martedì 28 dicembre 2021

Nonostante gli ambiziosi piani di espansione, le opere della collezione Panza non sono in esposizione permanente


Allestimento dell’esposizione “The Legacy of a Collector: The Panza di Biumo Collection at the Museum of Contemporary Art”, The Museum of Contemporary Art, Los Angeles, The Panza Collection. Courtesy The Museum of Contemporary Art, Los Angeles - Fonte: Roberta Serpolli, Op. cit. infra

Questa tesi di dottorato analizza i criteri espositivi concepiti e attuati dal collezionista Giuseppe Panza di Biumo nella presentazione delle opere in collezione. Lo studio intende prendere in considerazione le componenti progettuali e visuali che sottendono l’approccio curatoriale del collezionista, e le loro ripercussioni sullo spazio pubblico e privato. In considerazione dei suoi sviluppi e vicende storiche, la collezione Panza può essere ritenuta un caso di studio di indubbio interesse nella storia del collezionismo d’arte contemporanea.
[...] Dati gli elementi d’indagine che ci siamo prefissi, l’impiego del termine display è motivato dalle sue molteplici implicazioni nell’ambito della cultura espositiva, che vanno dagli aspetti socio-culturali a quelli inerenti l’allestimento delle opere. Non trovando un corrispettivo italiano altrettanto comprensivo ed efficace, display denomina, in qualità di verbo, l’atto dell’esporre (anche nella sua accezione segnica), mentre come sostantivo implica la nozione stessa di mostra e quella di schermo. Utilizzato nel contesto degli studi storico-artistici dell’ultimo decennio, il termine è dunque preferibile - per quanto attiene allo scopo di questa ricerca - a quello di allestimento in quanto include l’analisi della rappresentazione visuale non esclusivamente riconducibile all’ambito museografico.
Le significative evoluzioni verificatesi negli studi sui musei a partire dalla New Museology hanno prodotto una serie di contributi che, mentre sollecitano a includere il museo nell’ambito della cultura visuale, approfondiscono la presentazione dell’arte quale componente determinante per la sua comprensione. A partire dagli studi di Eilean Hooper-Greenhill e di Reesa Greenberg, altri studiosi hanno approfondito in particolare il ruolo del display quale veicolo di conoscenza delle opere e al contempo in qualità di efficace mezzo di interpretazione culturale. <2 Parallelamente, si è assistito alla sollecitazione stimolata proprio dalla cultura espositiva sui metodi e le pratiche artistiche. Artisti come Fred Wilson hanno accolto le sfide interpretative del display, per proporre un ripensamento sulla conoscenza storico-artistica e culturale nel suo complesso.
Date tali premesse, abbiamo ritenuto che, al di là delle specifiche dinamiche del collezionismo, il caso della collezione Panza potesse inserirsi in un discorso più ampio sui criteri e le modalità espositive. I documenti d’archivio dimostrano idee piuttosto precise in fatto di esposizione dell’arte e in merito alla relazione tra opera e spazio, motivo ricorrente dell’attività curatoriale del collezionista. Il materiale reperito si è rivelato estremamente prezioso ai fini della ricerca, rivelando aspetti inediti e sorprendenti rispetto all’approccio di Panza nei riguardi del collezionismo e della presentazione delle opere.
Al centro dell’indagine sono i documenti conservati presso le Special Collections del Getty Research Institute di Los Angeles e nell’Archivio Panza Collection di Mendrisio.
L’istituzione americana ha acquisito nel 1994 i materiali relativi al periodo 1956 - 1990: dal momento in cui si è costituita la raccolta fino alla vendita di 350 opere e progetti di artisti alla Fondazione Guggenheim di New York. <3 L’archivio di famiglia documenta la fase successiva della collezione relativa alle acquisizioni più recenti, a partire dal 1987. La complementarietà dei due archivi ha pertanto consentito di ricostruire le vicende che interessano i criteri espositivi e i progetti del collezionista, avvalendosi di materiale in gran parte inedito.
A questo proposito, il reperimento del documento dal titolo Governing Criteria for the Display of the Works of the Panza Collection, redatto da Panza e allegato al contratto di vendita e donazione al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, ha permesso di analizzare e di ripercorrere le motivazioni teoriche e la pratica operativa in fatto di display nel contesto culturale del periodo.
La volontà di determinare e controllare l’esposizione delle opere in collezione fa emergere, inoltre, intersezioni e aspetti problematici tra pratica collezionistica, artistica e curatoriale. Giuseppe Panza ha perseguito dagli anni ’70 il proposito di rendere la sua collezione pubblica, evitandone così la dispersione. L’esigenza di collocare le opere in spazi espositivi adeguati lo ha portato a ideare una notevole quantità di progetti per musei e allestimenti, oltre 80, comprendenti soluzioni per nuovi edifici museali, per mostre temporanee e in occasione di acquisizioni di nuclei della collezione presso istituzioni già esistenti. A partire dall’analisi della sua pratica progettuale e operativa, condotta attraverso casi di studio, si pongono le premesse per un discorso di più ampio respiro sulla sua figura che tenga conto, aspetto sottovalutato dagli studi, di una professionalità attiva su vari livelli: da collezionista a curatore, da critico a committente.
[...] La tesi che proponiamo è che Panza sia stato il primo collezionista d’arte contemporanea ad avere una prospettiva globale ante litteram e ad agire secondo tale prospettiva. Che la collezione sia sin dall’inizio caratterizzata da una visione focalizzata oltre i confini nazionali, non è certamente una novità in quanto sin dal principio sono evidenti l’attenzione all’arte francese del dopoguerra e a quella americana, che ne è il filo conduttore principale. Secondo questa prospettiva, Panza s’inserisce nel novero di quegli storici collezionisti che hanno avuto una lungimirante attenzione verso fenomeni artistici non ancora affermati nei luoghi ove sono stati originati, contribuendone in maniera determinante alla ricezione internazionale. Ancora una volta, la relazione storica è con Morosov e Schukin, ma anche con Barnes, che hanno raccolto opere dei maestri dell’Impressionismo e dell’arte moderna francese ben prima dei collezionisti vissuti in quella nazione.
Se si prende in considerazione la vicenda iniziale della raccolta, si trovano i primi segnali di quella visione globale nell’apprezzamento per l’arte americana, in particolare per i fenomeni New Dada e Pop Art. La società dei consumi che rappresentano, il cambiamento radicale in atto nella società mondiale a partire dal secondo dopoguerra e lo stile di vita americano che viene esportato attraverso i suoi segni e immagini costitutivi, la Coca-Cola prima fra tutti, convergono verso il simbolo di una rinascita culturale ed economica. Così Panza percepisce il mutamento storico in atto: «Un ritorno alla speranza; di questo l’Europa aveva bisogno, e l’America era il ritorno alla vita. Era uno dei motivi che provocava un interesse più forte per un nuovo messaggio culturale.» <90
Robert Rauschenberg nei Combines, richiamando al tema della memoria e al contempo nell’aprire a questi nuovi paradigmi sociali e culturali, riflette agli occhi del collezionista proprio questo nuovo messaggio artistico e quindi trova in lui un convinto sostenitore.
Caroline Jones ha brillantemente tracciato questo percorso, segnato da una congiunzione d’intenti tra artista e collezionista, a partire da un’analisi di Coca-Cola Plan, il combine painting del 1958, acquistato da Panza nel 1963:
"This Coca-Cola Plan is an ambitious, calculated little package. Riding on the crest of a newly global American commodity culture, its maker [...] cheerfully brandishes a proposal to take over the world. [...] With amazing good luck, the artist would find a willing accomplice to his plan in Count Giuseppe Panza, who accommodated his own grand vision to the scale of this tawdry but irrepressible Victory of Manhattan [...]. Ultimately, in weighing in with Rauschenberg’s Plan, Panza left behind the austere struggles of European painting and put his weight behind the untried braggadocio of American art. Panza, in believing Rauschenberg’s vision of a global (American) culture, helped make it so". <91
E difatti, il collezionista continuerà a credere in questa visione dell’America e della sua parabola artistica in ascesa procedendo con acquisti Pop di Oldenburg, Rosenquist e Lichtenstein. La sottolineatura che stiamo delineando ci consente però di andare oltre: non soltanto Panza aiuta Rauschenberg a realizzare questa sua visione globale, ma ha egli stesso in merito alla propria collezione una visione globale che acquista un ampio respiro, e qualche possibilità di essere messa in pratica, proprio attraverso i progetti ideati per la collocazione delle opere nei musei.
“Think global, act local”: portare l’arte americana contemporanea in Italia, sembrerebbe il motto di Panza rispetto ai suoi progetti, in quanto l’Italia è sin dall’inizio l’imprescindibile riferimento per poter realizzare musei di arte contemporanea con opere della collezione. Il collezionista si concentra, sin dagli anni ’70, non soltanto nel proposito di rendere pubblica la casa di Biumo, ma in una serie quasi infinita di progetti e di tentativi di donazione. A partire dalla riconversione a museo di Sant’Eustorgio (1970-1972), passando per i progetti di area milanese (Taverna Cascina, Villa Scheibler per nominarne solo alcuni) e piemontese (i noti casi di Rivoli e Venaria) fino ai tentativi finalmente riusciti di Sassuolo e appunto di Villa Panza aperta al pubblico nel 2000. In un panorama in cui sono assenti musei di arte contemporanea, essendone gli unici rappresentanti la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, il PAC di Milano (che riapre nel 1979 dopo un lungo periodo di chiusura) e la GAM di Torino (chiusa fino agli inizi degli anni ’80), i progetti si rivolgono alla riconversione di edifici storici per ospitare l’arte del presente. L’estensione di questi progetti lungo il corso dell’attività di Panza - se ne contano oltre 80 - documenta la diffusione che il collezionista intendeva dare alla collezione attraverso progetti di mostre, ma soprattutto prestiti a lungo termine, vendite e donazioni. Tali progetti evidenziano una pratica operativa a 360° sulla collezione che convoglia ambito e competenze curatoriali, critiche e organizzative.
L’accezione con cui s’intende definire Panza un collezionista globale non pertiene al fatto che abbia collezionato arte proveniente da paesi in crescita economica oppure da aree culturali diversificate, con una finalità omnicomprensiva che caratterizza collezionisti come Peter Ludwig, ad esempio. <92
Riteniamo, invece, che il milanese sia stata una figura in anticipo su quella tradizionalmente definita globale in quanto ha perseguito la finalità di estendere la collezione a istituzioni preesistenti su scala internazionale. E con alcune di queste ne ha condiviso l’aspirazione globale.
Mentre l’acquisizione del MOCA di Los Angeles s’inserisce nell’ambito di una relazione che risale alle fasi fondative dell’istituzione, di cui è nominato nel 1980 Founding Trustee, la vendita e la donazione alla Fondazione Guggenheim (1990-1992) segnano un corso nuovo che apre alla possibilità di esporre la collezione in istituzioni-satelliti. Nominato alla direzione del Solomon R. Guggenheim Foundation nel 1988, Thomas Krens avvia infatti un programma di espansione su scala globale del museo newyorkese che porterà a risollevarne sorti finanziarie e immagine. Il fulcro di tale programma diventa la collezione e l’idea di decentralizzarne l’esposizione in varie sedi museali che vengono appositamente
costruite. Inoltre, con l’acquisizione della collezione Panza e di altri nuclei collezionistici diventa preminente la necessità di trovare nuovi spazi espositivi, anche in ragione delle contenute dimensioni dell’edificio di Frank Lloyd Wright.
Nel giro di un decennio, il Guggenheim diventa un brand nel marketing culturale e la sua collezione di arte moderna un criterio identificativo e identificabile in grado di essere esportato nel mondo, al pari dell’architettura dei suoi edifici (due dei principali sono a firma di Frank Gehry). È la prima volta che il museo fa proprio il concetto di globalizzazione, comunemente applicato e perseguito nel business aziendale. Diventa, secondo le parole di Rosalind Krauss, un «industrialized museum.» <93 Si tratta di una svolta epocale destinata, com’è noto, a suscitare critiche e discussioni. La rete globale era per la verità iniziata negli anni ’70 con l’unione della Peggy Guggenheim Collection di Venezia e il Solomon R. Guggenheim Museum di New York.
Krens, tuttavia, imprime una spinta decisiva e crea una serie di istituzioni satelliti: dal 1997 il Guggenheim Museum di Bilbao (dove nel 2000 sarà esposta la collezione Panza), il Deutsche Guggenheim di Berlino (1997–2013) e il Guggenheim Hermitage Museum di Las Vegas (2001-2008) con edificio di Rem Koolhaas. <94
Questi piani di espansione sono tutt’oggi in sviluppo, come dimostra la sede di Abu Dhabi negli Emirati Arabi di prossima apertura, in un edificio progettato, come a Bilbao, da Frank Gehry.
Tra le critiche mosse alla gestione museale rientra, com’è noto, la vendita di tre opere della collezione permanente del Guggenheim Museum di New York: Ragazzo con la giacca blu di Amedeo Modigliani (1918), L’anniversario di Marc Chagall (1923) e Fuga di Vasily Kandinsky (1914), per far fronte al pagamento della Panza Collection costata un totale di 32 milioni di dollari. <95
L’acquisizione Panza è il più esteso nucleo di opere appartenenti a Minimal, Conceptual Art e Light & Space (oltre 350 tra progetti e opere) a essere presente in una collezione museale. Con l’acquisto e la donazione l’istituzione si aggiudica tale nucleo nel giro di due anni. In questo modo, il museo fa proprio il principio monografico del collezionista, costituendo una collezione che approfondisce il percorso di ciascun autore: vi sono infatti circa 30 opere per ogni artista. Inoltre, questo legame con l’istituzione risale alla fase antecedente la donazione/vendita, in quanto nel 1989 il Guggenheim aveva in progetto di realizzare la sua seconda sede italiana, dopo quella veneziana, proprio a Villa Panza. Un accordo non portato a termine a causa delle resistenze della pubblica amministrazione varesina. <96
Nonostante gli ambiziosi piani di espansione, le opere della collezione Panza non sono in esposizione permanente. Appare evidente però che, nei piani originari del collezionista, i progetti di espansione di Krens venivano a collimare con la sua volontà non soltanto di mantenere unito questo nucleo di opere, ma anche di poterne un giorno vedere l’esposizione nelle potenziali istituzioni-satellite che quell’ambizioso progetto includeva. Si tratta di due visioni che convergono verso la medesima direzione: l’idea di museo globale e quella di collezione globale.
Panza fa un ulteriore passo avanti in direzione di una “collezione-satellite”, promuovendo un legame istituzionale tra la Fondazione Guggenheim e il F.A.I. cui dona la Villa e la collezione ivi contenuta nel 1996. Stabilisce che tredici opere di proprietà del The Solomon R. Guggenheim Foundation vadano in deposito a tempo indeterminato al F.A.I., così come altrettante, donate all’istituzione italiana, siano in prestito permanente alla fondazione americana. La creazione di un legame tra le due istituzioni è volta a promuoverne la collaborazione ai fini di una reciproca azione di tutela. Sarà interessante seguire gli sviluppi di tale cooperazione anche a seguito della mostra su James Turrell e Robert Irwin ospitata a Villa Panza nel 2013. <97
Il caso della vendita/donazione al Guggenheim inoltre, consente di aprire una riflessione, passibile di un maggiore approfondimento quando la Panza Collection Initiative si avvierà alla conclusione, su come la pratica artistica degli anni ’60 e ’70 possa veicolare una fruizione museale delle opere a dimensione globale. I progetti degli artisti Minimal, così come quelli del Light & Space californiano, sebbene con differenti modalità, costituiscono quella che Panza chiama la «proprietà virtuale». Si tratta di una proprietà non vincolata a un oggetto, ma a un’idea progettuale e quindi al collezionista è demandata la possibilità/responsabilità di trasformare l’idea in opera. Questo processo di co-responsabilità verso l’opera include il collezionista quanto il museo che compera i progetti o intende esporre l’opera.
Tale componente effimera della produzione artistica può contribuire a una circolazione più ampia dei progetti, a una loro più facile “distribuzione” in ambito museale ed espositivo. Il progetto può essere ricostruito e distrutto e di nuovo ricostruito, a seconda delle specifiche istruzioni dell’artista in merito (si pensi ai wall drawings di Sol LeWitt), perciò può entrare in un circuito di più facile diffusione rispetto all’oggetto, i cui limiti materiali, specie se si tratta di grandi opere, sono evidenti.
 
