mercoledì 31 agosto 2022

Il carattere interclassista, meramente antifascista e nazionale, farà diventare il PCI un partito di massa durante gli anni della guerra


Il proclama dell’8 settembre 1943 vedrà l’Italia dichiarare l’armistizio di fronte all’invasione anglo-americano, dopo una guerra a fianco della Germania non più proseguibile, con un paese stremato dallo sforzo bellico e dai bombardamenti alleati. Già dal giorno seguente vedrà la sua nascita ufficiale il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), una organizzazione costituita dai principali movimenti antifascisti italiani desiderosa di combattere contro il sopravvissuto fascismo peninsulare e contro il nazismo. I principali contraenti del patto in questione erano il Partito Comunista Italiano (che aveva nel frattempo cambiato la propria denominazione dal precedente Partito Comunista d’Italia), la Democrazia Cristiana, il Partito d’Azione, il Partito Liberale Italiano, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e Democrazia del Lavoro. Un patto essenziale nella storia della futura Repubblica Italiana, che inquadra i principali protagonisti della Resistenza partigiana, che da questo accordo tra forze politiche anche molto diverse tra loro, si snoderà fino al termine del conflitto bellico.
La figura di Togliatti è essenziale anche in questa delicata fase, ed è proprio sulla scia dei costituendi accordi in seno al CLN che Togliatti viene fatto rientrare in Italia, non prima però del 27 marzo 1944. Nella finestra di tempo che intercorre tra la formazione del CLN e il ritorno del segretario comunista in Italia, vi sono una serie di consultazioni diplomatiche riguardanti sia il rapporto tra Stalin e Togliatti, sia il livello di inclusione del PCI nelle dinamiche della Liberazione e della lotta antifascista. Gli indirizzi consigliati da Stalin in questa fase sono ancora in fase di dibattito; se da una parte la convinzione che l’entrata nel neonato governo Badoglio potesse essere un errore viene addebitata allo stesso leader sovietico <1 l’opinione più accreditata è quella che vede Stalin consigliare a Togliatti di far parte dello stesso esecutivo, da un lato per incrementare l’insufficiente peso della diplomazia sovietica nella gestione della liberazione italiana, dall’altro per evitare che l’Italia liberata diventasse un soggetto di uso e consumo anglo-statunitense, con un conseguente indebolimento strategico del ruolo mediterraneo della nazione. L’appoggio ad un governo fortemente allineato agli interessi delle democrazie occidentali deve stupire meno dell’appoggio dato dal PCI ad una Italia ancora formalmente monarchica, con un Umberto di Savoia nel ruolo di Luogotenente del Regno e un governo retto da un generale monarchico. In questo senso la decisione segnerà un altro fondamentale passo di avvicinamento, da parte del PCI, alle dinamiche democratiche e borghesi che segneranno la storia della Repubblica Italiana nel dopoguerra e l’evoluzione strategico-ideologica del PCI. In tal direzione, l’accordo per l’appoggio di un governo di transizione da parte del PCI vede la mediazione di Enrico De Nicola, e la prospettiva, a guerra conclusa, di far scegliere gli italiani sulla forma statuale da adottare al termine del conflitto, scegliendo tra la monarchia e la repubblica. Un governo temporaneo, insomma, retto dall’unica necessità che poteva tener uniti i contraenti del CLN, ovvero quella di liberarsi del nemico fascista.
Anche nella conduzione bellica e non solo nella gestione diplomatica si nota continuamente in Togliatti la volontà di giungere ad un compromesso politico capace di concentrare l’attenzione sullo sforzo bellico in una strategia unitaria, strategia che comporterà la formazione di un governo basato sull’intesa del CLN il 22 aprile 1944, con Salerno scelta come sede dell’esecutivo fino alla liberazione della capitale. Il presidente in carica è ancora Pietro Badoglio, ma la Vicepresidenza viene affidata a Palmiro Togliatti in persona. Fausto Gullo, altro comunista, è Ministro all’agricoltura, e la partecipazione del PCI a questo governo viene completata dal Sottosegretario alla Guerra Mario Palermo e da quello alle finanze Antonio Pesenti.
Dal 18 giugno 1944 sarà la volta del secondo governo del presidente Ivanoe Bonomi, sempre formato dai contraenti del CLN, con la conferma di Gullo e Pesenti, il trasferimento al Sottosegretariato alla guerra di Mario Palermo e l’aggiunta di Guido Molinelli alla Sottosegreteria del Ministero dell’industria, del commercio e del lavoro. La breve parentesi del secondo governo Bonomi viene sostituita dal terzo governo guidato sempre dal leader del Partito Democratico del Lavoro. La sua durata va dal 12 dicembre 1944 al 21 giugno 1945, e vede la partecipazione della Democrazia Cristiana, del Partito Comunista Italiano, del Partito Liberale Italiano e del Partito Democratico del Lavoro. Togliatti torna Vicepresidente, affiancato dai comunisti Eugenio Reale (Sottosegretario agli affari esteri), Fausto Gullo (nuovamente Ministro dell’agricoltura), Antonio Pesenti (Ministro delle finanze), Mario Palermo (Sottosegretario alla guerra).
Il successivo governo Parri, in carica dal 21 giugno 1945, vedrà una maggior partecipazione partitica al governo e la prima nomina di Palmiro Togliatti a Ministro di grazia e giustizia, un ruolo che Togliatti ricoprirà anche nel successivo, primo governo di Alcide De Gasperi, supportato dal PCI nonché ultimo governo monarchico italiano, in carica fino al 14 luglio 1946.
Abdicato dal ruolo ministeriale nel governo De Gasperi II (che vede comunque il supporto del PCI e la partecipazione di numerosi comunisti di primo piano quali Eugenio Reale, Fausto Gullo ed Emilio Sereni), Togliatti rimarrà fuori dai quadri ministeriali anche nel De Gasperi III, ultimo governo a vedere l’appoggio comunista al proprio operato.
II) Lotta per la democrazia e nella democrazia.
Una partecipazione relativamente lunga, che vede il PCI entrare nella concreta gestione del potere italiano sia durante la Resistenza che durante la primissima fase postbellica. Una Resistenza d’altro canto che il PCI e i suoi aderenti vivono da protagonisti, con le “Brigate d’assalto Garibaldi”, create dal comitato militare del partito il 20 settembre 1943 a Milano e poste sotto la direzione di Piero Secchia e Luigi Longo. Fin dalla dichiarazione di guerra alla Germania, dalle alte sfere del partito l’indicazione è chiara: lottare per la legalità, per il ripristino dell’ordine democratico e lottare contro ogni forma di “attesismo” o sentimento eversivo, combattendo fianco a fianco con tutte le altre forze impegnate nella guerra antifascista. <2
In tal senso, è emblematico l’appoggio del PCI all’ordine del colonnello alleato Graham Chapman contro gli scioperi nell’Italia liberata, con punizioni prevedenti anche la pena di morte per gli scioperanti. <3 Lo stesso rimando alle Brigate Internazionali nel nome e alla figura di Garibaldi (ripresa poi dal successivo Fronte Popolare nelle elezioni postbelliche) fa capire quale sia l’alveo ideologico e il portato storico che la formazione delle brigate antifasciste del PCI reca con sé, ed è interessante attenzionare anche i nomi delle singole brigate in questo senso, quasi nessuna recante insegne, nomi o simboli riconducibili alla stagione del bolscevismo rivoluzionario. Abbondano invece le brigate recanti nomi riconducibili alla storia italiana, alla lotta antifascista e al periodo risorgimentale; è il caso della Brigata Fratelli Bandiera, della Carlo Pisacane, della Ippolito Nievo. Altri raggruppamenti sono stati dedicati a Nino Bixio, Ciro Menotti e ai Fratelli Cairoli, nomi incontrati, tra le altre cose, anche nell’esperienza radiofonica di Radio Mosca e nei proclami patriottici di Togliatti fatti dalla stessa emittente. Dall’impostazione rigidamente legalitaria all’orgoglio mostrato ancora oggi nell’aver “rimesso in piedi l’Italia” <4 da parte delle numerose associazioni di combattenti, si capisce come la stagione resistenziale sia vista anche come l’occasione di una rivoluzione non nel senso marxista del termine, bensì come un ritorno ad uno status quo repubblicano e democratico, come la ripresa di una stagione storica quale il Risorgimento, che nella lotta antifascista trova quasi un suo colpo di coda, un riagganciarsi alla tradizione storica che ha sempre contraddistinto l’Italia, in una lotta contro l’invasore che trova quasi giustificazione nell’eterno antagonismo con il nemico tedesco, per una Resistenza che contribuisce a far tornare alla tradizione di sempre e ad emancipare allo stesso tempo l’Italia.
E’ proprio il carattere interclassista, meramente antifascista e nazionale che farà diventare il PCI un partito di massa durante gli anni della guerra, nonché uno dei principali fondatori, anche grazie allo sforzo delle Brigate Garibaldi, dello Stato postbellico. <5 Anche se nella base, come vedremo, l’alleanza con il governo Badoglio e la partecipazione ai governi successivi causerà non pochi problemi all’interno del partito, vi è la comune sensazione che la partecipazione del PCI alla ricostruzione democratica del paese sia avvenuta senza particolari rotture, quasi come confortata da una ineluttabilità ormai scontata, iscritta nelle carni del destino comunista italiano. <6
E’ una impostazione questa piuttosto superficiale, che non tiene conto della differenza anche significativa intercorrente tra le esigenze e i programmi del vertice partitico e le aspettative della base, aspettative e tendenze che tra rotture, crisi e differenze di vedute vengono continuamente plasmate dal grande disegno democratico e repubblicano che Togliatti e il PCI stanno portando a compimento. Non è vero che non vi sono rotture, contestazioni o problematiche; è vero che, grazie all’abilità e anche alla durezza nei confronti dell’opposizione della segreteria Togliatti, come si vedrà nei successivi paragrafi, queste tendenze occuperanno sempre un ruolo minoritario e non inficeranno il quadro generale e le prospettive politiche di un partito che, durante la Resistenza, mette a frutto decenni di esperienza antifascista e la propria abilità nel forgiare una prassi nazionalpopolare applicata alla lotta antifascista, superando permanentemente, almeno dal punto di vista prospettico, l’orizzonte rivoluzionario.
Una prospettiva che nella Resistenza e nella sua eredità non trova né un primo segnale né una blanda o passiva conferma, bensì la prima, grande applicazione pratica e palingenetica di massa della democrazia di stampo togliattiano. In questo consiste la “democrazia progressiva” di Togliatti, un regime politico nuovo capace di liquidare il fascismo e procedere al rinnovamento economico e sociale del paese, pur ammettendo chiaramente di volere una Repubblica capace di permanere stabilmente nell’alveo della democrazia. <7
La traduzione politica di questo concetto risiede nella completa rinuncia non solo ad una reale trasformazione in senso leninista dello stato italiano, ma anche nella rinuncia ad una prassi ideologica o anche solo ad una dialettica mirante al raggiungimento di una posizione di chiara supremazia politica per il proletariato nei confronti delle altre classi.
Al contrario, sarà sempre forte la nostalgia in Togliatti per le stagioni di governo ciellenistico, la nostalgia per quel patto di moderazione e collaborazione nazionale che verranno meno con la fine della stagione resistenziale e l’inizio della separazione dei blocchi internazionali causata dalla guerra fredda. Anche gli accordi stipulati tra il 1944 e il 1947 altro non hanno fatto che confermare la sussistenza di un apparato di stato fondamentalmente borghese, in cui la logica resistenziale e ciellenistica cancella de facto qualsiasi ingerenza rivoluzionaria nella formulazione del nuovo stato. Una rivoluzione sì, se si bada al significato etimologico del termine, ovvero quello di un rivolgimento e di un ritorno ad una concezione democratica dello stato, concezione interrotta dalla stagione fascista, che non diventa quindi una degenerazione inserita in un percorso mirante al sovvertimento del sistema economico vigente o dei rapporti sociali in atto nel sistema capitalistico, bensì una mera parentesi, antistorica e antitradizionale, in seno ad una società italiana che si riappropria, con il fronte antifascista, della democrazia perduta.
Un ritorno inteso e fatto abilmente intendere come un nuovo inizio, dove non via sia più spazio per il fascismo o le derive autoritarie, con una Costituzione della quale Togliatti si fa padre, e della quale contribuirà a conservare l’impianto aggregatore, moderato e interclassista che ne fa il patto di tutti gli italiani per una nuova stagione democratica.
[NOTE]
1 Marcello Flores, Nicola Gallerano, Sul PCI, una interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pag. 67
2 Enzo Collotti, Renato Sandri, Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2001, pag. 431
3 Arturo Peregalli, L’altra Resistenza, il PCI e le opposizioni di sinistra, Genova, Graphos, 1991, pag. 52
4 www.anpi.it/donne-e-uomini/1902/palmiro-togliatti
5 Marcello Flores, Nicola Gallerano, Sul PCI, una interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pag. 65
6Marcello Flores, Nicola Gallerano, Sul PCI, una interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, cfr. Paolo Spriano,
Storia del Partito Comunista Italiano, Torino, Einaudi, 1967, vol. IV-V
7 Marcello Flores, Nicola Gallerano, Sul PCI, una interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pag. 87
Alessandro Catto, Palmiro Togliatti, il PCI e la democrazia progressiva tra lotta antifascista e costituzionalizzazione, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2015/2016

lunedì 29 agosto 2022

E tuttavia iniziano a filtrare nella seconda metà del decennio analisi e riflessioni sulla realtà socio-economica dei luoghi del Terzo Mondo


