domenica 24 marzo 2024

Il nemico rosso viene additato come responsabile dalla destra ancor prima che le indagini abbiano inizio


«Vorrei dirle… che gh’è, che la xè una… una machina che ga due
buchi, eh… sul parabressa, no? fra la strada… da Poggio Terza Armata a
Savogna… la xè una cinquecento da Poggio Terza Armata per venire giù
a Savogna… una cinquecento bianca e la ga due busi, due, due busi,
sembra de palotola…» <235
Sono le 22 e 35 della sera del 31 maggio 1972 quando giunge presso il pronto intervento dei carabinieri di Gorizia una chiamata, in forma anonima, che segnala la presenza, nei dintorni della località di Peteano di Sagrado, di una vettura, una Fiat 500 bianca, con due fori di proiettile sul parabrezza.
Tre pattuglie dei carabinieri accorrono sul posto, immaginando di dover ispezionare ciò che resta di un ipotetico conflitto a fuoco. Una volta individuato e identificato il veicolo in questione i carabinieri procedono con l’apertura del cofano anteriore, facendo però scattare il meccanismo a strappo di un ordigno collocato al posto della ruota di scorta. <236
L’esplosione dell’ordigno provoca la morte del brigadiere Antonio Ferraro, e dei due carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni, tutti e tre situati vicino al portabagagli della vettura, ed il ferimento, per gravi ustioni, del tenente Tagliari e, per le schegge seguenti all’esplosione, del brigadiere Zazzaro. <237
Ad accorrere sul luogo dell’esplosione sono il comandante della legione di Udine Dino Mingarelli, il comandante del gruppo di Udine Vinicio Ferrari, il comandante del nucleo investigativo del gruppo di Udine Antonino Chirico, il prefetto di Gorizia Vincenzo Molinari ed il questore di Gorizia Domenico De Focatiis. <238
La vicenda investigativa e processuale che prende avvio dalle ore immediatamente successive alla strage risulta essere tra le più complesse e singolari all’interno del quadro stragista italiano, per una serie di ragioni:
- la strage ha come obiettivo quello di non coinvolgere civili, ma esclusivamente forze dello Stato;
- la strage, come si vedrà approfonditamente più avanti, seppur commessa da uomini appartenenti a gruppi eversivi dell’estrema destra, non rientra nel disegno della strategia della tensione, bensì è in rottura con essa, avendo come obiettivo quello di spezzare i legami tra neofascisti ed istituzioni dello Stato;
- gli autori della strage usufruiscono, talvolta anche inconsapevolmente, dei meccanismi difensivi di copertura relativi alla strategia della tensione, nonostante la loro azione non segua tale disegno eversivo;
- la condanna, in via definitiva, per uomini dello Stato, autori di depistaggio nel corso della prima fase processuale;
- la singolare figura di Vincenzo Vinciguerra, autore e reo-confesso della strage, unico caso per quanto riguarda lo stragismo nero del quinquennio 1969-1974, il quale, attraverso le proprie spontanee dichiarazioni in qualità di soldato politico, e non come pentito, dissociato o collaboratore di giustizia, risulta essere fondamentale per comprensione di alcuni meccanismi di funzionamento della strategia della tensione;
- il rinvio a giudizio del segretario del Movimento Sociale Italiano Giorgio Almirante con l’accusa di favoreggiamento aggravato nei confronti di Carlo Cicuttini, l’autore della telefonata anonima. Il leader missino, tuttavia, non siederà al banco degli imputati durante lo svolgimento del processo in quanto beneficiario di amnistia.
[...] Quello di Peteano è un attentato che desta forte scalpore all’interno del Paese, ma che sparisce dalle prime pagine dei principali organi di informazione in tempi assai rapidi. Ai funerali delle vittime, il 3 giugno, sono presenti il ministro dell’interno Rumor ed il capo della polizia Vicari. Per la destra italiana non ci sono dubbi, quello di Peteano è l’ennesimo vile atto del terrorismo rosso.
Su “Il Secolo d’Italia” sulla prima pagina del 2 giugno 1972 si titola: «Tre carabinieri uccisi in un’imboscata dei comunisti. Vergogna.» <239 Sono passate poco più di 24 ore dall’accaduto, ma nella sede del quotidiano missino già sono a conoscenza che «la canaglia rossa ha colpito ancora e con viltà, la fredda determinazione, il cinismo di sempre […] che testimonia il crescente attacco comunista alle istituzioni dello Stato e ai tutori dell’ordine. È un attentato nel quale una sola matrice è possibile individuare, quella comunista, perché solo i comunisti possono scagliarsi con ferocia belluina contro lo Stato e chi lo rappresenta e difende». <240 Il nemico rosso viene additato come responsabile dalla destra ancor prima che le indagini abbiano inizio. Il MSI esprime sin da subito la propria vicinanza alle forze dell’ordine, garanti della sicurezza e dell’ordine pubblico. Ne è testimonianza il telegramma inviato da Almirante al generale Corrado Sangiorgio:
«Nuovo segno di terrorismo contro l’autorità dello Stato et suoi difensori ravviva nelle menti et cuori il senso di una scelta di libertà insita nell’ordine civile et istituzioni che ne confortano la continuità.