Allestimento dell’esposizione “The Museum of Contemporary Art: The Panza Collection”, Los Angeles. Courtesy The Museum of Contemporary Art, Los Angeles - Fonte: Roberta Serpolli, Op. cit. infra

[NOTE]
3 Questa istituzione conserva la parte di archivio relativa all’acquisizione del 1990-92, comprensiva dei disegni e progetti degli artisti. Una buona parte delle carte d’archivio è tuttavia conservata, sotto forma di copie, presso il Getty Research Institute.
2 Per quanto riguarda le prime due autrici si rimanda in particolare a: Eilean Hooper-Greenhill, Museums and the Shaping of Knowledge, London and New York, Routledge, 1992. Reesa Greenberg, Bruce W. Ferguson, Sandy Nairne (eds.), Thinking about Exhibitions, London and New York, Routledge, 1996. Nell’ambito dei contributi più recenti si segnalano: Mary Anne Staniszewski, The Power of Display. A History of Exhibition Installations at the Museum of Modern Art, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1998. Julia Noordegraaf, Strategies of Display: Museum Presentation in 19th and 20th Century Visual Culture, Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen, NAi Publishers, 2004.
90 Giuseppe Panza, Ricordi... cit., p. 71.
91 Caroline A. Jones, Coca-Cola Plan...cit., pp. 23- 24. Corsivo mio.
92 Questa è la principale prospettiva ad emergere nella definizione di collezionista globale proposta nel seguente volume: Judith Benhamou-Huet, Global Collectors. Collectionneurs du monde, Paris, Phébus, 2008.
93 Rosalind Krauss, The Cultural Logic... cit., pp. 3-17, qui p. 17. Sulla relazione tra globalismo e istituzioni museali si rimanda ai contributi facenti parte del progetto di ricerca dal titolo Global Art and the Museum principiato nel 2001 da Hans Belting e Peter Weibel presso lo ZKM di Karlsruhe: Peter Weibel, Andrea Buddensieg (eds.), Contemporary Art and the Museum: A Global Perspective, Ostfildern, Hatje Cantz, 2007); Hans Belting, Andrea Buddensieg (eds.), The Global Art World: Audiences, Markets and Museums, Ostfildern, Hatje Cantz, 2009.
94 Nell’ambito della stessa politica di comunicazione, espansione e collaborazione istituzionale, il Guggenheim ha avviato un programma di mostre internazionale presentate in circa ottanta istituzioni museali nel mondo, rivolgendo la propria recente attenzione alle economie in sviluppo economico. Com’è ovvio, in tema di dislocazione delle sedi espositive altre istituzioni possono essere chiamate in causa, le quali hanno agito in scala più ridotta rispetto al Guggenheim e con la finalità di ospitare opere site-specific o una collezione in crescente espansione. Tra queste, la Dia Art Foundation con le sedi di Dia:Beacon, nei pressi di New York, e Dia:Chelsea, e si occupa di interventi site-specific in città e negli Stati Uniti, tra cui il Lightning Field di Walter De Maria; gestisce anche Il Dan Flavin Art Institute. Com’è noto, il progetto di Donald Judd per Marfa è stato inizialmente finanziato dalla Dia.
95 Le tre opere fruttarono un totale di 47 milioni e 300 mila dollari. Si veda: Philip Weiss, Selling the Collection... cit., pp. 124–131; Pierre Restany, Il Guggenheim secondo Krens, “Domus”, n. 832 (dicembre 2000), pp. 130-135; Pierre Restany, The museum that Took Over the World/ Il museo che conquistò il mondo, ivi, pp. 126-129.
96 Tra gli articoli che trattano di questo principio di accordo, si rimanda a due contributi che rappresentano le posizioni contrapposte di Enrico Baj e della giornalista Silvia Giacomoni, abbastanza esemplificative delle polemiche che la proposta del Guggenheim desta nell’ambiente culturale italiano: Enrico Baj, Conte, impara l’arte... e disfane una parte, “Il Sole 24 ore”, Milano, 17 dicembre 1989, p. 8; Silvia Giacomoni, Il Guggenheim ama l’Italia, vuole una succursale a Varese. Ma il sindaco si è dimenticato di dire sì, “Repubblica”, 13 dicembre 1989, p. 10.
97 La mostra dal titolo Aisthesis. All’origine delle sensazioni: Robert Irwin e James Turrell, a cura di Michael Govan e Anna Bernardini è ospitata nella Villa dal 27 novembre 2013 al 2 novembre 2014. Il progetto espositivo è realizzato in collaborazione con il Los Angeles County Museum of Arts (LACMA), il Guggenheim Museum di New York, il Getty Research di Los Angeles e l’Archivio Panza di Mendrisio.
 