"Appena conquistata, e dissipatasi l’euforia per la sovranità acquisita o ritrovata, l’indipendenza non poteva nascondere l’enormità delle incombenze che restavano da portare a termine. La decolonizzazione era evidentemente un processo globale che andava al di là dell’atto formale, sollevando lo stato dall’assoggettamento politico. Restava dunque da costruire uno stato, definire una strategia di sviluppo e acquisire una legittimità internazionale. Compiti, questi, tanto temibili quanto lo erano la mancanza di transizione, la scarsità di quadri e l’assenza di concertazione, che non sempre permisero ai dirigenti che avevano guidato le lotte nazionali di evitare il doppio scoglio della sottomissione compiacente agli orientamenti impressi dall’ex potenza coloniale e del massimalismo rivoluzionario estraneo alle tradizioni popolari" <162.
Sono parole dello storico Bernard Droz e ben fotografano la situazione di molti paesi che, usciti dal periodo coloniale, si rendono ben presto conto di tutte le difficoltà di arrivare a essere uno Stato moderno. Il momento del termine del dominio coloniale è naturale spartiacque per una comunità di popolo che diventa in questo modo, a dar retta alla retorica, artefice del proprio destino di nazione indipendente.
Si potrebbe in questo senso idealizzare - a cadere vittime del “solito” immaginario determinato da fotografie da rotocalco, spezzoni cinematografici, la settimana Incom <163 - la decolonizzazione e identificarla con la cerimonia dell’alza-bandiera. A una data prefissata, normalmente a mezzanotte <164, nella piazza principale della capitale di una Colonia scende per l’ultima volta il vessillo del paese occidentale colonizzatore e sale per la prima volta la bandiera della ormai ex colonia, che, non di rado, per riaffermare un’identità pre-coloniale decide anche di cambiare il nome <165. Il tutto con la nostalgia che già affiora nei partenti - tutti rigorosamente vestiti, nonostante il lutto, in bianco e con uniformi di taglio coloniale - e la gioia dei “locali” finalmente liberi, senza tutela alcuna, di crearsi il proprio destino in un clima di generale entusiasmo. Un’immagine fuorviante. Se è vero che la maggioranza dei paesi riesce a giungere all’indipendenza senza spargimento di sangue, rimane il fatto che, con la decolonizzazione - che già dal nome è una negazione di qualcosa e chiarisce piuttosto chiaramente che si tratta di operazioni guidate dall’alto se non delle vere e proprie concessioni – da un lato aumentano tantissimo le difficoltà di loro, i cui gruppi dirigenti fanno fatica a formare un qualcosa che possa assomigliare ad una amministrazione <166 se non a uno Stato (e il cui corollario è una sequela piuttosto martellante di Colpi di Stato <167). Dall’altro lato contribuisce a che l’informazione delle condizioni di vita esistenti in buona parte di questi paesi inizia a filtrare a noi tramite agenti d’informazione e collegamento che sono l’espressione della Chiesa nel Terzo Mondo: i missionari.
Nel vuoto di potere che si viene a creare acquisiscono uno spazio notevole e svolgono due ruoli in uno: sono i sostituti o facenti veci di un potere centrale evanescente <168, dato che il sostanziale mantenimento delle strutture coloniali <169 aveva comportato una drammatica sperequazione tra le poche città e le infinite campagne <170 e sono per i fedeli cattolici, i più efficaci reporter di informazioni e notizie su quanto sta avvenendo consolidando l’impressione dell’abisso esistente tra noi e loro, abbondantemente documentato in quegli anni <171.
È loro la voce che arriva a diocesi, parrocchie e oratori e che dipinge tantissime realtà del Terzo Mondo in cui miseria e arretratezza sono i naturali progenitori della tragedia della fame. In questo c’è il supporto pieno della Chiesa che già dalla fine degli anni ’50, intravedendo il termine del colonialismo, spinge per dare nuova verve all’opera delle missioni in una funzione che è anche di contenimento del comunismo <172. Ne è uno strumento chiaro l’Enciclica Fidei Donum espressamente indirizzata verso un nuovo sviluppo dello spirito missionario della Chiesa con una duplice lettura: la solidarietà dei popoli e il fronte da opporre alla minaccia comunista. In concreto si trattava della “spedizione” per un limitato, ma non breve, periodo di tempo di sacerdoti diocesani in terra di missione. Una formula che non otterrà immediatamente dei risultati eccelsi da un punto di vista quantitativo <173. Tuttavia, una maggiore attenzione verso le realtà periferiche oltre a un non disprezzabile aumento - in assoluta controtendenza - delle vocazioni missionarie a partire proprio dagli anni ‘60 <174 è elemento fondamentale di quell’aumento di interesse verso la realtà delle missioni nel Terzo Mondo, anche se resta il dubbio se l’interesse fosse più per le prime o per il secondo. Come detto, fondamentale canale di passaggio di notizie, immagini, impressioni è la stampa missionaria, incardinata in Italia soprattutto attorno a tre testate di grande diffusione come “Le missioni cattoliche” (poi “Mondo e Missione”), “Nigrizia” e “Missioni della Compagnia di Gesù” (in seguito “Popoli”). Pubblicazioni che non si cristallizzano, ma subiscono anch’esse i condizionamenti di quello spirito del tempo in cui l’immagine dello stesso Terzo Mondo è un aspetto fondamentale.
Prendiamo “Le Missioni cattoliche”, forse la più “istituzionale” tra le riviste missionarie, espressione del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME). La centralità di temi quali la missione evangelizzatrice, l’attacco al marxismo <175, l’attenzione ai problemi interni della struttura ecclesiastica176 rimane intatta. E tuttavia iniziano a filtrare nella seconda metà del decennio, soprattutto per l’effetto del Concilio Vaticano II <177, analisi e riflessioni sulla realtà socio-economica dei luoghi del Terzo Mondo <178, sull’importanza del laicato missionario <179, sulla richiesta di maggiore attenzione da parte della politica <180. Un mensile più attento alla realtà dei luoghi di missione, in questo caso l’Africa, è, ben prima del Concilio, “Nigrizia”, che già dal nome indica un significativo spostamento verso loro <181, anche se il punto di vista e la visuale appare ancora piuttosto centrata sul noi <182: basti pensare che ancora nel 1963 sullo stesso mensile dei comboniani a proposito dell’essere missionario si leggeva come «l’impiego di mezzi umani e l’istituzione di opere temporali: ospedali, scuole, partiti e sindacati possono distogliere il missionario dal suo diretto ministero apostolico» <183.
Un caso a parte “Missioni della Compagnia di Gesù”, realisticamente più orientato alla realtà della terra di missione e non a dispute interne o riflessioni, pur presenti e in qualche caso innovative rispetto al coevo panorama missionario <184. In ogni numero trova spazio uno speciale intitolato “Il paese di turno” in cui si mira a rappresentare sia la realtà sociale e politica sia quella religiosa. Nell’ottobre di ogni anno in coincidenza con la giornata missionaria esce poi un numero speciale dedicato a un argomento particolare ma sempre attinente la chiesa locale <185, mentre una rubrica fissa è quella dedicata al cinema e non solo quello missionario, a sottolineare la sensibilità verso i meccanismi di coinvolgimento dell’opinione pubblica. Non così dissimile, ma ancora più portato al versante intellettuale e di introspezione spirituale sui problemi generali della chiesa e delle missioni, è infine il mensile “Fede e Civiltà” dei Saveriani. Una pubblicazione sicuramente meno accessibile al grande pubblico che privilegia numeri monografici sui grandi temi della missionologia, ma anche, con l’innesto del Concilio nel dibattito intellettuale della Chiesa, ad analisi e interpretazioni sui paesi del Terzo Mondo e sull’importanza delle chiese locali <186.
Questa breve panoramica indugia sulle principali fonti dell’epoca che contribuiscono non solo a trasmettere informazioni, immagini, avvenimenti politici, culturali, sociali di quell’ampio contenitore che prende il nome di Terzo Mondo, ma soprattutto si incaricheranno, come vedremo, di trasmettere all’interno del “mondo cattolico” le prime iniziative di assistenza e aiuto, principalmente rivolte a fronteggiare l’“eterna piaga della fame”, spettro e presenza nera per la cristianità fin dall’Apocalisse di Giovanni.
La riscoperta della fame, problema in parte narcotizzato dal colonialismo, riesce a sensibilizzare singoli e gruppi dell’alveo cattolico <187 è una campagna informativa continua negli anni, determinante per creare un terreno fertile di fronte al caso di assoluta emergenza, come si vedrà in occasione della grande mobilitazione in occasione della carestia indiana del 1966. Al di là dei richiami di principio ai valori della pace, della bontà, della solidarietà dello stesso Pio XII <188, sarà Giovanni XXIII, d’intesa con l’unica agenzia delle Nazioni Unite ad avere la sua sede in Italia, a Roma, la FAO [Food and Agricoltural Organization, nda] <189 ad avviare una grande campagna contro la fame in occasione della X Conferenza Internazionale nei saloni della FAO a Roma nel maggio del 1960 <190. In quell’occasione il Papa sottolineerà come «i bisogni del fratello lontano» non possono essere ignorati in virtù dell’appiattimento delle distanze <191.
[NOTE]
162 Bernard Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Bruno Mondadori, Milano, 2010, p. 245.
163 Penso soprattutto al reportage del 1960 sulla fine dell’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia. Scattata ufficialmente a partire dal 1 luglio di quell’anno viene non in poche corrispondenze dipinta con venature di rimpianto ma anche di condiscendenza verso lo “stile italiano” (lasciando trasparire il luogo comune del colonialismo italiano diverso da quello degli altri, il mito italiani brava gente, eccetera). Così ne scrive Nane Serpellon sul mensile missionario dei gesuiti in un piccolo ma riuscito esempio di “occidentalismo di ritorno”: «Dieci anni di governo italiano hanno incoraggiato questa lenta popolazione africana al lavoro; l’hanno educata all’autodisciplina. La tradizione e la mentalità africane non sono state represse, ma sviluppate e integrate dalla cultura latina», Nane Serpellon, Tanti auguri Somalia, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 46, giugno-luglio 1960, p. 15. Con accenti non molto diversi si esprime Manlio Lupinacci sul “Corriere della Sera” in un articolo intriso di paternalismo e che esprime grossi dubbi sul fatto che i somali (e per estensione gli africani tutti dei paesi di recente indipendenza) siano in grado di edificare uno Stato: «Sono convinto nel profondo del mio spirito che tutti gli uomini sono idonei a essere uomini liberi e a formare società di uomini liberi: purché la storia ve li prepari». Nei suoi dubbi («È ancora bianca la libertà e temo che l’indipendenza finirà per considerarla straniera») e rimpianti (in un altro brano parla di «stretta al cuore» pensando al passato coloniale italiano chiuso per sempre) Lupinacci riassume la sua visione occidentale di Stato ordinato e liberale inaccessibile a suo dire alle «società di tribù» africane. Vedi Manlio Lupinacci, Ammainabandiera, in “Corriere della Sera”, 1 luglio 1960.