Sacrificio Carabinieri di Gorizia commuove gli Italiani che costituiscono la falange del Movimento Sociale Italiano: sangue versato per la collettività nazionale est porpora non eguagliabile che conferisce perennità alla memoria dei Caduti nell’adempimento del dovere. Con sincero pensiero.» <241
“L’Unità”, invece, sin dalle prime battute segue una linea più prudente, sottolineando come gli inquirenti stiano seguendo tutte le ipotesi possibili. Gli accenni e gli interrogativi intorno alla possibile responsabilità neofascista però non mancano:
«Siamo di fronte a un nuovo, drammatico episodio della “trama nera”, di quella strategia della tensione e della provocazione con cui si tende ad avvelenare il clima politico italiano?» <242
Anche all’interno del comunicato delle segreterie e regionali del PCI, si può leggere:
«I comunisti sottolineano ancora l’esigenza della vigilanza di tutte le forze antifasciste, democratiche e popolari volta a stroncare ogni tentativo eversivo della forza reazionaria di destra». <243
Per l’avvio delle indagini, già dal giorno successivo alla strage, giungono a Gorizia Giovanbattista Palumbo, comandante della divisione CC Pastrengo di Milano, e Salvatore Pennisi, comandante della brigata di Padova.
La Corte d’Assise di Venezia, in occasione della sentenza del 25 luglio 1987, tiene a sottolineare che «la strage di Peteano per la gravità dell’evento, per le modalità d’attuazione, per la qualità delle vittime, richiamate sul luogo dove era stata parcheggiata la Fiat 500 da una telefonata, che unicamente indica come la strage fosse mirata a provocare la morte di appartenenti all’Arma dei carabinieri, è delitto che avrebbe dovuto evocare nell’immediatezza una matrice eversiva o comunque di delinquenza organizzata». <244 E ancora come «Non dovrebbe mai succedere che quella formula [indagare in tutte le direzioni] venga usata per legittimare indagini che già nella fase di avvio si rivolgano verso direzioni diverse da quelle indicate e che per ciò solo tolgano priorità e mordente a queste ultime e che vi si insista anche quando abbiano dimostrato a distanza di tempo tutta la loro sterilità. Non dovrebbe mai succedere: ma è successo proprio per la strage di Peteano, che vede dopo la sua consumazione condotte degli inquirenti assolutamente singolari, e che, se le si potesse ritenere da buona fede, dovrebbero essere additate, nei manuali di polizia giudiziaria, come di assoluta inefficienza». <245
[NOTE]
235 Dalla Sentenza-Ordinanza di rinvio a giudizio del giudice istruttore Felice Casson del 04-08-1986, p. 34.
236 Ibidem, p. 35.
237 Luca Pastore, La strage di Peteano nelle cronache del “Corriere della Sera, del “Secolo d’Italia e dell’”Unità”, in Mirco Dondi (a cura di), I neri e i rossi. Terrorismo, violenza e informazione negli anni Settanta, Nardò, Controluce, 2008, p. 205.
238 Dalla sentenza della Corte di Assise di Venezia per la strage di Peteano del 25 luglio 1987, p. 324.
239 “Il Secolo d’Italia”, 2 giugno 1972.
240 Ibidem.
241 Ibidem.
242 Mario Passi, La trappola che ha ucciso i carabinieri, in “L’Unità”, 2 giugno 1972.
243 Identificare gli esecutori e gli eventuali mandanti, in “L’Unità”, 2 giugno 1972.
244 Dalla sentenza della Corte di Assise di Venezia per la strage di Peteano del 25 luglio 1987, p. 325.
245 Ibidem, p. 328.
Mirko Cerrito, La strage di Peteano e l’amnistia di Almirante. Storia e analisi del rapporto tra destra missina e destra eversiva, Tesi di Laurea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno accademico 2019-2020

sabato 16 marzo 2024

A detta della Luce, infatti, il Piano Vanoni non era efficace contro il comunismo


Arrivata a Roma, Clare Boothe Luce trovò un clima di grande attesa in vista delle elezioni politiche, che si sarebbero tenute nel mese di giugno e nei cui confronti a Washington c’era una grande fiducia. Si riteneva infatti che la Dc godesse di un buon seguito dopo i risultati deludenti del 1952. Inoltre, Washington confidava nella nuova legge elettorale, la cd. “legge truffa”, ritenuta capace di assicurare la continuità di governi centristi autorevoli e di azzerare tutti i vantaggi delle sinistre. La legge aveva modificato il sistema elettorale proporzionale, assegnando un premio (il 65% dei seggi) al partito o alla coalizione che avesse raggiunto il 50% + 1 dei voti. In base alle previsioni, i partiti della coalizione di governo avrebbero ottenuto la maggioranza assoluta di voti necessaria per far scattare il premio previsto dalla nuova legge elettora, riuscendo a svincolarsi dalle opposizioni <502. Queste valutazioni, unitamente alla necessità di evitare interferenze palesi nella politica interna italiana, spinsero gli Stati Uniti a influenzare l’esito delle elezioni soltanto in misura modesta, limitatamente all’impiego di Voice of America, al ricorso a gruppi privati, e ad azioni di propaganda in favore dei partiti di centro. Il Dipartimento di Stato invitò inoltre la Luce a non prendere posizioni aperte nei confronti della Dc per evitare accuse di ingerenza e colonialismo. L’ambasciatrice non rispettò questa indicazione e decise di intraprendere un tour nazionale allo scopo di enfatizzare l’importanza delle elezioni per la stabilità del paese. A Milano, in un discorso del 29 maggio, la Luce arrivò persino a minacciare la sospensione degli aiuti americani in caso di vittoria delle sinistre, generando un grande imbarazzo sia da parte del partito di governo che del Dipartimento di Stato <503. Anche la Chiesa partecipò alla campagna elettorale contro il Pci, minacciando la scomunica dei suoi elettori.
