martedì 30 novembre 2021

Mussolini e i suoi gerarchi non si aspettavano di avere la guerra in casa propria


[...] invadere la Sicilia incominciando dalle aree meridionali e quindi le più lontane dallo stretto di Messina diede tutto il vantaggio ai difensori dell’isola, cioè ai tedeschi che riuscirono a tenere aperto e sotto il loro controllo lo Stretto di Messina fino a l’ultimo e quindi la viabilità tra l’isola e il continente <18.
L’invasione, in se stessa, è stata essenzialmente una dimostrazione della capacità industriale degli Alleati ma soprattutto dell’America. Il generale tedesco von Senger, che si trovava nei pressi di Licata e potè quindi osservare le operazioni di sbarco, rimase stupefatto della grandiosità di quelle operazioni e a proposito scrisse: "Per capire la portata di questa superiorità dell’avversario che attacca dal mare bisogna averla vista con i propri occhi. Personalmente ebbi modo, il giorno 12 luglio 1943, mentre mi trovavo sulla costa, a pochi chilometri più ad est, di osservare lo spettacolo goduto dal Generale Eisenhower, per cui posso fare mie le parole allora pronunziate dal comandante americano “...Devo dire che la vista di centinaia di navi, con mezzi da sbarco ovunque, che operavano lungo la costa di Licata verso est, era uno spettacolo indimenticabile...” Indimenticabile lo fu anche per me, ma con sentimenti ben diversi da quelli che animarono Eisenhower!" <19
Malgrado questa enorme superiorità tecnica, terrestre-aereo-navale degli Alleati, l’egocentrismo dei due comandanti, Montgomery e Patton e, pertanto, la mancanza di cooperazione tra le due armate, venne riportato ad Eisenhower, comandante generale delle operazioni nel Mediterraneo, che “furono commessi diversi errori tattici” <20.
Infatti, gli Alleati con due armate e l’enorme superiorità navale e aerea non riuscirono a sbarrare lo Stretto di Messina e a impedire ai tedeschi di ritirarsi ordinatamente, portando sul continente le loro divisioni bene equipaggiate. Il generale tedesco Hans Hube, con sole due divisioni e con l’aiuto saltuario di alcune unità italiane, riuscì a evitare che le due armate Alleate facessero una carneficina delle sue truppe. Hube ritirò le sue truppe dalla Sicilia a tappe misurate e controllate, parte della sua strategia di abbandonare l’isola quando aveva deciso lui. Dal punto di vista militare, la battaglia per la Sicilia è stata essenzialmente vista, dagli esperti, come una vittoria tedesca, “poichè - scrisse von Bonin - durante l’evacuazione non ci furono difficoltà degne di essere menzionate [...] il tempo a nostra disposizione fu completamente sufficiente per traghettare, secondo il piano stabilito, sia l’ultimo uomo che l’ultimo automezzo” <21.
Scrive, a proposito, Ken Ford, “le due divisioni motorizzate panzergrenadier si impossessarono dei veicoli abbandonati dagli italiani e li riportarono sul continente carichi di truppa, rimpiazzando i veicoli mancanti e quelli persi in battaglia. Alla fine della campagna siciliana le due divisioni tedesche erano meglio motorizzate che all’inizio della campagna” <22 e dettero, poi, filo da torcere alle truppe Alleate sia a Salerno che nelle battaglie successive.
Per quanto riguarda l’evacuazione delle truppe italiane la situazione era molto diversa. L’ammiraglio Pietro Barone precisa che “Le operazioni di imbarco si svolsero in condizioni difficilissime per l’indisciplina e il disordine che regnava fra le truppe stesse a causa del completo disinteressamento degli ufficiali addetti ai reparti che non avevano altra palese preoccupazione che quella di imbarcarsi per primi insieme alle loro robe non curandosi dei loro uomini” <23.
È da notare anche che le unità italiane che nel 1943 avevano il compito della difesa costiera delle isole e dell’Italia continentale erano male equipaggiate e dotate di armi scadenti dato che il meglio dell’esercito italiano era stato impiegato e distrutto in Africa, in Russia, in Grecia, in Albania e in Jugoslavia. Nei paesi occupati dall’Asse, erano ancora impegnate altre 38 divisioni italiane: 31 nei paesi balcani, cinque in Francia e due in Corsica* (*Il P.M. Britannicco parla di 35 divisioni italiane mentre in realtà erano 38 le divisioni impegante fuori dal territorio continentale e delle isole).
Per la difesa della Sicilia, della Sardegna e dell’Italia continentale c’erano soltanto 15 divisioni non tutte di prim’ordine, sette nel territorio continentale, quattro in Sardegna e quattro in Sicilia.
I resoconti degli Alleati, ignorando l'ingarbugliata situazione politica, militare ed economica italiana di quei mesi, sottolinearono il mancato impegno dei soldati italiani nel difendere il territorio nazionale. In un rapporto dei Servizi Informazione degli Alleati, il più comprensivo, forse, della situazione italiana, si legge: “Una chiara stanchezza verso la guerra ed un sentimento di sfiducia circa la situazione dell’Italia sono stati tuttavia i fattori ovviamente più potenti ad influenzare e a permeare in profondità l’Esercito da campagna, con il risultato che un senso di inferiorità ha distrutto il suo ardore e il suo morale” <24.
In realtà, Mussolini e i suoi gerarchi non si aspettavano di avere la guerra in casa propria. Infatti, le quattro divisioni addette alla difesa della Sicilia non avevano avuto affatto esperienza di combattimento; l’unica divisione che aveva avuto un ottimo addestramento era la Livorno perché, originariamente, avrebbe dovuto essere impiegata nell’invasione dell’isola di Malta: operazione sempre rimandata fin quando il conflitto, nell’inverno 1942-1943, prese ovunque (in Africa, in Russia e nel Pacifico) una piega negativa per l’Asse.
La situazione di incertezza e le necessità dei bisogni primari che si vennero a creare nella popolazione siciliana contagiò anche i militari.
“Alcuni reparti costituiti da elementi siciliani si sono disfatti prima dell’urto con l’avversario” e perfino un intero battaglione della “Milizia” volontaria fascista si arrese, “col comandante in testa”, senza sparare un solo colpo <25.
Riguardo le truppe italiane addette alla difesa del territorio nazionale e delle isole, in un rapporto al Führer del 5 maggio 1943, alla vigilia dello sbarco degli Alleati in Sicilia, von Rintelen tracciava un ritratto realistico dell’esercito e della situazione italiana. Scriveva, infatti, von Rintelen: "Il nerbo dell’esercito italiano è stato distrutto in Grecia, in Africa e in Russia. Ciò che resta è impari agli onerosi compiti di un conflitto di grande impegno, valgono solamente come debole sostegno di un forte alleato. Il grande punto interrogativo sarà la reazione dell’esercito all’invasione della Madrepatria, il risultato dei primi giorni di combattimento avrà un’importanza decisiva. Va detto insomma che l’esercito italiano non è da solo in condizione di arginare con successo un attacco poderoso contro il suo territorio metropolitano. Ciò si può ottenere con un forte aiuto tedesco e con riserve mobili e centrali" <26.
Infatti, in difesa delle coste siciliane c’erano 36 uomini per ogni km., una media che era (come ebbe a dire il generale Roatta, comandante di tutte le FF.AA. della Sicilia) “probabilmente inferiore perfino a quella dei metropolitani nelle vie centrali di Roma”. E aggiunse che le forze costiere “erano fisse, non avevano mezzi di trasporto eccetto per le biciclette e di qualche carretta o autocarro per la corvée”. Roatta concluse dicendo che questi reparti non avevano alcuna capacità di controffensiva: potevano solo resistere sulle loro posizioni, però, senza reagire al tiro navale dell’avversario o alle offese aeree <27.
Inoltre, nella battaglia per la difesa della Sicilia, è da notare la singolare e quasi totale mancata partecipazione della Marina italiana. Il 3 agosto, il Comando Supremo spronò Supermarina a dare il proprio contributo alla battaglia in corso in Sicilia. “Non est più ammissibile - scriveva il Comando Supremo - che attività navale nemica nel basso Tirreno e nello Jonio si svolga ininterrottamente senza contrasto da parte nostra” <28. Ed esplicitamente chiedeva un intervento della Regia Marina, che alla data del 1 agosto aveva a disposizione una nutrita flotta di 293 unità: 124 pronte ed efficienti e una scorta di 58.000 tonnelate di nafta <29.
Spinta, forse, da questa richiesta, Supermarina mise alcune unità in movimento. Ordinò alla 7a divisione, cioè, agli incrociatori Eugenio di Savoia e Montecuccoli, di bombardare il porto di Palermo, lo scalo maggiore per i rifornimenti dell’Armata americana. Durante la missione, i due incrociatori “avvistarono” presso Ustica una nave cisterna scortata da caccia e sommergibili americani SC-503. Scambiando tali unità per motosiluranti nemiche in agguato, l’Ammiraglio Oliva interruppe la missione e rientrò alla base.
Supermarina non approvò il comportamento dell’Ammiraglio e, considerando non veri gli avvistamenti delle motosiluranti <30, ordinò la stessa missione, bombardare il porto di Palermo, alla 8a divisione formata dagli incrociatori Garibaldi e Duca d’Aosta, al comando dall’Ammiraglio Fioravanzo. [...] l’8 [agosto 1943] le navi italiane in missione ricevettero alle ore 01:45 il messaggio di un ricognitore tedesco che segnalava tre grosse unità a metà strada tra Palermo e Ustica. Questo avvistamento e la contemporanea diminuzione della visibilità, a causa della crescente foschia, indussero l’ammiraglio Fioravanzo, sprovvisto di radar, a fare invertire la rotta alla sua divisione, alle ore 04.00.
Supermarina non gradì questo provvedimento e comunicò agli incrociatori, se non avessero ancora invertito la rotta, di proseguire verso la missione essendo le unità nemiche avvistate ‘presumibilmente piroscafi’ <31.
Come provano queste ed altre timide operazioni, la Regia Marina nella battaglia per la Sicilia e in generale nel Mediterraneo, detto dal regime “mare nostrum”, non dimostrò molta voglia di affrontare il nemico.
A questo atteggiamento della Marina italiana ebbero un ruolo importante i servizi segreti britannici che con l’ULTRA, una sezione dello spionaggio britannico, erano riusciti a decodificare i messagi del comando supremo della Marina italiana e, quindi, aspettavano al varco i convogli o le navi italiane lungo la rotta mediterranea. I servizi inglesi, per non far capire al nemico che erano capaci di decodificare i messagi segreti della Marina italiana, attaccarono perfino navi italiane che avevano a bordo prigionieri britannici. Solo quando, le navi italiane dovevano, per ragioni eccezionali, cambiare la rotta indicata dal Comando supremo riuscivano a evitare l’attacco nemico <32.
In aggiunta al sofisticato sistema ULTRA, i servizi segreti britannici ebbero l’involontario aiuto “dalla leggerezza con cui gli italiani, e spesso anche i tedeschi, presero in considerazioni le norme di sicurezza; ciò che comunque non va imputato soltanto agli operatori radio” <33. Accadde infatti sovente che “gli inglesi poterono impadronirsi agevolmente di importanti documenti situati in sedi operative o addirittura su navi catturate e che i rispettivi comandi italiani non avevano provveduto a distruggere prima della resa o della ritirata” <34.
Per deficienza del controspionaggio italiano, la Marina italiana non ebbe un ruolo significativo nella lotta per la Sicilia. Infatti, il Gen. Quercia, parlando al Centro Alti Studi Militari, attribuì “all’insufficente collaborazione della Marina e anche della Aeronautica la brevità della resistenza vera e propria in Sicilia. Gli altri fattori sarebbero stati, sempre secondo il Quercia, l’alto e imprevedibile numero di sbandati, l’incapacità di sfruttare convenientemente il terreno per azioni di contenimento e la sfavorevole evoluzione degli avvenimenti politici” <35: qui, probabilmente, si riferisce all’arresto di Mussolini.
Pertanto la battaglia per la Sicilia si svolse tutta sul territorio con sporadiche partecipazioni dell’aviazione italiana e tedesca in assoluta minoranza rispetto a quella degli invasori. Molti aerei italiani furono distrutti o resi inoperosi mentre erano a terra durante i massicci e quasi continui bombardamenti degli aeroporti della Sicilia e dell’Italia meridionale, fin dove arrivava l’autonomia degli aerei delle forze Alleate. Per l’enorme numero di velivoli di ogni tipo che gli anglo-americani avevano a disposizione, il cielo era dominato dalla preponderante aviazione inglese e, soprattutto, statunitense. E non c’è dubbio che, come scrive Alberto Santoni, “l’avvilente soggezione ad un incontrastato e impunito predominio aeronavale nemico” abbia determinato nei reparti italiani un senso di impotenza e di inutile carneficina <36.
[NOTE]
18 M. Blumenson (in Sicily: Whose Victory? cit.) sostiene che la campagna in Sicilia era stata mal concepita dagli alti comandi Britannici.
19 F. M. Senger, and Etterlin: Combattere senza paura e senza speranza, op. cit., p. 251.
20 E. Costanzo, The Mafia and the Allies. Sicily 1943 and the return of the Mafia, New York: Enigma books, 2007, p. 2.
21 Carlo D’Este, Bitter Victory: The Battle for Sicily 1943, London: Collins, 1988, p. 516.
22 K. Ford, Assault on Sicily. Monty and Patton at War, cit., p. 247.
23 E. Verzera, Messina ’43, Messina: Edizioni G.B.M., 1976, p. 21.
24 U.S. Army in World War II: Sicily and the surrender of Italy, cit., p.
270. Un’analisi anglo-americana degli insediamenti strettamente militari della campagna siciliana si trova in P.R.O., fondo WO 204, cartella 445: Sicilian operation: Commander in Chief draft dispatches cartella 465: Sicilian campaign: comments and concurrences. I veri e propri rapporti operativi sulle varie fasi dell’operazione HUSKY dal 6 luglio al 22 agosto 1943, compresi quindi anche gli antefatti e le conseguenze, sono invece conservati nel fondo WO 204, cartella 4359: “HUSKY” orders e cartella 4321: Operation ‘Hushy’: situation reports.
25 A. Santoni, Le operazioni in Sicilia e in Calabria (luglio-settembre 1943), Stato Maggiore dell’Esercito, 2004, p. 404.
26 S. Attanasio, Sicilia senza Italia, luglio-agosto 1943, Milano: Mursia, 1976, p. 47.
27 Idem, p. 48.
28 A.U.S.E.[Archivio Ufficio Storico Esercito], cartella 1504/B: ‘Diario Storico del Comando Supremo’ teleg. del Comando Supremo n. 42183/op delle ore 18.05 del 3 agosto 1943 indirizzato a Supermarina.
29 A.U.S.E., cartella 1504/B: ‘Diario Storico del Comando Supremo’, giorno 1 agosto 1943/ La disponibilità di 58,100 tonnellate di nafta da parte della R. Marina alla data dell’8 settembre 1943 risulta da Ufficio Storico Marina: La Marina italiana nella seconda guerra mondiale, Vol. 1: Dati statistici, 2a edizione, Roma: 1972, p. 277. A titolo comparativo si ricorda che una corazzata faceva allora “il pieno” con un massimo di 4.000 tonnellate di nafta, un incrociatore con circa 1.500 tonnellate e un cacciatorpediniere con 500 tonnellate.
Tipo di unità in carico pronte
Corazzate 7 3
Incrociatori 13 6
Cacciatorpediniere ed esploratori 33 12
Cacciatorpediniere ex francesi 6 0
Torpediniere e corvette 70 30
Sommergibili 58 26
M.A.S. 48 23
Motosiluranti 35 12
V.A.S. 23 12
______________________ ________ _________
Totale 293 124
Cfr. Alberto Santoni, Le operazioni in Sicilia e in Calabria (luglio-agosto 1943), cit., p. 337.
30 Cfr. A. Quercia: Situazione difensiva della Sicilia alla vigilia dello sbarco anglo-americano, Roma: C.A.S.M., 1951-52.
31 Per un ottimo lavoro sul ruolo dello spionaggio Britannico nella guerra del Mediterraneo vedi Alberto Santoni: Il vero traditore: il ruolo documentato di Ultra nella Guerra del Mediterraneo, Milano: Mursia, 1981, p. 244. Incidentalmente si ricorda che proprio nella giornata del 6 agosto gli americani si impadronirono dell’isola di Ustica, catturando un centinaio di uomini di guarnigione e trovando sul posto oltre duecento reclusi tra reclusi comuni e reclusi politici. Crf. Taprel Dorling (alias Taffail): Mediterraneo occidentale 1942-1945, Roma: Ufficio Storico della Marina Militare,1953, pp. 110-111.
32 Idem, vedi Introduzione di Mariano Gabriele, p. 3: “Lo strumento della conoscenza fu usato in modo che in qualche caso perfino a fare attaccare navi che trasportavano prigionieri alleati. Prima di tutto, quindi, ci si preoccupò di difendere il segreto sull’attività di ULTRA nel Mediterraneo, un segreto così prezioso che per mantenerlo potevano essere accettabili sacrifici e rinunce”.
33 Cfr. ad esempio R. Lewin, Ultra Goes to War, Londra, 1978, p. 135.
34 A. Santoni, Il vero traditore, cit., p. 50.
35 A. Quercia, Situazione difensiva della Sicilia alla vigilia dello sbarco anglo-americano, Roma: C.A.S.M., 1951-52, citato da Alberto Santone, Le operazioni in Sicilia e in Calabria (luglio-settembre 1943), cit., p. 441, n. 4. 36 A. Santoni, Le operazioni in Sicilia e in Calabria (luglio-settembre 1943), cit., p. 403.
The Canadians in Italy (1939-1945), Lt.-Col. G. W. L. Nicholson, Vol. II The Canadians in Italy, 1943-1945, Maps drawn by Major C.C.J. Bond, tradotto da Angelo Principe, Published by Authority of the Minister of National Defence, Edmond Cloutier, C.M.G., O.A., D.S.P., Ottawa, 1956, qui ripreso da Rivista di Studi Italiani, Anno XXXIII, n. 1, Giugno 2015

