[...] Il 26 luglio 1943 Pertini, Jacometti e Spinelli sono nella terrazza prossima a piazza Castello che domina sul mare; «Devono essere le 7 e un quarto o le 7 e 20 quando vediamo il repubblicano Buleghin venire verso di noi tutto affannato e gesticolante. Buleghin è un po’ il gazzettino di Ventotene, il gazzettino serio e controllato […] Il suo viso è rosso. Prima ancora di esserci vicino, alza le due mani all’altezza della fronte e dice: Mussolini è caduto, c’è un governo Badoglio, … Incapace di star fermo, se ne va a portare altrove la notizia formidabile». In paese, tutti a trastullarsi a fare ciò che sino al giorno avanti era proibito. «Entrano nei caffè e vi si siedono, domandano un mazzo e giocano a carte». Una mattinata di gioia infantile. «Nelle mense, cuochi e sotto cuochi si affaccendano intorno a piramidali paste asciutte»…I confinati di Ventotene andranno via a scaglioni.
Nella Resistenza (1943-1945)
Con Pertini Alberto Jacometti sbarca sul continente, ma mentre quest’ultimo si dirige a Roma per partecipare alla riunione di
ricostituzione del PSI [95] la sua scelta di rientrare a Novara per riabbracciare dopo diciassette anni (tranne una breve visita a Bruxelles prima della guerra) la madre e la moglie che con la piccola Mirella che si era ricongiunte alla sua famiglia [96], rinunziando in quell’occasione al ruolo di primo piano a livello nazionale cui poteva aspirare, indica che per lui la dimensione politica era essenziale ma non al punto da anteporla agli affetti familiari, e probabilmente anche per il suo carattere schivo e più propenso ad operare in ambito locale.
“Ero arrivato a Milano per il ferragosto… da Ventotene, il treno si era fermato a Lambrate. La città non aveva più né tranvai né tassì. Mi avevano detto che dalla stazione Centrale non partiva più alcun treno…[che] avrei forse potuto trovare alle Ferrovie Nord, dall’altra parte di Milano….fu così che dopo alcune ore, sudato, grondante, slegato in ogni articolazione, raggiunsi le Ferrovie Nord …. Tolti i tre mesi di carcere, eran quasi diciassette anni che vi mancavo” [97].
Incominciò con i vecchi compagni ritrovati, Porzio, Ranza, Camillo Pasquali, con i nuovi venuti, a ricostruire il Partito: si trattava di legare le prime maglie, di trovare cioè un punto d’appoggio in ogni paese, qualcuno che si assumesse l’incarico d’avvicinare i simpatizzanti e di radunarli per un primo incontro con l’incaricato della città. L’ostacolo più grosso era proprio il trovare la cerniera, il perno. “Porzio Giovanola faceva appello alla sua memoria: ci doveva essere ancora il vecchio… Ma che cosa aveva fatto durante il ventennio il vecchio? come si era comportato? aveva resistito? aveva piegato? domande che restavano troppo spesso senza risposta. Il meglio era d’andare a vedere. Ci andavo: in poco più di venti giorni riuscimmo a mettere insieme il nocciolo di quaranta sezioni. A Romagnano m’incontrai, per la prima volta, con
Giancarlo Pajetta. Non lo conoscevo e sapevo ben poco di lui. Fu del resto il frutto di un errore. Avevo avvertito Mosconi, un vecchio fabbro ferraio, di promuovere la riunione e l’uomo s’era dato da fare. Il giorno convenuto una decina di persone erano riunite in una sua camera sopra la bottega e fra queste un giovane magro, dall’aria sofferente e dagli occhi vividi. Mosconi non m’aveva avvertito di nulla. Tenni la riunione, dissi le cose che dicevo un po’ dappertutto e attesi. Fu allora che mi si avvertì che per errore o mala interpretazione della mia richiesta, erano stati invitati oltre che i socialisti anche i comunisti. Niente di male. Pajetta si scusò. Non c’era di che.” [98]
L’8 settembre lo colse a Oleggio, dove la moglie era sfollata con la bambina: “L’indomani di primo mattino ero a Novara nello studio dell’avvocato Porzio. Nei quarantacinque giorni si erano costituiti i comitati dei cinque partiti e quella mattina nel suo studio convennero i delegati. La situazione si era andata schiarendo: ai tedeschi occorreva resistere. Come e con chi? Con l’esercito in primo luogo, c’era da sperarlo e poi con gli operai. Eravamo, noi socialisti, i meglio rappresentati, ma c’erano anche i democristiani, i liberali, gli azionisti. I comunisti avevano inviato due giovanetti ventenni. C’era nell’aria un’atmosfera di dramma e nei convenuti una buona dose di apprensione……Si prospettava la necessità di prendere contatto con il generale Sorrentino, comandante della divisione di Novara….Fu deciso di procedere immediatamente all’arruolamento di tutti coloro che non si sarebbero accontentati di stare con le mani in mano e di aprire, all’uopo, tre centri di reclutamento….