I risultati delle elezioni furono però lontani dalle aspettative di Washington <504. La Dc recuperò voti rispetto alle amministrative, ma non riuscì a raggiungere la soglia necessaria per ottenere il premio di maggioranza. Come avvenuto nel 1951-1952, inoltre, i voti persi dalla Dc andarono ad ingrossare le liste di estrema destra, ovvero di monarchici e missini, che riscossero un successo senza precedenti soprattutto nel Mezzogiorno <505. Le elezioni del 1953, inoltre, segnarono la fine politica di De Gasperi e l’inizio di una fase convulsa per la Dc, segnata da un lato dalla necessità di governare il paese con una maggioranza risicata e con pochi seggi di scarto, e dall’altro dall’urgenza di individuare una figura in grado di succedere al leader democristiano <506. Oltre che per la situazione politica italiana, il 1953 rappresentò un anno di riorganizzazione anche per gli equilibri internazionali. La morte di Stalin, la firma dell’armistizio tra le due Coree, e il nuovo corso avviato da Malenkov, segnarono l’inizio di una fase di distensione internazionale e dimostravano la necessità di rivalutare il problema del comunismo, sia nell’ambito della strategia americana che nel contesto politico italiano, dove l’impossibilità di formare maggioranze di governo solide imponeva l’urgenza di cooptare nuove forze politiche e allargare il consenso. Queste valutazioni rendevano quanto mai urgente una revisione dei programmi statunitensi per la lotta al comunismo in Italia. Alla Luce sembrava chiaro che, in assenza di azioni concrete contro il comunismo e senza i finanziamenti americani, nel giro di un paio d’anni l’Italia sarebbe diventata la prima nazione ad essere governata dal partito comunista attraverso vie legali <507. Le iniziative dell’amministrazione Eisenhower per combattere il comunismo in Italia si limitarono a riproporre linee guida già esposte nel Piano Demagnetize, introducendo alcune novità di fondo come una maggiore rigidità nell’applicare le attività di carattere psicologico e nel vincolare l’erogazione degli Osp a interventi concreti da parte delle aziende beneficiarie.
In ambito politico, uno degli strumenti cui l’ambasciatrice fece più ricorso fu l’incoraggiamento incondizionato della formazione di un governo di centrodestra, che escludesse i socialisti di Nenni e arrivasse in ultima istanza alla messa fuori legge del Pci. Nella realizzazione di questo progetto la Luce trovò un interlocutore, il Primo ministro Mario Scelba, “privo di emozioni o convinzioni” rispetto al comunismo e preoccupato unicamente di sopravvivere “in uno qualsiasi dei due campi” <508. La Luce esercitò pressioni perché il governo in carica si aprisse alla destra monarchica, con cui gli Stati Uniti avevano intensificato i rapporti proprio a partire dal 1954, e perchè portasse lo scontro con il Pci sulle piazze italiane, inasprendo le misure contro il partito comunista e la Cgil. Il Presidente del Consiglio fu tuttavia molto cauto nell’accogliere le richieste statunitensi. Da un lato, Scelba non riteneva così imminente la presa del potere da parte comunista, e quindi predilesse una linea più moderata nei confronti del Pci. Dall’altro, l’esigenza di accreditarsi a Washington come legittimo successore di De Gasperi e di continuare a beneficiare degli aiuti statunitensi comportarono alcune limitate azioni nei confronti di Cgil e Pci <509. La Luce intendeva invertire rotta anche rispetto al tema dei finanziamenti. Fino a quel momento il governo italiano aveva avuto tutto l’interesse nel mantenere viva la minaccia comunista, mancando di attuare misure concrete contro il Pci. Grazie ad un partito comunista forte e in continua crescita, le istituzioni riuscivano infatti ad assicurarsi un flusso costante di aiuti finanziari da parte degli Usa in funzione anticomunista <510. Per l’ambasciatrice era necessario cessare di accogliere indistintamente le richieste economiche provenienti dagli ambienti politici italiani, e iniziare a subordinare l’erogazione dei finanziamenti al raggiungimento di obiettivi concreti nella lotta al comunismo. In base a questo presupposto, l’ambasciatrice respinse l’ipotesi di sostenere il Piano Vanoni, un programma di sviluppo economico elaborato dal Ministro del Bilancio e fondato sul rafforzamento degli investimenti pubblici per conseguire una diminuzione della disoccupazione e del deficit di bilancio. A detta della Luce, infatti, il Piano Vanoni non era efficace contro il comunismo <511.
[NOTE]
502 La “legge truffa” fu accolta con grande disapprovazione da numerose componenti della politica italiana. Nell’ambito antifascista, ad esempio, la nuova legge ricordava molto la legge Acerbo e le conseguenze che questa aveva prodotto in termini di violazione delle libertà costituzionali. M. Del Pero, Stati Uniti e “legge truffa”, in “Contemporaea”, 6, 3 (2003): 503-518; G. Quagliariello, La legge elettorale del 1953, Bologna, Il Mulino, 2003; M. S. Piretti, La legge truffa: il fallimento dell'ingegneria politica, Bologna, Il Mulino, 2003.
503 Frus, 1952-1954, vol. VI, The Ambassador in Italy (Luce) to the Special Assistant to the President (Jackson), Rome, 18 giugno, 1953, pp. 1612-1613, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1612.
504 Frus, 1952-54, vol. VI, p. 2, The Ambassador in Italy (Luce) to the Secretary of State, Rome, 12 giugno, 1953, pp. 1609-1612, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1609; M. Del Pero, American Pressures and their Containment in Italy during the Ambassadorship of Clare Boothe Luce, 1953–1956, in “Diplomatic History”, 28, 3 (2004): pp. 407-439.
505 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit. p. 60.
506 L. Nuti, The United States, Italy, and the Opening to the Left, in “Journal of Cold War Studies”, 4, 3 (2002): pp. 36–55.