Giuseppe Panza nel corridoio dei Rustici con stanze di Dan Flavin e Varese Corridor, Villa Menafoglio Litta Panza, oggi FAI-Villa Panza, Varese. Fotografia di Giuseppe Panza, Mendrisio, Archivio Panza Collection - Fonte: Roberta Serpolli, Op. cit. infra

Roberta Serpolli
, The Display of Art in the Panza di Biumo Collection, Tesi di Dottorato, Università Ca' Foscari di Venezia, Anno accademico 2012-2013

lunedì 20 dicembre 2021

Una rivista e la nascita del centro-sinistra in Italia

Alcuni promotori del Mulino. Da sinistra: Federico Mancini, Pierluigi Contessi, Antonio Santucci, Fabio Luca Cavazza, Nicola Matteucci, Luigi Pedrazzi, Marino Bosinelli - Fonte: Sergio Romano, art. cit. infra

Uno degli aspetti ancora da approfondire nell’ambito della ricerca storica relativa agli anni del centrosinistra italiano, che può essere considerato un caso di studio di quella che è stata definita la guerra fredda culturale, è il ruolo svolto da Fabio Luca Cavazza <1 nel convincere i vertici dell’amministrazione Kennedy a rimuovere il veto degli Stati Uniti sull’apertura a sinistra. Cavazza - tra i fondatori della rivista «il Mulino» (1951) e dell’omonima casa editrice (1954) - con l’avvio della guerra fredda riuscì a costruire un forte legame con le élites intellettuali statunitensi, impegnate, sul piano ideologico-propagandistico, nella crescente contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Attraverso l’USIS (United States of Information Service), che nella metà degli anni ‘50 finanziò al Mulino un ciclo triennale di pubblicazioni di testi di sociologia, l’editrice bolognese riuscì ad entrare in relazione con il mondo culturale e accademico americano. Nello stesso tempo, il Mulino diventò agli occhi degli americani qualcosa di più di una semplice casa editrice interessata a tradurre opere americane. La rivista iniziò ad essere utilizzata dal Dipartimento di Stato come una fonte per le analisi che venivano periodicamente prodotte sul nostro Paese, poiché a Washington il gruppo degli intellettuali del Mulino venne considerato un importante laboratorio politico-culturale in grado di produrre ricerche di grande interesse sugli avvenimenti che stavano trasformando la società e il quadro politico italiano, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ‘60. Nel giro di pochi anni, quindi, i contatti si allargarono anche alla sfera politico-diplomatica. Cavazza ebbe l’opportunità di conoscere importanti esponenti della non communist left, come Arthur Schlesinger Jr., Walt W. Rostow, i quali assumeranno prestigiosi incarichi di governo durante l’amministrazione Kennedy. Con la ricostruzione dell’attività di Cavazza, come operatore culturale e mediatore politico tra Italia e Stati Uniti, risulta possibile chiarire meglio le ragioni del coinvolgimento di influenti personalità della Nuova Frontiera e la loro funzione nel processo di formazione del centrosinistra. Particolarmente fruttuosa risulta, da questo punto di vista, l’analisi del rapporto epistolare e diretto che Cavazza intrattenne in quegli anni tanto con Schlesinger, tra i maggiori sostenitori alla Casa Bianca dell’apertura a sinistra, quanto con i leader dei due partiti italiani (Dc e PSI), protagonisti del nuovo corso politico. La tesi cerca di ricostruire come l’analista bolognese riuscisse a far circolare relazioni, opinioni, informazioni a favore della formazione del centrosinistra all’interno del mondo culturale e politico americano, al fine di influenzare la diplomazia statunitense, che aveva assunto nel corso degli anni ’50, sotto la presidenza Eisenhower, una posizione decisamente contraria all’ingresso dei socialisti nel governo italiano.
Nel primo capitolo - «Il Mulino», l’Italia e la guerra fredda culturale - è stata messa in luce l’attività promossa dal gruppo del Mulino negli anni ’50 del ‘900 per favorire in Italia la formazione di una cultura politica al tempo stesso anticomunista e riformatrice, capace sia di sfidare la cultura marxista sul terreno delle politiche del progresso sociale, sia di smarcarsi dalle posizioni conservatrici praticate dal centrismo. Il capitolo - Lo sguardo verso la Nuova Frontiera - si focalizza sull’interessata attenzione degli intellettuali gravitanti attorno al centro culturale ed editoriale bolognese verso gli sviluppi della politica americana all’epoca dell’elezione alla presidenza degli Usa di John F. Kennedy. Infine, nel terzo capitolo - Cavazza, i kennediani e le sfide della «diplomazia personale - è stato ricostruito il processo di gestazione del centrosinistra in Italia nei primi anni ’60, analizzando nel dettaglio l’impegno di Cavazza e di Schlesinger nel sostenere la leadership di Nenni, sia cercando di convincere il Dipartimento di Stato e l’ambasciata americana a Roma che il Psi non avrebbe mutato l’orientamento della politica estera italiana a sostegno della NATO, sia concretamente, attraverso il sostegno finanziario offerto al partito di Nenni dai fratelli Reuther, massimi rappresentati del sindacato americano United Automobile Workers. Da un punto di vista metodologico questa ricerca intende dimostrare come in alcuni casi il livello diplomatico politico-istituzionale permetta solo una parziale lettura della complessa realtà dei rapporti tra Italia e Usa, che si articolava, invece, in diverse «diplomazie» finalizzate verso un unico obiettivo: il contenimento e il ridimensionamento del comunismo. Molto spesso le dinamiche che concorrono a mutare la posizione di un’amministrazione americana verso un paese straniero possono essere influenzate anche da canali non esclusivamente diplomatici, che definiscono una sorta di «diplomazia personale». Per quanto riguarda il centrosinistra, infatti, figure apparentemente marginali di «politici-intellettuali», come quella di Cavazza, esercitarono un ruolo chiave nello sviluppo delle relazioni transatlantiche. Pertanto, la consultazione del suo archivio privato costituisce una nuova fonte da affiancare a quelle più tradizionalmente utilizzate, contribuendo, con una documentazione inedita, all’approfondimento di aspetti poco noti.
Inquadrato in un contesto più ampio, questo contributo si propone di arricchire di nuovi elementi il dibattito sulla guerra fredda in Italia e in Europa, mettendo in discussione la teoria che considera gli intellettuali «vicini» al mondo americano una categoria sistematicamente coinvolta nelle operazioni culturali della CIA. Al contrario, la maggior parte di essi portarono avanti in piena autonomia, sulla base dell’anticomunismo intellettuale, i loro progetti culturali e politici, arrivando, a volte, a influenzare, come nel caso di Cavazza, personalità e istituzioni d’oltre oceano che animarono la guerra fredda culturale. Questo prova che i rapporti transatlantici non si articolarono in maniera unilaterale, ma che l’Italia e gli Usa si condizionarono reciprocamente e mescolarono le loro strategie negli anni della lotta al comunismo.
1 Fabio Luca Cavazza nacque a Bologna il 24 maggio del 1927, frequentò nella sua città la facoltà di Giurisprudenza laureandosi nel 1950 con una tesi dal titolo «Le politiche tributarie dei laburisti». Dopo l’esperienza al Mulino, conclusa alla fine del 1963, si trasferì a Milano dove collaborò con Piero Bassetti nel creare una società per analisi sociali e di mercato, partecipando anche alla progettazione e promozione degli organi regionali per la programmazione economica. Nel frattempo cominciò una collaborazione con «La Stampa» e fu coinvolto nella costituzione della Fondazione Agnelli che finanzierà il progetto de Il caso italiano poi pubblicato con l’editrice Garzanti nel 1974 a cura sua e di S.R. Graubard, docente universitario e già allora direttore della rivista culturale americana «Daedalus». Sempre negli anni settanta proseguirono le collaborazioni con la Fondazione Rockefeller e Ford e partecipa alla Commissione Pirelli per la riorganizzazione dello Statuto di Confindustria. Nello stesso periodo entrò come amministratore delegato nel «Sole 24 Ore» di cui divenne poi direttore tra il 1978 e il 1980 e successivamente presidente fino al 1982. In seguito a quest’esperienza editoriale, fece il suo ingresso nel CdA del «Corriere della Sera» dopo l’uscita dell’editore Rizzoli e partecipò alla riorganizzazione del quotidiano. Tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta fu nel CdA dell’Istituto Italiano di Studi Storici di Napoli e partecipò alle attività dell’«Aspen Institute», dove svolse consulenze per alcune delle principali nuove fondazione bancarie. Nei primi anni novanta collaborò attivamente al movimento referendario a favore del sistema uninominale e curò un nuovo volume dal titolo «La riconquista dell’Italia» pubblicato da Longanesi nel 1993. Morì a Milano il 20 novembre del 1996.
Francesco Bello, Fabio Luca Cavazza, la nascita del centro-sinistra e la Nuova Frontiera, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, 2016


Grazie al lavoro di alcuni storici sappiamo ormai che l’apertura a sinistra e la nascita del primo governo Moro nel 1963 furono favoriti dalla elezione di John Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre 1960. Quando Giuseppe Saragat e Pietro Nenni si incontrarono a Pralognan in Savoia, nell’agosto del 1956, la prospettiva di una riconciliazione fra le due anime del socialismo italiano era percepita a Washington come una potenziale minaccia alla stabilità della penisola. La diffidenza e i timori furono evidenti durante tutta la presidenza Eisenhower. Alla «svolta», come fu definita, erano allora contrari la Casa Bianca, il dipartimento di Stato, la Cia e, naturalmente, l’ambasciata degli Stati Uniti a Roma. L’opposizione americana, come accade spesso in questi casi, era usata da quella parte della Democrazia cristiana e della società italiana per cui aprire a Nenni significava avvicinare pericolosamente il Pci alle soglie del potere.
L’elezione di Kennedy non cambiò immediatamente il quadro politico, ma suggerì a un gruppo di intellettuali italiani le grandi linee di una strategia culturale. L’animatore di questo gruppo era Fabio Luca Cavazza, fondatore con altri studiosi del Mulino (una «società di pensiero» come sarebbe stata chiamata nella Francia del Settecento) che pubblicò subito una rivista e divenne una delle migliori case editrici nazionali. Cavazza conosceva gli Stati Uniti, aveva amicizie nel mondo accademico e constatò con piacere che alcuni dei suoi amici americani (fra cui in particolare Arthur Schlesinger) avevano seguito Kennedy alla Casa Bianca. Da quel momento, ricorrendo a una larga rete di conoscenze europee e americane, si impegnò nel tentativo di provare che esisteva una sorta di cuginanza intellettuale fra la svolta a sinistra della politica italiana e la «Nuova Frontiera» che Kennedy aveva promesso agli americani durante la campagna elettorale. L’occasione per creare contatti, confrontare idee e suscitare progetti, fu un convegno a Bologna nell’aprile del 1961 a cui venne invitata una delegazione americana composta da un ex segretario di Stato (Dean Acheson), uno dei maggiori studiosi di politica internazionale (Hans Morgenthau) e uno dei più intimi consiglieri di Kennedy (Arthur Schlesinger). Il grande archivio di Cavazza, custodito dalla famiglia, ha permesso a un giovane studioso italiano, Francesco Bello, di ricostruire questo disegno in un libro intitolato Fabio Luca Cavazza, la Nuova Frontiera e l’apertura a sinistra, pubblicato ora a Napoli da Giannini Editore.
Il convegno cominciò il 22 aprile con un intervento in cui Cavazza sostenne che l’elezione di Kennedy obbligava gli europei «a un urgente schietto riesame dei comportamenti politici che qui, nel vecchio continente, hanno contraddistinto sia a livelli pubblici che privati tanta parte della nostra classe dirigente».
[...]
La disavventura di Kennedy non ebbe alcuna influenza sul convegno di Bologna. Mentre Cavazza continuava a tessere con successo la sua trama, il presidente riprendeva in mano il controllo della situazione e riconquistava la fiducia della opinione pubblica democratica, negando ai ribelli cubani l’aiuto della aviazione americana. Il vero colpevole agli occhi di tutti fu la Cia, regista della operazione e prima responsabile del suo fallimento. Ma la Cia era anche uno dei principali avversari dell’apertura a sinistra in Italia; e a Cavazza non dovette spiacere che un nemico americano del suo disegno uscisse male dalla crisi cubana.
Sergio Romano, John Kennedy e il Mulino, intesa per l’apertura a sinistra, Corriere della Sera, 23 luglio 2016  