(…)… Fu inoltre deciso di mandare, senza perder tempo, una diecina di noi all’uscita degli operai del mezzogiorno, a parlare davanti alle fabbriche…..Ci dirigemmo verso le officine che si trovano tutte alla periferia della città. Le strade erano percorse da un’agitazione occulta: gruppetti di persone si fermavano sui marciapiedi, davanti ai negozi, confabulavano un istante e si scioglievano per raggrupparsi di nuovo qualche diecina di metri più in là. La stessa agitazione di un alveare minacciato. Buon segno, buon segno. Sarebbe bastato dare un orientamento e la commozione si sarebbe incanalata e avrebbe fatto nodo e ariete. M’era toccato il settore di S. Agabio, il più fortemente industriale di Novara. M’era compagno il più giovane dei due comunisti, un ragazzo di diciottenni appena, biondo, esile, dalla dolce espressione femminea. Si chiamava Gaspare Pajetta. Era parente di Giancarlo? Sì, era fratello. Morì pochi mesi più tardi, a Megolo, a lato e insieme con Filippo Beltrami … e Antonio Di Dio. Non so come, ci procurammo un tavolino e ci mettemmo davanti alla Montecatini; la giornata era buona, soleggiata; piccole nubi bianche vagavano neghittosamente nel ciclo. Quando gli operai, chi in bicicletta, chi a piedi, incominciarono a uscire come la prima acqua di una chiusa che stia per cedere, salimmo in piedi sul tavolino. Gli operai ci guardavano: qualcuno si fermava, un po’ più lontano. I quarantacinque giorni badogliani erano stati, in certa guisa, un periodo di transizione, una specie di convalescenza dopo una lunga malattia. Non ci conoscevano, gli operai, a quel tempo, Pajetta perché troppo giovane, io, dopo diciassette anni di assenza. Facemmo cenni d’invito e un cerchio si fermò, sottile dapprima, via via più folto e compatto. Seguivano le nostre parole con la testa un poco protesa e le palpebre calate a mezzo. Dovevano essere parole nuove, fabbricate di fresco, che appunto perché nuove e fabbricate di fresco, penetravano con difficoltà, di difficile assimilazione. Alla fine, tuttavia, si sollevò, un po’ timido, un applauso. Ma nel pomeriggio non entrarono in fabbrica e incominciarono ad affluire, a diecine, a quei centri di arruolamento: la sera, se n’erano iscritti alcune centinaia. Verso sera arrivò una notizia disastrosa: Sorrentino che aveva nicchiato tutta la giornata fra il sì e il no, rifiutava le armi. A questa se ne aggiunse subito un’altra; l’arrivo dei tedeschi era previsto per l’indomani 10 settembre. Fu deciso di ordinare a tutti coloro che già s’erano arruolati o che intendevano farlo, di raggiungere Arona in bicicletta. Partimmo verso le otto del mattino a gruppetti di otto o di dieci.. Verso le tre eravamo ad Arona, una cinquantina [ma] per quanto ci dessimo d’attorno, non fu possibile trovare un albergo che ricoverasse tutta quella gente; andammo quindi a Meina, a tre chilometri più in su, sulla riva del lago… Quanto poi all’andare in montagna facevamo i conti senza l’oste: le notizie di quella mattina, erano catastrofiche: a Milano il generale Ruggiero aveva, anche lui, rifiutato di consegnare le armi, preferendo consegnarle ai tedeschi, piuttosto che al popolo italiano…..Così finiva la nostra avventura, appena incominciata o almeno finiva provvisoriamente. Non avevamo, a quel momento, alcuna base, alcuna idea concreta, alcun modo di provvedere al sostentamento e all’armamento di quaranta o cinquanta uomini. Li chiamammo e li avvertimmo che da quel momento ognuno di noi riprendeva la propria libertà d’azione. Io, insieme con Rognoni e con Porzio, mi recai a Macugnaga, sul fondo della Vallanzasca, ai piedi del Rosa, ad attendere gli avvenimenti….Ma la sorpresa maggiore fu l’altra, fu quella che ci toccò l’indomani 13 verso il mezzodì. S’udì una voce: «Arrivano i tedeschi! arrivano i tedeschi!» e, di dietro la chiesa, vedemmo, sullo stradale, due macchinoni mimetizzati sovraccarichi di soldataglia nazista….anche a Macugnaga arrivavano i tedeschi e quarantott’ore appena dopo essersi messi in moto: salute e complimenti! Fu così che il giorno dopo 14, ritornai al piano. E fu così che l’indomani, 15, la Resistenza pubblicava, a Novara, il suo primo foglietto alla macchia; era firmato: Matteotti.”[99]
Assunto il nome di battaglia di «Andrea», il 20 settembre con Carlo Torelli per i democristiani e Carlo Leonardi [100] per il PCI fondò il Comitato di Liberazione nazionale della provincia di Novara, in cui fu delegato socialista fino alla Liberazione [101]. Tra la fine del ’43 e gli inizi del ’44 vennero costituiti i primi gruppi armati guidati da
Moscatelli e
Beltrami. In questo periodo si occupò anche di pubblicare il foglio clandestino 'Bandiera rossa'.
