[...] I
tedeschi vollero espandere al più presto la persecuzione e l’eliminazione degli ebrei all’interno del territorio italiano. A prova di ciò, basti analizzare l’operato del I Battaglione e del II Reggimento della I SS Panzer-Division Leibstandarte SS Adolf Hitler stanziate in Italia; tra il 15 settembre e l’11 ottobre, «assassinarono, gettandone in parte i corpi nell’acqua, cinquantaquattro ebrei (dei quali sedici a Meina, quattordici a Baveno, nove ad Arona, quattro a Stresa, tre a Mergozzo, due a Orta San Giulio, due a Pian Nava, quattro a Intra)».[1]
Il fenomeno citato rientra tuttavia in un’iniziativa locale e non in un piano organizzato e generale esteso a
tutta la Repubblica Sociale Italiana. Per assistere a ciò, bisognerà invece aspettare la metà di ottobre, quando venne incaricato un reparto di SS volante mandato appositamente da Berlino. A capo di questo reparto, rimasto attivo fino al febbraio del 1944, vi era un fidato di Adolf Eichmann, il capitano Theodor Dannecker, il quale aveva il compito di recarsi nella penisola con lo scopo di organizzare retate occasionali contro gli ebrei.
Prima fra tutte sarà
quella del 16 ottobre a Roma, che in meno di dodici ore portò all’arresto di più di un migliaio di ebrei. Il 18 ottobre 1943 partì dalla stazione di Roma Tiburtina un convoglio carico di deportati. Oggi non possediamo la Transportliste, per questo non possiamo sapere il numero esatto delle persone che presero parte al viaggio; gli unici di cui conosciamo l’esistenza sono stati identificati grazie al CDEC e sono 1023, uomini e donne di tutte le classi e di tutte le età: il più giovane aveva un giorno di vita (la madre, Marcella Perugia, aveva partorito durante la detenzione), la più anziana, di nome Rachele Livoli, aveva novant’anni. Il loro viaggio durò cinque giorni arrivando ad Auschwitz il 23 settembre. Sappiamo che di questi 1023, solo 149 uomini e 47 donne passarono la prima selezione, mentre tutti gli altri furono condotti alle camere a gas.
Dopo la retata del 16 ottobre, il medesimo reparto ricevette l’ordine di sparpagliarsi lungo tutta la penisola e procedere negli arresti esattamente com’era avvenuto per Roma; pertanto, nel solo mese di novembre, seguirono i prelievi forzati nelle città di
Genova (e tutta la riviera ligure), Siena, Firenze, Bologna, Milano e Montecatini, i quali portarono poi alla creazione di altri tre convogli con destinazione Auschwitz: Firenze (9 novembre) e Milano (6 dicembre e 30 gennaio).
Il treno partito dalla città toscana arrivò a destinazione il 14 novembre, per un totale di 5 giorni. A differenza del convoglio precedente, solo una piccolissima parte dei deportati è stata identificata, per un totale di 83 persone, quindi, anche qui, non si conosce il numero esatto degli ebrei; Liliana Picciotto ritiene che la causa di questo risieda nel fatto che molti dei prigionieri erano stranieri in transito. Purtroppo tra questi testimoni nessuno è sopravvissuto.
