampa italiana e negli ambienti italiani in America, che temevano la diffusione di un’immagine dell’Italia preda del disordine politico e dell’antiamericanismo delle sinistre. «Questo capitano Waugh ha l’autorità di falsificare o alterare notevolmente i fatti nell’articolo del New York Times, contro la ben nota opinione di uomini come Montgomery, Alexander, MacFarley, MacMillian, Clark, Stone, Kirk, e naturalmente di scrittori e giornalisti» si rivolse Tarchiani alla McCormick con toni scandalizzati. «Questa è una notizia che merita di essere pubblicata o è solo un’evidente fantasia personale che dovrebbe essere onestamente rifiutata da un giornale di alta responsabilità come il New York Times?». Tarchiani le chiedeva di intervenire con «un sereno giudizio» sulla questione dato che «era perfettamente al corrente della recente storia italiana, dei fatti di cronaca ed aveva una solida personale esperienza della guerra e dell’occupazione dell’Italia» <8.
Intanto a dicembre, mentre la McCormick era a Roma, il quadro internazionale diede nuovi segni di deterioramento. I lavori del Consiglio dei ministri degli Esteri ripresero a Mosca e Byrnes, memore del fallimento di Londra, adottò un approccio più conciliante con l’Unione Sovietica; ne derivò un precario accordo sulla composizione pluralista dei governi di Romania e Bulgaria, che non avrebbe impedito la formazione di governi filosovietici nei mesi successivi. Truman, allarmato dalle notizie provenienti dall’Est europeo interpretazione sovietica degli impegni assunti a Yalta, non gradì l’iniziativa del segretario di Stato, mentre diplomatici come George Kennan ed esponenti repubblicani come Arthur Vandenberg e John Foster Dulles iniziarono a chiedere una minore disponibilità al compromesso, ed anche nell’opinione pubblica cresceva la diffidenza.
All’inizio del 1946 si ebbe un’accelerazione delle tensioni: a febbraio Stalin in un discorso al popolo russo delineava l’inevitabilità dello scontro tra società socialiste e capitaliste; a marzo Churchill denunciò l’espansionismo sovietico nel celebre discorso sulla «cortina di ferro» pronunciato a Fulton, nel Missouri; intanto Kennan nel «lungo telegramma» inviato a Washington dall’ambasciata di Mosca gettò le basi intellettuali della strategia del «contenimento», che avrebbe ispirato la condotta americana durante la guerra fredda. Si era ormai ad un punto di non ritorno, e di lì a poco la retorica anticomunista avrebbe di nuovo infiammato il dibattito politico interno, provocando un aspro dibattito che avrebbe lacerato anche gli ambienti liberal che fino a quel momento erano stati accomunati dal sostegno al New Deal e alla guerra.
La giornalista tornò a New York nel gennaio 1946, in una fase di grande attenzione per le vicende europee e, nonostante i suoi 66 anni, non si sottrasse ad un fitto calendario di apparizioni radiofoniche, dibattiti, seminari, spesso in sedi prestigiose, come la Columbia University, ed in compagnia di interlocutori noti, come Clare Boothe Luce, scrittrice cattolica, moglie dell’editore Henry Luce, rappresentante del Connecticut alla Camera e futura ambasciatrice in Italia dal 1953 al 1956.
Inizialmente la McCormick fu piuttosto prudente nel prendere atto del superamento definitivo della collaborazione alleata, ed anzi fece ricorso ad uno stile retorico che ricordava la rooseveltiana «libertà dalla paura».
Commentando il discorso di Churchill sulla «cortina di ferro» concesse all’ex primo ministro britannico che «se il pericolo è così imminente, la linea che auspica è la sola a fornire garanzie contro il disastro», ma aggiunse che «all’apice della nostra potenza, la politica americana non può basarsi sulla paura». E di fronte «al terrore che nelle ultime due settimane si è impadronito delle menti più calme e più ferme», aggiunse che «nessuna nazione può volere la guerra. Per nessuna potenza mondiale un sistema di sicurezza collettiva è così importante come per Stati Uniti e Unione Sovietica. Perciò nessuno, a meno che non sia pazzo, può desiderare la guerra o non usare il suo potere per prevenirla» <9.