164 Come non ricollegarsi in questo senso a Salman Rushdie e al fulminante avvio di uno dei suoi romanzi più belli: «Io sono nato nella città di Bombay … tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottor Narlikar il 15 agosto 1947. E l’ora? Anche l’ora è importante. Diciamo di notte. No, bisogna essere più precisi … Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai le lancette dell’orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Oh, diciamolo chiaro, diciamolo chiaro; nell’istante preciso in cui l’India pervenne all’indipendenza io fui scaraventato nel mondo», Salman Rushdie, I Figli della Mezzanotte, Mondadori, Milano, 2009, p. 9.
165 Il caso più noto oltre a essere anche il primo è quello della Costa d’Oro che, primo paese dell’Africa “nera” a conoscere l’indipendenza nel 1957. Esattamente il 6 marzo di quell’anno (e ovviamente un minuto dopo la mezzanotte) il Ghana diventa indipendente o per usare le parole del presidente Kwame Nkrumah a separarsi «dall’ex potere imperiale». Vedi Raymond F. Betts, La decolonizzazione, cit. (citazione a p. 85).
166 Chiara Robertazzi, cui certamente non sono imputabili simpatie clericali, così dipinge la situazione in Congo nel 1960, all’alba della sua indipendenza: «Il Congo non ha a tutt’oggi neppure un medico, un ingegnere, un avvocato, un professore, un farmacista; i generali sono stati creati al momento della ribellione della Force Pubique, con rapidissime promozioni dai gradi più bassi. Esistono invece quattro vescovi africani e varie centinaia di preti, sempre tuttavia scarsi rispetto al numero dei vescovi e dei preti europei, il che dimostra solo che le missioni cattoliche, cui come abbiamo già detto era stato concesso il monopolio dell’istruzione, seguivano direttive più lungimiranti di quelle dell’amministrazione coloniale», Chiara Robertazzi, Il Congo specchio dell’Africa, in “Problemi del socialismo”, anno 3, n. 10, ottobre 1960. Per una storia del Congo dalla dall’indipendenza all’ascesa al potere di Mubutu vedi Gruppo U3M (a cura di), Il Congo di Lumumba e Mulele, Jaca Book, Milano, 1969. La documentazione in sede ONU relativa al Congo per il periodo 1960-1964 in Maria Vismara, L’azione politica delle Nazioni Unite. 1946-1976, Vol. 1, Tomo 2, CEDAM, Padova, 1983, pp. 1137-1341. Pochi mesi dopo la stessa Robertazzi poneva giusti interrogativi a proposito dei problemi successivi alla conquista dell’indipendenza: «Formalmente tutti riconoscono che la decolonizzazione politica è insufficiente ad assicurare una reale autonomia ai paesi ex coloniali fino a che ad essa non si accompagni una decolonizzazione economica. Non si tratta solo di imprimere un ritmo più rapido di sviluppo [..] ma di riorientare tutta l’economia del paese non più in funzione degli interessi coloniali ma di quelli delle popolazioni africane», Chiara Robertazzi, Decolonizzazione e neocolonialismo in Africa, cit. Un problema che certamente non è delimitabile al solo Congo.
167 Sono ad sempio ben 13 i Colpi di Stato tra il 1964 e i primi mesi del 1966 nella sola Africa. Vedi Corrado Pizzinelli, In due anni e mezzo tredici colpi di Stato, in “Famiglia cristiana”, n. 19, 8 maggio 1966, pp. 40-46.
168 Le riflessioni della Robertazzi (Chiara Robertazzi, Decolonizzazione e neocolonialismo in Africa, cit.) trovano un’ideale sponda in quanto osserva Gildo Baraldi - che ha speso una vita all’interno del movimento della “cooperazione” italiana - mezzo secolo dopo: «Un po’ per mancanza di competenze specifiche, un po’ per precise scelte politiche delle potenze coloniali, l’interno è ignorato e viene meno quella che non chiamerei “presenza dello stato” quanto una realtà amministrativa coloniale. Cosa succede allora? Che in alcuni casi in modo addirittura esplicito, in altri negandolo ma di fatto facendolo, la gestione della brousse dell’interno viene delegata all’unica autorità di fatto presente che sono i missionari. Questi missionari accettano di buon grado questo ruolo anche perché ne fanno di fatto il centro di vita dell’interno e favorisce l’attività di evangelizzazione», testimonianza di Gildo Baraldi [a.85].
169 Sottolineava Calchi Novati in un’opera apparsa nel 1963 a proposito delle strutture di potere nell’Africa ex-francese: «È probabilmente dubbio che l’Africa occidentale potesse definirsi una società divisa in classi, sia per la rudimentalità dei mezzi di produzione che per la scarsa coscienza di classe dei soggetti appartenenti al medesimo gruppo, ma ad assumere le redini dello Stato fu certo una classe di borghesi burocratici in embrione inseriti nell’apparato dello stato o nel circuito del grande commercio internazionale, destinata a trovare nel potere politico e nel rafforzamento dei principi del capitalismo semi-coloniale la sua unica via di sopravvivenza», Giampaolo Calchi Novati, L’Africa nera non è indipendente, Edizioni di Comunità, Milano, 1964, p. 143.
170 Baraldi sintetizza: «I nuovi stati, le nuove autorità nazionali, salvo alcune eccezioni come l’Algeria e il Marocco, raggiungono l’indipendenza attraverso processi pilotati dalle potenze (ex) coloniali. Vengono perciò messi al potere dei governi plasmati dalle potenze coloniali il cui compito nei fatti – poi ognuno ne dà l’interpretazione politica che vuole – è quello di continuare a perseguire gli interessi economici della potenza coloniale nella capitale», testimonianza di Gildo Baraldi [a.85].
171 In molti casi vengono riportati degli indici numerici sulla fame, sull’aspettativa di vita adulta e infantile, sui livelli salariali e soprattutto sull’assistenza medica (che abbiamo già incontrato nell’analisi della Robertazzi). In un numero del 1960 di “Fede e Civiltà” sono riportati alcuni dati dell’ONU che riassumo per punti: a) suddividendo la popolazione mondiale il 60% si trova in situazione di miseria, mentre il 20% è nell’abbondanza; b) la mortalità infantile che in Svezia è pari al 2% in Africa è in media del 35%; c) 800 milioni di individui vivono con 67 lire al giorno [teniamo presente che un quotidiano costava nel 1960 40 lire, nda]; d) la vita media se in Inghilterra e Stati Uniti è pari a 70 anni, in Cina è di 43 e in India di 32 anni; e) Negli Stati Uniti c’è un medico ogni 729 abitanti mentre in Kenia ce c’è uno ogni 9924 e in Indonesia ogni 61.000. Vedi Uomini come noi, in “Fede e Civiltà”, anno 58, n. 3, marzo 1960, p. 106. A margine di questo riepilogo la rivista informa i lettori sull’iniziativa tedesca di Misereor (su cui vedi Walter Kiefer - Heinz Theo Risse, Misereor. Un’ avventura dell’amore cristiano, EMI, 1966).
172 Ecco il messaggio natalizio del 1954 in cui stigmatizza piuttosto duramente le potenze coloniali. Di particolare interesse il passaggio in cui si accenna agli «incendi, a danno del prestigio e degli interessi dell’Europa, sono, almeno in parte, il frutto del suo cattivo esempio», Jean-Marie Mayeur, La Chiesa cattolica in Id. (a cura di), Storia del Cristianesimo, Guerre mondiali e totalitarismo (1914-1958), Vol. 12, (Edizione italiana a cura di Giuseppe Alberigo), Borla/Città Nuova, Roma, 1997, p. 328; e quello del 1955 in cui si mette in guardia da conflitti tra paesi europei ed extraeuropei (il concetto di Terzo Mondo è di là da venire nonostante quello fosse l’anno di Bandung) che possono «favorire un terzo che ambedue gli altri gruppi in fondo non vogliono, e non possono volere», Ivi, p. 329.
173 Il missionario fidei donum è un sacerdote diocesano distaccato per un periodo di 4 o 5 anni, che, pur rimanendo formalmente ancorato alla diocesi d’origine, effettua il suo servizio presso una missione sottostando naturalmente all’obbedienza al vescovo della missione. Nel 1964, a 7 anni dall’Enciclica, si calcolò che erano andati in missione come fidei donum non più di 150 nuovi sacerdoti (in tutto il mondo), Piero Gheddo, I “sacerdoti Fidei donum”, in “Le Missioni cattoliche”, anno 93, maggio 1964, p. 237-238. In una recente ricerca per i 50 anni della Fidei Donum Dario Nicoli identifica tre fasi storiche ben distinte (relativamente ai sacerdoti fidei donum): la prima che arriva fino al 1968 che vede poche intese molto dipendenti dallo spirito d’iniziativa della diocesi italiana; la seconda che copre il periodo 1969-1982 di forte espansione e l’ultimo di lento e contenuto declino, in particolar modo dalla seconda metà degli anni ’90. Vedi Dario Nicoli, Presentazione della ricerca sui 50 anni di esperienza Fidei Donum in Italia, in “Notiziario dell’ufficio nazionale per la cooperazione missionaria tra le chiese”, n. 42, gennaio 2008, pp. 150-152 [Atti del convegno di spiritualità per sacerdoti, Montesilvano (PE), 5-8 novembre 2007]. In particolare prendendo i dati totali e per decennio la ricerca di Nicoli ci dice che su 1672 partenze tra il 1957 e il 2006, 217 sono comprese nel decennio che va dal 1957 al 1966. Un dato quasi doppiato dal periodo successivo (1967-1976) che vede ben 423 partenze, il picco più alto dell’intero cinquantennio (dati degli altri decenni presi in considerazione: 1977-1986: 317; 1987-1996: 354; 1997-2006: 361), vedi Dario Nicoli, Il movimento Fidei Donum. Tra memoria e futuro, EMI, Bologna, 2007, p. 169.
174 Di fronte alla crisi delle vocazioni missionarie «sembra che alcuni paesi negli anni 1970-1980 prendano la via opposta, poiché la Spagna e l’Italia hanno raddoppiato il numero dei loro missionari tra il 1963 e il 1987: in questo ultimo anno hanno raggiunto rispettivamente le cifre di 22.000 e 19.000», Jean François Zorn, Crisi e mutamenti della missione cristiana, in Jean-Marie Mayeur (a cura di), Storia del Cristianesimo, Crisi e rinnovamento dal 1958 ai giorni nostri, Vol. 13, (edizione italiana a cura di Andrea Riccardi), Borla/Città Nuova, Roma, 2002, p. 316. Base dei dati tratti dall’Agenzia vaticana Fides, 4 luglio 1992. In particolare si segnala che i soli 2 istituti missionari (Comboniani e Missionari della Consolata) a registrare un incremento di vocazioni tra il 1962 e il 1977 sono italiani.