sabato 27 novembre 2021

Quel periglioso raid aereo del 1949 a favore dei bimbi di Don Gnocchi

Nella foto (Moreschi) scattata nell’autunno del 1949 al Tennis Club di Sanremo (IM) appaiono al centro in seconda fila da sinistra Maner Lualdi ed il Conte Leonardo Bonzi, dietro un gruppo di amici, tra i quali l’attrice cinematografica Clara Calamai, la famosa interprete teatrale Laura Adani con il marito Visconti di Modrone ed altri personaggi locali - Archivio Moreschi

Leonardo Bonzi e Maner Lualdi erano stati i protagonisti di un volo senza scalo da Milano a Buenos Aires, organizzato a scopo benefico grazie a un’idea del beato don Carlo Gnocchi: i proventi, frutto della sensibilità degli italiani emigrati nel Sud America, furono infatti devoluti ai bimbi mutilati di guerra accolti proprio da don Gnocchi.
Il volo, battezzato dai giornali di tutto il mondo Angelo dei Bimbi, era stato realizzato il 6 gennaio del 1949, con un comune apparecchio da turismo equipaggiato con un motore Alfa Romeo 110 TER (derivato dall’Alfa 110 I bis) e pilotato da due persone note nel mondo milanese: Leonardo Bonzi e Maner Lualdi.  
L’apparecchio usato era un piccolo aereo Grifo-Ambrosini, un monoplano ad ala bassa con carrello non retrattile. Il motore costruito dall’Alfa Romeo aveva una potenza di 130 H.P., con velocità massima di 240 km/h. ed una velocità di crociera di 210 km. Per renderlo adatto al volo con temperature tropicali, fu dotato di un’elica metallica a passo variabile prodotta dall’Alfa. Inoltre, furono aggiunti serbatoi supplementari di benzina ed olio per consentire la completa autonomia necessaria per compiere le 26 ore di volo previste per portare a termine l’impresa. Per guadagnare in peso, il piccolo apparecchio fu privato anche della radio di bordo e i due piloti dovettero contare solo sulla loro abilità, sulla loro scrupolosa preparazione e sulla assoluta affidabilità del motore Alfa.


Il 12 marzo, Bonzi e Lualdi arrivarono a Buenos Aires dove furono accolti con grandi dimostrazioni di simpatia.
I comitati per la raccolta dei fondi, istituiti in tutte le città toccate nel percorso, ottennero un grande successo raggiungendo ampiamente lo scopo.
L’apparecchio fu poi lasciato alla nazione argentina con una solenne cerimonia come ricordo dell’impresa ma, purtroppo, non finì in un Museo come era stato previsto. Precipitò e andò distrutto causando la morte di due aviatori italo-argentini cui era stato affidato per un giro propagandistico nell’America centrale, nel mese di maggio del 1949.
Quella del 1949 è solo una delle tante imprese del conte Bonzi, nato nel 1902 e morto nel 1977. Con l’aereo sono da ricordare la traversata del deserto del Sahara nel 1935 (con un’unica sosta per il rifornimento) e il record, fatto registrare nel 1939, del più lungo volo senza scalo da Roma ad Addis Abeba.
Momenti che hanno segnato la storia dell’aviazione.  
In ambito sportivo, Bonzi s’è laureato quattro volte campione italiano di tennis ed è stato per un decennio nella squadra nazionale di Coppa Davis, giocando in palcoscenici quali Wimbledon e Roland Garros. Medaglie e coppe le ha conquistate anche nel tiro al volo, nel bob e nell’alpinismo.  
Innumerevoli anche le esperienze vissute come esploratore - è stato comandante di innumerevoli spedizioni - e poi come produttore di film e documentari: pure in quest’ultimo settore ha incassato premi in noti festival del cinema, vincendo anche il David di Donatello nel 1958.
 


Nel Museo dell’Alfa Romeo è esposta la perfetta replica dell’aereo.
 