507 Frus, 1952-1954, vol. VI, Memorandum by the Ambassor in Italy (Luce). Estimate of the Italian Situation, Rome, 3 novembre, 1953, pp. 1631-34, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1631; Per l’importanza accordata dal governo italiano al proseguimento degli aiuti statunitensi, si veda il resoconto dell’incontro tra De Gasperi e la Luce: Frus, 1952-54, vol. VI, The Ambassador in Italy to the Department of State, Rome, 21 giugno, 1953, pp. 1614-1617, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1614.
508 Frus, 1952-1954, VI, p. 2, The Ambassador in Italy (Luce) to the Department of State, Rome, 20 novembre, 1953, pp. 1640-1642, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1640.
509 M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit. p. 223.
510 M. Del Pero, The United States and "Psychological Warfare" in Italy, 1948-1955, cit. p. 1326; Id., American Pressures and Their Containment in Italy during the Ambassadorship of Clare Boothe Luce, 1953–1956, in “Diplomatic History”, 28, 3 (2004): pp. 407-439; Frus, 1952-1954, vol. VI, p. 2, The Ambassador in Italy to the Under Secretary of State (Smith), Rome, 8 aprile, 1954, pp. 1671-1675, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1671.
511 Frus, 1952-54, VI, p. 2, The Ambassador in Italy (Luce) to the Assistant Secretary of State for European Affairs (Merchant), Rome, 22 novembre, 1954, pp. 1709-1711, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1709.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

domenica 10 marzo 2024

Radio Trieste intraprese in quegli anni un vero e proprio indirizzo culturale

Trieste: la sede della RAI. Foto di Laky 1970 su Wikipedia

Radio Trieste durante il Governo Militare Alleato (1945-1955)
Fra il 1945 e il 1946 le messe in onda riguardarono alcune rubriche politico-informative, i notiziari in tre edizioni e alcuni programmi di musica.
L’impostazione generale dei programmi si modificò sull’onda di un rinnovato clima democratico che si respirava e per la pari dignità assicurata alle trasmissioni di lingua italiana e slovena, nonostante quest’ultima fosse orientata politicamente per la maggior parte in ottica filo-titina e non dimostrasse particolare interesse per un’emittente che non poteva essere usata come proprio mezzo di propaganda.
Fu ampliata la parte dedicata alla musica, particolarmente gradita agli ascoltatori, unendo musica sinfonica, lirica, da camera, operettistica e leggera, canzoni e musiche popolari e da ballo, cori e jazz. Si diede spazio, poi, alla riproduzione di opere già esistenti in possesso della RAI e alla creazione di musica prodotta nella sede di Trieste da parte della Compagnia di prosa di lingua italiana di Radio Trieste, guidata da Giulio Rolli.
Furono introdotti anche alcuni allestimenti in lingua slovena, la recita di poesie, una sempre più fiorente produzione drammatica e nuove conversazioni in lingua italiana, sotto la responsabilità di Aldo Giannini. Anche la parte slovena si sviluppò con un numero crescente di opere mandate in onda, in cui si cimentarono anche alcuni insegnanti delle scuole slovene di Trieste e diversi intellettuali sloveni triestini non comunisti.
Insomma, Radio Trieste intraprese in quegli anni un vero e proprio indirizzo culturale e divenne sempre più lo strumento preferenziale della conoscenza e dell’informazione locale.
La collaborazione e i collegamenti con la RAI crebbero moltissimo fino al 947, mentre fra il 1948 e il 1949, a causa delle difficoltà economiche in cui versava l’emittente triestina, i programmi artistici, culturali e ricreativi in lingua italiana prodotti dalla stessa dovettero subire una sensibile riduzione.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Pace del 1947, per ragioni di contabilità pubblica, tutto il personale dipendente del GMA e quindi anche quello in servizio all’ERT fu liquidato e riassunto il giorno seguente: infatti non esisteva alcun rapporto ufficiale, fino all’ottobre 1948, fra l’ERT e la RAI, la quale considerava con preoccupazione l’eventualità di un ritorno di Radio Trieste, poiché questa si era trasformata in poco tempo da piccola emittente locale di riproduzione dei programmi radiofonici centrali a centro di produzione radiofonica di importanza europea, dotata di un rilevante organico di personale e di vari complessi artistici.
Roma mal sopportava questa possibile concorrenza sia per evidenti ragioni economiche, sia per la volontà di accentrare nella capitale e in poche altre sedi privilegiate la propria produzione radiofonica.
Nel 1954 la sigla del Memorandum d’intesa italo-jugoslava di Londra con cui si sancì il ritorno di Trieste all’Italia fece cessare il presidio alleato e i poteri su Radio Trieste passarono al generale Edmondo De Renzi e poi al prefetto Giovanni Palamara, nominato Commissario Generale del Governo per il Territorio di Trieste.
Ma il ricongiungimento di Trieste alla Madrepatria non portò al contemporaneo rientro della stazione radiofonica locale in seno all’organizzazione della radiodiffusione nazionale (la cui denominazione era stata mutata nell’aprile 1954 in RAI), sia per ragioni di politica aziendale della RAI, sia perché questa non aveva ancora giurisdizione sul Territorio di Trieste, sia perché era necessario chiarire alcune delicate ma importanti questioni prima di procedere alla soppressione dell’Ente Radio Trieste.
L’ERT continuò così la sua attività sotto una nuova gestione fino al 1957, presieduta dall’ing. Vittorio Malinverni, allora amministratore delegato dell’ERI, nominato dal Commissario Generale del Governo italiano. Furono chiamati a dirigere l’ERT il direttore Guido Candussi e il vicedirettore Luigi Fonda. L’ERT fu riorganizzata per un breve tempo introducendo la messa in onda di alcuni programmi della RAI, ampliando le trasmissioni di lingua slovena con le opportune traduzioni dall’italiano ed estendendo la ricezione dei servizi giornalistici a tutto l’Isontino e al Friuli.