175 Vedi i primi due numeri del 1961 di “Le Missioni Cattoliche” con due servizi speciali dedicati alla Russia e alla Cina: Centro Studi Russia Cristiana (a cura di), La Chiesa Ortodossa in Russia al cui interno segnalo l’articolo Lotta contro Dio e sopravvivenza della fede, in “Le Missioni Cattoliche”, anno 90, gennaio 1961, pp. 16-30 (l’articolo citato pp. 26-30); l’articolo molto lungo sulla Cina è opera di Padre Amelio Crotti, missionario espulso dalla Cina. Crotti rilegge la storia recente del “paese di mezzo” centrando la sua analisi sull’attacco operato da Mao verso le forme religiose pre-esistenti e l’impossibilità di arrivare realmente alla condivisione del marxismo da parte di un popolo per il quale «famiglia e terra sono cose sacre», Amelio Crotti, Il popolo cinese di fronte al comunismo, in “Le Missioni Cattoliche”, anno 90, febbraio 1961, pp. 58-72 (citazione a pagina 67). E ancora: Luigi Muratori, Cuba e il regime di Fidel Castro, in “Le Missioni cattoliche, anno 92, maggio 1963, pp. 244-266. Vi si dipinge un regime ferocemente dittatoriale e in buona parta già abbandonato dal popolo, già stanco a cinque anni dalla rivoluzione.
176 Fondamentale in questo ambito il rapporto con le chiese locali. Di grande importanza in questo senso il Congresso Eucaristico Internazionale del 1964, per la prima volta tenutosi in un paese non cristiano, l’India. Vedi Augusto Colombo, La chiesa indiana alla vigilia del Congresso di Bombay, in “Le Missioni cattoliche”, anno 93, novembre 1964, pp. 461-464.
177 Vedi: il numero speciale del dicembre 1962 interamente dedicato al Concilio nell’ottica naturalmente missionaria con una serie di articoli (alcuni di grande interesse come quello del Giappone moderno di fronte alla Chiesa o dei problemi liturgici nelle missioni con un contributo di un vescovo indonesiano) scritti di pugno da esponenti delle chiese locali, Numero Speciale per il Concilio Vaticano II, in “Le Missioni cattoliche”, anno 91, dicembre 1962; Piero Gheddo, La prima sessione del Concilio: aspetti missionari, in “Le Missioni cattoliche”, anno 92, marzo 1963, pp. 140-158, un inserto molto centrato sulle prime discussioni conciliari, soprattutto in tema di riforme liturgiche (in modo da conformarle alle culture dei vari popoli (un tema caro allo spirito missionario, per ovvie ragioni). Nel dicembre 1963 esce un altro numero speciale interamente dedicato alla seconda sessione del Concilio che altro non è se non una mappa delle diverse chiese locali e missionarie.
178 A partire dal 1964 iniziano a uscire degli speciali in cui il taglio non è più solo religioso ma è accortamente miscelato con una certa attenzione ai problemi socio-politici. Cito i primi: Augusto Colombo, India 1964. Una difficile via al progresso, in “Le Missioni cattoliche”, anno 93, novembre 1964, pp. 480-499. È un interessante reportage sul subcontinente all’indomani della morte di Nehru e dell’ascesa al potere di Shastri; Bernardo Bernardi, La questione razziale nel Sud Africa, in “Le Missioni cattoliche”, anno 93, dicembre 1964, pp. 532-554; Luigi Muratori, Missione nuova per il Giappone d’oggi, in “Le Missioni cattoliche”, anno 94, gennaio 1965, pp. 32-48
179 Viene data una buona visibilità alla nascita e ai primi passi della Federazione degli Organismi di Laicato Missionario [FOLM, nda] costituitisi a Milano il 3 settembre 1966. In particolare alla fine del 1967 viene dedicato un intero numero al Laicato missionario in Italia curato da Cesare Bonivento (con un intervento di Domenico Bosa). Vedi Il laicato missionario in Italia, in “Le Missioni cattoliche”, anno 96, novembre 1967, pp. 538-554 e Paolo Linati, FOLM. Federazione di Organismi di Laicato Missionario, Ivi, pp. 555-560.
180 In sordina viene pubblicato agli inizi del 1965 un trafiletto in cui si dà conto della proposta di legge di Pedini e altri per la dispensa dal servizio militare per i cosiddetti volontari della libertà. Sarà la progenitrice della legge 1033 approvata l’anno dopo. Vedi Italia: proposta di legge per i “volontari della libertà”, in “Le Missioni cattoliche”, anno 94, aprile 1965, pp. 191-192.
181 Curioso annotare un dibattito acceso da una lettera di Vittorino Chizzolini a proposito del nome. Nell’ottobre del 1961 egli scrive «non penso che oggi si possa più usare il termine “Nigrizia”, che sottolinea l’aspetto razziale, ecc. che cosa diremmo noi se gli africani, sia pure con la migliore delle intenzioni, pubblicassero una rivista dal nome “I visi pallidi”?», Vittorino Chizzolini, I visi pallidi, in “Nigrizia”, anno 79, ottobre 1961.
182 Sia su “Nigrizia” sia su “Le Missioni cattoliche”, il solco è sempre quello della tradizione missionaria ed evangelizzatrice. Tutti gli articoli scritti dai o sui missionari hanno immancabilmente delle foto con loro impegnati in opere di assistenza alla popolazione locale; sono valorizzate le donazioni citando i nomi dei donatori e infine le opere di cooperazione missionaria, che a partire dal 1965 diventano sul mensile del PIME una rubrica dal titolo I missionari chiedono. “Le Missioni cattoliche, anno 92, maggio 1963, pp. 244-266. Vi si dipinge un regime ferocemente dittatoriale e in buona parta già abbandonato dal popolo, già stanco a cinque anni dalla rivoluzione.
183 Tra il 1962 e il 1963 esce un lungo articolo a puntate dal titolo Il missionario del nostro tempo (nei numeri di novembre e dicembre 1962 e gennaio 1963) con molte riflessioni figlie del cambiamento in nuce, ma anche con delle linee chiaramente riconducibili al dovere evangelizzatore. Nell’ultima parte dell’articolo si legge: «Il missionario di oggi a differenza di quello di ieri, dispone di mezzi eccezionali per arrivare a tutti gli uomini. Si pensi alla stampa, ai mezzi di comunicazione, alla facilità di comunicazioni. Ma questi mezzi sono costosi e sembrano contraddire allo spirito di povertà e di semplicità del Vangelo. D’altra parte l’impiego di mezzi umani e l’istituzione di opere temporali: ospedali, scuole, partiti e sindacati possono distogliere il missionario dal suo diretto ministero apostolico», Il missionario del nostro tempo (3), in “Nigrizia”, anno 81, gennaio 1963, p. 8.
184 Sugli studenti del Terzo Mondo che vengono a studiare in Italia vedi Silvio Zarattini, Le missioni vengono a noi, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 46, marzo 1960, pp. 6-9; sull’idea missionaria vedi Walter Gardini, Che cosa sono le missioni, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 46, ottobre 1960, pp. 6-12 (l’autore pubblicherà due anni dopo un libro dal titolo Problemi missionari d’oggi; sulla necessità di adeguarsi ai moderni strumenti di comunicazione di massa vedi le intelligenti riflessioni (che riprendo in seguito) di Silvio Zarattini, L’opinione pubblica, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 48, n. 5, maggio 1962, p. 15; sull’unione delle chiese Jean Danielou, L’unità dei cristiani e l’avvenire del mondo, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 48, marzo 1962, pp. 8-11
185 Tradizione che termina nel 1964. Tra quelli più significati: lo speciale del 1960 dedicato alle Missioni, e quello del 1963 all’Africa del Concilio con una connotazione molto positiva sul futuro del continente di cui si parla soprattutto del caso del Madagascar.
186 In uno di questi corposi volumi, dedicato al Burundi, nel 1964 si accenna un po’ di sfuggita alla presenza in Italia del vescovo di Ngozi Andrea Makarakiza che, come vedremo, sarà fondamentale per l’avvio della costruzione di un ospedale a Kiremba con l’aiuto della diocesi bresciana. Vedi Vittorino Martini, Il Burundi nel “ciclone” dello spirito santo, in “Fede e Civiltà”, anno 62, n. 8, ottobre 1964, pp. 1-61. Si tratta di un numero molto curato che presenta la realtà geografica, storica e culturale del paese insieme a una mappatura dettagliata della suddivisione di fedi religiose nel paese con il numero di parrocchie e di fedeli. Non è un “caso” l’interesse per questo piccolo paese dell’Africa centrale, ove si pensi che parliamo comunque di un paese a maggioranza cristiana: «il popolo più cristiano d’Africa; più del 50% del Burundi è cattolico», così all’inizio degli anni ’70 il noto vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi, intervento al 2° convegno di studio promosso dal Movimento Laici per l’America Latina (MLAL), vedi La liberazione dell’Uomo, in “Quaderni ASAL”, n. 3-4, 1972, p. 145.
187 Nel 1960 “Le Missioni cattoliche” pubblica un servizio speciale dedicati al problema della fame (Piero Gheddo, Popoli ricchi e popoli affamati, in “Le Missioni cattoliche”, anno 89, aprile 1960, pp. 138-150). Sempre nel 1960 un lungo numero speciale di “Gentes”, mensile della gesuitica Lega Missionaria Studenti, sul tema (Giulio Di Laura, I due terzi degli uomini hanno fame, in “Gentes”, anno 34, n. 6, giugno 1960, pp. 571-598). Negli stessi anni “Italia Missionaria” avvia una rubrica dal titolo “Mani Tese” che darà il la all’omonima associazione. Iniziano a formarsi gruppi che si occupano di contrastare la fame nel mondo. Gruppi e organizzazioni che saranno in prima linea contro la grande carestia indiana del 1966 e la cui genesi vedremo meglio nel corso del prossimo capitolo.
188 L’instancabile Piero Gheddo ci propone nel suo libro sulla fame nel mondo un messaggio di Pio XII ai membri della FAO prevede per i popoli progrediti «duri risvegli se non si danno cura, fin d’ora, di assicurare ai meno fortunati i mezzi per vivere umanamente», Piero Gheddo, La fame nel mondo, EMI, Bologna, 1965, pp. 80 e 81.
189 La Fao rimane la principale Agenzia delle Nazioni Unite di stanza a Roma. Questo in virtù del pregresso IIA (Istituto Internazionale dell’Agricoltura), dalle cui ceneri sorse la FAO dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Vedi Luciano Tosi, Alle origini della FAO. Le reazione tra l’Istituto Internazionale dell’Agricoltura e la Società delle Nazioni, Franco Angeli, Milano, 1989, pp. 233-276; vedi Claudia Gioffré, F.A.O., in Marcello Flores (a cura di), Diritti Umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, Vol. 1, UTET, Torino, 2007, pp 571-573.
190 Vedi il Rapporto della prima riunione del comitato consultivo della Campagna mondiale contro la fame, in Josué De Castro, Il libro nero della fame, Morcelliana, Brescia, 1963, pp. 177-190. Lo stesso De Castro rivestirà il ruolo di presidente per il primo periodo del Comitato consultivo.
191 Le parole esatte del “Papa buono”: «Nessuno, in un mondo in cui le distanze non contano più, può addurre a scusa che i bisogni del fratello lontano non gli sono noti», in Per la campagna contro la fame mobilitate le risorse di 80 paesi, in “La Stampa”, 5 maggio 1960.
Antonio Benci, Il prossimo lontano. Alle origini della solidarietà internazionale in Italia (1945-1971), Tesi di Dottorato, Università Ca' Foscari Venezia, 2013