Alfredo Moreschi

giovedì 25 novembre 2021

Quando Amado, Ramos e Lins do Rego arrivano in Italia


Negli anni in cui Amado, Ramos e Lins do Rego arrivano in Italia l’esigenza forte è quella di giungere fino alle masse popolari e, a livello editoriale, questo si manifesta in diverse proposte, come quella di Trevisani che, nel 1946, propone la creazione di una “Cooperativa editrice per il popolo” e di un “Centro librario popolare”, che avesse il compito di consigliare le pubblicazioni più importanti <449. La stessa attenzione costante per il lettore che anima Vittorini, come si può desumere non solo dalla creazione de Il Politecnico, ma anche della rubrica “La vostra biblioteca”, che aveva il compito di indicare periodicamente autori e titoli; nel suo programma erano previste anche inchieste su cosa si leggesse e su quello che si sarebbe voluto o potuto leggere <450. Nel 1945 esce anche Il calendario del popolo, sotto la direzione sempre di Trevisani, cui poi collaborerà anche Ambrogio Donini, al quale verrà affidata la direzione delle Edizioni di cultura sociale, nelle quali si presentavano traduzioni di testi marxisti, e la redazione del quotidiano antifascista La Voce degli Italiani. Donini, direttore delle case editrici Edizioni di cultura sociale e Edizioni Rinascita (poi confluite in Editori Riuniti), della collana “Universale economica” edita dalla COLIP (Cooperativa libro popolare) di Milano, della Fondazione Antonio Gramsci, nonché partecipante attivo al movimento dei “Partigiani della pace”, è un interlocutore attivo, con Amado e Puccini, nel dialogo che anima la possibile uscita delle opere in traduzione italiana del romanziere brasiliano, come si evince dalle lettere scambiate tra l’autore e il suo traduttore <451. Einaudi propone la “prima festa del libro dopo la Liberazione”; in occasione del Convegno dei Partigiani della pace a Roma infatti (cui partecipa anche Jorge Amado), negli uffici romani della Casa Editrice Einaudi viene aperta una mostra del libro democratico con la partecipazione delle seguenti case editrici: Edizioni Sociali, ed. Rinascita, ed. Milano-Sera, Universale Economica, ed. Cultura Nuova e, ovviamente, ed. Einaudi <452. Einaudi affianca inoltre al Politecnico-rivista la collana di libri “Il Politecnico-Biblioteca” (1946-1949) che ha lo scopo di approfondire le tematiche trattate nel giornale; le forze di sinistra, profondamente impegnate nel fornire tutti gli strumenti possibili per la diffusione dei classici del marxismo, quasi sconosciuti in Italia, possono essere viste, in questo momento, come il patronato cui fare riferimento per quanto riguarda l’introduzione della letteratura brasiliana del Nordest degli anni Trenta in traduzione italiana. Anche Mondadori però, editore più tradizionale, annuncia proprio su Il Politecnico (il 29 settembre 1945), la ripresa della propria attività editoriale “in clima democratico” con due nuove collane, Orientamenti e Il Ponte, attente a pubblicare “testi politici e sociali di autori italiani e stranieri che espongono ed interpretano le correnti e i moti ideologici del mondo contemporaneo, attraverso uno studio critico delle rivoluzioni e delle trasformazioni dei popoli” <453. Nel 1950 nasce la collana “Il bosco”, con cui la casa editrice “lega il suo nome ai maggiori autori contemporanei: Hemingway, Simenon, Sartre, Dos Passos, Ungaretti, Pratolini, Remarque, Montale, Buzzati, solo per citarne alcuni” <454. Proprio in questa collana, aperta, come si può vedere dalla lista di nomi appena riportata, ad altre culture, viene pubblicato, nel 1959, su licenza della Giulio Einaudi Editore, Jubiabá nella traduzione di Puccini e Califano. C’è un clima di fervore editoriale: "[a] Roma e Milano, non appena liberate, si moltiplicano le sigle, e la fioritura di piccoli editori sta a significare come la produzione di libri venisse considerata uno dei canali privilegiati per trasmettere il proprio fervore intellettuale e la volontà di comunicare esperienze e idee" <455.
Un evento decisivo per quanto riguarda la produzione della cultura negli anni in cui vengono pubblicate le prime traduzioni del corpus della presente ricerca sono le elezioni politiche del 1948 in Italia, vinte dalla Democrazia Cristiana, fatto che non può non avere conseguenze. Le forze che tanto avevano animato il dibattito negli anni del dopoguerra vengono inevitabilmente emarginate e possono contare sulle poche case editrici legate alla sinistra, mentre quelle più grandi tendono a rivolgersi nuovamente alla tradizione. In questa situazione si inserisce la letteratura regionalista nordestina, in una posizione non centrale, evidentemente, cosa che la obbliga a rimanere all’interno di modelli definiti e che tornano a consolidarsi. Sebbene si tratti, quindi, di letteratura ‘nuova’, che condivide molto con quella nata, nel paese in cui arriva, da un’esigenza di conoscenza e rinnovamento, deve rientrare in determinati schemi, non può essere introdotta in tutta la sua effettiva innovatività. Einaudi, nel 1948 “pensa di allargare il suo programma di pubblicazioni. Pubblicare un maggior numero di libri. Ma vuole restare su un alto livello, e nello stesso tempo, accrescere il proprio pubblico di lettori” <456, Rizzoli fonda la “BUR” l’anno successivo e, sempre nel 1949, nasce la “Universale” della Cooperativa del libro popolare, proposte, entrambe, che mirano a raggiungere un numero più ampio di lettori rendendo il prezzo più accessibile. Cadioli e Vigini parlano di “un’autentica rivoluzione” <457. Per quanto riguarda la COLIP, la collezione “Universale economica” si propone, come indicato nella presentazione della collana, "di promuovere e diffondere una più larga conoscenza della cultura in tutte le sue manifestazioni, in mezzo a un pubblico di lettori, i quali, perché lontani dalle città o dai centri di istruzione oppure perché non sono in grado, per ragioni economiche, di farsi una cultura veramente e organicamente moderna, non possono raggiungere facilmente il libro. La “Universale economica” si rivolge perciò in modo particolare a impiegati, studenti, operai contadini, artigiani e a tutti coloro che, avidi di conoscenza, sentono il bisogno di letture istruttive e dilettevoli". <458.
Proprio in questa collana, diretta, in quel momento, come già detto, da Donini, Amado vorrebbe pubblicare un adattamento di Vida de Prestes, insistendo sull’importanza dell’elemento politico nel libro, per il quale, evidentemente, individua come adeguata la casa editrice: "dal momento che si tratta di un libro politico e poiché, nel caso dell’edizione italiana, la cosa più importante è divulgare la figura di Prestes e il problema brasiliano, credo che si potrebbe fare (tu potresti fare) un ADATTAMENTO del libro per un’edizione di 50.000 nell’Universale Economica e studiare, per dopo, una traduzione (fatta da te o da qualcun altro) completa del libro, da pubblicare con un’altra casa editrice". <459.
Il clima è però mutato, l’effervescenza dell’immediato dopoguerra non porta alla realizzazione delle speranze nutrite di aprire il mondo della cultura a una parte più ampia della popolazione e molte piccole case editrici entrano in una situazione di sofferenza, mentre le consolidate tornano, come afferma Cadioli, a riproporre la "mai morta separazione tra «alta» cultura (il libro «di qualità» e «di impegno») e «bassa» cultura (i rotocalchi o i libri di evasione). La stessa BUR, che muoveva dall’intento di offrire testi di «qualità» a un livello «popolare», non usciva da un’impostazione ottocentesca, pubblicando solo classici, ma senza nessun aiuto collaterale (introduzioni, note) per il lettore non adeguatamente preparato". <460.
L’accenno ai paratesti è interessante, perché le due case editrici che si occupano della pubblicazione della traduzione italiana dei primi due romanzi del corpus, Edizioni di cultura sociale e Einaudi, ne inseriscono alcuni che possono, in effetti, essere d’aiuto al lettore, anche se in misura decisamente diversa: I banditi del porto contiene solo brevi notizie sull’autore nella seconda pagina e un’unica nota a piè di pagina, Jubiabá è invece corredata di un glossario alla fine del volume. Quando arriva la prima traduzione di Amado, Terre del finimondo, nel 1949, la fotografia del pubblico lettore italiano è la seguente: “[…] alla fine degli anni quaranta il mercato librario è ritornato ad essere quello tradizionale, legato ai gruppi intellettuali, ad una media borghesia colta, agli studenti universitari (che complessivamente erano in tutta Italia non più di duecentomila)” <461. La sinistra paga l’esclusione dal governo e la sconfitta del Fronte democratico popolare; a eccezione di Einaudi, che pubblica i Quaderni del carcere di Gramsci, le altre case editrici interessate a pubblicare opere che trattano argomenti che si staccano dalla tradizione sono legate al partito o a organizzazioni culturali a esso legate. È il caso delle prime pubblicazioni di traduzioni di Amado, I banditi del porto edito da Edizioni di cultura sociale (già direttamente legata al partito) che, nel 1953, si unisce a Edizioni Rinascita per dare vita a Editori Riuniti, sulla quale il PCI potrà interamente contare come propria casa editrice e che pubblicherà, nel 1958, Mare di morte (traduzione di Liliana Bonacini Seppilli). Gli Editori Riuniti “tentavano di sviluppare un programma orientato a una più organica diffusione della cultura marxista e, nello stesso tempo, proiettato verso obiettivi culturali e politici di più ampio respiro” <462. Stupisce il fatto che, negli anni della contestazione, non continui il rapporto tra la casa editrice e Amado, dal momento che “[f]u però con il ’68, con il grande sussulto giovanile, che si produsse un’enorme domanda di ideologia, una scoperta massiccia del marxismo” <463, le condizioni sono abbastanza simili a quelle in cui Edizioni di cultura sociale ha proposto lo scrittore al pubblico italiano, che continua a essere tradotto, ma adesso da altre case editrici. In realtà, però, c’è come un ‘buco’, dall’anno successivo all’ultima pubblicazione da parte di Editori Riuniti (Gabriella garofano e cannella, 1962) vale a dire dal 1963 al 1975 Amado non viene tradotto e anche nelle pagine dei giornali, in questo periodo, Amado praticamente non compare; l’assenza nel panorama editoriale verrà colmata a partire dal 1975 e i suoi romanzi rimarranno, sostanzialmente, di pertinenza di Garzanti, Mondadori ed Einaudi.
[NOTE]
449 Proposte avanzate nel corso del convegno intitolato “Per la cultura del popolo” al Castello Sforzesco di Milano. CADIOLI, A., L’industria del romanzo, op. cit., 1981, p. 16.
450 CADIOLI, A., L’industria del romanzo, op. cit., 1981, p. 15.
451 Amado lo cita nelle lettere del 13 e 19 gennaio 1950, da Dobríš. In ACGV, Firenze, Fondo Dario Puccini, Corrispondenza con Jorge Amado.
452 L’Unità, 26 ottobre 1949, p. 3, “Ospiti illustri nella nostra città”.
453 In Il Politecnico, a. I, 1945, n. I.
454 Disponibile in http://www.mondadori.it, accesso effettuato il 06 dicembre 2017.
455 CADIOLI, A. e VIGINI, G., Storia dell’editoria italiana. Milano: Editrice bibliografica, 2004, p. 89.
456 VITTORINI, E., Gli anni del «Politecnico». Lettere 1945-1951, op. cit., 1977, p. 174.
457 CADIOLI, A. e VIGINI, G., Storia dell’editoria italiana, op. cit., 2004, p. 94.
458 Ogni volume non superava inoltre le 200 pagine, costava 100 lire e aveva uno slogan: “Ogni settimana un libro. Una biblioteca in ogni casa”. Ibidem, pp. 95-96, nota 87.
459 “[C]omo se trata de um livro politico, e como, no caso da edição italiana, o interesse major é divulgar a figura de Prestes e o problema brasileiro, creio que se podia fazer (tú podias fazer) uma ADAPTAÇÃO do livro para uma edição de 50 mil na Universale Economica, e estudar-se para depois uma tradução (feita por ti ou por outro) completa do livro, para ser publicada noutra editora”, lettera del 19 gennaio 1950 da Dobříš. Con Donini Amado doveva già essere entrato in contatto se, nella lettera precedente, del 13 gennaio 1950, sempre da Dobříš, chiedeva: “Jà houve, da parte de Donini ou dos outros responsáveis, alguma decisão a respeito da ‘Vida de Prestes’?” (“è già stata presa, da parte di Donini o di altri responsabili, uma decisione sulla ‘Vita di Prestes’?”). In ACGV, Firenze, Fondo Dario Puccini, Corrispondenza con Jorge Amado.
460 CADIOLI, A., L’industria del romanzo, op. cit., 1981, p. 20.
461 CADIOLI, A. e VIGINI, G., Storia dell’editoria italiana, op. cit., 2004, p. 21. Si veda anche la pagina successiva, tabella 4. Per ulteriori dati sulle diverse appartenenze a classi sociali dei lettori negli anni in questione.
462 CADIOLI, A. e VIGINI, G., Storia dell’editoria italiana, op. cit., 2004, p. 103.
463 Catalogo generale degli Editori Riuniti 1953-1983., op. cit., 2009, pp. XV-XVI. La citazione è tratta dall’Introduzione di Roberto Bonchio, direttore delle Edizioni di cultura sociale, che ha fondato, nel 1953, gli Editori Riuniti, unendo la sua casa editrice alle Edizioni Rinascita di Valentino Gerratana. Si vedano anche le parole di Laterza su questo periodo: “[n]egli anni della contestazione i giovani hanno cercato nei libri le immagini dell’utopia, le parole della rivoluzione, insomma il Verbo”. In CROVI, R., L' immaginazione editoriale: personaggi e progetti dell'editoria italiana del secondo Novecento / Raffaele Crovi, in dialogo con Angelo Gaccione, op. cit., 2001, p. 126.
Alessandra Rondini, Per una traduzione di immagini. Il Nordest degli anni Trenta in Italia. Jorge Amado, Graciliano Ramos e José Lins Do Rego: il libro-archivio, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2019

martedì 23 novembre 2021

Il partito comunista trasmetteva per radio da Praga

Il ponte Carlo a Praga in uno scatto del 1957 / Mark Susina - Fonte: Lorenzo Berardi, art. cit. infra

[...] La Cecoslovacchia era diventata il rifugio di tutti quei partigiani comunisti che nel corso della guerra civile avevano accumulato qualche pendenza penale in Italia. Fu tra loro che vennero reclutati giornalisti e speakers. Nel 1949 il Pci di Togliatti e il suo corrispondente cecoslovacco (Ksc) di Novotny siglarono un accordo e nel 1950 la radio dei comunisti italiani cominciò a trasmettere notizie, commenti, attualità sull’Italia, in chiave, ovviamente, comunista. Tra i fondatori, Sandro Curzi, allora responsabile Stampa e Propaganda della direzione del Pci. Curzi, che era anche giornalista dell’organo del Pci, L’Unità (ne divenne poi caporedattore e infine direttore), aveva cura di rifornire la radio di agenzie e comunicati.
Com’è noto, Curzi entrò in Rai nel 1975 e diventò direttore del telegiornale di Rai3 (che i detrattori chiamavano «TeleKabul» quando l’Afghanistan era comunista e filosovietico). Un altro giornalista de «L’Unità» che forniva contenuti a Radio Oggi in Italia era Carlo Ripa di Meana. Quest’ultimo, a Praga, dirigeva la rivista World Student News, ma nel 1957, in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, lasciò il Pci e confluì nel Psi, di cui fu deputato. Dopo una parentesi nei Verdi, oggi è presidente di «Italia Nostra».
Radio Oggi in Italia era davvero efficiente, tanto da sollevare diverse proteste al parlamento italiano (a tutti gli effetti era una emittente clandestina). Realizzò anche alcuni scoop, come l’inizio dei fatti d’Ungheria, l’accordo tra Kennedy e Krushev sulla crisi dei missili a Cuba, il fallimento della «legge truffa» (così la chiamavano i comunisti, ma prevedeva solo un premio di maggioranza alle elezioni del 1953), tutte notizie con cui bruciò sul tempo la concorrenza. Iniziava le trasmissioni, inconfondibilmente, con l’«Inno dei lavoratori», cui seguiva l’«Inno di Garibaldi». Ma commise l’errore di essere troppo tenera con Dubcek e la sua «primavera di Praga», così che, paradossalmente, furono i sovietici a chiuderla nel 1968. Invadendo la Cecoslovacchia, i russi avevano occupato, tra le altre cose, Radio Praga, l’emittente statale. I redattori avevano cercato rifugio negli studi della collega italiana ma in poche ore fu occupata anche questa. E chiusa. L’invasione della Cecoslovacchia, diversamente da quella ungherese di dodici anni prima, non provocò alcuna emorragia di iscritti al Pci. Anzi, per i comunisti italiani il 1968 fu l’inizio di un decennio di successi in crescendo. Così come, vent’anni dopo, il crollo dell’Urss doveva portarli, paradossalmente, al premierato e alla presidenza della Repubblica. Della loro radio praghese non ci fu più bisogno.
Ora quella lontana storia è stata riportata alla luce da un libro e un dvd della regista Claudia Cipriani: La guerra delle onde. Storia di una radio che non c’era (www.laguerradelleonde.it), presentati al milanese Circolo della Stampa il 16 aprile u.s. insieme all’autore Niccolò Volpati. Nel documentario vengono intervistati i protagonisti ancora viventi di quella vicenda, tra cui Stella Amici, speaker di Radio Oggi in Italia dagli esordi alla fine. Suo marito era redattore nella stessa radio e ambedue si erano rifugiati in Cecoslovacchia con altri comunisti nel dopoguerra. Altro intervistato (oltre ai già citati Sandro Curzi e Carlo Ripa di Meana) è Aroldo Tolomelli, a suo tempo giovane dirigente del Pci. Nei disordini che seguirono al fallito attentato a Togliatti venne accusato di essere stato mandante di un omicidio e anche lui si rifugiò a Praga, dove diventò caporedattore a Radio Oggi in Italia. Tornato con la Amici quando le accuse decaddero (dal 1963), fu senatore del Pci. L’opera della Cipriani non è né critica né apologetica. E’ solo giornalismo. Utile per chi vuol saperne di più sulla storia dei comunisti italiani.
Rino Cammilleri, La radio del Pci che trasmetteva da Praga, La Nuova Bussola Quotidiana, 22 aprile 2014