Ma gli eventi dei mesi successivi confermarono che la prospettiva rooseveltiana di collaborazione tra le potenze vincitrici stava lasciando il posto ad un assetto bipolare costruito sulla contrapposizione tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. La McCormick sottolineò il «clima di pessimismo» che si stava diffondendo in seguito al difficile andamento del Consiglio dei ministri degli Esteri sui trattati di pace con le potenze minori dell’Asse, che riprese i lavori a Parigi in aprile. «Il peggiore effetto del clamoroso disaccordo fra i tre grandi è la corruzione dello spirito della vittoria e il venir meno della fiducia di tutte le nazioni nella volontà delle grandi potenze di restaurare un ordine mondiale». «La questione principale - continuava - non è quando possiamo fare la pace. La questione preoccupante è se possiamo fare la pace». Attribuendo le tensioni fra le potenze «ad una sorta di orgoglio adolescenziale» dei sovietici, al «sospetto verso gli stranieri», all’«antica spinta all’espansione indefinita», la McCormick amplificava le rinnovate diffidenze dei funzionari americani verso i fini della diplomazia sovietica. «Nessuno che ha onestamente vissuto gli sviluppi delle conferenze internazionali da San Francisco a Parigi può nutrire il più piccolo dubbio sul fatto che andare d’accordo con la Russia sia stato lo scopo principale della nostra politica di pace. Il primo normale tentativo di costruire la pace ha deluso le aspettative e enfatizzato le differenze tra Russia e potenze occidentali e nessuno può essere sicuro dei trattati preparati nel corso di un anno e di un intenso lavoro di undici settimane a Parigi».
I toni della McCormick sull’andamento della conferenza di pace di Parigi riflettevano l’accelerazione verso la costituzione di due sfere di influenza, evidenziata nell’estate 1946 dagli eventi europei. In Germania i sovietici rifiutarono la proposta americana di giungere ad una gestione comune delle quattro zone di occupazione, in vista della stipulazione del trattato di pace. Stati Uniti e Gran Bretagna decisero allora di procedere unilateralmente e di unificare le zone di loro competenza nella cosiddetta bizona: era il primo passo significativo verso l’unificazione delle tre zone occidentali.
Le preoccupazioni americane per la Germania si trasformavano in allarme nel caso di Cecoslovacchia e Ungheria, che per la giornalista erano ormai «satelliti nell’orbita sovietica», benché nel 1946 il loro quadro politico fosse più fluido rispetto agli altri paesi dell’Europa orientale e balcanica.
Intanto stavano per svolgersi le prime elezioni del dopoguerra in Europa, un voto «pro o contro il comunismo» secondo la giornalista. Francia e Italia erano rappresentate come «custodi della civiltà occidentale» che prevedevano una pluralità di posizioni politiche e un argine alle «sinistre marxiste» costituito dai partiti «del socialismo cristiano che stanno crescendo in ogni paese per combatterle».
[NOTE]
1. Per orientarsi nella sterminata letteratura sulle origini della Guerra fredda si veda il saggio
bibliografico in W.I. Cohen, The Cambridge History of American Foreign Relations, Vol. IV,
America in the Age of Soviet Power 1945-1991, Cambridge, Cambridge University Press,
1995. Tra i lavori più significativi citiamo J.L. Gaddis, The United States and the Origins of
the Cold War 1941-1947, New York, Columbia University Press, 1972; M.P. Leffler, A
Preponderance of Power. National Security, the Truman Administration and the Cold War,
Stanford, Stanford University Press, 1992; M.P. Leffler, D.S. Painter (eds.), Origins of the
Cold War. An International History, London, Routledge, 1994.