Si avviò così un lungo e complesso iter che portò a una gestione commissariale dell’ERT e, contemporaneamente, alla stesura di una convezione fra ERT e RAI, con cui si sanciva l’abolizione dell’ERT e la nascita ufficiale di Radio Trieste.
Nell’agosto 1957, Radio Trieste, inserita nel circuito RAI ma con il riconoscimento di particolari esigenze data dalla sua funzione complessa e impegnativa nel territorio, rientrò così nella grande famiglia della RAI, ma questo “non significa disconoscimento delle particolari esigenze a cui le stazioni radiofoniche triestine devono continuare a rispondere per la difesa della italianità del territorio e per l’allacciamento di fecondi e pacifici rapporti con le popolazioni d’oltre confine” <81.
[NOTA]
81 “È sorta Radio Pola su AP”, anno I, n. 7 del 5 agosto 1945, in G. Candussi, Storia della radiodiffusione… cit., p. 595, nota n. 6.
Caterina Conti, Letteratura al microfono. I programmi letterari di RAI Radio Trieste fra il 1954 e il 1976, Università degli Studi di Trieste, Tesi di dottorato, Anno Accademico 2013-2014

sabato 2 marzo 2024

Solo se ciò che si vede sullo schermo appare credibile, e quindi evoca un mondo, le Langhe come metafora possono avere un senso e un’efficacia


L’idea di un’intervista a Guido Chiesa, regista e sceneggiatore della versione cinematografica del "Partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio (nonché di molti documentari sulla Resistenza), è nata dalla riflessione sul fatto che è difficile collocare la figura dei partigiani della guerra civile italiana nell’immaginario collettivo. Un evento storico straordinario che ha determinato il corso della storia d’Italia, in cui il protagonista principale è lo stesso popolo italiano, sembra una condizione fertile per cui creare - nella storia del costume - un’idealizzazione del periodo e di chi lo condusse. Chiaro è che la mitizzazione di un periodo storico non è di per sé positiva, rischia, anzi, di veicolare il messaggio di una nuova retorica, impoverendo i numerosi e diversi significati che la Resistenza ha assunto; ma senza intendere che fosse auspicabile una vera e propria mitologia della Resistenza, è significativo sottolineare che nell’immaginario collettivo sia assente (o quasi) l’immagine dei partigiani, che hanno contribuito non solo alla Liberazione dell’Italia da un punto di vista politico, ma anche intellettuale, contribuendo alla nascita di una cultura nuova e libera, che ancora oggi ci appartiene.
È strano pensare che quella parte di popolo che si ribellò spontaneamente all’invasione dei tedeschi e dei fascisti di Salò, che portò avanti una guerriglia tra boschi e montagne, che riuscì a mantenere una rete di collegamenti con i gruppi clandestini delle città, che riuscì a resistere fino all’arrivo degli alleati, che contribuì decisivamente alla Liberazione di tutti non ha mai ottenuto una rappresentazione precisa.
Se poi si pensa al fatto che la guida partitica arrivò solo in un secondo momento e che fu una realtà eterogenea, composta da più fronti politici, uniti sotto la bandiera antifascista, sembra proprio che ci fossero tutti gli elementi, perché la figura del “partigiano” diventasse una figura nazionale riconosciuta evitando la strumentalizzazione di una sola parte politica o di una sola realtà sociale. Invece, il risultato è quasi il contrario.
Forse perché i partigiani non appartengono a quella categoria di personaggi “illustri”, facilmente identificabili, o forse perché dopo la Resistenza non trovano un posto particolare nella politica della neo-Repubblica; certo è plausibile pensare che l’esperienza italiana degli anni Settanta, i cosiddetti anni di piombo, in cui il principale gruppo terroristico, le BR, dichiarava esplicitamente di avere raccolto il testimone dai partigiani, potrebbe essere (ma occorrerebbe un’analisi più approfondita) una delle principali ragioni che spiegano l’oblio calato su questa figura storica, umana e civile.
[...] Non è toccato quindi alla narrativa il compito di offrire all’immaginario collettivo la figura del partigiano, che, oltretutto, è così preziosa per indagare sull’identità del nostro popolo.
Dopo la Liberazione ci fu un tentativo, fin troppo azzardato, da parte di alcuni partiti e movimenti politici, di strumentalizzare la guerra partigiana e di “appropriarsi” di una sorta di “eroe positivo” da trasformare in mito nazional-popolare, rischiando la nascita di una retorica nuova. Le pagine di letteratura si mostrarono però talmente sfaccettate e complesse, distanti dall’idea di creare “un eroe a tavolino”, che non emerse mai una figura standardizzata.
Il cinema, in questo senso, rappresenta un terreno di confronto estremamente interessante con la narrativa, essendo una forma d’arte per immagini più accessibile al grande pubblico. La figura del partigiano e il suo mondo possono così assumere contorni più definiti e riconoscibili. Ma la guerra civile italiana non sembra avere stimolato particolarmente (se non in alcuni casi) la produzione cinematografica.
Guido Chiesa è una delle eccezioni e la sua filmografia rivela, al contrario, un interesse specifico per l’argomento. Per il suo lungometraggio sceglie un modello letterario di partigiano, ma al tempo stesso fornisce una nuova interpretazione per restituire luoghi e protagonisti.