La casa da dove trasmettevano le radio - Fonte: Andrea Lawendel, art. cit. infra

Sguardi altrove. Doveva essere puntato lì, altrove, il mio sguardo e ho stupidamente perso l'occasione di assistere, qui a Milano, sabato scorso, alla proiezione di un documentario su Radio Oggi in Italia, emittente clandestina che il Partito Comunista italiano gestì, da Praga, tra il 1950 e i 1968, con l'aiuto di un gruppo di transfughi italiani, ex partigiani, e altre personalità tra cui Sandro Curzi. Il documentario firmato da Claudia Cipriani, si intitola La guerra delle onde: storia di una radio che non c'era, e racconta attraverso testimonianze dirette, come quella dell'anunciatrice Stella Amici, i quasi vent'anni di operazione di una radio "alternativa" nel corso della Guerra Fredda. Un'esperienza che si concluse con la Primavera di Praga e la chiusura su decisione Sovietica, che forse preferivano controllare direttamente la propaganda attraverso Radio Praga ufficiale e certo non avevano gradito l'appoggio dei comunisti italiani alla politica di Dubcek. Il documentario di Claudia Cipriani era stato presentato a gennaio in occasione di Trieste Film Festival.
[...] Riporto qui una scheda sul documentario apparsa su Indymedia nei giorni del festival milanese (questa la locandina ufficiale del documentario) [n.d.r.: i collegamenti non sono più funzionali], segnalandovi però che di Radio Praga e Radio Oggi in Italia ha parlato esattamente un anno fa la rubrica dei TGR Estovest in due puntate, la prima delle quali è presente in archivio RAI. Purtroppo non ho trovato la seconda, ma sul sito della trasmissione si trovano alcune indicazioni. [Nota aggiunta il 4 giugno 2013: purtroppo sull'attuale sito Web della rubrica del TG3 EstOvest mancano proprio le due puntate del 1 e 8 marzo 2008 che parlavano di Radio Praga e di Oggi in Italia. Una coincidenza o un tentativo di rimuovere informazioni sgradite a qualcuno?]
    La guerra delle onde - storia di una radio che non c'era
    autore: Claudia Cipriani
    SINOSSI
Quando nel 1968 i sovietici invasero la Cecoslovacchia, occuparono, tra le altre cose, la sede di Radio Praga, la radio pubblica ceca. I suoi giornalisti trovarono rifugio e poterono trasmettere dagli studi di una piccola radio italiana comunista, “Radio Oggi in Italia”. “Oggi in Italia” era nata a Praga nel 1950 e trasmetteva in italiano notizie di attualità che riguardavano l’Italia, tutte con un’impostazione anti-governativa. Dato il tono pesantemente polemico, l’emittente attirò presto l’attenzione del governo democristiano italiano, cui la vittoria nelle elezioni del ’48 aveva permesso di controllare gli apparati dello Stato, inclusa la RAI, che per legge era l’unico gestore radiofonico. “Oggi in Italia” fu contrastata in quanto radio illegale, “lesiva per gli interessi del Paese”, come testimoniano le interpellanze parlamentari dell’epoca. L’idea di un programma radiofonico alternativo alla Rai ebbe origine all’interno del Partito Comunista Italiano, cui era negato l’accesso ai canali radio statali. Fu per questo che Oggi in Italia non trasmise dall’Italia, ma da Praga, dove nell’immediato dopoguerra erano espatriati molti ex-partigiani comunisti. Erano alcuni di loro a curare le trasmissioni radiofoniche, che rientravano in un accordo di collaborazione tra PCI e KSC (partito comunista cecoslovacco). Superata la fase artigianale degli esordi, la radio si perfezionò, allacciò rapporti privilegiati con la redazione dell’Unità che istituì per Oggi in Italia una sorta di agenzia di stampa, si caratterizzò per la tempestività dell’informazione e per la costante polemica con la RAI. Fu il primo organo d’informazione a dare notizia dei fatti di Ungheria nel 1956, anticipò la radio di stato nell’informare dell’accordo tra Kennedy a Krusciov sui missili di Cuba e diede per prima l’annuncio che la “Legge truffa” del ’53 non era scattata. In pochi anni acquisì grande popolarità (riuscendo anche a superare i 4 milioni di ascoltatori), divenendo una seria antagonista al monopolio dell’informazione Rai, in un’epoca in cui in Italia era dominante il conflitto tra PCI e DC e nel mondo imperava la guerra fredda. Osteggiata per vent’anni dal governo democristiano italiano, cessò di trasmettere per volontà dell’Unione Sovietica dopo l’invasione di Praga nel ’68 per aver palesato posizioni pro-Dubcek.
Protagonista del filmato è Stella, storica speaker di Oggi in Italia, presso i cui studi lavorò dagli esordi alla chiusura. Per la prima volta dopo tanti anni, Stella decide di tornare a Praga per andare a visitare gli archivi della radio e rivedere la balia che accudì sua figlia. Un viaggio nella memoria della radio, dell’Italia degli anni ’50 e del proprio percorso di vita. Un viaggio fatto di emozioni e di ferite ancora aperte. La descrizione di questo viaggio è intercalata da varie testimonianze, tra cui quelle di Sandro Curzi, Carlo Ripa di Meana e Aroldo Tolomelli, per quasi vent’anni caporedattore della radio. I loro interventi rispondono a domande chiave: perché si dovette fare a Praga questa radio? Perché i redattori erano esuli? Perché il governo italiano si accanì per chiuderla? Perché invece fu chiusa dai sovietici? Domande e risposte svelano a poco a poco la storia, stimolando la curiosità e tratteggiando sempre più marcatamente il quadro di una radio scomoda e di una storia sfaccettata.
[...]
Andrea Lawendel, Praga 1950-1968: il racconto di Radio Oggi in Italia, Radiopassioni, 14 marzo 2009

OGGI IN ITALIA fu una radio portavoce del Partito Comunista Italiano, che trasmise in lingua italiana dal 1950 al 1970 da Praga verso l´Italia. Rispetto ad altre radio di propaganda sovietiche (come ad esempio anche Radio Praga o Radio Mosca) le notizie non erano di carattere internazionale, ma erano esclusivamente indirizzate al territorio italiano.
Sull´etere si trasmetteva solo a certi orari della giornata, commentando i fatti del giorno, l´operato del Governo e dei politici, in un ottica di aperta critica.
La radio venne definita clandestina, per il fatto che le trasmissioni erano ascoltabili in tutta Italia su frequenze radio medie, ma di fatto non erano autorizzate alla trasmissione.
Tuttavia, trasmettendo dalla allora Cecoslovacchia, nessuno fu in grado di intervenire anche perché per moltissimi anni, non fu mai chiarito da dove trasmettesse questa radio (seppure, ad onor del vero, diverse interpellanze parlamentari parlarono di Praga, cosí come furono frequenti le critiche mosse dal Governo italiano verso la Cecoslovacchia).
La radio fu gestita quasi interamente da italiani trasferiti in Cecoslovacchia dal PCI nell´ambito di un accordo con il Partito Comunista Cecoslovacco, sotto placet del PCUS di Mosca.
Questi militanti di partito furono trasferiti a Praga prevalentemente per motivi politici, per evitare ritorsioni e anche al fine di evitare processi che furono avviati dalla giustizia italiana negli anni del dopoguerra – per fatti avvenuti nell´immediato dopoguerra, anni che furono turbolenti e pieni di tensioni sociali. Si parla di diverse centinaia di italiani che furono trasferiti in Cecoslovacchia a scopi di tutela e precauzione negli anni 50 e 60 dello scorso secolo.
In realtá, solo pochissime persone furono dedicate al progetto segreto OGGI IN ITALIA (Araldo Tolomelli fu il caporedattore, Stella Amici la speaker storica), e queste avevano precisi obblighi di non svelare la loro identitá (avevano nomi falsi) e nemmeno parlare della radio.
La radio, nei primi anni 50 iniziò a trasmettere dalla sede della Radio nazionale cecoslovacca - Československý Rozhlas, ma proprio per mantenerne comunque l´indipendenza, fu trasferita negli anni successivi nel quartiere di Nusle, a Praga 4, in una villa appositamente dedicata. Negli anni sessanta, le autoritá ceche continuarono a monitorare in maniera distratta l´attivitá di questa radio, poiché  non era effettivamente correlata alla realtá del paese, ma era focalizzata solo sull´Italia.
Collaborarono con la radio anche giornalisti italiani di sinistra di primissimo ordine, quali Curzi e Carlo Ripa di Meana ed in generale diversi professionisti dell´Unitá. Si trattó di un progetto unico nel suo genere, molto veloce nel trasmettere le informazioni (si dice che sia stata la prima radio al mondo a trasmettere l´informazione dell´invasione dell´Ungheria nel ´56) e commentare la realtá quotidiana italiana.
Per la storia Cecoslovacca, la radio OGGI IN ITALIA assunse un ruolo importante dopo l´invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia avvenuta il 21 agosto 1968. Queste, immediatamente occuparono la sede della radio Cecoslovacca a Praga 2, Vinohrady, e diversi giornalisti locali di rilevo  trovarono rifugio e possibilitá di trasmettere in maniera libera nei 12 giorni successivi, proprio dalla sede di Praga 4 di Nusle. Gli italiani presenti a Praga, erano solidali con i loro colleghi cecoslovacchi e apertamente si schierarono contro l´occupazione. Si tratto certamente del motivo principale che porto´ poi a terminare l´attivitá di questa radio nei primi mesi del 1970 quando in Cecoslovacchia inizió il periodo c.d. di “normalizzazione”.
Redazione, OGGI IN ITALIA - la radio clandestina che trasmetteva da Praga, Il blog su Praga e sulla Repubblica Ceca