2. No one power will prevail in conference, in «NYT», 30 aprile 1945; Hope of Polish Settlement
Heartens Conference, NYT, 5 maggio 1945; The Work of Organization Goes Ahead, NYT,
7 maggio 1945. I rapporti fra M. e Byrnes erano destinati a rinsaldarsi nei mesi successivi, vedi
AOMCC papers, box n. 3 April-June 1945, lettere di M. a Byrnes per fissare un incontro a
Washington dopo la conferenza a San Francisco, 30 aprile 1945 e 2 maggio 1945; box n. 4
January-March 1947, lettera di Byrnes a M. gennaio 1947 del segretario di Stato; box n. 3 July-
December 1944, lettera di M. a Edward Stettinius settembre 1944, predecessore di Byrnes.
3. W.I. Cohen, op.cit., pp. 17-20; E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali…, cit.,
pp. 554-564; A False Picture of «Crisis» at San Francisco, in «NYT», 9 giugno 1945; The
Delegates Look Ahead from the Conference, in «NYT», 21 maggio 1945; The Great Post-War
Power Is Hunger, in «NYT», 26 maggio 1945; The Logistics of Peace Are Also a Problem, in
«NYT», 28 maggio 1945; Signing the declaration of Interdependence, in «NYT», 4 luglio 1945;
Withdrawal of American Forces from Europe, in «NYT», 11 luglio 1945; The Big Three Reresume
Where SHAEF Left Off, in «NYT», 16 luglio 1945; Too-Little, Too-Late Policy Will Not Win
Peace, Either, in «NYT», 23 luglio 1945; Firm stand urged on Foreign Policy, in «NYT»,
7 marzo 1945; U.S. Is Urged To Use Its Thinking Capacity, in «NYT», 12 aprile 1945; Two
Votes That Represent Reversals of Policy, in «NYT», 30 luglio 1945; Echoes of Conversations at
Potsdam, in «NYT», 25 luglio 1945; Potsdam Inaugurates a Great Experiment, in «NYT»,
4 agosto 1945; British Labor at Potsdam and Beyond, in «NYT», 6 agosto 1945; AOMCC
papers, box n. 3, July-December 1945, lettera di Byrnes 30 luglio 1945.
4. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali…, cit., pp. 638 sgg.; R.L. Messer, The End
of an Alliance. James Byrnes, Roosevelt, Truman and the Origins of the Cold War, Chapell Hill,
The University of North Carolina Press, 1982, pp. 192-193; The Stiffening Attitude Towards
Russia, in «NYT», 2 marzo 1946; Russia Is Losing British Good-Will, in «NYT», 26 settembre
1945; Council on Principles Not Procedures, in «NYT», 3 ottobre 1945; AOMCC papers, box
n. 3, January-March 1944, lettere 3 e 26 gennaio 1944; box n. 3, April-June 1945, discorso
di presentazione al «NYNW Club», 10 aprile 1945.
5. Labor Is a Government on Trial at Home and Abroad, in «NYT», 28 luglio 1945; Parlament
Looks the Same but Is Different, in «NYT», 10 ottobre 1945; English Coal Districts Stir with
Hope of Change, in «NYT», 22 ottobre 1945; Two Problems Confront Our Army in Germany,
in «NYT», 31 ottobre 1945; Forming a Pattern for the Rule of Berlin, in «NYT», 5 novembre
1945; Powers Ruling Berlin Compete To Do the Best Job, in «NYT», 10 novembre 1945. J.
Edwards, Women of the World..., cit., p. 84, riferisce del viaggio di M. insieme a Byrnes.
Nations East of Germany Not Subdued, in «NYT», 28 novembre 1945; Germany Little Enterested
in Trial of War Criminals, in «NYT», 1 dicembre 1945; Peace Hangs on Control of Germany, in
«NYT», 3 dicembre 1945; Rule in Germany Leaves Much To Be Desired, in «NYT», 5 dicembre
1945; Germany, Weak, Is Still a Great Problem, in «NYT Magazine», 16 dicembre 1945.