Moro non dimenticò di omaggiare le grandi personalità di quel periodo storico, quali Kennedy, assassinato proprio mentre erano in atto le trattative per la formazione del suo governo, Giovanni XXIII ed il suo successore, Paolo VI. Proprio il nuovo papa, legato a Moro come detto precedentemente da un rapporto nato ben prima della discesa in politica dello statista di Maglie, si rivelò fondamentale nelle vicende che nacquero all’interno del dibattito sulla fiducia al governo.
Infatti, tra le repliche all’intervento di Moro, ci fu quella di Scelba, il quale si dichiarò indisponibile, assieme ad altri trenta parlamentari, a dare la fiducia al nuovo governo, accusando Moro di essere “più sollecito dell’unità del Psi e della riuscita del governo, che della stessa unità morale della Dc” e sottolineando come per la prima volta una corrente della Dc fosse stata estromessa del governo a causa della sua diversa visione politica.
Il giorno seguente venne pubblicata una nota dell’”Osservatore Romano”, nella quale si richiamava all’unità del partito, condannando “la grave portata d’una rottura interna della Dc” ed affermando che “in Italia, per il partito dei cattolici e per la democrazia stessa, l’alternativa è unica: o uniti o sconfitti”.
Scelba, capendo la portata del messaggio ed il livello di rappresentatività da cui esso veniva, fu costretto a modificare la propria scelta politica, ufficializzando dunque quella “solidarietà di Montini e di Moro” che “si formalizzava ora come alleanza di fatto”.
La mozione di fiducia venne approvata dalla Camera con 350 voti a favore, tra i quali mancavano quelli del repubblicano Pacciardi e di 25 socialisti che uscirono dall’aula al momento dell’appello, 233 voti contrari e 4 astenuti.
Pochi giorni dopo Moro ottenne la fiducia anche al Senato, con 175 voti favorevoli e 111 contrari, e si ripeté quanto visto alla Camera con 13 senatori della Sinistra socialista che abbandonarono l’aula in segno di dissenso, andando ad accrescere la spaccatura all’interno del Partito socialista.
Ebbe dunque inizio il I Governo Moro, il primo cosiddetto centro-sinistra organico con la partecipazione attiva dei socialisti, investiti di quelle “corresponsabilità” nell’azione di governo di cui lo stesso Moro aveva parlato pochi mesi prima, dando così il via al suo progetto politico.
Mirko Tursi, Aldo Moro e l'apertura a sinistra: dalla crisi del centrismo al centro-sinistra organico, Tesi di laurea, Università Luiss Guido Carli, Anno accademico 2017/18

venerdì 17 dicembre 2021

La parola di Luzi giunse al momento giusto, animata da un’esemplare chiarezza


Mario Luzi e Giacinto Spagnoletti sono state due figure di spicco del milieu letterario del XX secolo ed il primo, in modo particolare, di quell’ambiente ermetico fiorentino di cui fu senz’altro uno degli esponenti principali e più rappresentativi. Data la levatura dei due personaggi è possibile già preliminarmente comprendere il valore storico-documentaristico del presente studio nel quale si vuole dar conto, per la prima volta integralmente, delle lettere inviate dal poeta di Castello al critico tarantino, che ricoprono un arco temporale molto lungo, all’incirca più di mezzo secolo, dal 1941 al 1993.  
A riprova di tale importanza basti pensare che alcune di esse sono state parzialmente utilizzate - citandole per brevi brani - da Stefano Verdino, curatore per la collana I Meridiani di Mondadori del volume Mario Luzi. L’opera poetica, pubblicato nel 1998, soprattutto per la ricostruzione del dettagliatissimo profilo biografico del poeta contenuto nella sezione Cronologia.
I testi autografi, qui restituiti, sono tutti conservati, ma non ancora catalogati, presso la Fondazione Schlesinger, nella sede di Lugano.
Per quanto  riguarda, invece, la corrispondenza di Giacinto Spagnoletti a Mario Luzi è  possibile che si trovi - come recentemente dichiarato dal figlio del poeta, Gianni Luzi, in un’intervista apparsa su l'Unità - in uno dei tanti scatoloni depositati a Palazzo Cerretani, una delle sedi della Regione Toscana, i cui contenuti non sono attualmente consultabili.  
Purtroppo l’impossibilità di analizzare tali testi ha reso il presente lavoro più difficoltoso in quanto il riscontro con le lettere di Spagnoletti avrebbe aiutato a far chiarezza su alcuni punti, formali e contenutistici, delle missive rimasti dubbi (dai problemi inerenti la datazione sino a quelli di natura più strettamente concettuale).  
Altri ostacoli nello studio del presente corpus epistolare sono stati determinati anche da ragioni strutturali interne, quali, ad esempio, l’inevitabile processo di usura cui sono andati incontro, con il trascorre degli anni, i supporti  cartacei: la consunzione progressiva delle carte, ridotte allo stato attuale quasi a veline, e l’inchiostro ormai scolorito hanno reso difatti difficilissima e lunghissima la trascrizione e la comprensione degli autografi qui fedelmente  restituiti, in cui - proprio a causa delle sopra illustrate difficoltà - alcune parole e qualche sintagma sono rimasti dei loci disperati. E, infine, ultimo ma non meno considerevole scoglio si è rivelata proprio la grafia dell’autore, spesso frettolosa e spigolosa.
[...] Grazie a questo corredo di studi è stato possibile rendere, con la speranza di conservarle a futura memoria, nella loro interezza queste 163 lettere che oltre ad attestare una bella storia d’amicizia, durata all’incirca più di mezzo secolo, tra Luzi e Spagnoletti, forniscono utili informazioni anche sulle vicende e sugli altri protagonisti dell’entourage non solo letterario, ma anche più genericamente intellettuale dell’epoca (editoria, concorsi letterari, universit†à, riviste e quotidiani, ecc.).  
Di particolare interesse critico-filologico si sono, inoltre, rivelate tutte quelle lettere in cui Luzi, illustrando all’amico il proprio modus operandi, gli confessa in realtà le travagliate fasi della propria produzione, sia in versi  che in prosa, fornendo quindi, anche a noi lettori, la chiave di volta per accedere all’interno della sua ricchissima ‘officina’. E parimenti importanti sono le lettere in cui Luzi da poeta si trasforma in critico dell’operato del suo destinatario, autore non solo di antologie e recensioni ‘militanti’, ma altresì di romanzi e poesie di cui Luzi fu attento lettore e, a volte, severo mentore critico.
Se a questi testi va, come si è  detto, riconosciuto innanzi tutto un indubbio valore documentaristico e cronachistico in ambito storico-letterario, va pure sottolineato, ad onor del vero, che essi rivestono un’estrema importanza per le notizie a carattere privato e familiare che - come notato da Giacinto Spagnoletti stesso, sebbene in altro contesto - ˆnon conosceremmo da altra fonte ed il cui vantaggio più immediato consiste nel fatto che esse permettono di  integrare e corredare i dati contenuti nelle biografie ufficiali dei due corrispondenti, aiutando così tutti gli studiosi a comprendere meglio aspetti intimistici e autobiografici spesso in nuce nelle rispettive produzioni letterarie.
Per quanto riguarda, infine, il tono generale delle missive se, da un lato, bisogna rimarcare come esso sia di fondo caratterizzato da un’estrema freschezza e schiettezza determinate proprio dalla mancanza di freni e d’inibizione, che  il mittente lascia cadere alla presenza del fidato destinatario, tanto che spesso si abbandona a sfoghi, confessioni e giudizi su uomini e cose, facendo ricorso anche ad  un linguaggio colorito, dall’altro lato, si registra anche un  tono permeato da una profonda tristezza - veicolata da un linguaggio che tocca a volte le vette più alte dell’espressività poetica - causata soprattutto dalla consapevolezza, da parte dello scrivente, di non riuscire a trovare alcun sollievo ad un’angoscia esistenziale, divenuta sempre più opprimente con il passare degli anni, a quel “male di vivere” che giorno dopo giorno lo spingeva a chiudersi sempre più in se stesso e ad allontanarsi da tutto e tutti.  
Non a caso la parola più ricorrente in queste missive è  “solitudine”, una solitudine avvertita dal poeta come vera e propria ‘tentazione’ alla quale egli cercava titanicamente di resistere, tentando di ‘appuntellarsi’ ai suoi pochi e veri amici, nel ristretto novero dei quali certamente un posto d'onore spettò a Giacinto Spagnoletti.  
Ed è proprio a quest’intimo amico e corrispondente che l’autore de Il giusto della vita, nella lettera XLI datata 24 febbraio 1947, trovava la forza di confessare che nonostante avesse ormai profonda consapevolezza che la vita fosse solo “presunzione e bestemmia”, aveva tuttavia, ancora una volta, ritrovato la voglia di “galoppare” e “credere”, cercando di dimenticare tutti i tormenti e la miseria di una esistenza trascorsa tra stenti, sofferenze e profonde solitudini dell’anima: "Ah, ma ora, se sopraggiungerà quel tempo che oggi mi si promette con tanta lusinga del sole vaporoso e fermentante, nessuno mi reggerà più dal galoppare per queste nostre colline a dimenticarmi dei tormenti e della miseria, a persuadermi che qualcosa di noi nasce continuamente spazzando via perfino le ceneri di ciò che è morto. So tutto questo, so che spesso la nostra vita è presunzione e bestemmia contro ciò che veramente, semplicemente e inesorabilmente  esiste; e voglio infine abbandonarmi a questa incredibile scienza".
"Tra le cose che si possono  dire sulla figura poetica di Mario Luzi […] una prende immediatamente risalto dal senso di armonia che è inerente alla sua opera. Nessuno degli scrittori e dei poeti della generazione di Luzi ha saputo “prevedersi” tanto quanto lui, predisponendo al tempo stesso i risultati artistici con altrettanto equilibrio e naturalezza. ȍ chiaro che si tratta di un equilibrio spirituale, che cela al di dentro la propria drammaticità†, e di quel  genere di naturalezza dotata di un profondo sedimento di cultura. […] In un’epoca di esasperata tensione espressiva, di pericolose saturazioni letterarie (era tornato d’attualità il simbolismo), quale fu tra il 1935 e il 1940 la stagione ermetica fiorentina, quando - lungi dal fondersi - le capacità di ciascuno tendevano ad attraversarsi la strada […], la parola di Luzi giunse al momento giusto, animata da un’esemplare chiarezza, retta da una salda visione della vita; e  in un tempo di crisi come l’attuale essa appare ancora più coerente".
Non ci sono  migliori presentazioni per la figura poetica di Mario Luzi di queste parole scritte dall’amico Giacinto Spagnoletti in un saggio del 1988 intitolato, significativamente, Nella casa armoniosa della poesia di Luzi, che riprende in parte quanto già il critico tarantino aveva sostenuto in un articolo apparso, nel 1955, su “La Fiera Letteraria” del 14 agosto.
L’itinerario poetico luziano fu in effetti seguito da Spagnoletti sempre con notevole e particolare interesse sin quasi dai suoi esordi se si pone mente al fatto che la prima recensione al poeta di Castello a firma del critico apparve nel 1940.
All’epoca i due si erano da poco conosciuti, come risulta possibile ricavare dalle prime missive inviate da Mario Luzi a Giacinto Spagnoletti databili al 1941.  
Paola Benigni, Pensando a te nelle voluttuose spire, le sigarette della tua gentilezza. Lettere inedite di Mario Luzi a Giacinto Spagnoletti, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Anno Accademico 2007/2008
 