C’era una volta una radio italiana in Cecoslovacchia. Si chiamava Oggi in Italia e per 21 anni trasmise fatti, opinioni, cronaca, musica e propaganda antidemocristiana dalla Praga socialista. Un'emittente che ufficialmente non è mai esistita e della quale, oggi, sembra essersi persa la memoria. Eppure, dal 1950 al 1971, questa stazione radiofonica fuorilegge sfidò il monopolio radiotelevisivo pubblico e raggiunse milioni di ascoltatori dal Piemonte alla Sicilia. Venne creata Oltrecortina con uno scopo ben preciso: diffondere la voce del Partito comunista italiano per combattere «le menzogne di Radio Roma», ossia la Rai.
[...] La radio trasmetteva sia su onde medie che su onde corte. Frequenze che raggiungevano tutta Italia, isole comprese, e sulle quali si potevano ascoltare una o due volte al giorno trasmissioni rivolte a un pubblico eterogeneo. I programmi iniziavano in genere alle 20:30, introdotti dal Va, pensiero di Giuseppe Verdi, e proseguivano fino a mezzanotte circa. Come riportato nelle trascrizioni originali, faceva eccezione la domenica, in cui già alle 12:45 andava in onda una «trasmissione per contadini» seguita da una rassegna sportiva, spesso sul campionato di calcio. Il palinsesto comprendeva notiziari, rassegne stampa, interviste, reportage radiofonici, rassegne parlamentari e persino innovative dirette non stop di avvenimenti italiani. Non mancavano contenuti più propagandistici quali un programma di «aneddoti sugli scandali democristiani» e trasmissioni di «denuncia del titismo» jugoslavo.
Tutto cominciò con 30 minuti sperimentali andati in onda nel dicembre 1950. Li curarono cinque redattori, ex partigiani comunisti divenuti esuli a Praga e senza esperienza radiofonica. Nel marzo del 1951 la radio aveva il suo primo palinsesto e nel 1954 dava lavoro a 12 persone. Cinque anni dopo, contava 19 fra redattori, sbobinatori e speaker con 16 addetti agli interni e tre agli esteri. Paola Oliva Bertelli, che ha lavorato per Oggi in Italia dal 1953 al 1960, ricorda nel suo libro Praga, radio clandestina come l’emittente del Pci non fosse un unicum nella capitale cecoslovacca. Dall’estate del 1954 al dicembre del 1955, infatti, ad essa si affiancò Ce Soir en France, radio del partito comunista transalpino e a sua volta indipendente dalle trasmissioni francesi di Radio Praga. Fu chiusa su pressioni dell’allora premier d’Oltralpe, Pierre Mendès-France, come condizione per la firma di una serie di accordi commerciali tra Francia e Cecoslovacchia. Un'azione netta mai intrapresa dai governi italiani dell’epoca che talvolta finsero di ignorare, per scelta politica, da dove trasmettesse Oggi in Italia. Né cercarono di coprirne il segnale, nonostante alcune interrogazioni parlamentari sul tema. Secondo lo storico britannico Philip Cooke, già nell’estate del 1951 il governo De Gasperi sapeva che la radio trasmetteva dalla Cecoslovacchia e inviò una lettera di protesta all’ambasciatore di Praga a Roma. Seguirono altri due timidi tentativi di bloccare le trasmissioni tramite i canali diplomatici, nel 1954 e nel 1958, entrambi senza successo.
Gli italiani approdati nella Praga comunista per fare radio erano giovanissimi, perlopiù ventenni. Molti provenivano dall’Emilia-Romagna anche se non mancavano lombardi, toscani e siciliani. Quasi tutti adoperavano nomi di fantasia e avevano documenti falsi: un diktat imposto loro dal Pci per tutelarne l’anonimato e, talvolta, la sicurezza personale. Su alcuni pendevano infatti accuse o condanne per crimini che avrebbero commesso in Italia durante e dopo la Resistenza, rendendoli a tutti gli effetti latitanti. Come svelava l’ex caporedattore Aroldo Tolomelli nel documentario La guerra delle onde «c'era un accordo fra il Partito comunista italiano e quello locale per avere una redazione composta da emigrati politici in Cecoslovacchia».
Un’intesa fra i leader dei due partiti, Palmiro Togliatti e Antonín Novotný, che non metteva al riparo i redattori dalla legge italiana nel caso in cui fossero rimpatriati. L’articolo 269 del codice penale, abrogato nel 2006, poteva inoltre ritenere quella svolta da Oggi in Italia attività anti-nazionale all’estero, punibile fino a cinque anni di reclusione. Nonostante la sua segretezza, l'emittente era ascoltata almeno quanto le trasmissioni italiane di Radio Praga. Delle circa mille lettere inviate ogni mese a quest’ultima dagli ascoltatori italiani a un fermo posta dell’allora Berlino Ovest, la metà era indirizzata a Oggi in Italia. Questa corrispondenza veniva ritirata da un agente di stanza a Berlino Est, il quale poi la mandava in Cecoslovacchia.
[...] Nei suoi 21 anni di storia, Oggi in Italia è stata capace di scoop giornalistici, anche grazie agli stretti rapporti con il Pci. Già nel 1960, il partito aveva creato un gruppo dedicato a procurare notizie per la propria radio: ne facevano parte cronisti de L'Unità e di Paese Sera e lo coordinava Sandro Curzi, in seguito direttore del Tg3 e di Liberazione. L'emittente poteva inoltre contare su una rete di corrispondenti europei, compresi improvvisati reporter dalle fabbriche di Fiat e Volkswagen e dalle miniere belghe. È grazie a loro che Oggi in Italia fu forse il primo organo d'informazione al mondo a dare notizia dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel ’56. E sei anni dopo la radio anticipò la Rai nel comunicare l’accordo fra John Fitzgerald Kennedy e Nikita Chruščëv sulla crisi missilistica di Cuba.
L’Unità era la prima fonte per Oggi in Italia. I redattori di Praga chiamavano Roma ogni giorno alle 16, come ricorda Stella Amici, storica speaker dell’emittente. Le notizie ricevute venivano battute a macchina, e poi lette ai microfoni. Prima del 1960, ricorda Paola Oliva Bertelli, «da Roma e da Milano le redazioni de L'Unità trasmettevano per telefono le notizie a redazioni delle radio di Berlino Est e di Budapest in lingua italiana (Radio Berlino Internazionale e Radio Kossuth-Budapest). Redattori italiani delle due emittenti governative di quei Paesi ci dettavano al telefono i testi che noi incidevamo». Tutto ciò che doveva andare in onda era controllato dal caporedattore. Chi commetteva un errore nel riportare una notizia, o si concedeva delle libertà nel commentarla, doveva poi fare autocritica nella successiva riunione di redazione.
[...] E fu proprio da qui che la Radio Praga Libera creata dai redattori cecoslovacchi rivolse i propri appelli alla popolazione. Le trasmissioni sarebbero durate una decina di giorni, prima che i sovietici scovassero il trasmettitore e le interrompessero. Come rivelato da Stella Amici in La guerra delle onde, nella villa in quel periodo «c’erano quelli che lavoravano a Oggi in Italia, quelli di Radio Praga italiana e quelli di Radio Praga ceca che lavoravano dal mattino alla sera. Perché la notte c’era il coprifuoco e uno o usciva prima che scattasse o stava lì sino al giorno dopo». [...]
Lorenzo Berardi, La radio cecoslovacca del Pci, Centrum Report, 22 gennaio 2019

Un sottile legame tra Simone Weil ed Elsa Morante


Un saggio di Elsa Morante può introdurre al tema di questo paragrafo [n.d.r.: di un lavoro incentrato sulla figura di Simone Weil]. Si tratta di un testo redatto per una conferenza, dal tono quasi insolente e ironico, lontano dal sublime immaginario di Menzogna e Sortilegio e L’isola di Arturo. Scritto tra il ’64 e il ’65, Pro e contro la bomba atomica si presenta a prima vista come un J’accuse contro l’irrealtà della vita contemporanea, soggiogata da un’“occulta tentazione” <105 al suicidio atomico e dall’abdicazione di ogni forma di esistenza eccetto quelle del progresso e di una società demente manovrata dai cortigiani del potere. Nel saggio, nato negli anni del pieno trionfo ideologico della classe media italiana, la Morante pone il problema del ruolo dello scrittore nella società, un uomo, al contrario del letterato, “a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura” <106. L’autrice si interroga su quale debba essere il compito dello scrittore in un periodo socialmente convulso, se egli possa o meno intervenire contro l’alienazione delle coscienze, contribuire ad arginare una drammatica perdita di realtà. Con piglio categorico e un’argomentazione dopo l’altra, Elsa Morante apostrofa i suoi contemporanei, deridendone gli imbrogli e la noia esistenziale, arrivando infine a sostenere la necessità di una “poesia onesta” come resistenza alla distruzione.
L’arte è il contrario della disintegrazione”, afferma la scrittrice all’inizio del saggio; anzi la sua funzione è proprio quella di “impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola, la realtà” <107. Poeta è allora colui che, come gli altri, non sfugge alle contraddizioni dell’esistenza, ai pesi e agli scontri che essa comporta, ma sa trasformarli in un’arte che rende conto della sostanza tragica della vita. Pur ridotto al nudo orrore dalla sventura, se saprà conservare integra la coscienza senza sprofondare nell’irrealtà e trasformare la consapevolezza dell’orrore in una risposta al destino, allora avrà saputo adempiere al suo compito. Poiché, si legge nell’ultima pagina del testo, qui si tratta pro o contro la bomba atomica! Contro la bomba atomica, non c’è che la realtà. E la realtà non ha bisogno di fabbricarsi un linguaggio: parla da sola. Perfino Cristo ha detto: Non preoccupatevi di quel che direte, e di come lo direte. È la realtà che dà vita alle parole, e non il contrario <108.
Nonostante la passione di queste pagine, secondo l’amico e critico Cesare Garboli esse rivelano uno spirito estraneo alla Morante, come se la scrittrice stesse cercando di adeguarsi a un modello di pensiero ed espressione che non apparteneva alla sua natura <109. Nella produzione letteraria di Elsa Morante dopo Pro e contro la bomba atomica Garboli vede agire l’influsso, qui già presente in nuce, di quello che lui chiama ““lavoro in oriente”, oppure ancora al posto di ghetto si parlava di “cambiamento di residenza” (Ivi, p. 93). Del resto, il termine usato dai nazisti per dire “gergo”, Sprachregelung, “significava quello che nel linguaggio comune si chiamerebbe ‘menzogna’” (Ibidem).” <110.
A un certo punto della sua vita infatti, la Morante aveva scoperto i Cahiers di Marsiglia e ne era diventata una frequentatrice vorace, come segnalano le note, i richiami e le fitte sottolineature della sua copia, ripercorsa pagina dopo pagina da Gabriella Fiori al fine di tracciare una mappa della lettura morantiana <111. Li divorò, letteralmente, ma non fu un’assimilazione facile. Il fatto è - ha osservato Garboli - che l’esperienza religiosa di Simone Weil era estranea a Elsa Morante: mentre ciò che la prima viveva come sopportazione di un vuoto lasciato libero per essere colmato dalla grazia, per la seconda si sarebbe risolto in pura negazione del suo attaccamento alla vita e dunque in un processo di autodistruzione sostenuto dal senso di colpa. Tuttavia per Giancarlo Gaeta è affrettato concludere che “la piega inaspettata che prese in lei, proprio negli anni del saggio Pro o contro la bomba atomica, il rapporto col proprio io” <112 sia da ricondurre a un “complesso Simone Weil”. Secondo lo studioso, si tratta piuttosto di un incontro “di due anomalie”, su un piano “che poco ha a che fare con la biografia e molto con il riconoscimento” <113.
Al di là delle discordanze critiche, mi pare che in queste considerazioni si senta risuonare chiaro il timbro di Simone Weil nella quale numerose altre scrittrici italiane del Novecento hanno trovato espressi per la prima volta e con limpidezza inaudita molti pensieri che andavano maturando autonomamente: si pensi a Cristina Campo, Anna Maria Ortese o Natalia Ginzburg <114. Ciò che, di fondo, accomuna queste autrici molto diverse è quella che si potrebbe chiamare una poetica dell’attenzione, intesa non in senso tecnico, ma come l’unione di uno sguardo costantemente rivolto al reale e di una lingua capace di renderne sensibili le differenti sfaccettature.
In un contesto come quello della Seconda guerra mondiale, sforzarsi di ridare pienezza e significato alle parole costituiva un atto di onestà intellettuale. Per rappresentare l’immane violenza dell’epoca e indicare alcune vie per la salvezza non bastava denunciarne la deriva immaginaria e la degradazione morale; urgeva guardare in faccia la Storia con le sue incontrollabili miserie e indecenze e allo stesso tempo trovare una modalità di espressione capace di rendere sensibili i problemi per quello che erano realmente. La capacità di Simone Weil di dire le cose come sono rappresenta una forma di resistenza a quel disfacimento, al dominio dell’irrealtà <115 di cui, anni dopo, nell’epoca irridente del post-moderno, sarebbe stata testimone anche Elsa Morante.
[NOTE]
105 E. MORANTE, Pro e contro la bomba atomica, in ID., Pro e contro la bomba atomica e altri scritti, con una prefazione di C. Garboli, Milano, Adelphi, 1987, p. 99.
106 Ivi, p. 97. Il corsivo è del testo.
107 Ivi, pp. 101-102.
108 Ivi, p. 117.
109 “Il punto debole, in questo saggio, sta proprio nella sua logica: inferiore, inadeguata rispetto alla complessità fantastica del grande amore di Elsa per la realtà (amore vulnerabile, ansioso, timoroso di perdere la fragilità del suo oggetto), e così consequenziale, così binaria da risultare astratta come un prontuario”. C. GARBOLI, Prefazione, ivi, p. XVIII.
110 Ivi, p. XIX.
111 G. FIORI, Elsa Morante, lectrice des Cahiers de Simone Weil, in “Cahiers Simone Weil”, tome XXXII, n.1, pp. 65-96.
112 C. GARBOLI, Prefazione, cit., p. XIX.
113 G. GAETA, Contro il dominio dell’irrealtà. Elsa Morante e Simone Weil
114 Sull’importanza di Simone Weil nel pensiero di Cristina Campo hanno scritto numerosi critici e amici dell’autrice italiana. Per fare solo qualche esempio si vedano i saggi di Margherita Pieracci Harwell: M. PIERACCI HARWELL, Cristina Campo e i due mondi, in C. CAMPO, Lettere a Mita, a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 1999, pp. 391-404; ID., Cristina Campo e Simone Weil, in “Humanitas”, Anno LVI, 3, giugno 2001, Morcelliana, Brescia, pp. 381-412; G. FIORI, «Non esiste poesia universale senza una precisa radice». La via religiosa di Cristina Campo, pp. 67-72, in (a cura di M. FARNETTI e G. FOZZER), Per Cristina Campo, Atti delle giornate di studio su Cristina Campo, Milano, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, 1998. Federica Negri ha scelto questo tema per la sua tesi di dottorato: cfr. F. NEGRI, La passione della purezza: Simone Weil e Cristina Campo, Padova, il Poligrafo, 2005. Per l’affinità del concetto di attenzione con Natalia Ginzburg si rimanda al bel contributo di Silvia Piccolotto: S. PICCOLOTTO, Lo splendore della realtà. Poetica dell’attenzione in Mai devi domandarmi e altri scritti di Natalia Ginzburg, in I. ADINOLFI, G. GAETA, A. LAVAGETTO (a cura di), L’anti-Babele. Sulla mistica degli antichi e dei moderni, cit., pp. 597-610.
115 Questa facoltà diviene ancora più rilevante se si tiene presente lo svuotamento di significato generale del momento storico descritto nelle pagine precedenti. In un contesto come quello della Seconda guerra mondiale, questo processo doveva degenerare in una deformazione di pensiero e linguaggio di cui danno esempio emblematico le parole d’ordine della guerra. Ne La banalità del male, Hannah Arendt mette in luce l’enorme utilità di un gergo specifico per i “depositari del segreto” dello sterminio al fine di mantenere l’equilibrio e l’ordine nei servizi in cui la collaborazione era essenziale. “I nazisti implicati nella ‘soluzione finale’ si rendevano ben conto di quello che facevano - osserva la filosofa tedesca -, ma la loro attività, ai loro occhi, non coincideva con l’idea tradizionale del ‘delitto’. Ed Eichmann, suggestionabile com’era dalle parole d’ordine e dalle frasi fatte, e insieme incapace di parlare il linguaggio comune, era naturalmente da questo punto di vista l’individuo ideale” (H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 94). In questa sistematica separazione di sé dalla verità della propria azione agì anche l’uso di un linguaggio specifico, per cui invece di “sterminio” o “uccisione” si dovevano usare termini come “soluzione finale” e “trattamento speciale”, invece di “deportazione” bisognava dire “trasferimento” o “lavoro in oriente”, oppure ancora al posto di ghetto si parlava di “cambiamento di residenza” (Ivi, p. 93). Del resto, il termine usato dai nazisti per dire “gergo”, Sprachregelung, “significava quello che nel linguaggio comune si chiamerebbe ‘menzogna’” (Ibidem).
Laura Fasani, “Così come l’acqua”. Forza, giustizia e bellezza nell’opera di Simone Weil (con particolare riferimento a Venezia salva), Tesi di Laurea Magistrale, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2016/2017