sabato 27 agosto 2022

Ma chi è Ligustro?


Se la musica è l’arte dei suoni che risvegliano i sentimenti dell’anima, i colori di Ligustro sono un mondo poetico dove la musa ne canta le lodi per alimentare i sentimenti. Ma chi è Ligustro? Già, Ligustro, vediamolo con ordine.
Giovanni Berio, nato nel 1924, proviene da una famiglia di Oneglia (oggi Imperia) attiva nel settore della produzione di olio d’oliva, gli studi si fermano dopo qualche anno di istituto secondario superiore per entrare nel mondo del lavoro. Giovane, brillante e pieno di entusiasmo, si inserisce nell’industria olearia fino a diventare uno dei migliori esperti nella produzione dell’olio. Senza risparmiarsi, dedica così tutta la sua vita alla gestione di costruzioni di impianti di lavorazione dell’olio nei paesi mediterranei fino all’età di 63 anni, quando viene colpito da un grave infarto da cui ne esce completamente trasformato. Nel mezzo di questo evento ci racconta che, al culmine della crisi fisica, la sua mente fu colpita da un susseguirsi di colori, tanto da fargli nascere il dubbio d’essere entrato in un’altra dimensione. Così, nel 1986, inizia come autodidatta a ricostruirsi una seconda vita. L’armonia dei colori è entrata come per incanto nella sua anima e rappresenta il dono della vita e della natura attraverso le infinite sfumature di colori, quasi fosse una danza di luce. E’ così che Giovanni Berio diventa in arte Ligustro.
Giovanni Berio, ancor prima della malattia, si divertiva a dipingere ad olio ed acquerello, ma la grande opera iniziò dopo il grave infarto, dedicandosi allo studio della xilografia policroma giapponese e delle sue tecniche Nishiki-e in uso nel periodo Edo (1603-1868), quella parte della storia del Giappone in cui la famiglia Tokugawa detenne il massimo potere politico e militare del paese, realizzando le stampe a mano sulle prestigiose carte giapponesi con antichi metodi artigianali e utilizzando molteplici colori. Questi ultimi, auto preparati, si ottengono dalla miscelazione di polveri d’oro, argento, perle di fiume, frammenti micacei, conchiglie di ostriche macinate, terre colorate e altri procedimenti che solo il Maestro conosce. Ma solamente i colori non bastano, per portare a compimento un’opera xilografica con le tecniche Nishiki-e sono necessarie decine, e a volte centinaia, di matrici scolpite a mano con altissima precisione su legno di ciliegio o pero, che vengono poi allineate con altrettanta accuratezza nella fase di stampa manuale.
Le opere di Ligustro, rappresentate da un tripudio di colori, derivano dall’approfondimento della cultura giapponese, come la donna del periodo Kamakura indirizzata verso un’elevata istruzione, ma anche dalla bellezza della natura, dai ricordi d’infanzia come i palloncini e le farfalle che troviamo su varie sue opere, dall’esaltazione della luce, dall’amicizia, dalla vita, dalla felicità dalla famiglia e la sua armonia, dall’educazione e dalla sua Oneglia (oggi Imperia) dove nasce tutta la sua produzione artistico-letteraria. E l’interpretazione esplicita del mondo di Ligustro la troviamo in una meravigliosa stampa dal titolo “IL MIO MONDO”: “Il topo rappresenta la società odierna che provoca inquinamento, non solo ambientale, ma altresì culturale. Essa tende dalla sua oscurità a distruggere questo mio mondo, la cui incantevole visione è rappresentata da un’immensa sfera di cristallo inserita nell’universo con: Sole - Stelle - Musica - Fiori - Insetti - Animali (il mio mondo della natura, secondo la concezione ZEN) di Barche dei Sogni, che solcano questo mio mare di “Risplendente zaffiro”. Dall’immensa ferita, sgorga la linfa vitale di cui l’immondo “Uomo - Topo” si nutre. La farfalla “YIN-YANG” di concezione orientale, ne rappresenta il contrario: Spiritualità, Visioni, dai mille Colori, Ebbrezza, di un mondo illuminato da un “SOLE - FIORE”.
La produzione artistica di Ligustro è frutto dell’amore per quello che definisce “IL MIO MONDO”, tanto che in un nostro incontro precisa: “Realizzo poche tirature per ogni opera, generalmente quattro, che tengo per me e per i miei figli, non sono interessato al mercato e le poche opere uscite dal mio studio sono state donate; d’altra parte, a quale prezzo dovrebbero essere vendute tenuto conto dei mesi di lavoro che ognuna richiede?”.
La rinascita delle tecniche Nishiki-e per opera di Ligustro stimola il mondo artistico tanto da animare una fertile corrispondenza e interesse a livello mondiale, in particolare in Giappone, ponendolo sul podio dei più grandi maestri e forse come ultimo artista che realizzi stampe da incisioni su legno secondo le classiche tecniche giapponesi.
Numerose sono state le mostre, le conferenze e gli incontri con personalità artistiche e culturali per diffondere “l’arte senza tempo”, e non sono mancati riconoscimenti importanti come il premio Mario Novaro per la cultura ligure nel 2009 e il premio regionale ligure per l’arte nel 2003.
Negli ultimi anni Ligustro, ripercorrendo mentalmente tutta la sua vita artistica, si ritrova con un patrimonio notevole composto dalle sue opere e dai preziosi legni incisi: un tesoro di inestimabile valore. E si pone una domanda: “Dove, e come, sistemarlo?”. Alla parte di catalogazione di tutta la produzione artistica pensa il figlio Francesco, abile informatico dall’approccio meticoloso e preciso: la quantità di opere, legni incisi e documentazione è notevole, così inizia un’attività impegnativa, durata anni e ancora in essere, di archiviazione informatica del patrimonio artistico di Ligustro.
Dopo un’attenta analisi delle varie opportunità offerte dai molti enti interessati, si decide di donare un importante lascito alla biblioteca civica “Leonardo Lagorio” di Imperia, la città natale dell’artista Giovanni Berio in arte Ligustro: tra le molte ipotesi credo sia stata fatta la scelta migliore.
La biblioteca Lagorio è la medesima dove precedentemente hanno trovato spazio le donazioni di Edmondo De Amicis, di Giovanni Boine, dell’onorevole Alessandro Natta e di Francesco Biga, tutte personalità legate alla stessa città d’origine.
L’atto ufficiale della donazione si è svolto il 31 gennaio 2015 presso la sala convegni della biblioteca civica “Leonardo Lagorio” di Imperia, con il patrocinio della Fondazione Italia Giappone, della Fondazione Mario Novaro e della città di Imperia, alla presenza di Giuseppe Enrico (dirigente cultura, manifestazioni e protezione civile), Paolo Strescino (assessore alla cultura, turismo e sport del comune di Imperia), Silvia Bonjean (direttrice della biblioteca civica), Fabiola Bortolini (ufficio cultura), Vittorio Coletti (docente di storia della lingua italiana presso l’università di Genova), del Maestro Ligustro e di suo figlio Francesco Berio, relatore e presentatore della donazione.
Nell’occasione il numeroso pubblico ha potuto incontrare il Maestro, visitare la sala con le opere esposte ed ammirare una particolare xilografia, detta surimono (i surimono sono i più bei biglietti d’auguri e di circostanza mai realizzati, prodotti in Giappone tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento in occasioni molto particolari e non per il mercato, ma per circolazione privata [prof. Gian Carlo Calza]) dal titolo: “Imperia la città che sale”appositamente preparata per l’evento.
La donazione di Ligustro consiste in 5000 legni incisi, 2000 libri d’arte e di letteratura italiana, giapponese, cinese ed araba, 20 faldoni di corrispondenza con illustri esponenti di fama internazionale, varie calligrafie giapponesi, l’archivio completo di una vita artistica e varie opere d’arte personali e di altri autori.
Ligustro, presente alla donazione con i suoi 91 anni e brillante come sempre, mi raccontava con entusiasmo i suoi futuri progetti, ed era un piacere ascoltarlo; l’avevo già incontrato nel suo studio, ma così ho avuto la conferma che, incontrando Ligustro, non si incontra soltanto un grande artista, ma anche colui che con sapienza e saggezza trasmette cultura, gioia, speranza, bellezza, insomma ci si trova davanti all’incarnazione delle sue opere.
Vorrei concludere con una breve riflessione su quanto, a mio avviso, emerge dal pensiero di Ligustro dopo alcuni incontri con lui.
Ligustro profondo analista di culture occidentali e orientali, oserei dire globali, mette in evidenza il più potente equilibrio in gestione al genere umano: “l’equilibrio della natura”, in quanto è la natura il riferimento delle nostre azioni e delle nostre scelte, è la natura, e non l’uomo, che ha determinato le leggi della nostra vita, semmai l’uomo scopre quelle leggi e sceglie le regole per utilizzarle. E’ la natura la grande regista della nostra vita.
Così Ligustro ci suggerisce una cultura legata alle leggi della natura come unica fonte di salvezza del mondo.
Ligustro si spegne serenamente l’11 dicembre 2015, circondato dall’affetto dei suoi cari e dei molti amici: dal suo amato Giappone, racchiuso nel piccolo studio di Imperia Oneglia, Ligustro lascia straordinarie idee da intuire e fantastiche opere da ammirare.
Daniele Paltanin, Ligustro: un ligure illustre nato a Oneglia, Liguri nel mondo, 10 gennaio 2019

martedì 23 agosto 2022

Nell’estate del 1926 Luigi Campolonghi affrontava già sulla "France de Nice e du Sud-Est" il problema dell’immigrazione italiana