Lettera 2
[Roma] [aprile 1941]
Caro Macrí,
grazie per le tue parole. Oh, so della tua solitudine - e per quel che tu mi scrivi e per quel che mi hanno detto comuni amici. Ma la nostra Puglia, così cattiva e rassegnata, forse ti restituisce più intatto, quasi avaro,
al tuo dolore sempre fermo.
Vorrei dirti quel che significa per me restare a Roma, solo, lavorare per una tesi (è Serra, ma purtroppo devo rivolgerla a Sapegno <1) che sento tanto discussa già, tanto respinta dentro di me: quindi lasciare i giorni a provvedermi di una cultura tanto segreta da diventare molle e banale.
Ma finirà presto: poi chissà?
Troverai un pezzo per «Vedetta Mediterranea» <2 di cui avrei piacere di vedere il 1° numero <3. (Forse non potrà andare per un giornale: ma aspetto da te qualche risposta).
Io e Jacobbi <4 parliamo spesso delle tue cose: quando siamo soli, talvolta ad ore notturne, lasciamo cadere sulle ginocchia la vecchia «Vita giovanile» <5 e rileggiamo quella pagina in cui c’è uno scritto tuo, una poesia di Luzi e un pezzo di Bo <6. È nostalgia: eravamo molto ragazzi, allora.
Smetto per non annoiarti. Saluti da
Giacinto Spagnoletti
Lettera manoscritta (espresso). Busta indirizzata a «Oreste Macrí / Maglie / (Lecce)». (Sul verso della busta: Spedisce: Giacinto Spagnoletti / Via Napoleone III, 53 / Roma). T.p. del 1 aprile [19]41.
[NOTE]
1 Spagnoletti si laureerà nel novembre del ’41 con una tesi su Renato Serra all’Università di Roma con relatore Natalino Sapegno (cfr. la lettera 23). La tesi, rielaborata, sarà poi pubblicata (G. Spagnoletti, Renato Serra, Morcelliana, Brescia 1943).
2 Il pezzo (Passi nel Messico) sarà pubblicato il 14 aprile ’41 («Vedetta Mediterranea » I, 4, 1941, p. 3) insieme a una poesia di Piero Bigongiari (Tiara), a un saggio di Vittorio Bodini (Opinioni su Poe e Kafka) e alla rubrica Letture curata da Macrí.
3 La terza pagina del primo numero di «Vedetta Mediterranea» (I, 1, 1941) comprendeva: il necrologio a Joyce (Compianto di Joyce) firmato da Bodini, due traduzioni (da Sofocle e Juan Ramon Jiménez) di Rotella e Bodini, una Testimonianza su Carrà di Raffaello Franchi e la rubrica Letture curata da Macrí.
4 Ruggero Jacobbi (1920-1981) saggista, critico, poeta, regista, lusitanista, traduttore, vicino negli anni giovanili al gruppo fiorentino degli ermetici (con luogo di ritrovo al caffè delle Giubbe Rosse), tra le esperienze più significative della sua vita si ricorda la permanenza in Brasile, dal ’46 al ’60. Su Jacobbi cfr.: Diciotto saggi su Ruggero Jacobbi, Atti delle Giornate di Studio (Firenze, 23-24 marzo 1984), a cura di A. Dolfi, Gabinetto G.P. Vieusseux, Firenze 1987; R. Jacobbi-O. Macrí, Lettere 1941-1981. Con un’appendice di testi inediti o rari, a cura di A. Dolfi, Bulzoni, Roma 1993; L’eclettico Jacobbi. Percorsi multipli tra letteratura e teatro, Atti della Giornata di Studio (Firenze, 14 gennaio 2002), a cura di A. Dolfi, Bulzoni, Roma 2003; Lettere a Ruggero Jacobbi. Regesto di un fondo inedito, a cura di F. Bartolini, Firenze University Press, Firenze 2006; F. Bartolini, C. Bellini, Ruggero Jacobbi. Teatro e massmedia negli anni Sessanta e Settanta, Bulzoni, Roma 2012.
5 Rivista milanese fondata nel gennaio 1938 da Ernesto Treccani, dapprima col nome di «Vita giovanile» dopo pochi numeri muterà il nome in «Corrente di Vita giovanile» per poi essere conosciuta (fino al ’40, anno di cessazione delle pubblicazioni) col nome di «Corrente».
6 Il numero in questione è il 16 («Corrente di Vita giovanile» I, 16, 1938) con (p. 3) un saggio di Carlo Bo (Di un nuovo naturalismo), uno di Macrí (Alla ricerca del romanzo), una poesia di Mario Luzi (Periodo).
(a cura di) Andrea Giusti, «Si risponde lavorando». Lettere 1941-1992 / Oreste Macrí-Giacinto Spagnoletti, Firenze, Firenze University Press, 2019
Lettera 23
[Roma t.p.] 5 dicembre [1941 t.p.]
Carissimo,
è da qualche mese che ho ricevuto la tua breve cartolina militare: dopo non ho più saputo nulla di te. Anche gli amici di Firenze mi domandavano inutilmente notizie, alcuni giorni fa. Ora prendo la penna in mano per metterti al corrente di alcune cose che riguardano me e che certamente ti interesseranno.
Due settimane fa ho preso la laurea: il solito 110 e lode, in più un’aria familiare fra i professori che mi ha stupito moltissimo: non sapevo che Sapegno, Trompeo, Schiaffini mi volessero tanto bene.
[...] L’antologia della poesia contemporanea ital[iana], di cui a suo tempo ti parlai, è stata oramai oggetto delle più svariate discussioni e interpretazioni da parte di tutti: prima ancora di uscire da un destino fatalmente polemico, o perlomeno accademico sulle sue spalle. In primavera, se il lavoro di compilazione non subirà soste o intralci, uscirà nelle edizioni di «Prospettive», in un grosso volume ben curato tipograficamente e spero ben messo in vendita <7.
Carlo Bo <2 si è offerto di scrivere una prefazione di carattere generale e io ho accettato: ci siamo visti a Roma diverse volte e nelle nostre discussioni il carattere dell’antologia si è venuto delineando.
Mario Luzi <3 e Sandro Parronchi <4 mi hanno anche loro molto giovato con consigli e aiuto. Speriamo che possa lavorare in pace.
Avant’ieri mi presentai al distretto per la chiamata alle armi e mi hanno dato quattro giorni di proroga per passare la visita medica: dalla quale risulterà il mio destino.
[...] Ti abbraccio
Giacinto
Lettera manoscritta. Busta indirizzata a «Prof. Oreste Macrí / Maglie / (Lecce) ». T.p. del 5 dicembre [19]41, [anno] XX [dell’era fascista].
[NOTE]
2 Carlo Bo (1911-2001), oltre all’attività di professore (soprattutto presso l’Università di Urbino), di critico militante (impegnato in molteplici giornali e riviste), di studioso (pionieristici i suoi Lirici spagnoli, Edizioni di «Corrente», Milano 1941), sarà riconosciuto (insieme a Macrí) come il ‘teorico’ dell’ermetismo soprattutto per il suo discorso fondativo: Letteratura come vita, pronunciato nel ’38 nella fiorentina basilica di San Miniato. Su Bo cfr. gli interventi a lui dedicati in L’ermetismo e Firenze (vol. I), cit.
3 Mario Luzi (1914-2005) è stato tra i protagonisti della stagione ermetica; poeta, professore di Letteratura francese presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, saggista, drammaturgo, traduttore… Sui rapporti tra Luzi e Spagnoletti cfr. M. Luzi-G. Spagnoletti, “pensando a te nelle voluttuose spire, le sigarette della tua gentilezza…”. Lettere inedite (1941-1993), a cura di P. Benigni, prefazione di S. Verdino, Edizioni Sette Città, Viterbo 2011. Su Luzi cfr. Per Mario Luzi, Atti della Giornata di Studio (Firenze, 20 gennaio 1995), a cura di G. Nicoletti, Bulzoni, Roma 1997 e le sezioni a lui dedicate in L’ermetismo e Firenze (vol. II), cit., pp. 21-278.
4 Alessandro Parronchi (1914-2007) è stato, insieme a Luzi, Bigongiari… tra i maggiori esponenti della terza generazione: poeta, saggista, studioso d’arte. Su Parronchi cfr. Per Alessandro Parronchi, Atti della Giornata di Studio (Firenze, 10 febbraio 1995), a cura di I. Bigazzi e G. Falaschi, Bulzoni, Roma 1998 e la sezione a lui dedicata in L’ermetismo e Firenze (vol. II), cit., pp. 451-568.
Andrea Giusti, Op. cit. 
 
Lettera 324
Firenze 2 marzo 1956
Mio caro Giacinto,
la tua lettera affettuosa mi ha riempito di gioia; qui si trascorrono giorni grigi. Firenze non è più quella di un tempo, neppure l’ombra; i giovani accoccolano sulle predelle dei professori universitari, che danno un tono - specialmente i neoaristotelici - amarillento e accidioso. Ci resta solo Gerola, poverino. La lotta per la vita pare abbia estenuato e incattivito i migliori, perfino i Luzi e i Parronchi. [...]
L’abbraccio del tuo
Oreste
Molto bello il libro di Luzi *
Lettera manoscritta. Busta mancante.
* L’allusione è agli Aspetti della generazione napoleonica e altri saggi di letteratura francese, cit.
Andrea Giusti, Op. cit. 
 

sabato 11 dicembre 2021

Gorrieri amava la stabilità

I comandanti della Brigata Italia: (da sinistra) Ermanno Gorrieri (Claudio), Luigi Paganelli (Lino) e Giovanni Manfredi - Fonte: Wikipedia