6. F. Romero, Gli Stati Uniti in Italia, cit., pp. 239-241; Paris Gives Evidence France Is on
Road to Recovery, in «NYT», 8 dicembre 1945, France Speaks as Voice of Western Europe, in
«NYT», 10 dicembre 1945, Flame of Courage Lights the House of France, in «NYT», 12 dicembre
1945; The Will To Leave Springs Up in Italy, in «NYT», 29 dicembre 1945; Influence
of Vatican Policy Shows in Italy, in «NYT Magazine», 26 dicembre 1945; Pope Gives Thanks
for Vatican Safety, in «NYT», 1 gennaio 1946; The Central Figure in the Roman Pageant,
in «NYT Magazine», 20 febbraio 1946; Italy Shocked by Moscow Decision, in «NYT»,
31 dicembre 1945.
7. M. inoltre preparò l’accoglienza a Roma di Ascoli, che avrebbe trovato un valido punto di
riferimento per pubblicizzare il suo progetto presso la contessa Mary Senny di Grottaferrata,
a cui portò in dono per conto di M. alcune paia di calze di nylon - introvabili in Italia - come
simbolico ringraziamento per le tante traduzioni di articoli di quotidiani italiani e commenti
sull’Italia che la contessa le aveva inviato durante l’estate. General «Maurizio» Appears in
Italian Politics, in «NYT», 18 giugno 1945; AOMCC papers, box n. 3, January-March 1944,
lettere dell’assistente sottosegretario di Stato, Frances E. Villis, a M. 12 luglio 1945, lettera di
M. a Tarchiani, luglio 1945; box n. 3, April-June 1945, Max Ascoli a M. giugno 1945,
risposta di M. 28 giugno 1945.
8. D.W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 150 sgg.; la risposta all’ambasciatore, in assenza di
M. che era in Europa, venne dal direttore generale Edwin L. James, che segnalò altri recenti
articoli sul «New York Times» che «spero considererete controbilanciare l’articolo di cui vi
lamentate». Mentre anche nelle corrispondenze europee di M. dell’inverno 1945 erano
evidenziati gli «incoraggianti segnali sul piano del recupero individuale e umano» delle popolazioni
particolarmente in Italia, Francia e Olanda, e si presentava un atteggiamento di
assoluta fiducia degli europei verso gli Stati Uniti, «l’unica grande potenza che desiderino
esaltare. Gli europei - aggiungeva - sono più preoccupati di noi quando ci vedono sciupare la
nostra forza, compromettere i nostri principi o rinunciare a quel predominio che tutti, tra
noi, sono convinti sia sufficientemente indiscutibile per formare la politica del mondo»,
Foulder Edwin L. James 1936-1949, NYT Archives, lettera di Tarchiani 6 settembre 1945;
Returned Officer Distrusts Italy, in «NYT», 6 settembre 1945; Capt. Waugh Denounced, in
«NYT», 8 settembre 1945; Disagreement on Italians, in «NYT», 10 settembre 1945; Attack
on Italians Seen, in «NYT», 14 settembre 1945; Italy’s Part in War, 19 giugno 1945; The
European Landascape in Retrospect, in «NYT», 12 gennaio 1946.
9. Mr. Churchill Proposal to the Middle West, in «NYT», 6 marzo 1946; Time Grows Short for
Peace Offensive, in «NYT», 13 marzo 1946; The United States and the United Nations, in
«NYT», 20 marzo 1946; The Three Agreements on UNO Clear the Air, in «NYT», 23 marzo
1946; AOMCC papers, box n. 4, January-March 1946, lettera di M. a Edward Spencer
Cowles del marzo 1946.