Il clima di sospetto nei confronti delle autorità italiane non fu però sopito dal riassestamento del Fascio e il 1926 segnò infatti l’inizio di una grave crisi diplomatica tra le due nazioni confinanti in merito alla questione coloniale. Oltre che dalla questione irredentista, infatti, la metà degli anni Venti fu segnata anche dalla crisi diplomatica tra Italia e Francia sul colonialismo. Com’è noto, infatti, secondo il trattato di Versailles Francia e Inghilterra avevano potuto beneficiare delle colonie dei Paesi vinti, non così l’Italia, che concorreva continuamente con l’imperialismo francese nell’Africa settentrionale, in Marocco, Siria, Tunisia - Tunisia dove peraltro erano presenti molti più italiani che francesi -. Il governo italiano rimproverava alla Francia di francesizzare gli italiani in Tunisia e di rifiutare loro gli stessi diritti dei cittadini francesi <53.
Anche l’opinione pubblica era coinvolta nelle diatribe che si consumavano all’interno della colonia italiana e che minacciavano sempre più direttamente l’ordine locale. Le redazioni dei giornali, con le loro diverse tendenze politiche, si occuparono di rendere note le impressioni degli abitanti della Costa Azzurra ma anche di influenzare e indirizzare gli orientamenti sociali e politici della popolazione nizzarda. Fu Albert Dubarry, direttore del quotidiano 'La France de Nice et du Sud-Est', a volersi rivolgere esplicitamente al pubblico transalpino riservandogli una pagina redatta in lingua italiana. Il giornale era nato all’inizio del 1926, in competizione con l’'Eclaireur de Nice' e con il 'Petit Niçois', conservatori, ed era di tendenza radicale, a differenza dei suoi due concorrenti. Dubarry decise di affidare la “Pagina Italiana” a Luigi Campolonghi, - figura ammirata e studiata a fondo dalla storiografia francese, come nella ricerca di Delpont <54 -, a cui era legato da profonda amicizia. Campolonghi aveva ormai una solida esperienza di giornalismo nel Sud della Francia ed era da poco tempo divenuto presidente della “Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo”, un’associazione molto stimata dagli ambienti radicali francesi, in cui essa era nata con il nome di “Ligue des Droits de l’Homme” <55.
La "Ligue des Droits de l’Homme" era stata fondata, ai tempi dell’affare Dreyfus, al fine di proteggere i proscritti rifugiati in Francia, salvaguardandoli dalle persecuzioni poliziesche e dalla vigilanza, facilitando loro l’acquisizione di documenti e regolarizzandone dunque la permanenza in territorio francese, agevolando il loro inserimento nella società di accoglienza. Nel dopoguerra, con l’affluire di vasti flussi immigratori di varie nazionalità, la Ligue necessitava di un sostegno per poter gestire l’assistenza alle migliaia di esuli che giungevano in Francia e cominciò così a delegare a poco a poco a sezioni nazionali il compito di occuparsi dell’aiuto ai propri compatrioti. Data l’imponenza dell’immigrazione italiana, gli ambienti radicali e massonici francesi, vicini alla Ligue, compresero l’urgenza di fondare un’organizzazione transalpina, e in particolare furono i fautori della “Lega internazionale dei diritti dell’uomo” a promuoverne la formazione. La sua direttrice, “Madame” Aline Ménard-Dorian, celebre per il suo spirito umanitario e democratico, apriva i salotti del suo hôtel particulier della rue de la Faisanderie, nei pressi del Trocadéro, accogliendo esuli illustri e sconosciuti al grande pubblico, tra cui, nei primi anni Venti, figuravano anche due uomini che sarebbero diventati proprio i fondatori della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo nel 1922: Luigi Campolonghi, inserito nel mondo politico della sinistra radicale e massonica francese, vicino a Edouard Herriot, Victor Basch, Léon Blum, e Alceste De Ambris, fiumano della fazione sindacalista rivoluzionaria, che aveva dedicato la vita alla lotta per i diritti umani. Si univa a loro un personaggio ancora defilato rispetto al panorama del fuoriuscitismo, Ubaldo Triaca, che abitava a Parigi dal 1911, ma altrettanto importante nel creare la struttura della Lega per la sua posizione di “venerabile” nella loggia massonica “Italia” affiliata alla “Grande Loge de France”, una rete da penetrare per potersi inserire nell’ambiente democratico della sinistra della Terza repubblica. È stato Eric Vial a studiare a fondo i rapporti dell’antifascismo con la Lidu e con i radicali francesi della Ligue, con la sua tesi di dottorato confluita poi in una pubblicazione fondamentale per la comprensione delle dinamiche dell’antifascismo democratico <56. Appoggiata dalla Ligue consorella di Victor Basch, la Lidu si strutturò sul modello francese, piramidalmente, con un presidente, Campolonghi, e un segretario, De Ambris, un comitato al vertice e sezioni locali, teoricamente apolitica, di fatto dominata dalla componente repubblicana e massonica, cosa che portò non di rado a scontri anche aperti con l’organizzazione comunista in esilio. Anche con gli anarchici il rapporto non fu sempre facile, dacché i libertari denunciavano l’appartenenza massonica dei dirigenti e le finalità controrivoluzionarie e conservatrici sul modello della Repubblica francese.
La Lidu ebbe grande pregnanza nel Sud-Ovest, dove risiedevano Campolonghi e De Ambris, che a Tolosa curavano la redazione del Mezzogiorno, mentre la sezione parigina fungeva piuttosto da comitato centrale; ma a poco a poco si sviluppò in tutto il Paese e in particolare ebbe un ruolo centrale nell’Est e nel Midi come organizzazione antifascista interpartitica in momenti di crisi per il movimento in esilio, facendo prova della sua efficacia, come nel caso dell’affare Garibaldi o del processo a Pertini <57.
Nelle mani di un intellettuale antifascista di tale levatura e di tale influenza politica come Campolonghi, la “Pagina Italiana” divenne in poco tempo uno spazio d’espressione per i fuoriusciti di tutta la Francia, in una fase particolarmente delicata in cui il regime gettava le basi del suo consolidamento attraverso l’emanazione delle leggi fascistissime e rilanciava con grande foga nei territori di confine la questione irredentista di Nizza e la Savoia; per di più nel dicembre del 1925 aveva da pochi mesi visto la luce "Il Pensiero Latino", contro cui si scagliava la feroce penna di Campolonghi e del figlio Leonida, che a differenza del padre, il quale si era installato con la moglie Ernesta nel Sud-Ovest e faceva viaggi sporadici in Costa Azzurra, viveva proprio a Nizza e si occupava di organizzare la propaganda sul territorio <58.
La “Pagina italiana” condusse una campagna offensiva contro il regime e le sue propaggini all’estero, il sistema di spionaggio e di provocatori messo in atto in Costa Azzurra e alla frontiera, svelando complotti, indiscrezioni, scorribande fasciste, destando anche preoccupazioni per l’ordine pubblico francese, dato il clima di tensione creato dalle accuse reciproche tra La France e il Pensiero Latino. L’“affare Garibaldi”, che coinvolse in uno scandalo di corruzione il colonnello Ricciotti Garibaldi, fece grande scalpore sull’opinione pubblica francese e sulla comunità antifascista, e le inchieste dei Campolonghi si infittirono sempre più, in particolare a Beausoleil, considerata roccaforte dei fascisti della Costa Azzurra <59.
[...] Al di là delle numerose tematiche politiche trattate dalla Pagina italiana, Campolonghi e i suoi coredattori si occupavano di dispensare consigli sulla vita del migrante, per agevolare l’inserimento e l’accettazione da parte della società francese, nel rispetto delle leggi del paese ospitante, nell’assiduità al lavoro, nell’attenersi alla legalità e alla documentazione richiesta per regolare il soggiorno.
Nell’estate del 1926 Luigi Campolonghi affrontava già sulla "France de Nice e du Sud-Est" il problema dell’immigrazione italiana e dello statuto degli immigrati, in relazione al sovrappopolamento italiano e alla necessità di manodopera francese, stante il problema del sovrappopolamento della Tunisia, non più in grado di assorbire il surplus demografico italiano, smontando quindi la tesi nazionalista delle colonie portata avanti dal regime. Ben prima del dibattito sullo “Statuto giuridico” della metà degli anni Trenta, Campolonghi abbozzava idee su una legislazione ben definita che tutelasse i diritti e definisse lo status dell’emigrato, affrontando anche il problema della doppia nazionalità <68.
Gastaut spiega che si chiedeva agli italiani di Francia sobrietà e buona condotta, evitando bagarre e scontri con i fascisti nella terra di accoglienza, così come era richiesto dalla legge francese, dunque di non farsi notare per le proprie inclinazioni politiche; ma al tempo stesso si cercava di suscitare sentimenti antifascisti, di diffondere la propaganda, di informare le masse immigrate su quel che accadeva in Italia sotto il regime, dimostrando di condurre una campagna contraddittoria che avrebbe poi condotto nel 1928 alle dimissioni di Campolonghi, quando gli fu chiaro che non sarebbe riuscito nella politicizzazione dell’immigrazione italiana di massa del Sud <69.
Dopo l’esperienza della "Pagina italiana", ci racconta Tombaccini, fu il "Corriere degli italiani" fondato da Giuseppe Borelli nel 1925 l’unico ed ultimo organo a rappresentare l’antifascismo sovrapartitico, anche se non eguagliò per impegno e qualità intellettuale la “Pagina” di Campolonghi. Edito a Parigi come quotidiano, il Corriere vedeva tra i suoi redattori anche Francesco Ciccotti, Mario Pistocchi, Oddino Morgari e nei primi tempi persino Gaetano Salvemini, ponendosi l’intento di editare ciò che in ltalia era stato interdetto dalla censura fascista.
Nel corso del 1926, mentre "La France de Nice" affrontava l’irredentismo e le incursioni della Milizia fascista, il Corriere accoglieva nella redazione due esuli fascisti, in rotta con il regime, pronti a svelare committenti ed esecutori materiali del delitto Matteotti: Cesare Rossi e Carlo Bazzi. Le autorità francesi temevano una reazione di Mussolini ma nella République la libertà di stampa proibiva la censura preventiva; il Corriere pubblicò alcune informazioni di troppo, che non furono gradite al duce. Nell’ottobre del 1926 ben quindici fuoriusciti furono privati della nazionalità italiana, un fatto eclatante che ebbe una grande risonanza internazionale: tra essi Gaetano Salvemini, Francesco Frola, Mario Pistocchi, Carlo Bazzi, Cesare Rossi, Alceste De Ambris, Ubaldo Triaca.
Finiva nel 1927 l’avventura del giornalismo inter- e sovrapartitico con il fallimento del Corriere, ma al tempo stesso si chiudeva un’epoca per il giornalismo in esilio che cominciava ad organizzarsi secondo linee partitiche che rivendicavano il proprio diritto a guidare la lotta politica. E ciò coincise con la conclusione dell’antifascismo esule della prima ora, dopo lo sventato complotto dell’affare Garibaldi, che fece prendere più consapevolezza alla comunità di fuoriusciti delle responsabilità e delle implicazioni diplomatiche che il loro agire poteva avere sulla scena internazionale <70.
[NOTE]
53. Cfr. Schor, Le fascisme italien dans les Alpes Maritimes, cit.
54. Hubert Delpont, Ernesta et Luigi Campolonghi: immigration italienne et antifascisme en Albret, Amis du vieux Nérac, Nérac 1991.
55. Sulla Ligue si vedano gli studi di Vial: Éric Vial, Lidu 23-34: une organisation antifasciste en exil. La Ligue Italienne des Droits de l’Homme, de sa fondation à la veille des fronts populaires, Lille 3: Anrt, 1987; Id., Une organisation antifasciste en exil, la Ligue italienne des droits de l’ homme, thèse de doctorat de l’Ecole des Hautes Etudes, sous la direction de Pierre Milza, Paris 1996; Id., La Ligue Francaise des Droits de l’Homme et la L.I.D.U., son homologue italienne, organisation d’exilés antifascistes dans l’entre-deux-guerres, in «Le Mouvement Social», 1998; Id., «La Ligue italienne des droits de l’Homme de 1938 à la Seconde Guerre mondiale», in Aa.Vv., Italiens et Espagnols en France. 1938-1946, Actes du colloque international, Paris, 28-29 novembre 1991, Ihtp, Paris 1991, pp. 493-501. Sulla figura di Luigi Campolonghi si veda ad esempio il suo importante scritto politico francese, pubblicato dalla Ligue: Luigi Campolonghi, Avec l’Italie? Oui ! Avec le Fascisme? Non!, Ligue des Droits de l’Homme, Paris 1932.
56. Vial, Une organisation antifasciste en exil, cit.
57. Cfr. Tombaccini, Storia dei fuoriusciti cit., pp. 15-19. Sulla Lidu Vial, Une organisation antifasciste en exil, cit.
58. Yvan Gastaut, La Pagina Italiana de “La France de Nice”, espace d’expression des fuorusciti (1926-1928), in «Cahiers de la Méditerannée» n. 52, 1996, pp. 173-182.
59. Gastaut, La Pagina Italiana cit.
68. Adam: 04M 1386: aôut 1926. Si parlerà più approfonditamente della campagna per lo Statuto Giuridico nel IV Capitolo.
69. Gastaut, La Pagina italiana cit.
70. Tombaccini, Storia dei fuoriusciti cit., pp. 33-43.
Emanuela Miniati, La Migrazione Antifascista dalla Liguria alla Francia tra le due guerre. Famiglie e soggettività attraverso le fonti private, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova in cotutela con Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, Anno accademico 2014-2015

lunedì 22 agosto 2022

Il film di culto per eccellenza di questo periodo è "Un americano a Roma"



4.2.3. Anni '50: Il cibo nel genere comico napoletano e Sordi e il modello americano
In questo periodo si sviluppa la comicità cinematografica di Totò a Napoli, che vuole rappresentare un'Italia nuova, che con la fame può permettersi il lusso di giocare e di far sorridere il pubblico e una delle scene che meglio rappresenta l'uso del cibo nei sui film è quella di "Miseria e nobiltà" dove lo scrivano pubblico don Felice, e don Pasquale fotografo ambulante, vivono con le loro famiglia nello stesso povero quartiere alle prese con la miseria ma un giorno ricevono la visita del marchesino Eugenio, che innamorato della figlia di un arricchito un ex-cuoco, propone a don Felice e a don Pasquale di fingersi suoi parenti e di accompagnarlo travestiti, dal padre della fanciulla per chiederne la mano. I due compari accettano con entusiasmo di accompagnare il marchesino dall'ex-cuoco, che fa loro la più sontuosa accoglienza. Scoperto l'inganno a metter le cose a posto arriva il vero padre del marchesino, che è costretto a dare il suo consenso al matrimonio del figlio. Don Felice ritrova la moglie, dalla quale era separato e il figlioletto, e può ricostruire la propria famiglia.
In questa comica trama resta memorabile la scena dell'abbuffata di spaghetti (Figura 1.3) presi da Totò con le mani, mentre balla sul tavolo, e infilati nelle tasche della giacca come a volerne fare scorta. Molte altre sono le scene all'interno del film dove il cibo come il decennio precedente assume sempre il significato di elemento di nutrizione che scarseggia in quegli anni.

Figura 1.3, don Felice balla sulla tavola mangiando spaghetti, scena tratta dal film “Miseria e nobiltà”. Fonte: Eleonora Zanni, Op. cit. infra

Ma gli anni '50 sono anche gli anni del boom economico, in cui l'Italia industrializzata ed, inizia cosi una fase fatta di mezzi di locomozione, di vacanze al mare, di elettrodomestici che aiutano nel cambiamento della condizione femminile, di bibite gassate, di chewingum, di carni in scatola, di locali notturni.
Molti sono i film trovati durante la mia ricerca, che evidenziano questo nuovo modo di interpretare la società ed il cibo di quegli anni, come ad esempio "Il sorpasso" (Figura 1.4) in cui Gasmann percorre mezza Italia con la sua automobile sportiva, passando da un pasto consumato in motoscafo ad una colazione sulla spiaggia, qui il cibo non ha importanza in quanto tale ma a seconda del modo e del luogo in cui viene consumato, diventando uno status symbol.