mercoledì 17 novembre 2021

Il Fascio di Londra nacque nel 1921 e contava circa mille emigrati


Questo intervento si inserisce nel solco delle esplorazioni storiografiche su aspetti diversi della diffusione o della ricezione del fascismo in Gran Bretagna. Si potrebbero citare gli studi di Roberta Suzzi Valli e di Claudia Baldoli che, guardando soprattutto alle politiche di massa del regime, hanno indagato sul sostegno di cui godeva Mussolini tra i membri della comunità di italiani radunati attorno al Fascio di Londra (e sul successivo allontanamento in prossimità dell’inizio dello scontro aperto tra Italia e Inghilterra del giugno del 1940). <3
Tra gli anni 1919 e 1922, l’ascesa al potere del leader fascista fu supportata non solo in patria, ma anche da parte di nazionalisti emigrati che avevano combattuto durante la prima guerra mondiale. Una conseguenza di questo stato di fatti fu la formazione, durante il biennio precedente alla marcia su Roma, di comunità di fascisti residenti all’estero, politicamente organizzati in Fasci italiani all’estero (Fasci). <4
Dal 1923 al 1927 i Fasci furono posti sotto l’egida del Partito Nazionale Fascista (PNF), passando dal 1928 fino al loro definitivo declino nel 1943 sotto quello del Ministero degli Affari Esteri (MAE). <5
Secondo nella formazione solo a quello di Lugano, in Svizzera, il Fascio di Londra nacque nel 1921 e contava circa mille emigrati. Dal XIX secolo gli italiani che vivevano nella capitale britannica erano in prevalenza impegnati nei settori della ristorazione e della vendita al dettaglio di gelati. Tra i loro profili impiegatizi va ricordato anche quello dell’asfaltatore; una figura che era sempre più richiesta in una metropoli in costante sviluppo. Tuttavia, durante gli anni Trenta, aumentò il numero di coloro che avevano un’attività commerciale propria, spesso nel campo della ristorazione o in quello alberghiero. <6
L’interesse per la propaganda in Gran Bretagna durante il ventennio va connesso da un lato all’attenzione del governo verso i Fasci nel paese, con particolare riguardo a quello londinese (come è stato messo in evidenza soprattutto da Baldoli); dall’altro, alla più ampia focalizzazione sul caso britannico e sugli orientamenti simpatetici nei confronti dell’Italia fascista rintracciati, da parte di studiosi come Aldo Berselli e Richard Bosworth, nel mondo dei conservatori inglesi e della stampa periodica locale. <7
Intersecando preesistenti filoni di indagine, questo articolo offre un contributo originale per il discorso della propaganda fascista d’oltremanica. Per conseguire tale risultato si concentra su quella d’élite, analizzando la diffusione della lingua italiana e la sua ricezione e strumentalizzazione politica all’interno dei poli universitari e di altri settori del mondo dell’alta cultura inglese. <8 Metodologicamente, questa ricerca fa leva sullo studio di una corposa e composita documentazione archivistica, proveniente soprattutto dal TNA di Londra, dall’ASMAE e, talvolta, dall’Archivio Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice (AFUS).
Utilizzando i risultati dedotti dall’analisi di queste fonti primarie e focalizzandosi sugli anni tra le due guerre, il presente contributo individua nelle cattedre, nei lettorati e nei dipartimenti di italianistica (noti come Italian Studies) un terreno utilizzato in ambito di propaganda da parte del fascismo ripercorrendone le più significative caratteristiche emerse in relazione al Regno Unito.
Simultaneamente, l’articolo esplora da un lato alcune delle dinamiche e dei protagonisti della propaganda; dall’altro, ne osserva sia l’organizzazione, gli obiettivi e il funzionamento che gli effettivi risultati conseguiti di fronte all’intellighenzia britannica.
Le strategie della propaganda
Alcuni documenti del TNA hanno consentito di osservare che, in un arco cronologico compreso tra l’inizio degli anni Venti e la metà dei Trenta, il Ministero degli Affari Esteri inglese (Foreign Office, FO) affrontò la necessità di accrescere e potenziare la propria azione di propagall’estero. Al centro dell’interesse dell’FO si poneva la strategica diffusione oltre i confini del Regno Unito della lingua e della cultura inglese (ovvero quelle iniziative esplicitamente definite dallo stesso come “propaganda culturale”). <9 Nel riflettere sulla propria posizione, l’FO improntò un confronto con le analoghe politiche intraprese dal resto dei principali paesi stranieri e si impegnò nella raccolta dettagliata di ogni informazione sull’attenzione da essi riservata nel favorire i rispettivi espansionismi culturali. Intorno alla metà degli anni Trenta, non sfuggì al ministero inglese l’attivismo nel settore manifestato dal governo fascista italiano, del quale evidenziò l’incremento in termini di sussidi investiti durante i bienni 1931–32 e 1933–34 rispetto a quelli del 1930. <10 Ulteriori registri dell’ASMAE hanno ampiamente confermato l’impegno
economico del fascismo in questo ambito. Ciò è dimostrato dal sovvenzionamento da Roma delle somme destinate alla vita degli Italian Studies in diverse città del Regno Unito. A Dublino, Bristol e Leeds, per esempio, tali sovvenzionamenti sfociarono nella fondazione ex novo di lettorati impegnati in tale soggetto di studio. <11 L’intervento economico era finalizzato a sopperire alla mancanza temporanea di fondi messi a disposizione dagli atenei locali ospitanti e ad assicurare continuità e normale svolgimento all’insegnamento dell’italianistica. Lo studio dei documenti del MAE conservati alla Farnesina, a Roma (presso la sede dell’attuale Ministero degli Esteri), indica con chiarezza che la forma di organizzazione istituzionale prevalente fu la lectureship.
Ciononostante, ci furono anche casi di chairs. Specificamente, tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra, c’erano cattedre di italiano alla University College London (UCL), Oxford, Cambridge e Birmingham (si tratta di cattedre che erano attive anche durante il periodo della dittatura in Italia). <12 Durante i primi anni Trenta, non mancarono neppure departments in cui lo studio dell’italiano si poneva come complementare a quello di altre lingue europee. Ciò si verificò a Cardiff dove, dal 1933, fu abbinato a quello del francese e della filologia romanza. <13
[...] Un altro elemento chiave della valenza propagandistica della diffusione dell’italiano in Gran Bretagna, è la fornitura di libri su temi politici fascisti per le sezioni italiane di biblioteche d’ateneo. Un significativo esempio proviene dalle università di Liverpool e Manchester e fu promosso attraverso l’invio da Roma di plichi di volumi sugli aspetti politici dell’Italia sui quali il governo intendeva insistere con una maggiore forza. <34 Sappiamo dagli elenchi di queste opere, conservati nel fondo AS, che nel 1937 furono fatte pervenire al Consolato di Liverpool, affinché fossero poi “smistate” in entrambi gli atenei, oltre duecentoventi pubblicazioni. I libri inviati per queste due università consentono di delineare i principali temi attorno ai quali fu orientata la propaganda durante la seconda metà degli anni Trenta. L’indice in cui furono elencati è attraversato da tre principali linee tematiche: la valorizzazione della campagna imperiale, lo Stato Corporativo e la figura di Benito Mussolini che, come avveniva in Italia durante la dittatura e nelle linee di propaganda indirizzate agli emigrati, veniva presentato con connotazioni che assunsero quelle di un vero e proprio “culto” e “mito.” <35
L’enfatizzazione della figura del dittatore in Gran Bretagna fu realizzata da un lato proponendo una (sin dal titolo ossimorica) "Storia di umili titani", dall’altro valorizzando le abilità nel combattimento di Mussolini aviatore. <36
La campagna imperiale venne spesso presentata in maniera istrionica, come dimostra il titolo di un volume fornito: "La guerra equatoriale". <37
Il tema della conquista dell’Impero non venne proposto solo attraverso la fornitura di libri (in lingua italiana o in traduzione), ma anche per mezzo di quello di materiale periodico: furono ben venti le copie del numero de Il Popolo d’Italia intitolato e dedicato all’Italia imperiale che, dalla volta della capitale, raggiunsero nel 1937 il Consolato di Liverpool. <38
Non meno lampante fu il peso attribuito allo Stato Corporativo, sul quale insistevano opere che si spostavano da riflessioni sviluppate dallo stesso duce su La Carta del Lavoro e su Lo Stato Corporativo, al suo resoconto de Le Corporazioni nel primo anno della loro applicazione. <39
I documenti dell’ASMAE indicano che la focalizzazione sul mondo dell’alta cultura inglese va motivata in buona parte dalla concezione della lingua italiana diffusa negli ambienti scolastici britannici.
[...] Al fianco di James Barnes, un altro sostenitore dell’Italia del ventennio legato ai settori dell’alta cultura inglese fu il direttore del BRI Harold Elsdale Goad. Due files ritrovati nel fondo War Office (WO) del TNA indicano che Goad aveva combattuto durante la prima guerra mondiale. <60 In particolare, nel febbraio del 1917, era stato nominato ufficiale di collegamento (liaison office) tra l’esercito italiano e quello inglese, per conto del quale aveva guadagnato il grado di capitano. <61 Fu probabilmente in seguito a questa esperienza che Goad iniziò a sviluppare sentimenti nazionalisti italiani che, con l’ascesa al potere di Mussolini e più compiutamente con lo sviluppo del corporativismo in Italia e della politica espansionistica del fascismo in Africa Orientale, si trasformarono in un più ampio supporto politico. <62 Goad faceva parte del centro di studi corporativisti legato al Royal Institute of International Affairs, che contava tra i suoi membri anche Barnes. <63 All’interno di questo circolo è possibile ascrivere la pubblicazione, durante il biennio 1931–33, di due opere che esaltavano il sistema corporativo, proponendone al contempo una trasposizione in Gran Bretagna: The Making of the Corporate State e The Working of a Corporate State. <64
Come è stato evidenziato da Dorril, questa personalità fu un importante punto di contatto tra l’Italia e il fascismo in Inghilterra. Tale collegamento fu reso possibile dalla collaborazione con i fascisti italiani a partire dal 1923, all’epoca in cui l’istituto elesse a propria la prestigiosa sede di Palazzo Antinori. <65
Baldoli ha documentato che molti ammiratori inglesi del corporativismo, tra cui Currey, Petrie e lo stesso Goad, appoggiarono la causa italiana lungo il corso della seconda metà degli anni Trenta, supportando le spinte per la proclamazione dell’Impero nel 1936. <66
L’analisi dei documenti rinvenuti a Londra ha permesso di dimostrare che il sostegno di Goad si fosse protratto fino agli anni Trenta. Infatti, una comunicazione inviata dall’Ambasciata britannica a Roma a Charles Bridge del British Council informa che la sua posizione divenne particolarmente scomoda agli occhi dei membri della colonia inglese di Firenze durante il biennio 1937–38.67 La difesa di Goad per l’annessione dell’Abissinia e per il suo riconoscimento nel seno della Società delle Nazioni rendeva intollerabili agli occhi degli inglesi residenti in Italia le aperte simpatie pro-italiane del direttore, che stavano mettendo a repentaglio la vera natura dell’istituto, conferendogli un’impronta troppo marcatamente filoitaliana. <68 Questo stato di fatti ha trovato conferma in una lettera inviata da Janet Trevelyan della British Italian League al medesimo Bridge, che rimarca esplicitamente il ruolo di propagandista svolo dal direttore del BRI nei confronti del regime, il suo sostegno dell’imperialismo fascista e la conseguente diffusione di un profondo malcontento tra i membri della colonia britannica all’altezza cronologica del 1938. <69
Altre fonti del TNA da me identificate indicano che il British Council, congiuntamente all’Ambasciata britannica a Roma e all’FO, era a conoscenza delle posizioni politiche di Goad e delle sue posizioni filoitaliane. <70 Tuttavia, molto probabilmente la sua presenza in Italia fu tollerata fino allo scoppio della guerra nel 1939 al fine di garantire stabilità al BRI dopo le sanzioni, alle quali si era accompagnato lo sviluppo di una violenta propaganda anti-British in Italia. <71
È indicativa di questa tendenza la discussa (ma alfine approvata) decisione dell’FO di consentire a Goad di essere intervistato dalla BBC sulla politica di Mussolini dei mesi gennaio-marzo 1938, relativa all’efficienza nazionale e alle libertà individuali. <72 Ciò doveva avvenire in una serie di conversazioni, non rintracciabile tra i records archivistici della stessa BBC, che si intitolava National Efficiency and Individual Liberty. <73
Come avvenne per Barnes, l’attrazione verso l’universalità del fascismo fu un tassello chiave anche per lo sviluppo in Inghilterra di idee che, pur mostrando istanze nazionaliste proitaliane, non è possibile ricollegare a un atteggiamento di sostegno politico. <74
Ciò risulta ben evidente dall’investigazione di un altro intellettuale britannico: Edmund Garratt Gardner. Tra il 1936 e il 1937, i suoi biografi furono concordi nel mettere in rilievo l’innamoramento di Gardner per l’Italia, duplicemente intesa come cultura e come nazione, e nel segnalare questa inclinazione come determinante per lo sviluppo di idee politiche filofasciste. <75