Marco Mariano, V - Ricostruzione e guerra fredda, 1946-1954 in Federica Pinelli - Marco Mariano, Europa e Stati Uniti secondo il New York Times. La corrispondenza estera di Anne O’Hare McCormick. 1920 - 1954, Otto editore, Torino, 2000

domenica 13 marzo 2022

Sciascia ha un’idea di letteratura come cosmo ordinabile da opporre al caos dell’esistenza


 È dunque da «un singolare e stretto legame tra il privato-esistenziale e la riflessione storica e pubblica <26» che prende avvio la scrittura di Leonardo Sciascia. Nell’esperienza poetica "La Sicilia, il suo cuore" - schierandosi dalla parte dei più deboli e cercando di adeguare il più possibile le parole alla realtà <27 - il poeta dà forma all’angoscia antica di una terra che è alimentata da povertà e miseria, che è scenario metastorico per una meditazione esistenziale più ampia, segnata da una profonda desolazione <28. Le occorrenze zoomorfe delle liriche sono utilizzate per accompagnare immagini di desolazione e di miseria, mettendo in forma - qui, come altrove - quell’idea di morte che percorre in un continuum tutte le sue opere <29. Sciascia vorrebbe dar voce a questa angoscia antica, opponendovi una scrittura forte, in grado di rompere quel silenzio assordante sulle cose, ma si scontra con la difficoltà di rappresentare quel mondo all’interno del ritmo e della misura della lirica.
Onofri sottolinea come molte liriche si caratterizzino per un andamento prosastico, per una vocazione a farsi racconto, vocazione che troverà i più alti risultati nelle produzioni narrative successive <30.
Ma le considerazioni del critico sulla presenza all’interno della raccolta «di un lessico attinto ad una lingua anti-realistica, anti-prosastica, alta, che molto deve a Quasimodo (…), al Luzi di "La barca" e, in generale, ad una koinè latamente ermetica <31», devono essere arricchite con le considerazioni di Fabio Moliterni, il quale sottolinea come la scrittura delle liriche presenti immagini e lessemi che sono riconducibili, al limite dell’espressionismo, ad un universo che è luttuoso, animalesco, «insieme metafisico, irrazionale e crudelmente realistico». Sono immagini che Sciascia ricava dalla geografia siciliana e popolare, che poi vedranno più compiuta rappresentazione, sia sul piano stilistico che su quello formale, nel successivo esordio narrativo <32.
Sciascia, mosso da un’urgenza realistica, con le "Favole della dittatura" e l’esperienza lirica successiva, riesce a dare una prima razionalizzazione al mondo della Sicilia, mescolandovi una realtà irrazionale e luttuosa, che vede le sue più profonde radici dalle meditazioni sulle letture pirandelliane <33: «Sentivo come una costrizione, come un’imposizione, di non potere vedere la vita - nell’immediatezza del luogo e del tempo in cui la vivevo e nel conseguente dislegare in più vasta e dolorosa meditazione – di non poter vedere la vita altrimenti di come [Pirandello] la vedeva… <34». La scrittura di Sciascia nell’approdo alla stagione letteraria successiva cerca di cogliere «le cose di Sicilia» adottando registri e procedimenti stilistici che non saranno del tutto difformi dai modi e dalle forme dei primi esordi: da un lato, il registro comico-umoristico, il sarcasmo e l’umorismo contro il Potere; dall’altro la pietà e il sentimento tragico verso i deboli della terra <35.
A questa altezza cronologica, come emerge da questa breve ricognizione circa il cammino di Sciascia verso il realismo, l’arte e la letteratura sono non solo in grado di rispecchiare la realtà, ma la intensificano e la potenziano, al punto tale che ne emerge una nuova, più vera di quella da cui deriva. Una concezione che vede nella scrittura la possibilità di ordinare il caos della vita, concezione che Sciascia matura in questo percorso di chiarificazione letteraria <36.