Il regista traduce in immagini il testo più complesso e in qualche modo rappresentativo di tutta la produzione letteraria della Resistenza. Mostra la regione collinare delle Langhe, i suoi elementi naturali, cerca le ambientazioni descritte nel testo e attribuisce loro un’immagine reale. Chiesa cerca, inoltre, di mantenersi estremamente fedele alla pagina scritta, considerando le Langhe non soltanto come luogo storico e geografico, ma soprattutto come paesaggio esistenziale, metafora dell’eterno conflitto dell’uomo con la Natura. In questo modo realizza la sua analisi per immagini del testo fenogliano, e fornisce un confronto tra la natura letteraria e quella cinematografica della realtà sensibile ma anche introspettiva del mondo partigiano di Johnny. Ai fini della mia analisi, l’incontro con Guido Chiesa è stato un utile confronto per comprendere meglio il processo rielaborativo di Fenoglio sull’esperienza resistenziale, per identificare la figura di Johnny in spazi specifici del territorio italiano, e per interpretare i significati esistenziali che questi spazi assumono.
Come mi spiega il regista: "Paradossalmente, per ottenere questo risultato era necessario un impianto scenico e antropologico di grande autenticità: solo se ciò che si vede sullo schermo appare credibile, e quindi evoca un mondo, le Langhe come metafora possono avere un senso e un’efficacia".
Incontro Guido Chiesa il 30 marzo 2007 a Roma
1) Il Partigiano Johnny è un romanzo incompiuto, edito in più versioni, come si è mosso rispetto al caos filologico del testo?
Mi sono basato essenzialmente sull’edizione a cura di M. Corti, che considero la più completa anche se non condivido la datazione delle opere proposta dalla Corti, ma forse questa è materia per fenogliani puri… L’edizione Isella pur importante, per me, è ancora densa di contraddizioni, per esempio al capitolo 21 quando Johnny entra ad Alba occupata, non và a trovare i suoi genitori. Come può improvvisamente ignorare la presenza della casa paterna? Nell’edizione a cura di M. Corti - come pure nel mio film - questa scena infatti è presente e significativa.
2) Ha avuto qualche problema nel tradurre il testo in immagini, nel rintracciare una narratività che per la verità è sfuggente nel romanzo?
Sotto certi aspetti il passaggio dal libro alla sceneggiatura è stato più facile del previsto. Quando per la prima volta si legge il romanzo si è travolti dal suo magma linguistico: intraducibile sullo schermo e assai poco cinematografico. Invece, ad una lettura più attenta, ci si rende conto che la struttura narrativa del romanzo è molto forte, precisa, quasi di genere nella sua iterazione di fatti ed eventi funzionali alla costruzione del personaggio e del senso dell’opera. È una struttura classica, archetipica, come quella dell’Odissea, a cui il testo fenogliano è stato da molti messo in relazione. Anche se credo che uno dei punti di riferimento-chiave fosse per Fenoglio "Il viaggio del pellegrino" di John Bunyan, un libro poco conosciuto in Italia, ma che rappresenta uno dei testi fondamentali del mondo protestante. È la storia di un pellegrino che, abbandonata la città e la famiglia, parte alla ricerca di Dio e si avvicina alla santità attraverso il superamento di prove sempre più dure. Fenoglio lo cita più volte e all’inizio del romanzo è lo stesso Johnny a leggerlo. Una volta individuata la struttura narrativa, si trattava di compattarla nei tempi e nei modi di una sceneggiatura cinematografica: se Johnny compie tre volte la stessa azione, ne abbiamo tagliate due; se ci sono tre personaggi che svolgono la stessa funzione narrativa, ne abbiamo lasciato solo uno. E via dicendo. Certo abbiamo dovuto sacrificare degli episodi a cui tenevamo molto, ma ci interessava soprattutto che la sceneggiatura funzionasse, più della mera fedeltà alla pagina scritta. In questo senso abbiamo tradito il romanzo, anche perché, senza false modestie, eravamo convinti che il libro di Fenoglio sarebbe stato sempre e comunque più bello, complesso e sfaccettato del film. Considerando il romanzo come un’avventura epica ho scelto le “prove” che Johnny doveva superare, le imboscate, le fughe, gli attacchi frontali, la pioggia, il fango, la neve e infine la solitudine: in cui emerge la vera essenza del partigiano: un uomo di fronte a se stesso. È stato invece difficile raccontare un personaggio che non subisce cambiamenti da un punto di vista psicologico; rendere l’idea di un antieroe eterno.
3) Come ha selezionato i luoghi in cui girare?