Ciononostante, il punto di vista dei contemporanei va ridimensionato e non ha, difatti, trovato riscontro tra le fonti del tempo.
Invece, a conferma dei suoi sentimenti nazionalisti, è stato possibile dedurre dalla bibliografia secondaria che Gardner fu coinvolto nell’originario programma gestionale del CINEF con sede a Londra. Nello specifico, Cuzzi ha documentato che il dantista fu contemplato all’interno del comitato del CINEF in seguito al suggerimento di un rinomato propagandista di Mussolini, Luigi Villari, a Hermann De Vries de Heekelingen. <76 Nel proporre il suo nome, Villari definì Gardner come una “personalità eminente nel mondo degli studi, realmente amico dell’Italia ed entusiasta del fascismo, che ha sempre difeso vigorosamente,” ma allo stesso tempo specificò che si tenne sempre lontano dalla vita politica. <77 La mancanza della sua esposizione risulta indirettamente comprovata anche da un testo dell’epoca, in cui si mette in rilievo che il supposto fervore di Gardner nei confronti dell’Italia contemporanea si esplicò soltanto per mezzo della sua attività accademica. <78
La propaganda fascista riuscì a raggiungere più compattamente i circoli cattolici in Gran Bretagna. Si trattò, tuttavia, in questo caso, di risultati solo parziali. Il loro sostegno non raggiunse mai il livello di un’esplicita adesione politica. Si cristallizzò, piuttosto, in posizioni italofile. È stato possibile individuare questo atteggiamento in primo luogo per l’impossibilità di definire delle tendenze ideologiche dichiaratamente fasciste, ma anche per la mancanza di un contributo offerto al regime in forma pubblica. All’interno di questi ambienti furono dati alle stampe dei volumi. Tuttavia, questi testi tesero, più che a esaltare il ruolo politico di Mussolini, a elogiare la Chiesa dell’epoca, con particolare riguardo alla figura del pontefice Pio XI. <79
L’avvicinamento tra cattolici inglesi e fascismo trovò il suo più fertile terreno d’incontro all’interno di motivazioni di matrice spirituale e dalla conseguente convergenza di credenze religiose comuni. Una particolare eco fu giocata dalla stipula dei Patti Lateranensi del 1929.
Egidio Crivellin ha messo in rilievo che i Patti del Laterano garantirono a Mussolini le simpatie di diverse cerchie legate al cattolicesimo di estrazione internazionale. <80 Secondo l’interpretazione dell’opinione pubblica cattolica straniera, la Conciliazione tra Stato laico e Santa Sede in Italia aveva segnato il trionfo di interessi più di natura religioso-spirituale che giuridico-temporale. Peraltro, l’agognato accordo si era presentato non soltanto in maniera “inaspettata, ma anche sotto la forma meno prevedibile, per mezzo di un accordo diretto tra le parti.” <81
La visione sviluppata all’estero nei confronti di questo evento storico, quasi rifletteva con fedeltà il pensiero del Vaticano, che veniva trasmesso e propagato per mezzo di giornali del calibro de L’osservatore romano e riviste rilevanti come La civiltà cattolica. <82
Pertanto, la benevolenza nei confronti del fascismo che si diffuse in Gran Bretagna non va considerata come un fenomeno a sé stante. Al contrario, va inquadrata all’interno di un ampio e generale apprezzamento della politica ecclesiastica italiana della fine degli anni Venti.
[NOTE]
3 Roberta Suzzi Valli, “Il Fascio italiano a Londra. L’attività politica di Camillo Pellizzi,” Storia Contemporanea 26, no. 6 (1995); Claudia Baldoli, Exporting Fascism. Italian Fascists and Britain’s Italians in the 1930s (Oxford: Berg, 2003).
4 Si veda sui Fasci almeno Emilio Gentile, “La politica estera del partito fascista. Ideologia e organizzazione dei Fasci italiani all’estero,” Storia contemporanea 26, n. 6 (1995); Nicola Labanca, “Politica e propaganda. Emigrazione e Fasci all’estero,” in Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza: politica estera, 1922-39 (Firenze: La Nuova Italia, 2000); Emilio Franzina e Matteo Sanfilippo (a cura di), Il fascismo e gli emigrati: la parabola dei Fasci italiani all’estero 1920–43 (Bari: Laterza, 2003); e Luca De Caprariis, “I Fasci italiani all’estero,” in Ibid.
5 Si vedano Gentile, “La politica estera del partito fascista,” 897-906 e 949-53; De Caprariis, “I Fasci italiani all’estero,” 3–25; e Labanca, “Politica e propaganda,” 142–52.
6 Si vedano Suzzi Valli, “Il Fascio italiano a Londra,” 957-59; introduzione a Baldoli, Exporting Fascism della stessa autrice, 1; Lucio Sponza, Italian Immigrants in Nineteenth Century Britain. Realities and Images (Leicester: Leicester University Press, 1988), 36–115; e Alessandro Forte, La Londra degli italiani. Dai Penny Ice alla City. Due secoli di emigrazione (Roma: Aliberti, 2012), 31–104.
7 Si vedano per il secondo orientamento storiografico indicato Richard Bosworth, “The British Press, the Conservatives, and Mussolini: 1920–34,” Journal of Contemporary History 5, no. 2 (1970) e Aldo Berselli, L’opinione pubblica inglese e l’avvento del fascismo 1919–25 (Milano: Angeli, 1971). Ulteriori riflessioni di Baldoli sulla parabola dei Fasci nel Regno Unito sono in Claudia Baldoli, “I Fasci in Gran Bretagna,” in Il fascismo e gli emigrati, 53–76.
8 Sulla centralità della diffusione universitaria della lingua e della cultura italiana oltremanica si vedano Tamara Colacicco, “Strade e volti della propaganda estera fascista: la diffusione dell’italiano in Gran Bretagna, 1921–40,” (Ph.D. dissertation, University of Reading, 2015) e Id., “L’emigrazione intellettuale italiana in Inghilterra: i docenti universitari di italianistica tra fascismo e antifascismo, 1921–39,” The Italianist 35, no. 1 (2015).
9 “Correspondence and Relative Papers Respecting Cultural Propaganda,” in TNA, FO 431/1, vol. I (1919 to 1935), “Memorandum on Facilities Provided by Other Countries for Foreign Students and Other Relevant Matters,” n. 5, [P 474/63/150]: 16–18.
10 “Memorandum on Facilities Provided by Other Countries for Foreign Students and Other Relevant Matters,” in TNA, FO 431/1: 16.
11 Si veda per l’istituzione di questi tre lettorati “Memorandum on Facilities Provided by Other Countries for Foreign Students and Other Relevant Matters.” A Bristol l’insegnamento dell’italiano era stato presente dalla fine
dell’Ottocento, ma fu poi sospeso a partire dal 1928, fino a quando sarà nuovamente inserito grazie al fascismo, sopravvivendo fino al 1934. Così testimoniano i documenti in ASMAE, AS 1929–35, b. 851 e “Relazione sui Lettorati d’italiano dipendenti dal R. Consolato in Cardiff,” in ASMAE, AS 1929–35, b. 858, f. Cardiff Università: Affari generali, 1933–36. Si veda per Leeds (dove il Lettorato di Italianistica fu istituito nel 1933 e sopravvisse fino all’entrata in guerra dell’Italia fascista), ASMAE, AS 1929–35, b. 851, f. Università Leeds, Dr Ungaro Adriano, 1932–33 e ASMAE, AS 1925–45, b. 36, II versamento. Si sottintende ora e sempre per questa b. di AS 1925–45, f. Leeds, Università, Lettorato, 1937–38 (l’ultimo f. citato comprende anche documenti del biennio 1939–40).
12 Si veda Éric Vincent, “Lo sviluppo degli studi italiani in Gran Bretagna durante il ‘900,” in Inghilterra e Italia nel 900. Atti del convegno di Bagni di Lucca: ottobre 1972 (Firenze: La Nuova Italia, 1973), 64.
13 Si veda ASMAE, AS 1925–45, b. 36, f. Cardiff: Università, Lettorato, Technical College, Corsi di italiano, 1937-38 per la forma dipartimentale adottata in questa città del Galles e l’abbinamento dell’italiano al francese e alla letteratura romanza.
34 Rulli al Consolato di Liverpool, tele espresso 843566 del 3 novembre 1937 con oggetto “Invio libri per i Corsi di Lingua e Letteratura italiana,” in ASMAE, AS 1925–45, b.36, f. Liverpool, Università, Lettorato, Corsi lingua, 1937–38.
35 Si veda almeno The Cult of the Duce. Mussolini and the Italians, a cura di Christopher Duggan, Stephen Gundle e Giuliana Pieri (Manchester: Manchester University Press, 2014), 27–224. Per l’enfatizzazione del “mito” di Mussolini tra gli emigrati si veda Pretelli, Il fascismo e gli emigrati, 61–5.
36 Si vedano Lorenzo Viani, Storie di umili titani (s.e.: Roma, 1934) e Guido Mattioli, Mussolini aviatore (Milano: Mondadori, 1942). L’indicazione dell’invio di questi volumi è in Rulli al Consolato di Liverpool, 3 novembre 1937.
37 Si veda Achille Benedetti, La guerra equatoriale con l’armata del maresciallo Graziani (Milano: Obertan Zucchi, 1937) menzionata nel documento cit. alla nota precedente come le opere segnalate alla nota n. 38.
38 Rulli al Consolato di Liverpool, 3 novembre 1937.
39 Si vedano Benito Mussolini, Lo Stato Corporativo (Firenze: Vallecchi, 1936) e Id., Le Corporazioni nel primo anno, pubblicazione a cura della Confederazione fascista dei Lavoratori dell’Industria (Roma: s. e., 1936). Le pubblicazioni sulla Carta del Lavoro inviate a Liverpool furono molteplici. Si potrebbe qui citare, sempre a firma del dittatore, Quattro discorsi sullo Stato Corporativo: con un’appendice contenente la Carta del Lavoro, i principali testi legislativi e alcuni cenni sull’ordinamento sindacale e corporativo (Roma: Laboremus, 1935).
60 TNA, WO 372/8/39350, War Office: Service Medal and Award Roll Index, First War World. Gibson A. Hannas J.M.M. Medal Card of Goad, Harold Elsdale. Corp Regiment No Rank Interpreter General Staff and Special List Captain e WO 339/59462, War Office, Officers’ Services, First World War, Long Number Papers (numerical). Officers Services (Including Civilian Dependants and Military Staff Appointments: Long Service Papers. Captain Harold Goad, General List).
61 Si veda “Casualty Form–Active Service” di Captain Harold God in Ibid.
62 Per le posizioni politiche di Goad nel 1923 si veda Dorril, Black Shirt, 199.
63 Ibid., 233–34.
64 Le opere a cui si fa riferimento sono le già citate Goad, The Making of the Corporate State e The Working of a Corporate State, quest’ultimo scritto con Muriel Currey.
66 Baldoli, Exporting Fascism, 102 e 180.
67 Si veda la comunicazione del 19 novembre 1937 a senza nome (s. n.) ma, come si evince dalla carta intestata dall’Ambasciata britannica a Roma, inviata da non identificabili personalità legate alla stessa Ambasciata a Charles Bridge (alla fine del documento dall’aggiunta di una nota autografa nel testo dattiloscritto, compare come destinatario anche il nome di Sir William McClure). Il documento è in TNA, BW 40/3, British Council: Registered Files, Italy. British Institute, Florence, 1937–38.
68 Ibid.
69 Si veda Trevelyan a Bridge, 16 gennaio 1938.
70 L’allusione è a TNA, BW 40/3, British Council: Registered Files, Italy. British Institute, Florence, 1937–38.
71 Sulla propaganda anti-inglese nell’Italia fascista si vedano Denis Mack Smith, “Anti–British Propaganda in Fascist Italy,” in Inghilterra e Italia nel ‘900, 87–117 e Baldoli, Exporting Fascism, 68–80.
72 Sul coinvolgimento di Goad in questa iniziativa della BBC si vedano almeno Bridge a Arthur Yenken (dall’Ambasciata britannica), 2 novembre 1937, in TNA, BW 40/3, British Council: Registered Files, Italy. British Institute, Florence, 1937-38; stesso emittente a Reginald Leeper (dal British Council), comunicazione del 4 ottobre 1937 e “Private and Confidential,” invito di R. Machonochie (BBC, nome di battesimo non identificabile) a Goad il 24 settembre 1937, entrambi in TNA, BW 40/3.
73 Si veda per il titolo della serie Bridge a Leeper, 4 ottobre 1937, in Ibid. Mi sto occupando, nel mio progetto postdoc intitolato British Cultural Diplomacy in Fascist Italy from Harold Goad to Ian Greenlees, 1922–46, di sondare ulteriormente le modalità attraverso cui Goad esplicò il suo sostegno politico all’Italia fascista e le sue collaborazioni con intellettuali e propagandisti sia inglesi che italiani. Una parte di questa ricerca punta ad arricchire le nostre odierne conoscenze sulla sua ideologia e sulla sua attività anche nell’anno successivo alla rimozione della direzione del BRI (una volta cioè, che nel 1940, l’Italia entrò in guerra contro la Gran Bretagna).
74 Si vedano Cesare Foligno, Edmund Garratt Gardner. From the Proceedings of the British Academy (Londra: Humphrey Milford, 1936), 4 e 13 e Mary Monica Gardner e Camillo Pellizzi, Edmund Garratt Gardner: 12 May 1869–27 July 1935. A Bibliography of His Publications, With Appreciations by C.J. Sisson and C. Foligno (Londra: Dent & Sons, 1937).
75 Cfr. Foligno, Edmund Garratt Gardner, 4 e 13–4; Pellizzi e Gardner, Edmund Garratt Gardner, 7.
76 Cuzzi, Antieuropa, 64.
77 Ibid.
78 Pellizzi e Gardner, Edmund Garratt Gardner, 7.
79 Tra questi volumi si vedano almeno Philip Hughes, Pope Pius the Eleventh; Lord Clonmore, Pope Pio XI and World Peace e Benedict Williamson, The Story of Pope Pius XI (Londra: Alexander–Ouseley, 1931). Per avere un’idea dell’ampia circolazione dell’opinione su Pio XI si consideri Wilkinson Sherren, Pope Pius XI for Children. A Biography (Londra: Burns, Oates & Co, 1936), che propone una diffusione pedagogica didattica congegnata per un pubblico di bambini.
80 Sul sostegno al fascismo a partire dai Patti Lateranensi, si vedano Enciclopedia Bompiani, 845 e Egidio Walter Crivellin, Cattolici francesi e fascismo italiano. La Vie Intellectuelle, 1928–39 (Milano: Angeli, 1984), 31.
81 Crivellin, Cattolici francesi e fascismo italiano, 31.
82 Ibid.
Tamara Colacicco, Il fascismo e gli Italian Studies in Gran Bretagna. Le strategie e i risultati della propaganda (1921-40), California Italian studies Volume 6, issue 2 (2016)  