Ho conosciuto Gorrieri un tardo pomeriggio di giugno del 1965. Eravamo in Via Grabinsky a Bologna, nella sede della Dc regionale. Il Comitato doveva eleggere un nuovo segretario al posto di Corrado Corghi, che aveva retto l’incarico per vari anni, creando le premesse per la regionalizzazione del Partito in vista della nascita delle Regioni a Statuto ordinario. Quella sera Gorrieri doveva essere eletto segretario regionale, ormai indicato da tutti, anche dalle correnti moderate della Dc.
Come dicevo, eravamo nella sede del Partito, dove io svolgevo le funzioni di capo della segreteria e direttore responsabile del periodico “Regione Democratica”; anche questo titolo indicava la prospettiva della creazione della Regione istituzionale. Gorrieri era rimasto fuori dalla sala dove si svolgeva la riunione, cui partecipavano i segretari provinciali, alcuni rappresentanti eletti dai comitati provinciali e tutti i parlamentari Dc della regione; questi ultimi partecipavano col solo voto consultivo. Ero stato incaricato da Corghi di intrattenere Gorrieri in attesa della chiamata dopo l’elezione. Ci scambiammo alcune parole, quasi al buio, a causa di una lampada fulminata.
Poco dopo, entrammo nella sala: un lungo applauso accolse Ermanno Gorrieri, il nuovo segretario regionale. Corghi meritò un grazie da tutti per il lavoro svolto.
Due obiettivi essenziali
Già il giorno dopo cominciò il lavoro sulla base di due obiettivi programmatici: il primo era quello di democratizzare il Partito attraverso la celebrazione di congressi provinciali per l’elezione dei delegati al congresso regionale, dal quale dovevano essere eletti il comitato ed il segretario, con pieni poteri in ordine agli indirizzi. Il secondo obiettivo interessato dalle linee di azione del nuovo segretario era il contributo della Dc all’elaborazione politica e programmatica che doveva costituire l’apporto dei cattolici democratici alla fondazione della Regione.
Amava la stabilità
Anzitutto, comprò la sede del Partito. Amava la stabilità e la durata delle cose. Così, il suo primo atto fu quello di proporre l’acquisto dei locali del Comitato regionale alla società che a questi fini operava alla Direzione centrale. Non gli piaceva la precarietà dell’affitto della sede.
In quei locali c’erano tre bagni. Con un piccolo intervento di ristrutturazione fece trasformare uno dei due bagni adiacenti in una cameretta, che la moglie, la signora Vittoria rese poi personalmente abitabile. In questo modo, quando le riunioni e gli incontri serali terminavano tardi, Gorrieri poteva restare in sede e risparmiare l’albergo. Dormiva nella sua cameretta, per procedere subito, la mattina dopo, al lavoro di attuazione delle decisioni e dei deliberati emersi dalla riunione della sera prima.
Quando veniva al Partito a Bologna, usava principalmente il treno. Con una vecchia bicicletta raggiungeva la stazione di Modena; poi prendeva il treno, lasciando la bici in qualche angolo del piazzale. A Bologna, sei o settecento metri a piedi ed era in Via Grabinsky, una traversa di Via Marconi. La sera intraprendeva il percorso contrario: Via Grabinsky, Via Marconi, Stazione ferroviaria, Modena e infine con la bici a casa, in Via Brugnatelli. Era il viaggio, in altri termini, più economico concepibile.
Ogni anno disponeva la presentazione del bilancio economico, consuntivo e di previsione del Comitato regionale.
Ermanno e Vittoria da Dossetti
Una sera accompagnai Gorrieri e la signora Vittoria da Don Giuseppe Dossetti, “l’onorevole di Dio”, a Villa Revedin, sede del Seminario regionale. Arrivati che fummo davanti al grande maestro, Ermanno e Vittoria in un’atmosfera quasi mistica, intrecciarono una fitta conversazione con Dossetti, tutta con un filo di voce, al punto che mi sembrò quasi un‘inedita confessione, tutti e tre avvolti da un silenzio e una pace particolari. Cercai di distrarmi per non
disturbare quell’incontro bellissimo, che durò almeno un’ora. Alla fine ritrovai Gorrieri e la signora Vittoria che avevano come stampati in volto - se questo è possibile - il colore ed il conforto dell’assoluzione.
Uomo spartano e concreto
E questo è il mio primo ricordo di Gorrieri uomo spartano e concreto, e della dolcezza della moglie quando si trattava di Ermanno. Ne aveva condiviso appieno le scelte e le azioni. Per questo il destino li ha voluti insieme fin dalla lotta di liberazione e per tutta la vita.
E a proposito di lotta di liberazione, voglio ricordare subito quel partigiano di Via del Pratello, a Bologna, che una mattina telefonò; risposi io, chiedeva di Gorrieri. “Glielo passo”, “Mi vergogno” disse, e mi raccontò del Comandante Claudio. Poi aggiunse: “Gli dica lei, che non mi va bene e ho perso il lavoro”. Mi feci lasciare il suo telefono e l’indirizzo. Gorrieri gli parlò e il giorno dopo andò a trovare il compagno partigiano a casa, in via del Pratello, una strada che fu teatro di duri scontri tra partigiani e nazifascisti.
Una ricerca parallela
Furono avviati ben presto studi, ricerche ed elaborazioni con l’obiettivo di offrire alla Regione una proposta organica di “Piano regionale di sviluppo economico dell’Emilia-Romagna”. A questo fine fu costituita una serie di commissioni di studio. La prima produsse la proposta di sviluppo economico e assetto territoriale della regione, che impegnò i professori Beniamino Andreatta e Achille Ardigò, gli architetti Osvaldo Piacentini e Amedeo Magnani.
Gorrieri, Andreatta e Prodi
Ho un ricordo particolare che riguarda Romano Prodi, al quale furono affidate le elaborazioni relative all’industria e all’artigianato, cui recarono significativi apporti, tra gli altri, Giovanni Barilla, Achille Maramotti, presidente della MaxMara, e Renzo Salvarani [...]
Ennio Severino, Storie di uomini e di lotte contro il sonno della memoria. Ermanno Gorrieri, il maestro della mia maturità, Bologna, 2007, pagg. 37-61, qui ripreso da Istituto Regionale di Studi sociali e politici “Alcide De Gasperi” - Bologna

venerdì 10 dicembre 2021

Idee che devono aver confermato a Mussolini l’opportunità e la convenienza di avere Ungaretti dalla propria parte


L’abbandono del «Popolo d’Italia» da parte di Ungaretti <433 non comporta la sua ritrattazione della dichiarata adesione al fascismo, inteso nella sua riduzione a mussolinianesimo. Le motivazioni di questa scelta politica non si limitano, naturalmente, alla condivisione di un’ideologia, ma riguardano anche le difficoltà economiche del poeta, spesso al centro delle sue lettere a Mussolini. La corrispondenza col Duce, reperita da Francesca Petrocchi in un fascicolo della Segreteria Particolare, in effetti prende avvio nel novembre del 1922 <434 proprio con la richiesta di Ungaretti di una Prefazione al "Porto Sepolto spezzino". Il poeta vi mette in mostra il fatto che la sua poesia derivi dal sacrificio di soldato e ripropone la necessità di dare una spinta alla letteratura italiana di valore.
Queste idee devono aver confermato a Mussolini l’opportunità e la convenienza di avere il poeta dalla propria parte, in una fase in cui il suo obiettivo primario era la costruzione del consenso, che passava naturalmente anche attraverso il mondo intellettuale. La fiducia in Mussolini da parte di Ungaretti, inoltre, è in questo momento pressocché totale, come testimonia la già citata lettera che gli invia il 19 gennaio 1923, nella quale prospetta una lunga durata del suo governo, poiché un «uomo giusto» è pronto a combattere contro «i ricatti e le intimidazioni». <435
Ungaretti si iscrive al Partito Nazionale Fascista il 30 agosto 1924, sentendosi grato al Duce sia in quanto cittadino che in quanto artista:
"Mussolini, qui a droit à ma gratitude de citoyen, a en plus fait pour moi et ma famille un geste très généreux. C’est à lui, à lui seul, que je dois d’avoir un peu pu travailler, depuis un an. Ce n’est pas ma gratitude de citoyen [...] mais mon sentiment d’artiste, d’un artiste qui a pu, grâce à Mussolini, n’être pas totalement distrait de son art". <436
La gratitudine per l’aiuto economico si mescola quindi con la speranza di un progetto di sostegno e rivalutazione del ruolo dell’artista in Italia. Per continuare ad avere il necessario supporto, nelle sue lettere al Duce e ai suoi rappresentanti, il poeta mette sempre in primo piano il proprio impegno per la nazione, sia nei panni di soldato che di giornalista.
A Ungaretti viene offerto un lavoro presso l’Ufficio stampa del Ministero degli Esteri, in qualità di traduttore di comunicati e articoli da inviare ai giornali francesi, e si trasferisce a Roma tra la fine del 1921 e l’inizio del 1922, con una parentesi a Genova nei mesi di aprile e maggio e soggiorni a Torino e Parigi. Non è certamente una professione gratificante, anche perché il poeta vorrebbe in questo momento smettere di dedicarsi alla politica, troppo costrittiva <437, ma egli compensa dedicandosi alla sua arte e all’impegno civile, che si manifesta nel tentativo di fondare riviste letterarie e nella collaborazione a molte di esse, così come aveva già cominciato a fare.
Ricordiamo, infatti, che da sempre Ungaretti dà una grande importanza al raggruppamento dei talenti artistici che l’Italia contemporanea offre e alla loro promozione all’estero, in primis in Francia. Quando ancora era al fronte, aveva per esempio aderito al progetto della «Raccolta» di Giuseppe Raimondi, rivista che nasceva per «l’esigenza di radunare le forze “sane”, come per intensificarne l’efficacia, in una società di uomini provati dai lunghi anni di trincea e bisognosi di un impegno letterario di forte valore morale». <438
Per il poeta si trattava di «un’opera di vera italianità» <439, necessaria a «riconsacrare l’immortale primavera d’Italia, rinvenire nel nostro paese la sua intensa, insuperabile bellezza di sogno». <440
Anche durante la collaborazione al «Popolo d’Italia» egli cerca di portare avanti questo progetto, aderendo al «Don Quichotte. Quotidien d’action latine», definita «un’impresa molto seria», alla quale «parteciperanno le migliori forze delle arti francesi», e tramite la quale Ungaretti si ripropone di "Far conoscere qui quello che di meglio si fa in Italia: riviste, giornali, libri [...]. In seguito forse anche organizzeremo esposizioni, e concerti. Non ho pregiudizi, né l’intenzione di mettermi in valore io; ho intenzione di svolgervi una parte di buon operaio innamorato delle belle e buone cose; ho intenzione di far opera d’italiano, e di svolgerla con tutta la modestia necessaria [...]".441
Tornato in Italia, il poeta sembra voler portare avanti questi suoi progetti.
In parallelo a questo desiderio di impegnarsi per la patria italiana, di cui conosce finalmente le origini profonde attraverso lo stretto contatto con la città di Roma, il poeta non riesce a mettere a tacere la sua insicurezza di viandante. Egli ricerca nella città eterna un universo familiare, eppure non si sente da essa integrato, percepisce la propria assenza.
"C’est vous dire qu’il me semble de n’être pas à Rome, dans une ville de chez nous, tellement est grande encore mon absence. N’étant pas venu chercher ici des surprises - en existe-t-il quelque part? - mais un monde familier, je suis assez déçu de constater une fois de plus qu’il n’existe pour moi, et partout, sinon un grand éloignement, au point de ne m’apercevoir même pas - ici, à Rome - de la rue où je marche, du monument d’en face, etc". <442
Forse anche per reagire a questo disagio, oltre che per innegabili necessità finanziarie, Ungaretti dà avvio a un periodo di intenso lavoro, impiegando molte energie per il “terzo mestiere”.
Molti degli articoli di questi anni, in particolare dal 1926 in poi, sono stati ripubblicati o nel volume mondadoriano "Vita d’un uomo". Saggi e interventi, o in "Filosofia fantastica", a cura di Carlo Ossola. Tra i testi esclusi da queste raccolte vi sono quelli a carattere più spiccatamente politico, qualitativamente meno rilevanti degli altri, e che tuttavia dicono qualcosa del modo in cui il poeta affronta gli anni del fascismo, e del perché egli continui ad aderirvi.
"Ungaretti testimone acuto del proprio tempo, [...] scarsamente pratico in politica, come lui stesso ammette, incline a dare giudizi taglienti e poco motivati a fianco della propaganda mussoliniana, tuttavia egregio mediatore culturale tra Italia e Francia, con la sua particolare sensibilità di «figlio di emigranti» alla espansione culturale all’estero della lingua e della cultura italiana, [...] attento al mondo del lavoro, all’etica, alla politica per il popolo, con interventi, sempre nel solco della ortodossia al regime, ma pur originali e dettati, quasi tutti, da una autentica pietas per il singolo individuo, specialmente per il popolo, non genericamente e strutturalmente inteso". <443
Tra le riviste su cui scrive Ungaretti negli anni Venti vi è il «Nuovo Paese», che ha anche Savinio tra le sue penne, come si è visto. Il poeta si prodiga molto affinché Soffici accetti la direzione della pagina letteraria, benché la sua stessa collaborazione - fatta principalmente di articoli su letteratura, filosofia e arti figurative - cessi dopo pochi mesi. <444
Si è già parlato del ruolo di questa rivista nel quadro della costruzione del consenso da parte degli esponenti fascisti, e di come essa venga di fatto sostituita dal «Corriere Italiano». Ungaretti cerca di collaborare a quest’ultima testata, che definisce «un grande giornale fascista» <445, ma non vi riesce, probabilmente a causa di alcuni malumori suscitati nella redazione dal suo articolo "Roma africana". Su «L’Idea Nazionale» <446, invece, pubblica il celebre "Elogio della borghesia" che confluirà in "Originalità del fascismo", uscito sul «Mattino» nel 1927. Il titolo è dato dall’opera omonima di René Johannet, discepolo di Sorel, in cui si parla dell’avvento di «un ordine nuovo», dopo un lungo periodo in cui regnavano «lo sbigottimento, le speranze smisurate, la rivolta fomentata dalla pazienza». <447
Se però Johannet considera questo cambiamento come proprio della sola classe borghese, Ungaretti ci tiene a sottolineare che esso va inteso a tutto tondo e deve coinvolgere anche il popolo, anche perché proprio la borghesia ha grosse colpe, secondo lui, nella creazione della situazione precedente, dovuta fra le altre cose al suo reclamare e coltivare i propri privilegi. Le gerarchie vanno sì mantenute, ma nel senso di «divisione sistematica del lavoro», di «organizzazione sociale basata sugli interessi tecnici e umani, e non più sulle rivalità demagogiche e la cupidigia». Il poeta riprende insomma un tema già affrontato sulle pagine del «Popolo d’Italia», mischiando «le parole di propaganda, anche volgarmente sottomesse, a battaglie in qualche modo autentiche, di chi si ricorda di essere figlio del popolo e di migranti» <448, mostrando di conservare un’immagine del fascismo come movimento progressista e antiborghese.
D’altro canto, non molto tempo dopo, nella seconda versione dell’articolo, Mussolini viene descritto come un uomo «venuto dal popolo, educato per il popolo, in un paese dove i problemi ardui sono di masse, senza misconoscere le classi». <449 "Elogio della borghesia", "Originalità del fascismo" e il successivo "Borghesia" <450 elaborano, a detta di Dombroski, «il cardine ideologico del fascismo di Ungaretti», che in effetti colloca il pensiero mussoliniano «al di fuori della problematica di classe», secondo un modus operandi tipico della componente più rivoluzionaria di quest’ultimo, «cioè, mistificare la realtà effettiva del regime, impostando l’egemonia in termini di nozioni interclassiste come “popolo”, “comunità” e “razza”». <451
Quest’ultimi concetti, continua lo studioso, sono dal poeta assolutizzati in senso religioso, cosicché l’esistenza della classe borghese è vista solo come una fase di passaggio, funzionale a ristabilire una spiritualità collettiva.
Non a caso, forse, un altro dei temi che interessano Ungaretti in questi anni, e che porterà avanti a lungo, è quello dell’unità morale degli italiani.
[NOTE]
433 G. Ungaretti, Una difesa dell’Occidente, «Il Mattino», 5-6 giugno 1927, ora in C. Ossola (cur.), Filosofia fantastica, op. cit., p. 110.
434 Va segnalato, tuttavia, che già verso la fine del 1919 i due si conoscono, come attestano tre biglietti di Mussolini, ora raccolti in Vita d’un uomo. Saggi e Interventi, p. 910.
435 Ora in F. Petrocchi, Scrittori italiani e fascismo: tra sindacalismo e letteratura, Archivio Guido Izzi, Roma 1997, p. 176.
436 Lettera a Paulhan di fine aprile 1925, p. 52.
437 Cfr. lettera a Soffici del 18 giugno 1921.
438 G. Ungaretti, Lettere a Giuseppe Raimondi, Pàtron, Bologna 2004, p. 11.
439 Lettera a Raimondi del maggio 1918 (n. 7).
440 Lettera a Raimondi del maggio 1918 (n. 9).
441 Lettera a Soffici dell’8 febbraio 1920.
442 Lettera n. 4 (1921) a Paulhan.
443 F. Pierangeli, Ombre e presenze. Ungaretti e il secondo mestiere (1919-1937), Loffredo, Napoli 2016, p. 33.
444 Il primo articolo di Ungaretti sul «Nuovo Paese» è del 9 gennaio 1923 e l’ultimo del 2 maggio dello stesso anno. Si è già sottolineato, a proposito di Savinio, la piena adesione della rivista al fascismo.
445 Lettera a Soffici dell’8 novembre 1922.
446 Si tratta di un periodico nazionalista nato nel 1911, con Corradini nel comitato redazionale, che si dichiara fascista fin da subito.
447 G. Ungaretti, Elogio della borghesia, «L’Idea Nazionale», 17 giugno 1924 e «Lo Spettatore Italiano», 14 giugno e 19 febbraio 1925; poi confluito in Originalità del fascismo, «Il Mattino», 20-21 febbraio 1927; ora in ID., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, op. cit., p. 149.
448 F. Pierangeli, Ombre e presenze, op. cit., p. 29.
449 G. Ungaretti, Originalità del fascismo, op. cit., p. 153.
450 «Gazzetta del Popolo», 30 gennaio 1931.
451 R. S. Dombroski, L’esistenza ubbidiente: letterati sotto il fascismo, Guida, Napoli 1984, pp. 74-75.
Giulia Ferri, Retour à la terre des pères: sentiment d’appartenance et quête des origines. Alberto Savinio et Giuseppe Ungaretti, Tesi di dottorato, Université Grenoble Alpes in cotutela con «Sapienza» Università di Roma, 2020