2.1.II. L’opera
Durante i primi anni Sessanta, la scrittura di Sciascia registra un interesse verso il rapporto con il reale e l’interesse per la storia, interesse che influenza il suo impegno civile così come ne sono influenzate le strutture tematiche, le scelte stilistiche e la forma dell’opera letteraria. Progressivamente vengono erodendosi e complicandosi le linee guida della poetica realistica che aveva caratterizzato la sua giovinezza, la vena civile si chiuderà in una dimensione intima, percorsa da sofferte inquietudini esistenziali <37. Il suo storicismo dominato da note negative e l’illuminismo critico comportano in sede letteraria un’inchiesta ed un’investigazione letteraria attorno ai codici simbolici del Potere così come una ricognizione sui soprusi della storia <38. Come precedentemente sottolineato, il razionalismo cui Sciascia era approdato derivava dall’aver scritto sempre mosso da una nevrosi da ragione, una ragione che - come proprio Sciascia affermò - camminava sull’orlo di una non ragione. Quest’ultima era percepita come una condizione patologica da cui uscire, e non come il presupposto per un’esperienza illuministica: era una ragione-valore, la ragione degli oppressi. Viene ridefinendosi il rapporto tra letteratura e realtà: tra una letteratura che tenta di dare un ordine razionale alla realtà ed una realtà che però è sempre più inadatta alla rappresentazione letteraria. L’autore aspira a redimire con la letteratura lo strazio ed i soprusi, strazio che però ai suoi occhi è irredimibile <39.
Per Sciascia la letteratura non solo è il mezzo attraverso cui è possibile una comprensione della realtà, ma è anche forma di consolazione rispetto al caos e al dolore da cui è dominata <40. Il nucleo della scrittura di Sciascia è dunque da individuare nel suo «assillo morale, pedagogico e civile <41»:
"Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo. Un problema che si assomma nella scrittura, che nella scrittura trova spazio o riscatto. E direi che il documento mi affascina - scrittura dello strazio - in quanto entità nella scrittura, nella mia scrittura, riscattabile" <42.
Si stavano venendo a delineare i poli fondativi della sua esperienza intellettuale: la sua concezione del reale e della storia ed il rapporto che la letteratura instaura con la verità e la giustizia <43.
Ed è su questo sfondo che nasce "Il Consiglio d’Egitto": opera da annoverare tra i risultati più alti della narrativa sciasciana, vertice della sua vena inventiva e creativa, il punto di partenza delle meditazioni che percorrono tutta la produzione letteraria dell’autore. Pubblicato nel 1963, l’opera narra le vicende, in una Palermo di fine Settecento, dell’abate maltese Giuseppe Vella e dell’avvocato Francesco Paolo Di Blasi. L’abate, fingendo di conoscere la lingua araba, falsifica due codici: il "Consiglio di Sicilia" e il "Consiglio d’Egitto", i quali avrebbero dovuto chiarire l’origine e la legittimità di alcuni possedimenti feudali siciliani. Così facendo avrebbe fornito la presunta autorevolezza dei documenti storici utili alla battaglia contro i privilegi dei feudatari siciliani condotta dai viceré riformatori Caracciolo e Caramanico. Dell’impostura che passo dopo passo prende forma, Vella si approfitta, accettando i ricchi compensi che gli aristocratici gli garantiscono in cambio di ulteriori falsificazioni al codice a loro favore. L’abate, successivamente, una volta sostenuto un pubblico confronto con un vero arabista che cercava di denunciare la sua impostura, Hager, capisce che la stagione riformista sta concludendosi - dopo l’allontanamento da Palermo di Caracciolo e la morte di Caramanico. Decide quindi di confessare la sua impostura e accetta serenamente la prigione. Di Blasi, uomo di coscienza illuminista, libertino e poeta, in un primo momento sostiene la battaglia antifeudale grazie alla sua cultura giuridica, poi in un secondo momento - per combattere il viceré successivo Lopez y Rojo - organizza una congiura giacobina. Questa vedrà però la fine sul nascere, il 31 marzo 1795, mandando al patibolo l’avvocato Di Blasi <44.