La lotta armata lo vide partecipe attivo sin dal primo momento, nonostante i rischi[102]: "Il giorno dopo di Natale [1943]…eravamo da Moscatelli, il 2 gennaio da Filippo Beltrami. In gennaio arrestarono Alfredo Di Dio e parve che dovesse essere fucilato da un momento all’altro; scapparono Porzio Giovanola e l’avvocato Torelli".
Il 26 gennaio 1944, con gli altri due membri del CLN provinciale, Torelli e Leonardi, l’avvocato Ugo Porzio e due ufficiali del comando garibaldino, partecipa alla riunione a Campello Monti, presso la formazione autonoma “Brigata patrioti Valstrona” comandata da Filippo Berltrami [103] in previsione di un attacco; la riunione, che vede pareri discordi, si scioglie all’annuncio di un concentramento di forze nazifasciste all’imbocco della valle e i partecipanti riescono a filtrare a stnto attraverso i posti di blocco; il 13 febbraio si svolse la battaglia di Megolo con la morte di Beltrami e di Antonio Di Dio [104].
In marzo il Comitato di Liberazione si frantumava per la terza volta. "Il 6 aprile, mentre c’era ancora nell’aria l’eco delle scariche del Martinetto, arrestarono Carletto Leonardi. Ci eravamo incontrati il mattino in un boschetto nei pressi di Cavaglio; lo portarono a Mauthausen di dove non fece ritorno. A Roasio ne impiccarono una dozzina, con l’uncino, come maiali. A Borgoticino ne fucilarono tredici, in piazza, con tutta la popolazione presente, tredici indicati nel mucchio, poi appiccarono il fuoco alle case. A Fondotoce ne fucilarono quarantadue, il quarantatreesimo essendo rimasto incòlume sotto i cadaveri. A Vignale, ai sette, fra cui due fratelli, fecero prima scavare la fossa… A Ghemme…Erano litanie che non finivano mai".
In settembre il Comitato di Liberazione fu rifatto per la quarta volta. Il 7 settembre 1944 con Fornara partecipa ad Alzo all’inconto con i comandanti e commissari garibadini Gastone “Ciro”, Moscatelli “Cino” e Coppo “Pippo”, e con De Marchi “Justus” della Valdossola ed Enrico Massara della Valtoce, e dalla riunione esce un accordo per la costituzione di un comando unico e una spinta alla liberazione dell’Ossola. “[A novembre] arrestarono Piero Fornara. Per mesi, ogni giorno che capitavo a Novara, mi recavo da lui, prima nel suo studio, poi in un gabinetto della Casa di Cura o all’Ambulatorio di Pediatria e li incontravo gli amici e raccoglievo le informazioni. L’arresto di Piero Fornara mi
lasciava cieco e privo di mani. Che fare? ….Fu un inverno terribile. La neve veniva giù senza sosta e assediava i partigiani sui monti. Per recarmi da Oleggio a Novara in bicicletta (17 chilometri) impiegavo più di due ore, arando la neve come il vomere dell’aratro la terra. La fortuna m’aveva preso per mano e non mi abbandonava ancora, una fortuna sfacciata. La cospirazione s’impara e s’intesse come una rete, ma per prudente, cauto, circospetto che sia, c’è sempre una maglia che sfugge e si rompe; la fortuna soltanto può riprenderla e fare il rammendo. Fu lei a tirarmi fuori il 26 gennaio dalla Valstrona, sotto il muso dei tedeschi, fu lei a frastornare l’attenzione delle guardie repubblichine di Borgoticino nel punto in cui passavo carico di stampa clandestina, fu lei a suggerirmi la via per uscire dalla stazione di Novara bloccata. Poi venne la primavera. Il comizio del 26 aprile riconsacrava la città e apriva le vie dell’avvenire. C’era la folla occhiuta e dalla bocca enorme, dalla quale passavano i tuoni; la folla del formicaio, indistinta, quella ch’era stata l’anima del sottosuolo, tremebonda e intrepida, vigliacca ed eroica; la folla che aveva tremato e sperato, che aveva arretrato come un’acqua davanti alla frana e poi, come un’acqua con i suoi mille tentacoli, con i suoi allacciamenti mortali, s’era infiltrata dappertutto, anonima, cieca, incosciente, scacciando i topi e gli scarafaggi. I suoi evviva eran boati. Era una folla che si assolveva e si acclamava, una folla che fugava con quel suo rombare, le paure pesanti, le esitazioni, che staccava l’ombra da sé per non essere che crosta e spigoli e roccia. La vittoria era sua.”[105] [...]