sabato 4 dicembre 2021

Nel corso degli anni Cinquanta le discussioni sul fascismo nell’appena nata televisione italiana erano scarse


Per quanto riguarda la seconda guerra mondiale, lo scontro violento avvenuto nel nord Italia tra le truppe alleate e la Resistenza ha dato vita a numerose memorie conflittuali nell’Italia del periodo postbellico, generando divisioni politiche che hanno continuato ad essere operanti fino ai nostri giorni (Mammone 2006, pp. 211-226; cfr. Santomassimo 2004). Allo stesso tempo, gli studiosi hanno messo in luce come le contronarrazioni della violenza bellica sono state taciute durante la prima Repubblica da parte di diverse forze politiche, costringendo all’oblio una parte della memoria pubblica italiana. Il brusco cambiamento di alleanze che portò l’Italia a recidere i rapporti con la Germania nazista per unirsi allo schieramento delle truppe alleate, la successiva occupazione nazista del nord Italia e la nascita del movimento della Resistenza, furono tutti fenomeni che permisero alle élites italiane nel periodo postbellico di far dimenticare molto facilmente al paese la pesante eredità del fascismo, delle leggi razziali e del colonialismo. Ciò che Rosario Romeo ha riassunto in una frase ormai celebre: «la Resistenza, opera di pochi, è stata usata dai tanti per non fare i conti con il proprio passato». <4
Inoltre, Claudio Pavone ha osservato che i governi antifascisti istituiti dopo il 1945 hanno rigettato ogni accusa di responsabilità nelle trattative internazionali, rifiutando di pagare i debiti di guerra e perfino l’idea che gli italiani potessero essere giudicati dagli etiopi o da un popolo dei Balcani, che venivano considerati a un gradino inferiore nella scala della civiltà (Pavone 2004, p. 272).
Per giunta, grazie a una serie di leggi approvate nel 1946, molti criminali di guerra fascisti poterono usufruire dell’amnistia, evitando così di essere giudicati per i crimini perpetrati contro i civili in Italia e all’estero.
Paradossalmente, come ricorda Pavone, il credito acquisito dal governo monarchico per essersi unito agli Alleati, contribuì ad assolvere i fascisti e l’esercito italiano sia sul piano legale che su quello dell’opinione comune, e quindi a lasciarsi il passato alle spalle. <5
Le memorie divise e l’eredità della seconda guerra mondiale vennero rafforzate durante la Guerra fredda.
Come ha notato Guido Crainz, l’opposizione politica fra fascismo e antifascismo fu rapidamente sostituita dall’antagonismo fra comunismo e anticomunismo.
Dopo la vittoria elettorale della Democrazia Cristiana nel 1948, il governo marginalizzò la memoria della Resistenza, che continuò ad essere mantenuta viva soltanto dal PCI e PSI.
Nel corso degli anni Cinquanta le discussioni sul fascismo nell’appena nata televisione italiana erano scarse, e sia i comunisti che i socialisti vennero esclusi da qualunque programma in occasione del decimo anniversario della Liberazione nel 1955. <6
Solo a partire dagli inizi degli anni Sessanta la Resistenza fu rivalutata da diversi partiti politici dell’arco costituzionale come una fonte di legittimazione politica e il fascismo divenne oggetto del dibattito pubblico sui canali televisivi.
Allo stesso tempo, questa nuova narrazione delle vicende nazionali ha sorvolato, tuttavia, sulla guerra civile divampata fra forze fasciste e antifasciste negli anni del secondo conflitto mondiale, così come sulle complicità del regime nell’Olocausto, ponendo l’accento piuttosto sulla lotta degli italiani contro il nazismo (Crainz 1999, p. 129).
Queste narrazioni - costruite su ciò che è stato definito il mito del ‘buon italiano’ (Bidussa 1994) - hanno contribuito ad evitare ogni discussione sulle imprese imperialiste del fascismo, relegando l’eredità coloniale italiana ai margini della memoria collettiva (Pavone 2004, p. 272).
La perdita delle colonie nel 1945, come risultato della sconfitta militare italiana, evitò in effetti che il Paese passasse attraverso un processo di decolonizzazione, diversamente da ciò che occorse alla Francia negli anni Cinquanta e Sessanta (Labanca 2002, p. 434).
Si formò così piuttosto una nuova narrazione incentrata sul concetto del colonialismo ‘benevolo’, e il dibattito sulla responsabilità politica per i crimini coloniali venne per lo più totalmente messo a tacere.
La lotta per la memoria sulle interpretazioni della seconda guerra mondiale è proseguita dopo il 1968, sotto la spinta dei movimenti di protesta del biennio 1968-1969 e della Nuova Sinistra.
Quest’ultima si oppose alle strategie moderate del PCI e al ‘tradimento’ politico degli ideali della Resistenza perpetrato principalmente con il ‘compromesso storico’ e il sostegno dato al governo Andreotti dopo le elezioni del 1976.
Gli ideali rivoluzionari, inclusa la nozione di ‘Resistenza tradita’, vennero allora fatti propri da una giovane generazione di militanti della sinistra ma alimentò anche i gruppi terroristici sorti agli inizi degli anni Settanta (Cooke 2000, p. 161).
Questo decennio divenne, dunque, come hanno osservato Richard Bosworth e Patrizia Dogliani, un periodo di contestazioni pubbliche sul passato che allora appariva, a molti, la chiave per il presente e il futuro. <7
[...] La fine della Guerra fredda e della prima Repubblica italiana, come si è detto in precedenza, ha favorito un nuovo processo di memorializzazione e una diversa tendenza nella storiografia in Italia, fomentata da chiari intenti politici (Del Boca 2009).
Nonostante la DC abbia controllato fermamente Rai Uno fino al 1989 (Hibberd 2008, p. 76), l’ascesa del revisionismo storico di destra ha sostenuto l’idea dell’egemonia della sinistra sulla cultura italiana negli anni della prima Repubblica, e quindi anche il prevalere di tale egemonia sull’interpretazione del fascismo e della Resistenza (Pavone 2004, p. 271).
Molti di questi studiosi hanno fatto proprie le tesi dello storico Renzo De Felice (1929-1996), l’autore della monumentale biografia di Benito Mussolini e del libro-intervista Rosso e nero, pubblicato nel 1995, nel quale lo studioso introdusse il concetto del fenomeno dell’‘attesismo’, la strategia di salvezza della ‘ampia zona grigia’ della società civile italiana durante il biennio 1943-45 (Gordon 2012, pp. 146-147).
Come ha rilevato Giovanni De Luna, il lavoro di De Felice mirava a scrivere una storia del fascismo e della seconda guerra mondiale dal punto di vista dei ceti medi o della ‘maggioranza silenziosa’, contro la tradizione storica marxista promossa dalle forze antifasciste (De Luna 2011, pp. 56-63).
La posizione di De Felice ha trovato ampio riscontro nell’epoca successiva alla Guerra fredda, nel clima della ‘fine delle ideologie’. Gli storici italiani revisionisti perseguirono una ‘demistificazione’ della presunta tendenziosità in senso antifascista nella storiografia italiana, avendo come obiettivo una rappresentazione ‘non ideologica’ del fascismo come fattore di modernizzazione del paese (Crainz 1999, p. 135). Questa interpretazione faceva una chiara distinzione fra fascismo e nazismo per quanto riguarda le responsabilità dell’Olocausto, rafforzando il mito del ‘buon italiano’ di cui si è parlato in precedenza. Al fine di equiparare la violenza fascista e antifascista, inoltre, si è posta grande enfasi sui crimini compiuti dai partigiani durante la seconda guerra mondiale e nel periodo immediatamente successivo.
Questi periodi storici sono stati riscoperti e resi accessibili al grande pubblico, in modo particolare grazie ai bestsellers di Gianpaolo Pansa sulla storia dei ‘vinti’, cioè i combattenti fascisti. <11
Una simile ‘demistificazione’ non si è verificata per i fatti degli anni Settanta, per la semplice ragione che agli anni di piombo non venne mai riconosciuta una qualsiasi eredità positiva o mito che potesse radicarsi nella sfera pubblica.
Recentemente, comunque, i giornalisti Mario Calabresi e Benedetta Tobagi hanno tentato di riscrivere (rispettivamente nel 2007 e 2009) la storia dei loro padri uccisi da attacchi terroristici di sinistra, dando voce dunque al punto di vista delle vittime del terrorismo e delle loro famiglie.
Ambedue hanno sin da allora collaborato con la Rai, Calabresi come presentatore del programma ‘Hotel Patria’, e Tobagi come membro del Consiglio di amministrazione della Rai. Questi esempi illustrano possibili usi ‘positivi’ del revisionismo, nel senso che aprono nuove prospettive di interpretazione del passato, rilevanti per il presente.
Allo stesso tempo, tuttavia, essi non possono escludere il rischio che il punto di vista delle vittime possa tradursi in una versione acritica del passato, un fenomeno analizzato da De Luna nel suo libro "La Repubblica del dolore".
 