Nel frattempo la neo repubblica si stava dando un’organizzazione e aveva sposato e rilanciato la questione antiebraica. Il 14 novembre 1943 si tenne a Castelvecchio di Verona una riunione in cui venne stabilito “Il programma di azione del Partito Repubblicano Fascista” in diciotto punti. Importante per la questione qui analizzata sarà il punto sette che recita: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».[2] Liliana Picciotto interpreta la stesura di questo articolo in relazione all’alleato occupante, sostenendo come Mussolini volesse trattare la questione ebraica in quanto non aveva apprezzato il prelievo forzato degli ebrei da parte delle SS in territorio italiano: «Mussolini, malgrado l’apparente disinteresse, non poté certamente gradire che sul suo territorio – senza preavviso né consultazione alcuna – si effettuassero rastrellamenti di cittadini italiani, sia pure ebrei: era l’ennesima conferma di ciò che i tedeschi intendevano per «alleanza» con la Repubblica di Salò. Con l’invio di Dannecker in Italia, agli inizi di ottobre, essi avevano visibilmente approfittato del vuoto di potere e della mancanza di strutture amministrative in loco.[…] La prima mossa italiana autonoma in risposta all’atteggiamento tedesco giunge il 14 novembre sotto forma di enunciato ideologico inserito nel lungo testo programmatico della nascente Repubblica Sociale Italiana».[3]
Renzo De Felice dà un’interpretazione differente alla stesura di questo punto, sostenendo che Mussolini e il Partito non avessero sposato la tesi dello sterminio, tanto da affermare: «L’intenzione di Mussolini e dei moderati era senza dubbio di concentrare fino alla fine della guerra tutti gli ebrei e di rinviare la soluzione della questione a guerra finita»[4]; sostiene anche che i provvedimenti contro gli ebrei siano stati presi con lo scopo di confiscarne i beni e incamerarli all’interno delle casse dello Stato, risanando così la grave condizione economica; scriverà infatti: «va altresì notato che i provvedimenti contro gli ebrei adottati dai fascisti alla fine del 1943 e nei primi mesi del 1944 furono determinati […] dalle precarissime condizioni economico-finanziarie della RSI».
A prescindere dalla motivazione, il ministro dell’Interno Guido Buffarini-Guidi, il 30 novembre 1943, emanò a tutti i capi delle province l’Ordine di polizia n. 5:[5]
1) Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.
2) Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, devono essere sottoposti a speciale vigilanza degli organi di polizia. Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.
Questo venne poi integrato col D.L. 4 gennaio 1944 n. 2, con il quale si sanciva il totale spoglio dei beni, mobili ed immobili, degli ebrei, di cui i passi salienti erano:
a) essere proprietari, in tutto o in parte, o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende di qualunque natura, né avere di dette aziende la direzione, né assumervi comunque l’ufficio di amministratore o di singolo;
b) essere proprietari di terreni, né di fabbricati e loro pertinenze;
c) possedere titoli, valori, crediti e diritti di compartecipazione di qualsiasi specie, ne essere proprietari di altri beni mobiliari di qualsiasi natura.[6]
Grazie a queste confische la Repubblica Sociale Italiana, al 31 dicembre 1944, poteva contare su un patrimonio di quasi un miliardo.
A partire dal primo dicembre del 1943, ogni ebreo era ricercato dalle autorità locali. Da questo momento in poi, incaricati degli arresti saranno i militari e la polizia dell’RSI. Poche ore dopo l’annuncio dell’Ordine di polizia n. 5, i capi delle province libere avvisarono i questori che diedero il via a un’innumerevole quantità di arresti indiscriminati, lungo tutto il territorio. Una relazione del funzionario del ministero degli Esteri Horst Wagner in data 4 dicembre 1943, e il resoconto di una riunione degli addetti alla persecuzione in Italia avvenuta a Berlino il 14 dicembre dello stesso anno, ci dimostrano come in Germania fossero soddisfatti per la nuova politica degli arresti e per l’autonomia mostrata dalle forze dell’ordine italiane nel compierla.[7]
Presto le carceri furono piene e si dovette così procedere a nuovi convogli. Il 5 dicembre agli ebrei imprigionati a Milano (capoluogo del distretto nord-occidentale) ricevettero la notizia che sarebbero stati deportati il giorno seguente, con un discorso fatto per tranquillizzare gli animi. Si disse, infatti, che le persone sarebbero state spostate in Germania con il preciso scopo di trovar loro una sistemazione lavorativa, rassicurandoli anche sul fatto che avrebbero potuto portare con sé tutti i loro beni.