La vicenda dell’abate Vella, con la falsificazione linguistica che ne deriva e la ricostruzione della “truffa letteraria”, fanno sì che "Il Consiglio d’Egitto" sia un testo con funzione di archetipo, contenente in sé la summa del metodo e del laboratorio di scrittura dell’autore. Da intendersi come «l’opera più sciasciana di Sciascia, la più sottilmente autobiografica, ma anche un romanzo storico, romanzo di conflitti sociali: nelle intenzioni, nella forma e nella struttura <45».
Con l’impostura del Vella, Sciascia fornisce un’esemplificazione della nozione di letteratura che era venutasi maturando: questa quando non si piega ai giochi del Potere, non può essere considerata meramente come mezzo di denuncia ideologica.
Il "Consiglio", in qualità di testo letterario, può vivere come realtà in sé conclusa, all’interno della quale possono «pacificamente risolversi i contrasti della vita, medicarsi i dolori, sciogliersi le contraddizioni della natura e della storia» seguendo un ordine razionale - grazie all’aiuto di una menzogna, ma che può essere considerata come profonda verità <46. Uno dei temi principali del romanzo è quello del rapporto tra letteratura e vita: Sciascia ha un’idea di letteratura come cosmo ordinabile da opporre al caos dell’esistenza, un cosmo «tanto libero limpido e razionale, quanto opaca costretta e irrazionale era la realtà in cui si era trovato a vivere <47».
Ecco, quindi, che l’antistoricismo dell’autore vede alla base una concezione della letteratura come luogo senza tempo, in cui i misfatti possono redimersi e gli enigmi della vita sciogliersi nella verità. Questa convinzione percorrerà tutta la sua scrittura, come ultimo segno di ottimismo, persino nei tempi del più estremo scetticismo radicale <48.
[NOTE]
26 F. MOLITERNI, Sciascia moderno. Studi, documenti e carteggi, cit., p. 39.
27 M. ONOFRI, Storia di Sciascia, cit., p. 30.
28 F. MOLITERNI, Sciascia moderno. Studi, documenti e carteggi, cit., p. 39.
29 Ivi, p. 42.
30 M. ONOFRI, Storia di Sciascia, cit., p. 32.
31 Ivi, p. 33.
32 F. MOLITERNI, Sciascia moderno. Studi, documenti e carteggi, cit., p. 42.
33 Ivi, p. 43.
34 L. SCIASCIA, Pirandello, mio padre, in Micromega, n. 1, 1989, pp. 33-4, in F. MOLITERNI, Sciascia moderno. Studi, documenti e carteggi, cit., p. 43.
35 Ivi, p. 44.
36 M. ONOFRI, Storia di Sciascia, cit., p. 37.
37 F. MOLITERNI, La nera scrittura: saggi su Leonardo Sciascia, Bari, B. A. Graphis, 2007, p. 57.
38 Idem, Sciascia moderno. Studi, documenti e carteggi, cit., p. 70.
39 M. ONOFRI, Storia di Sciascia, cit., pp. 39-41.
40 Ivi, p. 78.
41 F. MOLITERNI, Sciascia moderno. Studi, documenti e carteggi, cit., p. 69.
42 14 domande a Leonardo Sciascia, a cura di C. Ambroise, in Leonardo Sciascia, Opere 1956-1971, Milano, Bompiani, 2000, p. XXI, in https://www.amicisciascia.it/pubblicazioni/sintesi/item/157-edoardo-costadura-leonardo-sciascia-la-solitudine-del-maestro.html.
43 F. MOLITERNI, Sciascia moderno. Studi, documenti e carteggi, cit., p. 73.
44 G. TRAINA, Leonardo Sciascia, cit., p. 77.
45 G. TRAINA, In un destino di verità. Ipotesi su Sciascia, Milano, La Vita Felice, 1999, p. 35.
46 M. ONOFRI, Storia di Sciascia, cit., p. 85.
47 Ivi, p. 18.
48 Ibidem.
Irene Boesso, Le modulazioni del tema della morte in Leonardo Sciascia. Un’analisi in tre tempi, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2019/2020