Il romanzo, da questo punto di vista, poneva problemi enormi. In prima battuta, vi sono narrati tantissimi luoghi (paesi, colline, cascine, ecc.) e, per forza di cose, abbiamo dovuto tagliare e ridurre il numero dei posti in cui girare. In seconda istanza, questi luoghi sono descritti con molta precisione e questa precisione non è puramente descrittiva, ma funzionale all’atmosfera e al significato della storia. Penso ad esempio ai bastioni di Mango da cui Johnny vive la drammatica attesa del rastrellamento tedesco: non sono dei semplici bastioni, sono un osservatorio morale sul mondo. Quattro location scout, Enrico Rivella, Nicola Rondolino, Gianpiero Vico e Lia Furxhi hanno per mesi battuto le Langhe paese per paese, collina per collina, alla ricerca dei luoghi richiesti dalla sceneggiatura. In alcuni casi, la ricerca di luoghi autentici e non intaccati dall’edilizia moderna li ha portati a sconfinare fuori dai tradizionali confini geografici delle Langhe, per trovare, ad esempio, Montechiaro d’Acqui, uno dei paesi meglio conservati del Basso Piemonte (in cui è ambientata la parte di Mombarcaro con i rossi). Altre volte, la scoperta di location come la cascina di Bossolaschetto, che ha funto da Cascina della Langa (nell’impossibilità di trovare una replica adeguata alla vera Cascina della Langa situata nei pressi di Manera) ci ha spinto a modificare la sceneggiatura in funzione del luogo reale. Lo scenografo Davide Bassan ha quindi operato su questi ambienti naturali secondo tre coordinate: evitare ogni intervento che riveli l’artificio tecnologico (ruspe, seghe elettriche, pitture a spray), prediligendo lavorazioni manuali; scegliendo materiali d’epoca o comunque di fabbricazione artigianale; arredamenti e suppellettili scelti dopo un accurato lavoro di ricerca su fonti iconografiche dell’epoca e su fonti orali. Sono rari, in tutte le Langhe, centri storici che non siano stati rovinati dall’edilizia e dalla cementificazione. Ad esempio, era impossibile usare Mango stesso. Della Mango descritta nel romanzo non vi è quasi più traccia. Ci eravamo quasi rassegnati ad utilizzare Monforte o Serralunga, paesi molto belli e abbastanza ben tenuti, ma molto distanti dalla topografia dei paesi descritti nel romanzo (ad esempio, privi dei bastioni all’ingresso del paese). Un po’ per disperazione, un po’ per testardaggine, siamo andati a vedere Neive, un paese che avevamo sempre scartato, essendo troppo vicino ad Alba e alla zona turisticamente più nota. Ma qui, con nostro grande stupore, abbiamo scoperto che Neive alta è ancora intatta: non un piccolo angolo, ma strade intere. Per noi rappresentava un risparmio di fatica e di lavoro enormi. Neive ci ha risolto tantissimi problemi, mentre per il resto ci siamo arrabattati in lungo e in largo. Durante le riprese ci siamo spostati in oltre 80 set, un numero altissimo per 54 giorni di ripresa. In totale abbiamo girato in oltre 30 comuni.
4) Ha preferito attenersi ai luoghi reali o ha cercato di raccontare i luoghi letterari?
Naturalmente i luoghi che racconta l’autore, quelli che ci restituisce attraverso i suoi occhi, quindi i luoghi letterari e cercando - quando era possibile - di identificarli con quelli reali. La lettura dei libri di Fenoglio mi ha spinto a vedere nelle Langhe di allora (cioè quelle antecedenti o contemporanee alla scrittura, e comunque anteriori al boom economico), non tanto un luogo geografico determinato, bensì una sorta di paesaggio esistenziale, un teatro ideale per la raffigurazione della tragedia umana (rapporto uomo/natura, conflitti tra le classi sociali). Così, quando ho iniziato realisticamente a pensare alla realizzazione del film sapevo che dovevo andare a cercare quelle Langhe, rinunciando a priori ad ogni tentativo ad ogni affresco globalizzante, a vantaggio dell’unità espressiva e dei significati. Vale a dire, la mia intenzione non era quella di fornire una visione realistica della zona e della sua storia, quanto di mettere in scena un mondo che fosse il più possibile adatto al dipanarsi del dramma umano e morale del protagonista. In questo senso, il film non parla delle Langhe, ma sceglie le Langhe perché offrono un terreno ideale a un certo tipo di discorso sull’uomo. Paradossalmente, per ottenere questo risultato era necessario un impianto scenico e antropologico di grande autenticità: solo se ciò che si vede sullo schermo appare credibile (e quindi evoca un mondo) le Langhe come metafora possono avere un senso e un’efficacia. Il direttore della fotografia Gherardo Gossi, oltre alla visione di molti documentari cinematografici dell’epoca, è stato da me indirizzato alla costruzione di un’immagine complessiva del film che fosse adeguata alla rappresentazione di un’Italia povera, buia, in guerra. In questo senso ci ha aiutato la scelta di girare in autunno, privilegiando così colori che vanno dal verde scuro al marrone fino al grigio. Negli interni, dove ha potuto, Gossi ha messo in scena fonti di luce reali (candele, lampade alogene, lumi a petrolio, ecc,), scegliendo di non illuminare le pareti, di creare forti contrasti di chiaroscuro, su una strada a noi indicata da pittori come Caravaggio. Non tanto in nome del realismo, ma per creare attorno a Johnny un mondo funzionale alla creazione di un determinato significato.
5) È stato difficile “filmare” un paesaggio trasfigurato dallo sguardo di uno scrittore?
Fenoglio è uno scrittore per così dire “fenomenologico”: le vicende dei suoi libri progrediscono per fatti, non per motivazioni psicologiche. La psicologia dei suoi personaggi è quasi inesistente, eppure fortissima perché deriva dalle loro azioni, dal paesaggio e dalle azioni di cui sono testimoni. Tutti elementi squisitamente cinematografici proprio perché visibili, evidenti, filmabili. Inoltre, Fenoglio ha sempre l’accuratezza di scegliere un punto di vista (si pensi alle immagini finali di "Un giorno di fuoco" o "Una questione privata") che altro non è che quel che si chiama inquadrare, filmare. Come un regista, Fenoglio sceglie di guardare la realtà che intende raccontare da un certo punto di vista e solo da quello.
6) Nel film si inquadra spesso lo sguardo del protagonista, questo indica che lo spettatore vede il paesaggio attraverso gli occhi di Johnny? Ha voluto mostrarci il rapporto tra il personaggio e il suo ambiente?
Sì, la bussola è lo sguardo di Johnny, e la grammatica interna del film non può che nascere da lì. La macchina da presa sta con lui, vede quel che lui vede, si muove quando lui si muove (o qualcosa si muove in lui), corre fugge scappa quando è Johnny a farlo. Ma anche quando aderisce al personaggio, lo rispetta e lo ama, mai rinuncia alla possibilità di uno sguardo critico su di esso. Se ciò accade è perché l’ideologia del film non è quella di Johnny, non si appiattisce su di lui, ne è consapevolmente distante benché appassionatamente vicina.
7) È stato importante nel film restituire la presenza di una natura ostile e dei suoi elementi?