La mattina seguente, i deportati, furono caricati su camion chiusi da teloni che si trovavano nel cortile del carcere e condotti all’interno dei locali sotterranei di Stazione Centrale con ingresso in via Ferrante Apporti. Il convoglio del 6 dicembre partito da Milano si unì a quello creatosi a Verona nello stesso giorno e, durante il viaggio, al convoglio partito da Trieste e ricordato con numero 21T. Da Milano partirono 169 ebrei, tuttavia non conosciamo la lista completa dopo l’unione con gli altri due convogli: quelli identificati dal CDEC sono 246 di cui solo 5 reduci. Il viaggio durò 5 giorni e 5 notti e, la mattina dell’11, il treno si fermò allo scalo secondario della stazione della città di Auschwitz, dove subirono la prima selezione. Grazie ai numeri di matricola attribuiti, si conosce con esattezza il numero delle persone che furono introdotte all’interno del campo: 61 uomini e 35 donne.[8]
In breve tempo, il braccio IV di San Vittore, fu nuovamente pieno e un’ulteriore deportazione venne annunciata il 28 gennaio 1944. Il convoglio sarebbe partito due giorni dopo, la mattina del 30 gennaio. Dalla testimonianza della sopravvissuta Liliana Segre, sappiamo che, la sera prima della partenza, le guardie distribuirono a tutti i destinati alla deportazione un sacco contenente 7 scarse razioni di cibo: «e così capimmo che 7 erano i giorni che ci aspettavano». La notte tra il 29 e il 30, tutti gli ebrei vennero messi in fila e fatti sfilare lungo un altro braccio (destinato ai criminali comuni); qui la nostra testimone ci racconta l’umanità dei detenuti nei loro confronti in quanto, aggrappati alle celle, urlavano parole di incoraggiamento e lanciavano loro oggetti e cibo utili al viaggio. Tutti i detenuti, la sera prima, rinunciarono al pasto per fornire viveri ai deportati. Antonio Quatela sostiene che l’ideatore di questi gesti solidari sia il comunista Gino Guermandi, il quale trovò facilmente consenso tra i detenuti.[9] Raggruppati tutti gli ebrei nel cortile, si appose al collo di questi un numero impresso su una striscia di cartone messa a collare con una cordicella di spago, per poi farli ammassare all’interno di camion telati: «non ci fu violenza vera e propria, ma una gran fretta», descrive Liliana Segre. A questo punto, i mezzi di trasporto, percorsero tutto il centro e raggiunsero via Ferrante Aporti entrando nei locali sotterranei della Stazione Centrale: «qui sì, ci fu violenza: SS con cani scudiscate per farci salire a gran velocità su questi vagoni, bastonate, i vecchi che non ce la facevano, parolacce, solite cose che diventarono poi di ordinaria amministrazione. Questo fu il primo impatto con quella realtà che dopo sarebbe divenuta quotidiana».[10] In questa giornata, vennero deportate da Milano 605 persone. Il treno arrivò ad Auschwitz, sabato 6 febbraio, dopo un viaggio durato 7 giorni. Solo 97 uomini e 31 donne passarono la prima selezione. I reduci furono 22.[11]
Dopo questi trasporti, il distaccamento volante della SS venne richiamato in patria e sostituito con un ufficio stabile presso la centrale della Gestapo in Italia con sede a Verona, con lo scopo di mantenere un controllo diretto sulle persecuzioni e deportazioni all’interno della penisola. A capo delle operazioni fu messo Friedrich Bosshammer, al quale va attribuita la trasformazione del carcere-campo di concentramento per ebrei di
Fossoli a
campo di polizia e di transito verso destinazioni più lontane. Stessa funzione ebbe poi il campo di
Bolzano, trasformato e usato dopo la chiusura del primo, avvenuta l’1 agosto 1944.
Le cose peggiorarono ulteriormente per la popolazione ebraica dopo il 16 marzo 1944 quando la
Repubblica Sociale Italiana creò un ispettorato per la razza[12] con a capo Giovanni Preziosi, il quale stabilì la sede a Desenzano. Dopo poco meno di un mese, propose al duce nuovi progetti di decreti legge, tra cui il più importante riguardava una nuova definizione e differenziazione razziale, che consisteva nella traduzione in italiano delle leggi di Norimberga. Riassumo qui i punti chiave: 1) potevano definirsi italiani puri solo coloro i quali antenati vivevano nella penisola dal 1800 e non avevano subito incroci con altre razze; 2) vietava i matrimoni misti; 3) andava a creare un vero e proprio albero genealogico; 4) tutti coloro che fossero rientrati nella categoria “meticci” sarebbero stati allontanati dalle cariche pubbliche e dalle attività professionali. Lo stato avrebbe dovuto procedere alla confisca dei beni mobili ed immobili. Tuttavia Preziosi non riuscì a trovare l’approvazione di Mussolini.
A questo punto il direttore si adoperò per far rispettare con più rigidezza le leggi già in vigore e trasformò il suo ispettorato ad immagine della Gestapo. Le prime direttive comanderanno che, oltre agli ebrei puri, bisognasse mandare nei campi di concentramento anche coloro che, nonostante meticci, erano considerati comunque di razza ebraica.