Figura 1.4, tratta dal film “Il sorpasso”. Fonte: Eleonora Zanni, Op. cit. infra

Anche Fellini fotografa questa nuova Italia nel film "I vitelloni" (Figura 1.5) in cui Sordi e gli amici si aggirano tra caffè alla moda e feste mondane.

Figura 1.5, scena tratta dal film “I vitelloni”. Fonte: Eleonora Zanni, Op. cit. infra

Ma il film di culto per eccellenza di questo periodo è "Un americano a Roma" (Figura 1.6) in cui Alberto Sordi interpreta il ruolo di un giovane aspirante artista rapito dall'importazione dei modelli e dei miti americani di comportamento e tanta di "mangiare come gli americani" rinnegando gli spaghetti lasciati in caldo dalla madre ma alla fine della scena in cui Sordi dialoga con gli spaghetti, butta il cibo americano e torna agli spaghetti preparati dalla mamma, mettendo in scena una sorta di inno gastronomico all'italianità e alla famiglia.

Figura 1.6, la scena ritrae Alberto Sordi che si abbandona ad un piatto di maccheroni, tratta dal film “Un americano a Roma”. Fonte: Eleonora Zanni, Op. cit. infra

4.2.4. Gli anni '60: La dolce vita
Gli anni '60 sono uno spartiacque tra il boom economico degli anni '50 e la crisi sociale che arriverà negli anni '70 e nascono in questo periodo i film di denuncia sociale, sebbene ancora non espliciti come "La dolce vita" di Fellini (Figura 1.7), in cui dietro al titolo allegro vi è invece un film tragico in cui per volere del regista il cibo è volutamente assente e l'unica eccezione è lo champagne cioè un non-cibo, quindi inconsistente come la vita dei personaggi che animano le feste romane descritte nel film. L'assenza del cibo sembra voler avvisare che se si abbandonano i valori familiari e morali, di cui il cibo è portavoce (significato dato al cibo in quegli anni), si andrà a finire male.

Figura 1.7, scena tratta dal film “La dolce vita”. Fonte: Eleonora Zanni, Op. cit. infra

Fellini pochi anni dopo torna con "8 e ½" (Figura 1.8), dove un uomo sui quarantacinque anni trascorre un periodo di riposo in una stazione climatica di cura e la forzata pausa si risolve in una specie di bilancio generale della sua esistenza fatto di rapporti con personaggi reali e di fantasticherie, ricordi, sogni, che si inseriscono all'improvviso negli avvenimenti concreti delle sue giornate e delle sue notti. La paura della vecchiaia e della morte, gli si rivelano attraverso immagini in cui egli vede se stesso morto, mentre intorno, la vita continua senza di lui. E tutto questo non fa che rendere consapevole quello smarrimento che egli si portava dietro da anni e che le cure della esistenza quotidiana e del lavoro avevano in parte mascherato.

Figura 1.8, scena tratta dal film “8 e mezzo” in cui Sandra Milo mangia il pollo con le mani. Fonte: Eleonora Zanni, Op. cit. infra

Qui Fellini compie una diversa operazione gastronomica, infatti ad essere assente volutamente è solamente la pasta perché simbolo secondo lui, del convivio familiare, della trasmissione dei valori morali cattolici, ed è esclusa per far spazio al pollo arrosto. Il nuovo cibo felliniano è dunque il cibo proibito, che rimanda al peccato, alla tentazione, un cibo laico e pagano che può sfamare la voglia di libertà e di libertinaggio degli anni '60.
4.2.5. Gli anni '70: La crisi dei valori sociali
Sono gli anni della crisi economica, sociale, dei valori e della famiglia. Chi meglio rappresenta questo periodo cosi buio è Marco Ferreri definito il regista del cibo, che nei suoi film non manca mai ed anzi è sempre al centro dei suoi film.
L'accoppiata cibo/morte e l'ossessione per il cibo, nelle sue infinite sfaccettature, è onnipresente. Nei suoi film il cibo non è più né cibo, né nutrimento, né sintomo di benessere o ricchezza ma è assunto come il simbolo del disagio, dell'aggressività, sia dell'uomo in quanto tale, sia del decennio in cui vivono i suoi personaggi.
Il cibo in questi anni è portatore di significati negativi, di eccesso e disagio ed infatti molti dei film prodotti in questi anni rientrano nella categoria “Parlare” dove il cibo rappresenta un mezzo di comunicazione per comunicare un disagio sociale generale in cui la società si trova nuovamente.
Ferreri arriva nel 1973 con il capolavoro "La grande abbuffata" in cui mette in scena una lotta tra il cibo e l'uomo, in cui l'uomo soccomberà tristemente [...]
Eleonora Zanni, Il ruolo del cibo nella rappresentazione cinematografica: tra cucinare e mangiare, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa,  Anno Accademico 2014-2015

martedì 16 agosto 2022

Questi croati vanno avanti e indietro dal Vaticano varie volte la settimana


[...] Giudicata dallo stesso Hudal come la tappa principale del canale di fuga italoargentino, la “via di Genova” era gestita dall’Arcivescovo dell’omonima città Giuseppe Siri <21, fondatore di altri due enti che si occupavano dei fuggiaschi: il Comitato Nazionale per l’Emigrazione in Argentina, nato nel 1946 e quello diocesano Auxilium, nato nel 1931. Originariamente ente di assistenza, umanità e beneficienza per i poveri, a partire dal 1946, l’Auxilium allargò il proprio campo d’azione all’assistenza di profughi e emigranti italiani e stranieri. Siri ne aprì una nuova sede vicino alla Chiesa di San Teodoro, non a caso collegata alle banchine del porto tramite corridoi sotterranei. A conferma delle attività clandestine svoltesi presso la parrocchia di San Teodoro, è da citare la testimonianza di don Bruno Venturelli, rilasciata a Giovanni Maria Pace, autore di “La via dei demoni”. Fiduciario dell’allora vescovo Giuseppe Siri e parroco della già citata Chiesa, egli fu, per sua stessa ammissione, traghettatore di nazisti verso il Nuovo Mondo e si rese protagonista di altre iniziative “umanitarie” non proprio ortodosse, il tutto con il beneplacito del Monsignore. Ad avvalorare le dichiarazioni di Venturelli è da ricordare l’intervista televisiva del 1994 al francese William Guyendan de Roussel, ministro della Cultura nel governo di Vichy. Fu proprio grazie all’aiutante di Siri che questi riuscì a fuggire in Argentina. <22 Nella struttura di San Teodoro, tra il 1946 e il 1951, operarono altri cinque sacerdoti, tra cui il prete croato Petranovic, elemento di contatto tra gli ecclesiastici di Genova e l’organizzazione salva-nazisti di Peròn.
[NOTE]
21 G.M. PACE, La via dei demoni, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 2000, pp. 1-32; A. CASAZZA, La fuga dei nazisti: Mengele, Eichmann, Priebke, Pavelic da Genova all’impunità, Il Melangolo, Genova, 2007, pp. 127-144.
22 G.M. PACE, op.cit., pp. 33-52.
Livia Zampolini, Operazione ODESSA: la svastica e la croce. Complicità nella fuga dei criminali nazisti verso il santuario argentino, Tesi di Laurea, Università LUISS “Guido Carli”, Anno Accademico 2012-2013