[NOTE]
4 La frase è citata in Pavone 2004, p. 273: «the Resistance, performed by few, served as a cleansing of the conscience for all». Si veda anche Fogu 2006, pp. 147-176.
5 Pavone 2004, p. 273: «[T]he credit acquired by moving into the Allied camp paradoxically helped absolve the fascists and their military apparatus both on the legal front and on that of common conscience, which was confused but eager for clarity, and thus contributed to the urge to move ahead». Sull’amnistia, si veda Franzinelli 2006; sui crimini di guerra e le loro memorie: Focardi, Klinkhammer 2004, pp. 330-348.
6 Crainz 1999, p. 126. Sull’interpretazione della Resistenza nel discorso politico si veda Focardi 2005.
7 Bosworth, Dogliani 1999, p. 7: «a time of public contestation about the past which then seemed, in many eyes, indeed, the key to the present and future».
11 Sul tema: Storchi 2007, pp. 237-250. Una risposta al revisionismo applicato alla Resistenza è venuta dagli scrittori di gialli italiani, come Loriano Macchiavelli e Francesco Guccini. Sulla riscrittura della storia nel giallo italiano, si veda: Jansen, Khamal (2010).
 
Monica Jansen, Maria Bonaria Urban, Introduzione in Televisionismo. Narrazioni televisive della storia italiana negli anni della seconda Repubblica, Edizioni Ca' Foscari, 2015

giovedì 2 dicembre 2021

Richelmy si dedicò alla perlustrazione e alla conoscenza del proprio territorio e dei suoi abitanti


Ad Agostino Richelmy piacevano i treni (Enzo Giachino - dal 1959 alla guida dell’Istituto Italiano di Cultura di Tokio - aveva appositamente studiato per lui un tragitto Italia-Giappone quasi esclusivamente su binario), in particolare però amava quelli lenti, che fermavano a tutte le stazioni - anche le più piccole - e che davano modo e tempo per fissare gli occhi sul paesaggio al di fuori del finestrino e l’orecchio ai discorsi dei passeggeri.
Così nella sua vita Richelmy si dedicò alla perlustrazione e alla conoscenza del proprio territorio e dei suoi abitanti; in un ricordo privato afferma: «Si deve soltanto cercare di conoscere bene il proprio sito (e la gente intorno?) - e i libri della propria sorte, o del proprio piccolo scaffale - e con ciò riuscire a immaginare tutto il resto».
È ciò che ha fatto, come uomo (cultore delle tradizioni locali, del Piemonte più isolato dove meglio si conservano usi e linguaggi antichi) e come scrittore (fedele ai grandi classici che gli ‘toccarono in sorte’: Petrarca, Foscolo, Leopardi, Carducci, Pascoli).
Classicista per inclinazione e sensibilità, non solo nelle scelte formali, ma nella selezione di soggetti e temi, Richelmy conquista la propria cifra stilistica inconfondibile verso la metà degli anni Venti, dopo aver dato sfogo alle tante speranze giovanili e ancor più al disincanto, complici i grandi modelli (Leopardi su tutti), ben assimilati ma - ahimè - meno felicemente imitati.
La produzione in versi che confluisce nelle pagine de L’arrotino appassionato è - a mio avviso - la migliore, per autenticità e per originalità: la tradizione e il classicismo si riscontrano più nei temi che nelle forme, alle quali Richelmy concede invece una frivola e gradevole libertà.
Per contro, La lettrice di Isasca registra un aumento di regolarità formale e - nello stesso tempo - una maggiore complessità e, talvolta, più ‘ermetismo’ nei contenuti (non in assoluto, ma in relazione all’Arrotino).
A questo proposito il fine orecchio di Giovanni Raboni, recensendo la Lettrice, avverte "quando, vent’anni fa, ho letto L’arrotino appassionato, […] sono stato sorpreso dalla diversità della sua [di Richelmy] poesia - diversità, per dirla un po’ sbrigativamente, rispetto al canone novecentesco e al ‘sentimento poetico contemporaneo’ - molto più di quanto non lo sia stato ora di fronte a La lettrice di Isasca (Garzanti, 1986). Mi chiedo come mai e trovo subito due risposte insufficienti o addirittura sbagliate. La prima: la poesia di Richelmy, nel frattempo, si è in qualche modo avvicinata alla poesia del suo (del nostro) tempo, si è in qualche modo maggiormente amalgamata ad essa: un po’ come è successo, mettiamo, alla poesia di Saba ai tempi di Parole. La seconda: la situazione, intorno, è cambiata. Riuso delle forme metriche tradizionali, anacronismo, postmoderno […] hanno influito sull’aspetto complessivo della poesia, ne hanno modificato la veduta d’insieme in senso, come dire?, antimodernista, a un punto tale che la figura di Richelmy vi appare meno isolata e contrastante". <824
Raboni finirà per scegliere, sebbene con qualche aggiustatina, la seconda risposta.
Eppure anche nella prima si può rintracciare una parziale verità: la massima parte dei testi della raccolta del 1965 è databile non oltre gli anni Cinquanta, molti anzi risalgono alla giovinezza del poeta, a quando nelle campagne da lui girate in lungo e in largo non era ancora giunta massicciamente l’odiatissima modernità; molti paesaggi e situazioni del Piemonte agreste della metà del Novecento si presentavano identici a quelli che si sarebbero potuti osservare secoli prima,e la tradizione e il classicismo erano per così dire insiti nella materia.
Non è più così per le poesie de La lettrice di Isasca: uscita nel 1986, raccoglie componimenti che in buona parte risalgono agli anni Settanta; certo, anche qui si possono ritrovare testi ‘antichi’ come La nonna di Rosei o Il torello, ma è sufficiente il timbro nuovo delle liriche più recenti ad alterarne l’intero accordo.
Esse hanno il compito di filtrare un mondo che nel frattempo è mutato molto e molto in fretta agli occhi di un uomo che, pur rifiutandosi di comprenderlo, non può fare a meno di osservarlo e darne conto.
Ecco perché, forse, Richelmy è costretto a cercare una maggiore regolarità e tradizione nelle forme, perché devono imbrigliare - e nel giro di pochi versi - una realtà irreversibilmente trasformata e spesso resagli irriconoscibile dalla modernità; nascono così le poesie della sezione Glossolalie, o i tentativi di trovare un lato idillico anche nelle moderne tecnologie (In aereo) o i versi rabbiosi, di vecchio che non si rassegna all’estinguersi della sua ‘era’, di A un X, presente solo nel “Quadernetto indifeso” e poi sparita da La lettrice di Isasca.
Credo che in questa ultima fase produttiva, Richelmy sia riuscito a ritrovare ed esprimere al meglio l’antica anima e sensibilità classicistica nella prosa, il cui respiro e passo gli fornirono forse una dimensione più adatta e comoda - rispetto al più esiguo spazio di una lirica - per raccogliere quel che rimaneva di un tempo e di un mondo che stavano scomparendo e la cui consistenza scemava giorno dopo giorno. Articoli brevi, probabilmente per esigenze editoriali, ma con un ‘dietro le quinte’ vasto e profondo, come testimoniano le numerossime annotazioni dei diari.
E poiché, in ogni caso, rimane vera un’altra fondamentale impressione di Raboni, ossia: «basta aprire La lettrice di Isasca per accorgersi che la poesia di Richelmy è sempre lì, incantevolmente uguale a se stessa, aristocraticamente indifferente alle sorti progressive o regressive della contemporanea letteratura in versi», ecco che il poter disporre dei suoi scritti in prosa, dei suoi taccuini di appunti, il rileggerli e finalmente lo studiarli sarà particolarmente importante proprio per metterli al confronto con le due raccolte poetiche.
Adottando la prosa di Richelmy come unità di misura (da “Mondo Nuovo” a “Stampa Sera”, è un arco di quasi trent’anni), è possibile rintracciare fra l’Arrotino e la Lettrice analogie e differenze non tanto rispetto alla letteratura contemporanea (verso la quale l’indifferenza di Richelmy appare in effetti granitica), quanto rispetto all’orizzonte, sociale ed economico, degli anni in cui Richelmy visse e scrisse.
824 GIOVANNI RABONI, Ascoltare Richelmy, in «Paragone letteratura», a. XXXVII, n. 434-436, aprile-giugno 1986, pp. 142-150.
Irene Barichello, Le carte segrete di Agostino Richelmy, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2012