La RSI continuò, fino alla totale sconfitta, a perseguitare la popolazione semita. A soli nove giorni dalla liberazione, nell’ultimo Consiglio dei Ministri del 16 aprile 1945, vennero emanate disposizioni per lo scioglimento dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e di tutte le associazioni di assistenza agli ebrei.
La cooperazione tra tedeschi e italiani si può vedere dall’efficienza dei campi di concentramento e di transito di Fossoli e Bolzano e dal numero di deportati. Dall’ultimo punto dell’Ordine di polizia n. 5, emerge la disposizione di creare campi di concentramento provinciali, in attesa della creazione di un grande e unico campo italiano. Assistiamo alla nascita di numerosi campi di concentramento all’interno di tutte le città più importanti. A completare questi sarà la trasformazione del campo per prigionieri di guerra di Fossoli (sorto nel 1942) a campo di concentramento per ebrei nel dicembre del 1943. Nel corso del 1944 venne utilizzato dai tedeschi come campo di transito per i deportati destinati ai Lager del Reich: al suo interno furono rinchiusi in circa sette mesi quasi tremila ebrei. Dalla stazione ferroviaria limitrofa di Carpi partirono sei convogli: quattro diretti ad Auschwitz e due diretti a Bergen-Belsen con un totale di 2500 persone circa. Dal luglio del 1944, a causa dell’avanzata degli Alleati, i tedeschi furono costretti a trasferire il campo di transito a Bolzano. Quest’ultima città venne scelta per le sue caratteristiche: era sul confine e la sua provincia era sotto l’amministrazione diretta dei nazisti. Il campo, aperto nel sobborgo di Gries, rimase in funzione fino all’aprile 1945 e arrivò a ospitare anche quattromila persone tutte insieme. A marzo 1945 le deportazioni verso i Lager cessarono e tra l’aprile e il giugno i prigionieri furono liberati.
Vorrei infine accennare a un ultimo campo di concentramento allestito in Italia. Come si è detto, il Friuli-Venezia Giulia venne fin da subito messo sotto la giurisdizione diretta tedesca che decise di adibire la Risiera di San Sabba a Trieste, un insieme di edifici destinati in origine alla pilatura del riso, a campo di concentramento e transito. A differenza di Fossoli e Bolzano, questo divenne verso la fine della guerra anche campo di sterminio, unico caso in Italia. Si occuparono della sua organizzazione novantadue uomini scelti dal responsabile Odilo Globocnik. Qui 1200 ebrei furono deportati in 23 trasporti dal 7 dicembre 1943 fino al 24 febbraio 1945. La Risiera fu campo di morte per altre 2000 persone tra ebrei, partigiani, sloveni e croati.[13]
[NOTE]
[1] Liliana Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1945, Enaudi, Torino, 2018 p.43.
[2] Il testo completo in M. Viganò, Il Congresso di Verona (14 novembre 1943): documenti e testimonianze, Settimo Sigillo, Roma 1994.
[3] Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), MURSIA, Milano, 2002 p. 891.
[4] Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1993, p. 447.
[5] ACS, RSI, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, b. 57, cat. 3.2.2, fasc. 2012. Vedi anche Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1993, p. 447 e Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1944), Mursia pp. 891-892.
[6] Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1993, p. 448.
[7] Liliana Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1944, Einaudi, Torino, 2018, p. 49.
[8] Liliana Picciotto, Il libro della memoria, MURSIA, Milano, 2002, pp.46/888-889
[9] Antonio Quatella, Sei petali di sbarre e cemento, MURSIA, Milano, 2013, p.119
[10] Dalla testimonianza di Liliana Segre, 25 marzo 1992.
[11] Liliana Picciotto, Il libro della memoria, MURSIA, Milano, 2002, pp. 46-47
[12] Con il decreto legislativo del 16 aprile 1944, n. 136 il vecchio Ufficio per la Demografia e la Razza (istituito nel 1938), cambiava nome in Ufficio per la Demografia. Per attuare la politica razziale fu invece istituito presso la Presidenza del Consiglio un Ispettorato per la Razza.
[13] Cfr. Bruno Maida, I luoghi della Shoah in Italia, Edizione del Capricorno, Torino, 2017 pp. 93-94.