Camillo Pellizzi e il fascismo in Gran Bretagna
Uno dei maggiori esempi di «fiduciari» nonché «pionieri» della diplomazia culturale fascista, potrebbe essere Camillo Pellizzi. La sua rilevante popolarità presso gli ambienti culturali e accademici britannici, il notevole rapporto di confidenza con gli organi diplomatici locali nonché la sua attività diretta presso la Dante di Londra e l’Istituto di Cultura Italiano della capitale britannica, stanno a dimostrarlo.
Già all’inizio degli anni venti, infatti, Pellizzi risultava amico di Janet Trevelyan, moglie del noto storico britannico George Macaulay Trevelyan.
Entrambi i coniugi appartenevano alla British-Italian League, un’associazione che annoverava tra i suoi iscritti personaggi come il visconte Burnham, Harry Levy-Lawson, Edmund Gardner, nonché Antonio Cippico e lo stesso Camillo Pellizzi. L’ente, fondato nel 1916 da George Trevelyan, era nato per migliorare i rapporti di amicizia tra l’Italia e il Regno Unito nel corso della Prima guerra mondiale. Soprattutto grazie a questi contatti, Pellizzi veniva spesso invitato a tenere conferenze presso diversi istituti culturali britannici, dalle associazioni come la Conservative Women’s Reform Association alle diverse sedi delle università inglesi come la Birmingham University. Qui Pellizzi poteva veicolare il «verbo» mussoliniano attraverso la cultura italiana e, nel contempo, migliorare i rapporti tra Italia e Gran Bretagna anche al di fuori dei canali diplomatici tradizionali.
Il processo di fascistizzazione della sda di Londra, invece, fu lungo e accidentato. Cominciò tra il 1921 e il 1922, ma si concluse a ridosso del 1929. In base agli studi di Tamara Colacicco e Roberta Suzzi Valli, la sua fondazione ufficiale risalirebbe al 1912 (Suzzi Valli, 1995, pp. 959-60). Il primo presidente onorario fu Antonio Cippico, un politico e intellettuale molto noto nel panorama culturale britannico. Intorno al 1919, tra i soci comparivano ancora personaggi autorevoli come Ernesto Nathan (in rappresentanza della lidu, Lega Italiana per i diritti umani), il già citato Cippico e la contessa Martinengo Cesaresco.
Il fascio di Londra, invece, era nato nel 1921 per iniziativa di Achille Bettini (Suzzi Valli, 1995, pp. 961-63).
Stando agli scritti di Pellizzi, però, nel 1925 il fascismo non risultava ancora popolare in Gran Bretagna. Esistevano poche informazioni ma le origini «plebee» di Mussolini sarebbero state potenzialmente utili per renderlo noto anche all’estero.
Dopo la Marcia su Roma, l’attenzione nei confronti del fascismo crebbe, soprattutto in quegli ambienti conservatori, liberali e laburisti particolarmente preoccupati a causa della presunta minaccia bolscevica di ispirazione sovietica (Pellizzi, 1925, pp. 170-71).
Il primo ministro britannico, Stanley Baldwin, aveva apprezzato l’ascesa al potere di Mussolini, ma si dimostrava ostile nei confronti dei gruppi fascisti locali come i British Fascists creati dalla signora Linton-Orman nel 1923 (Cuzzi, 2006, p. 22).
Il gruppo, così come i cosiddetti «British Fascisti» (bf), cavalcava l’onda dell’antisocialismo e, a seconda dei punti di vista, esso poteva essere considerato come un esempio di nazionalismo radicale oppure come il potenziale inizio del declino da un regime conservatore (ma liberale) a uno dispotico.
Sebbene non vi fossero chiari riferimenti alla xenofobia e al razzismo, serpeggiavano tra le maglie del gruppo i germi dell’antisemitismo basati sulla teoria della cospirazione.
Camillo Pellizzi scrisse che, nel 1925 i British Fascisti erano circa 150.000 membri, tra cui ex-soldati, ex-ufficiali, giovani di ambo i sessi provenienti dalla media e dall’alta borghesia (Pellizzi, 1925, pp. 170-71).
Li considerava, altresì, come un’imitazione scadente del fascismo italiano e, dunque, inadatti a un futuro progetto di fascismo internazionale (Cuzzi, 2006, pp. 30-33).
Diverso, invece, appariva il movimento di Oswald Mosley, ossia il British Union of Fascists (buf). Secondo gli studi di Salvatore Garau, infatti, l’organizzazione risultava divisa, al suo interno, tra sostenitori della linea fascista (all’italiana) e la crescente interpretazione nazionalsocialista di marca tedesca (Cuzzi, 2006, pp. 30-33).
Dopotutto, nemmeno l’ambiente intellettuale britannico era completamente immune dall’interesse nei confronti del fascismo italiano. Luigi Villari, ad esempio, definiva Edmund Garratt Gardner (storico e italianista) come un buon amico dell’Italia e del fascismo (Cuzzi, 2006, p. 64).
Inoltre, dal 1929, lo stesso Camillo Pellizzi, che aveva ottimi rapporti proprio con Gardner, risultava attivo anche presso l’Istituto di Cultura Italiana di Londra (Collotti, 2000, pp. 152-62).
Successivamente, nel corso degli anni trenta, Pellizzi si mise alla guida della sda di Londra, diventando così «ambasciatore» della cultura italiana all’estero. Pellizzi ebbe probabilmente il merito di sanare o, comunque, di neutralizzare alcuni tra i vari conflitti nati all’interno dell’ambiente diplomatico e culturale italiano. La sda di Londra, grazie all’intermediazione di Pellizzi, tornò a essere un efficace strumento di diffusione della cosiddetta «italianità» in Gran Bretagna. La sua nuova immagine si discostava dal grezzo e aggressivo squadrismo tipico dei fie e si inseriva, abbastanza agevolmente, in diversi ambienti accademici pur non prescidendo dalle direttive del regime.
Lo scenario, tuttavia, cambiò sensibilmente a partire dal 1935 a causa della guerra d’Etiopia e delle conseguenti sanzioni. Il rapporto italo-britannico, incrinatosi per motivi di carattere politico, peggiorò anche in termini culturali. Sino a quel momento, infatti, la sede centrale della sda aveva elargito al comitato di Londra la somma cospicua di 25.000 lire annue. Ma quando fu evidente che ogni risorsa economica sarebbe stata investita nella crescente propaganda antibritannica, il finanziamento destinato al comitato londinese venne sospeso. Un simile provvedimento, tuttavia, non trovava piena giustificazione nella mancanza di fondi a causa dello sforzo bellico, bensì nella precisa intenzione di boicottare la Gran Bretagna anche dal punto di vista culturale. Infatti, quando nel giugno del 1936 Galeazzo Ciano divenne ministro degli esteri, favorì la nascita di nuovi enti culturali all’estero incrementando notevolmente gli stanziamenti economici in loro favore (Medici, 2009, p. 20) [...]
Fabio Ferrarini (Università degli Studi di Milano), Il «peccato originale» della diplomazia culturale italiana (1889-1943), Altreitalie luglio-dicembre 2017

Nell'imponente palazzo all'angolo di Trafalgar Square che fu la sede del Partito fascista italiano in Inghilterra è stata inaugurata la mostra organizzata dall'Anpi di Londra “Mussolini's Folly, farsa e tragedia nella Little Italy” che documenta la nascita di un ambizioso e stravagante passo del regime fascista nel cuore della capitale inglese, a dieci minuti a piedi da Downing Street.
La mostra parte dal 1921 quando venne fondato il “fascio primogenito all'estero” nella capitale inglese e racconta la storia della Little Italy nel Regno Unito durante il Ventennio controllata da un ben organizzato partito fascista che aveva annesso scuole, centri sociali e sindacati tra la comunità italiana impiantando oltre una dozzina di sedi in città attraverso il Regno Unito, incluse Cardiff, Manchester, Liverpool, Glasgow, Belfast e Edimburgo. C'erano un Campo Mussolini nel Kent e manifestazioni col saluto fascista nello stadio di Edgware a Londra in presenza di personalità come Edda Ciano e Guglielmo Marconi.
“Tra gli oltre 700 fasci all'estero, quello di Londra era ritenuto il più importante dal regime” spiega Alfio Bernabei, giornalista e autore che ha curato la mostra, “fu nel 1936 che sotto la spinta dell'allora ambasciatore a Londra, Dino Grandi, venne firmato il contratto d'affitto del palazzo pagato con soldi venuti da Roma e fondi raccolti tra i ventimila italiani che formavano la Little Italy.” [...]
Redazione, Mostra Anpi a Londra: “Mussolini's Folly, farsa e tragedia nella Little Italy”, ANPI, 27 novembre 2015