[NOTE][95] Alla riunione (23-25 agosto in casa di Oreste Lizzadri) erano presenti Nenni, Romita, Vassalli, Basso, Buozzi, Pertini, Lizzadri, Basso, Luzzatto, Vecchietti, Zagari, ecc. (con Bonfatini, Acciartini, Andreoni e Ogliaro provenienti dal Piemonte)[96] A. Jacometti. Mia madre, cit.[97] Ibid.[98] L’episodio è ricordato anche da Pajetta in “Ragazzo rosso”, Milano, 1983.[99] A.Jacometti, Il filo d’Arianna, cit. . Mentre PCI e Pd’A fecero della resistenza armata l’obiettivo prioritario, i socialisti fino alla primavera del ’44 sottovalutarono l’importanza dell’organizzazione militare di partito. La formazione delle “Matteotti” fu possibile per l’impegno di dirigenti che si erano attivati nei comitati militari del CLN specie in Piemonte: Corrado e Mario Bonfantini, R. Martorelli, L. Passoni. L. Cavalli, C. Strada “Nel nome di Matteotti: materiali per una storia delle Brigate Matteotti in Lombardia, 1943-45”, Milano, 1982[100] Nato nel 1893, nel 1921 aderisce al PCdI, da cui è espulso nell’emigrazione per bordighismo; ripresi i contatti col partito nella Resistenza, è catturato e richiuso nel lager di Gusen dove muore nel gennaio 1945.[101] P. Secchia-C.Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano, Torino, 1958; E.Massara, Antologia dell’antifascismo e della Resistenza novarese, Novara, 1984.[102] La vis polemica giunse al punto da far scrivere a Corrado Bonfantini: “…coloro che mascherando…la fifa nè combattevano nè intendevano avere alcun “contatto” e se ne stavano quindi prudentemente nascosti, come l’on. Alberto Jacometti direttore del “Sempre Avanti” (C.B, Risposta a un mascalzone, “Mondo nuovo”, 13.7.1947). Nel gennaio 1948 fu nominato un giurì d’onore che diede del tutto soddisfazione a Jacometti. Inizia allora a delinearsi il rapporto conflittuale con il conterraneo Corrado Bonfantini, che li vide contrapposti nelle scelte politiche con quest’ultimo che partecipò alla fondazione del partito di Saragat.[103] Giuliana Gadola Beltrami “Il Comandante“, Milano, 1964, toccante testimonianza della moglie.[104] “Il 26 a Campello Monti, ci comunicarono che la Valstrona era stata bloccata dalle truppe tedesche. La stessa notte Beltrami intraprese quella terribile e tragica scalata che lo portò, con la sua brigata, in Valgrande dove, il 13 febbraio cadeva a Megolo, circondato da tutte le parti, con Antonio Di Dio, Citteri, Gaspare Pajetta. Aveva diciott’anni, Pajetta, e il 9 settembre aveva parlato con me, davanti alla Montecatini, per incitare gli operai a prendere parte alla guerra contro i tedeschi”.[105] IbidemTratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMORedazione,
Alberto Jacometti, vita di un socialista "scomodo",
SocialismoItaliano1892, 28 giugno 2018