Jacopo Di Sacco,
La persecuzione ebraica in Italia - Parte 2a: La Shoah italiana, Lo
Storico, 27 gennaio 2020
Man mano che i superstiti rientrano dai campi cominciano le prime testimonianze. Alle confessioni rivolte a parenti ed amici cominciano ad avvicendarsi le prime interviste, interventi sui giornali e le prime pubblicazioni. Se tornare era stato il sogno di tutti, adesso bisogna lottare contro quel timore di non essere ascoltati e creduti. <23 Una paura che molto spesso si traduce in realtà come testimonia, nelle sue memorie, Vittorio Foa, ebreo italiano e uno dei giovani animatori di Giustizia e Libertà. Nel 1945 scrive che l’atmosfera politica, culturale e psicologica che regna nel paese non permette di cogliere il significato dell’Olocausto:
“Tornavano i superstiti, uno su cento, dai campi di sterminio. Raccontavano e cominciavano a scrivere cose inimmaginabili sulla disumanità del potere e sull’organizzazione scientifica della morte, ma questi racconti non toccavano la nostra gioia di vivere finalmente nella pace. Non si spiega facilmente il fatto che il libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, ha trovato difficoltà per la pubblicazione: si temeva di turbare un sollievo collettivo, col rischio di cadere nell’omertà”. <24
I problemi dei superstiti e le loro attese vanno a scontrarsi col contesto generale dei drammi di guerra, teso ad attenuare o a minimizzare il carattere estremo della loro esperienza:
“E chi ti ascoltava - ma poi in realtà non ti ascoltava perché anche lui aveva la sua storia dentro ( ‘ma anche noi, sa, i bombardamenti, le paure, il freddo, non creda, sa? Anche noi...’) e posto per la tua non ce n’era”. <25
E’ in questo orizzonte che escono con ritmo serrato i primi libri di memoria del lager: undici nel 1945, quattordici nel 1946, tre nel 1947. Numeri e date sono significativi. All’indomani del ritorno i sopravvissuti raccontano, e quasi, immediatamente scrivono. A ben guardare, sino alla stasi del 1948, i numeri dicono anche altro. Denunciano, come del resto hanno fatto molte testimonianze in questi anni, quel corpo a corpo cui questa memoria è costretta. Primo Levi si sente uno “squilibrato innocuo” agli occhi dei suoi colleghi appena rientrato dall’esperienza di Auschwitz. Si sente isolato e le persone che gli stanno attorno sembrano prese dai loro pensieri, dalla ricostruzione, dalle difficoltà e la fame della guerra. Ecco che l’impulso a scrivere, hic et nunc, diviene fondamentale per la predisposizione mentale del superstite, quasi fosse un presagio a un futuro speranzoso:
“Ma io ero tornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. […] Mi pareva che mi sarei purificato raccontando […] Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a poco ne nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare un uomo, uno come tutti, né martire né infame né santo, uno di quelli che si fanno una famiglia, e guardano al futuro anziché al passato.” <26
Il libro di cui parla è naturalmente Se questo è un uomo e basti ricordare che viene respinto da Einaudi nel 1947, e a opera di una redattrice come Natalia Ginzburg. L’opera uscirà presso la piccola casa editrice Da Silva solo successivamente. Questa vicenda è indicativa in quanto a pubblicare le prime testimonianze sono, quasi esclusivamente, piccoli editori, se non semplici tipografie, capaci di far prevalere la solidarietà umana rispetto alle esigenze del mercato. Tale inerzia della cultura non è un’anomalia nel contesto del periodo: apparato statale e società civile né capiscono né sostengono i sopravvissuti e le loro famiglie né considerano lo sterminio come evento storico cruciale minimizzando il coinvolgimento del paese. Ma questo lo vedremo meglio successivamente. Quel che mi preme sottolineare è che, almeno in un primo momento, c’è stata una significativa produzione di memorie e scritti sui campi di concentramento. I testi assumono subito forme molto diverse. Taluni sono resoconti, nella forma del rapporto. Ne è un esempio il reportage sulle condizioni igieniche e sanitarie del campo di Monowitz-Auschwitz III pubblicato sulla