L’organizzazione Odessa come tale fu una struttura molto complicata in quanto, sebbene fosse stata creata come un’idea univoca, ebbe poi talmente tante ramificazioni che si poté parlare di diverse Odessa a seconda dei Paesi che maggiormente usufruiranno delle sue vie: sicuramente quella creata da alcuni esponenti della Chiesa è stata quella che ha creato le basi in chiave anti-comunista, ma poi gli eventi portarono l’Argentina, la Russia, gli Stati Uniti e l’Inghilterra ad utilizzarle e a diversificarle.
Si può dire che il Vaticano fu il primo Paese ad entrare in contato con l’Odessa originale (quella creata a Strasburgo presso la Maison Rouge dai principali esponenti del Partito Nazista), ne abbia raccolto l’eredità e l’abbia messa in pratica. Con il passare del tempo questa si ampliò ed inizio a ramificarsi ed a costituire altre Odessa che, nonostante avevano per forza di cose dei legami strettissimi con l’Odessa del Vaticano, avevano degli obbiettivi precisi e diversi da quelli originali (fuga e creazione di un nuovo Reich).
Quindi, la mia idea (comprovata da un minuzioso studio dei documenti) è quella che ci sia stata 1) un’Odessa originale (stabilita sulla carta ed in linea più teorica a Strasburgo), 2) un’erede diretta di essa, quella del Vaticano, che ne ha messo in pratica i principi modificandoli in parte ed è evoluta creando una 3) proliferazione di altre Odessa, generando nuove sub organizzazioni che hanno sempre mantenuto un contatto con la prima Odessa soprattutto a livello strutturale.
Come vedremo, successivamente, mi soffermerò soprattutto su quella di Perón e su quella che, a mio avviso, è stata l’ultima erede dell’Odessa originale ossia l’Operazione Paperclip degli Stati Uniti (anche se ha usato canali tutti suoi è accomunabile ad Odessa per alcune caratteristiche peculiari simili. Va, però, sottolineato che è sorta e si è sviluppata in chiave anti Odessa allo scopo di sottrarre i migliori scienziati all’Argentina ed URSS).
Intanto, vorrei continuare a mostrare la struttura della rete del Vaticano da cui tutte le ramificazioni derivano, ripercorrendo e mostrando anche come l’URSS abbia utilizzato tale Organizzazione per i propri fini e che, per un'altra faccia della medaglia, costituisce l’Odessa russa, a mio avviso.
[...] Lo stesso storico della Chiesa, padre Graham, ammise i collegamenti di Draganović con il brutale regime fascista croato: “Non ho dubbi sul fatto che Draganović si desse moltissimo da fare per aiutare i suoi amici croati ustascia a fuggire <169”.
Era molto importante, così come per tutta la struttura di Odessa nel suo insieme, il collegamento del prete croato con il sottosegretario di Stato, il cardinal Montini. Costui, così come avvenne con Hudal, diede la possibilità a Draganović di visitare i campi profughi e di prigionia in cui erano presenti persone bisognose di aiuto: infatti, il suo Comitato Centrale della Confraternita di San Girolamo venne riconosciuto dalla PCA come organismo di aiuto ed assistenza dei profughi. Il tutto, fu, però coadiuvato dagli importanti contatti che il prete croato aveva tessuto fino a quel momento in Germania, Austria ed Italia. In quest’ultimo Paese, il prete croato strinse un importante accordo con il funzionario del Ministero degli Interni e Capo del Servizio Segreto Italiano, Migliore, che fu funzionale per l’accesso a certi campi rifugiati e di prigionieri. I componenti del suo Comitato di assistenza erano dei veri e propri agenti ed i principali erano: il presidente e rettore dell’Istituto, Juraj Magjerec, il vicepresidente e tesoriere, padre Dominik Mandić, oltre ad altri monsignori che risiedevano a San Girolamo <170.
Oltre ad essi c’erano anche altri importanti collaboratori. Uno di essi era padre Vilim Cecelja che fungeva da ponte di collegamento tra Austria e Roma. Fu viceparroco militare degli Ustascia dove ricoprì il ruolo di tenente colonnello e celebrò la cerimonia del giuramento di Pavelić impartendo la benedizione della Chiesa. Solo nel 1944 abbandonò la sua carica per raggiungere Vienna, dove in via ufficiale, avrebbe dovuto occuparsi dei soldati croati feriti. Realmente, il suo ruolo fu quello di preparare una via di fuga sicura in modo da poter, nell’eventualità di una quasi certa sconfitta, garantire un rifugio sicuro ai suoi commilitoni. Fu così che fondò il Comitato locale della Croce Rossa Croata come copertura ideale alle sue attività: “Avevo il compito di fornire documenti alle persone che avevano perduto i propri. Disponevo di moduli di domanda della Croce Rossa a pacchi <171”, attraverso i quali forniva una nuova identità, un nuovo nome e storia da presentare in modo da essere più credibile per ottenere i documenti falsi.
Il 19 ottobre del 1945, padre Cecelja fu arrestato dal CIC ed il Vice Capo di Stato Maggiore del Servizio Segreto dell’Esercito USA disse di lui: “Ha messo a repentaglio la sicurezza delle forze di occupazione, come pure gli obbiettivi del governo militare. È il capo ustascia nella regione e protegge i membri del movimento ustascia a Salisburgo [dove nel frattempo si era trasferito e catturato]” <172.
Il Governo Jugoslavo ne chiedeva l’estradizione ma, alla fine, grazie anche all’arcivescovo Stepinac fu addirittura rilasciato. Gli Alleati capirono, anche a partire da questo momento, che figure come Cecelja potevano servire al loro scopo: fronteggiare il sempre più forte comunismo.
Anche gli inglesi sapevano della rete di Draganović come si può leggere in una lettera ufficiale: “Il nucleo di tutta l’attività ustascia è la Confraternità di S.Girolamo a Roma <173”. Infatti, Cecelja ammise come il suo ruolo nella Ratline di Draganović fosse funzionale a tutta l’organizzazione che partiva da San Girolamo, quando affermò che operava “registrandoli ed offrendo loro cibo, alloggio e documenti di immigrazione, nonché l’opportunità di spostarsi per il mondo fino in Argentina, in Australia e in Sudamerica. Ricevevo i documenti dalla Croce Rossa <174”.
È importante sottolineare, così come vedremo più approfonditamente in seguito, che Draganović amministrava i fondi di Odessa. Il servizio segreto degli USA stabilì che era un “fidato seguace di Pavelić. […] Gli venivano affidati […] tutti i valori […] introdotti di contrabbando dagli Ustascia <175”.
Il Servizio Segreto Inglese appurò che:
"Nell’estate del 1945, Draganović fece personalmente un giro dei campi in cui erano stati degli ex-componenti delle forze armate e delle organizzazioni politiche ustascia. Avviò ben presto un’intensa attività politica e prese contatto con i principali rappresentanti ustascia. In questo era assistito da altri sacerdoti croati, con l’aiuto dei quali si mantennero stretti rapporti tra la Confraternita di San Girolamo e i gruppi ustascia in tutta Italia e anche Austria. Ciò condusse alla formazione di un servizio di spionaggio politico che permise alla Confraternita di raccogliere resoconti e dati sulle tendenze politiche tra gli emigrati. È altresì probabile che le informazioni apprese da questi rapporti venissero poi trasmesse al Vaticano" <176.
Un altro personaggio importante nella squadra croata fu padre Dragutin Kamber, brutale responsabile di alcuni dei peggiori omicidi di massa attuati dalla Croazia Ustascia. È estremamente significativo il documento del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti che elencando gli appartenenti al Comitato per la Salvezza del Professore Draganović (creatosi dopo la sua cattura da parte del Governo jugoslavo nel 1967), nomini proprio padre Kamber: il legame nato durante e, soprattutto, dopo la Seconda Guerra Mondiale fu talmente forte che a distanza di venti anni, Kamber voleva ancora aiutare il suo strettissimo collaboratore <177.
La carriera violenta di Kamber iniziò dopo l’invasione dell’Asse, quando fu posto a capo dell’amministrazione ustascia nella città di Doboj ed uno dei primi provvedimenti che mise in atto fu la creazione di un campo di concentramento. Inoltre, istituì delle leggi simili a quelle razziali dei governi filo nazisti come quella che obbligava gli ebrei di portare una fascia gialle e i serbi una bianca.
Successivamente “proclamò che i serbi e gli ebrei dovessero essere sterminati, in quanto dannosi per lo Stato Ustascia178”. A Doboj compì arresti in massa e mandò i serbi nei vari campi di concentramento creati sotto Pavelić. Molti altri, soprattutto sacerdoti e maestri serbi, vennero brutalmente uccisi.
Il Console inglese a Zagabria concluse che Kamber aveva “stretti contatti con la Confraternita di San Girolamo” e che forniva informazioni direttamente dalla Croazia al centro operativo di San Girolamo <179.
Dominik Mandić, rappresentante ufficiale del Vaticano presso San Girolamo, era il membro della Confraternita e di Odessa e si occupava del rilascio delle carte d’identità false che venivano stampate in una tipografia francescana grazie anche alla stretta collaborazione di alcuni membri del servizio segreto italiano <180. Rispetto a ciò il servizio segreto inglese che stava indagando sulle attività illecite disse: “Esistono prove incontrovertibili che, in questo modo, sono state rilasciate, sotto nomi completamente falsi, carte d’identità della Confraternita di San Girolamo ad alcuni dei più famigerati criminali di guerra, permettendo loro di ottenere permessi di residenza italiani, visti e altri documenti allo scopo, quindi, di fuggire all’estero <181”.
Molto rocambolesca fu la missione dell’agente del CIC, Robert Mudd, che riuscì a far penetrare all’interno della Confraternita un suo agente in incognito nel 1947.
"Per poter entrare in questo monastero, bisogna sottoporsi ad una perquisizione personale per verificare se si è in possesso di armi o di documenti, si deve rispondere a domande sulla propria provenienza, sulla propria identità, su chi si conosce, su quale sia lo scopo della propria visita e come si sia venuti a sapere della presenza di croati all’interno del monastero. Tutte le porte che mettono in comunicazione stanze diverse sono chiuse e quelle che non lo sono hanno di fronte una guardia armata e c’è bisogno di una parola d’ordine per andare da una stanza all’altra. Tutta la zona è sorvegliata da giovani ustascia armati in abiti civili e ci si scambia continuamente il saluto ustascia" <182.
All’interno del monastero-rifugio, l’agente del CIC riuscì ad identificare molteplici criminali di guerra croati latitanti come il tenente colonnello Ivan Devčić, il vice ministro degli Affari Esteri Vjekoslav Vrančic, il ministro del Tesoro dello Stato Croato Dragutin Toth, il ministro delle Corporazioni Lovro Sušić, il ministro dell’Educazione Mile Starčevic, il generale dell’aviazione Dragutin Rupčić, il generale ustascia Vilko Pečnikar, il ministro dei Trasporti Josip Marković ed il comandante capo dell’aviazione Vladimir Kren <183.
Fu scoperto proprio, attraverso questa missione, che Pavelić si stesse nascondendo a Roma in via Giacomo Venezian 17c e che Draganović avesse assegnato dei nomi falsi con relativi documenti a tutti coloro che cercavano una via di fuga con la complicità del Vaticano; infatti si legge in una descrizione di Mudd:
"Questi croati vanno avanti e indietro dal Vaticano varie volte la settimana, a bordo di un’automobile con autista la cui targa reca le iniziali CD, Corpo Diplomatico. Questa automobile esce dal Vaticano e scarica i suoi passeggeri all’interno del monastero di San Girolamo. A causa dell’immunità diplomatica, è impossibile fermare l’automobile e scoprirne i passeggeri. La protezione offerta da Draganović a questi croati collaborazionisti fa sì che lo si ricolleghi decisamente all’intento, da parte del Vaticano, di tutelare i nazionalisti ustascia finché non siano in grado di procurarsi i documenti necessari per andarsene in Sudamerica" <184.
Nel quadro della rete del Vaticano è stata fondamentale la città di Genova (anche se lo sarà, allo stesso modo, per l’Odessa di Perón e lo fu anche per i Nazisti riuniti alla Maison Rouge).
Nel capoluogo ligure un altro prete croato era alla base dei contatti: monsignor Karlo Petranović.
Durante un’intervista nel 1989 con gli autori del libro Ratlines, Aarons e Loftus, il prete ha ripercorso momenti della sua vita quando per esempio si trovava a Topusko (a sud di Zagabria), durante tutta la durata del Conflitto, come cappellano dell’esercito e disse di “non ricordare le atrocità avvenute in quel distretto. [Avevo] udito voci relative al fatto che stavano morendo delle persone; c’erano un paio di ebrei a Ogulin, ma non so cosa sia accaduto loro, semplicemente scomparvero <185”.
Tuttavia, il programma di sterminio di ebrei e serbi da parte del regime Ustascia era, comunque, pubblico e le vicende legate ai luoghi dove lavorava il prete erano ben conosciute, tant’è che la Jugoslavia, nel 1947, chiese la sua estradizione agli inglesi.
Egli divenne un fattore molto importante nella politica locale del regime ustascia, in quanto era incaricato di decidere della vita e della morte dei serbi di Ogulin e del distretto circostante. Come dimostrano le prove, tale politica consisteva nel seminare terrore tra la popolazione serba completamente innocente e si risolse nello sterminio di circa duemila serbi locali. In aggiunta a questi crimini, il comitato ustascia di Ogulin, di cui Petranović era funzionario, fu responsabile dell’invio di centinaia di serbi e croati ai campi di concentramento degli ustascia, cosa che si concluse con lo sterminio della maggior parte di queste persone <186.
Inoltre, è lo stesso giornale ufficiale ustascia, Novi List, a comunicare la nomina del prete croato “alla carica di pobočnik [aiutante militare] del campo di distretto di Ogulin <187”.
Sempre durante l’intervista, Petranović ammise e spiegò il suo ruolo all’interno dell’Organizzazione Odessa [...]
[NOTE]
169 Intervista a padre Graham, 15 aprile 1985, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratline, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 98
170 Father Krunoslav Draganović. Past Background and Present Activity, 12 febbraio 1947, NARA, RG 319, 631/31/52-54/1-4, schedario 107, Goñi, U. op. cit
171 Intervista a Vilim Cecelja, Maria Pline, 23 maggio 1989, Goñi, U. op. cit
172 Nota del 26 febbraio 1947, NARA, RG 319, Deposito di documenti investigativi, dossier su Cecelja, XE 006538, Goñi, U. op. cit
173 Memorandum on the Ustasa Organisation in Italy, accluso in una lettera di Maclean a Wallinger, 17 ottobre 1947, PRO FO 371 67398, Goñi, U. op. cit
174 Intervista a Vilim Cecelja, Maria Pline, 23 maggio 1989, Goñi, U. op. cit
175 Memorandum on the Ustasa Organisation in Italy, accluso in una lettera di Maclean a Wallinger, 17 ottobre 1947, PRO FO 371 67398, Goñi, U. op. cit
176 Nota jugoslava del 23 aprile 1947, PRO FO 371 67376, Goñi, U. op. citù
177 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519a6b2a993294098d5116fd, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 21 maggio 1968
178 Nota jugoslavia del 23 aprile 1947, PRO FO 371 67376, Goñi, U. op. cit
179 Allegato alla lettera della Commissione Speciale per i Profughi al Foreign Office del 23 ottobre 1947, PRO FO 371 67398, Goñi, U. op. cit
180 Nota del Ministero degli Affari Esteri del 2 novembre 1945, Archivio del Ministero per gli Affari Esteri, Affari politici (Iugoslavia), 1946, Busta 1, fascicolo 3, Esponenti del cessato regime ustascia in Italia; rapporto del Ministero dell’Interno (polizia di Roma) del 9 luglio 1946, accluso alla nota del Ministero per gli Affari Esteri del 30 luglio 1946, Archivio del Ministero per gli Affari Esteri, Affari politici (Iugoslavia), 1948, Busta 33, fascicolo 3, Attività di iugoslavi contrari al regime di Tito in Italia
181 Memorandum on the Ustasa Organisation in Italy, accluso in una lettera di Maclean a Wallinger, 17 ottobre 1947, PRO FO 371 67398, Goñi, U. op. cit
182 Nota del 12 febbraio 1947, tratta dal dossier su Draganović e Pečnikar in possesso del CIC ed ottenuta a seguito dello US FOIA, pp. 38-40, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 110
183 Nota del 12 febbraio 1947, tratta dal dossier su Draganović e Pečnikar in possesso del CIC ed ottenuta a seguito dello US FOIA, pp. 38-40, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 111
184 Nota del 12 febbraio 1947, tratta dal dossier su Draganović e Pečnikar in possesso del CIC ed ottenuta a seguito dello US FOIA, pp. 38-40, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 111

Luca Mershed, L'Operazione Odessa e la diffusione del nazismo in Argentina e nelle Americhe, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Roma La Sapienza, Anno Accademico 2018-2019