Molto. Il romanzo specifica i titoli delle stagioni perché è la Natura che governa il mondo in collina, e l’inverno è la più importante delle stagioni perché genera il conflitto maggiore, e soltanto nel conflitto l’uomo può esprimere se stesso. Lo stesso discorso vale per gli elementi naturali, Johnny sente la sua vera natura umana a contatto con il fango che lo svilisce ma al tempo stesso lo accoglie, testimonia in qualche modo la ricerca di un rapporto viscerale, originario con la Natura. Rapporto che è mancato all’autore nella figura materna.
8) Secondo lei Fenoglio comunica, attraverso Johnny, un rapporto assente con la madre?
Quello che, probabilmente, ho capito solo dopo aver girato il film è l’importanza del rapporto di Fenoglio con la madre, un rapporto difficile che ha influenzato enormemente lo scrittore: spesso Johnny parla di “Madre Langa” e indica la collina con il termine “mammella”, questo - secondo me - è indice di un rapporto di dipendenza con la Natura che rimanda alla dipendenza del figlio con la madre. Il paesaggio lo accoglie nel suo seno e nonostante la Natura sia cieca e indifferente Johnny si affida a lei come fosse l’unica protezione possibile. Questa considerazione, oltretutto, è confermata dal rapporto problematico - che emerge nel romanzo - del personaggio con le donne (Cita due momenti del romanzo, rispettivamente descritti nei capitoli 14 e 19): "Come Johnny notò fin dal suo arrivo nei paraggi del quartier generale, le donne non erano piuttosto scarse nelle file azzurre […] Il latente anelito al puritanesimo militare, appunto, gli fece scuotere la testa a quella vista, ma in effetti, sul momento, appunto, le donne stavano lavorando sodo, facendo pulizia, bucato, una dattilografando… Il solo fatto che portassero un nome di battaglia, come gli uomini, poteva suggerire a un povero malizioso un’associazione con altre donne portanti uno pseudonimo <241. Sulla radura […] stavano donne, staffette, stavano facendo il bucato generale, con un’aria attiva e giocosa e l’allegra coscienza di star facendo il loro vero, naturale lavoro. In faccia a Johnny sbuffò l’odore della saponata, attraverso l’aria rarefatta portando il confortante senso di casalinghità all’aperto. Alcune guardie del corpo stavano vessando le lavandaie, con un’ironia sana e diretta" <242. La difficoltà di questo rapporto si osserva anche nella diffidenza che il personaggio mostra nei confronti di Elda. Infatti Johnny cerca di colmare la mancanza della figura materna, come figura protettiva, non nella donna - che ricorda ancora troppo la madre - ma nella Natura, che è l’unica vera forza generatrice. In questo senso è molto indicativo il momento in cui Johnny si fa il bagno nel fiume: "Notò ai margini della corrente principale una conchetta d’acqua, naturalmente azzeccata e felice. Johnny non ci resistè, si liberò del vestito e delle armi, e si immerse verticalmente, monoliticamente in quell’immobile vortice, fino alle spalle, con un lungo e filato fremito, equivalente perfetto, più perfetto di una carica sessuale" <243. Così Johnny/Fenoglio si ricongiunge alla sua esperienza prima nel ventre materno, ai nove mesi nel liquido amniotico. E nel fiume si sente accolto e consolato. Il rapporto tra Johnny e la Natura diventa simbiotico e il personaggio si affida a Lei nonostante le sue indifferenti ostilità: la neve, la pioggia, il fango, il freddo. Ho compreso tutto questo dopo avere girato il film, in cui si trovano solo alcune intuizioni a livello embrionale, perché durante la realizzazione la mia idea era più concentrata nel ritrarre il partigiano Johnny come “l’uomo autentico”, guidato da uno spirito razionale, pronto ad affrontare l’estrema solitudine invernale e tutta l’esperienza della Resistenza guidato dalla ragione. Lavorando al film ho cercato di comunicare quella che - secondo me - era l’intenzione dell’autore, cioè la ricerca di risposte esistenziali nella ragione, e una volta compreso che queste risposte non ci sono Johnny accetta che l’ultimo risultato della logica porta inevitabilmente al suicidio. Oggi invece, per leggere il personaggio, mi concentrerei di più sul rapporto madre-figlio dell’autore.
9) Legge la morte di Johnny come un suicidio?
Assolutamente sì. Sia di Johhny, che di Milton, dove ancora più chiaramente si vede il partigiano abbandonarsi in un ultimo abbraccio alla Natura - unica fonte di vita - e come in un’esperienza panica si lascia andare ad una Natura che lo riprende a sé. Johnny rappresenta un’umanità che cerca conforto, ma non potrà mai averlo. Per questo il "Partigiano Johnny" è un romanzo che comunica una forte riflessione esistenziale. Considero Leopardi, Fenoglio e Pasolini i maggiori scrittori-filosofi della letteratura italiana. Infatti per Johnny la vita può esistere solo nella natura, nonostante sia una natura cieca, che fa male. Esattamente come per Leopardi.
10) Quindi Johnny come emblema della condizione umana?
Esattamente. Johnny rappresenta l’uomo nella sua considerazione essenziale, e la dimensione unica nella quale può esprimersi pienamente è quella della guerra; perché la guerra è una condizione estrema dove l’uomo si trova di fronte a sé stesso, in una solitudine infinita che permette di affrontare le domande fondamentali sul significato dell’esistenza umana.
[NOTE]
241 B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, cit., p. 159
242 Ivi, p. 211
243 Ivi, p. 220
Anna Voltaggio, Spazi partigiani: il paesaggio letterario nella narrativa della Resistenza italiana, Tesi di Laurea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno accademico 2006-2007