rinomata rivista medica “Minerva” nel 1946. Con sobri e scrupolosi dettagli tecnici, il testo descrive le condizioni mediche in cui vivono i prigionieri, la loro dieta e la loro situazione sanitaria. Il rapporto è un’importante dimostrazione della varietà di forme di basso profilo in cui le informazioni circolano in quel periodo. <27 Altre tipologie di racconto vanno dall’autobiografia alla testimonianza sino al romanzo breve o all’album di disegni. In tutto questo corpus eterogeneo, si incomincia a intravedere un parallelismo tra la Resistenza armata e la deportazione. Ne è un esempio il libro di Francesco Ulivelli , detenuto nel campo di Bolzano:
“Noi oggi sentiamo il gusto della vittoria, lo sentivamo noi che marciavamo nei campi di concentramento, come lo sentivano i nostri Partigiani […] quando marciavano e si scaldavano al fuoco dei bivacchi.” <28
Sono due anime che si saldano nel medesimo racconto e sono le stesse che affiorano negli schizzi in cui Giovanni Baima Besquet, dal sanatorio dove è ricoverato, illustra la sua situazione, esternando brevi commenti sotto le immagini:
“Ho tracciato questi schizzi quantunque l’animo mio rifuggisse dal vivere, sia pure per un attimo, il nostro calvario, iniziatosi per me con l’arresto a Torino insieme a Luigi Capriolo, Eroe della Liberazione, il 17 ottobre 1943. È un semplice documentario di vita realmente vissuta, senza pretesa di fare un’opera di pregio artistico, ma per illustrare il Martirio e le incredibili atrocità patite dai deportati italiani e delle altre nazioni, fatto in omaggio alla Memoria dei Compagni Caduti per amore della libertà”. <29
Per i deportati politici italiani il campo più tristemente famoso è quello di Mauthausen. Ce ne dà un’impressione molto forte Bruno Vasari, militante dell’organizzazione Giustizia e Libertà, che, appena giunto in Italia dopo la liberazione del campo, si mette subito a redigere la sua testimonianza pubblicata nell’agosto del 1945. Mauthausen, bivacco della morte, lontana dall’invettiva e aliena da qualsiasi registro letterario, ricorda piuttosto la deposizione in giudizio con fatti, date e numeri. <30 La compressione temporale del racconto è tesa a riflettere la crudeltà raggiunta dal sistema nazista organizzato scientificamente alla distruzione di una diversa forma di umanità. Nel libro possiamo cogliere anche un'attenzione ai deportati che arrivano al campo di detenzione da altri campi assai più celebri, come Auschwitz. In seguito all‘offensiva russa, sono organizzate dai tedeschi le così dette “marce della morte”. Gli internati superstiti sono costretti a mettersi in cammino verso l’Occidente e, coloro che sono troppo deboli o malati per proseguire, vengono fucilati a migliaia. Dei 66.000 evacuati da Auschwitz perdono la vita circa 15.000 persone <31:
"I segni degli orrori di questa desolata marcia erano impressi nel corpo di questi sventurati ebrei […] <32 ; il giorno 1 febbraio vidi 1.500 di essi completamente nudi, gementi, con le piaghe che grondano sangue e materia, tenuti in piedi al freddo […]". <33
[NOTE]
24 V. Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino, 1991, pp. 69-70
25 G. Melodia, La quarantena. Gli italiani nel lager di Dachau, Mursia, Milano, 1971, p. 23
26 P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino, 2014, p. 143
27 P. Levi, L. De Benedetti, Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986, Einaudi, Torino, 2015
28 F. Ulivelli, Bolzano anticamera della morte, Edizioni Stellissima, Milano, 1946, p. 9
29 G. B. Besquet, Deportati a Mauthausen: 1943-1945, S.A.N., Torino, 1946, p. 5 in A. Bravo, D. Jalla, Una misura onesta. Gli scritti della deportazione dall’Italia 1944-93, Angeli/ANED, MIlano, 1994, p. 56
30 B. Vasari, Mauthausen, bivacco della morte, La Fiaccola, Milano, 1945, p. 50
31 W. Laqueur, A. Cavaglion (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino, 2007, p. 452
32 B. Vasari, Mauthausen, bivacco della morte, La Fiaccola, Milano, 1945, p. 24
33 ivi, p. 38
Gionata Grassi, La ricezione dell’Olocausto in Italia nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2018/2019