lunedì 30 gennaio 2023

Di fatto il documento sanciva l’instaurazione del regime di occupazione nazista di Roma


[...] nel pomeriggio del 10 settembre 1943, più precisamente alle 16.30 a Frascati (dove vi era il comando militare germanico in Italia) il generale Giaccone e il generale Sigfried Wespahl - capo di Stato Maggiore tedesco al servizio di Kesselring - avevano proceduto alla firma del documento di resa della Capitale. Guardando con attenzione le condizioni poste dal Comando Tedesco si rimane sorpresi da quanto queste fossero stranamente morbide per essere delle condizioni di resa a una potenza occupante <82, specie se famosa per la violenza e l’efferatezza delle sue azioni repressive come quella nazista; in base agli accordi le truppe tedesche si impegnavano a rimanere ai margini della città, all’interno della quale il controllo dell’ordine pubblico sarebbe stato affidato a un “Comando della Città Aperta” con a capo il generale Calvi di Bergolo, a cui venne anche promessa un’intera divisione di fanteria. L’accordo prevedeva inoltre il disarmo di tutti gli altri corpi dell’esercito italiano ma i tedeschi acconsentirono a che le armi sequestrate venissero poste sotto una “comune amministrazione italo-tedesca” <83.
Se però ufficiosamente il documento lasciava intendere un rapporto di collaborazione tra forze militari italiane, rappresentanti della tradizione monarchica sabauda, e quelle tedesche, di fatto il documento sanciva l’instaurazione del regime di occupazione nazista nella città; sin da subito infatti i tedeschi non rispettarono affatto gli accordi presi; la comune amministrazione italo-tedesca dell’arsenale sequestrato non venne mai istituita e le armi requisite alle divisioni militari italiane restarono esclusivamente in possesso tedesco. A disposizione di Calvi vennero messi, anziché un’intera divisione come promesso, solo 3 reggimenti della Piave, dotati soltanto di armi leggere, ed egli fu immediatamente affiancato dal generale Stahel nel comando della città <84, il cui libero esercizio era come detto una delle prerogative dell’accordo.
A concorrere alla realizzazione del piano tedesco di “tradire i traditori” e di instaurare il pieno dominio germanico sulla Capitale per 9 mesi fu sicuramente la liberazione il 12 settembre di Mussolini a Campo Imperatore, sulle montagne del Gran Sasso in Abruzzo, dove era stato segretamente nascosto da Badoglio, e il conseguente annuncio via radio da Monaco di Baviera della nascita della RSI (18 settembre); per i tedeschi da quel giorno era venuta meno la necessità, anche solo formale, di mantenere a Roma un comandante militare italiano, per di più legato da vincoli parentali al re traditore. Per mettere in atto il loro piano i tedeschi utilizzarono un furbo espediente: sfruttando come pretesto l’uccisione di 6 militari tedeschi da parte di militari italiani, il 23 settembre disposero come rappresaglia il disarmo e la deportazione in Germania di 1000 soldati della Piave per ciascuno dei loro uccisi. <85
Sebbene poi ne abbiano effettivamente deportati “solo” 1600, ciò causò comunque l’indignazione di Calvi la cui inevitabile protesta portò alla sua destituzione, all’arresto e alla sua deportazione in Germania assieme al generale Riccardo Maraffa, comandante nel Lazio della PAI, Carmine Senise, capo della polizia, il generale Ugo Tabellini e altri esponenti di primo piano delle forze armate italiane. <86
A questo punto, fatti fuori i vertici del Comando della Città Aperta, i nazisti poterono liberamente esercitare un dominio incontrastato sulla città. Dal 23 settembre ’43 essi procedettero a un rimpasto/cambio dei vertici delle istituzioni cittadine; il generale Menotti Chieli, vicino ai tedeschi, e il generale Domenico Chirieleison furono nominati capi del “Comando della Città Aperta”, il generale Presti assunse la carica di capo della polizia della “Città Aperta”, alla cui dipendenze furono poste la Guardia di finanza e la PAI. Venne stabilito che questi due corpi di polizia avessero il compito di fornire i plotoni destinati a eseguire le sentenze di condanna a morte per fucilazione emesse dai tribunali tedeschi e fascisti <87. Per imprimere un capillare controllo sulla città i tedeschi dovevano insediarsi all’interno di essa; a tal proposito il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler decise di adibire uno stabile in via Tasso, già sede dell’ufficio culturale dell’ambasciata tedesca, a sede romana della Gestapo e delle SS <88. Questo stabile - che nell’immaginario collettivo verrà da lì in poi sempre associato dai romani a luogo di torture e morte - era composto di due ali; l’ala sinistra, al civico 155, costituì la caserma della polizia nazista, mentre l’ala destra, al civico 145, la prigione dove oltre 2000 antifascisti romani vennero interrogati, torturati e imprigionati in attesa che il tribunale emettesse la condanna a morte. Tribunale che invece venne insediato in via Lucullo 689. Le condanne a morte venivano invece materialmente eseguite nel Forte Bravetta, uno dei 15 forti siti nella città di Roma, che già durante il fascismo era stato utilizzato come luogo di esecuzione delle condanne a morte degli oppositori politici più accaniti.
Per quanto i nazisti a Roma abbiano instaurato un regime di occupazione duro a tal punto da far sviluppare nella popolazione un sentimento di diffusa ostilità nei confronti dell’occupante e si siano resi protagonisti di diversi crimini contro l’umanità, imprigionando, torturando e fucilando partigiani, ebrei, antifascisti o supposti tali, essi non riuscirono a dispiegare appieno il loro apparato repressivo; riscontrarono grandi difficoltà nelle ricerche degli oppositori politici e dei partigiani, che per un buon numero vivevano in clandestinità, e nello scovare i nascondigli degli ebrei che erano sfuggiti al rastrellamento del 16 ottobre. Ciò era dovuto alle sterminate dimensioni di una città come Roma, per controllare la quale erano necessarie forze di polizia che conoscessero bene il territorio, cosa ovviamente impossibile per gli agenti della Gestapo, i quali però non vollero servirsi degli agenti della polizia italiana nei confronti della quale i tedeschi nutrivano una profonda sfiducia.
[NOTE]
82 G.RANZATO, La liberazione, cit., p.89
83 Ibidem
84 Ibidem
85 Ivi, pp.89-90
86 ALDO PAVIA, Resistenza a Roma; una cronologia, p.18
87 Ivi, p.19
88 Ivi, p.15
89 Ivi, p.17
Guglielmo Salimei, Roma negli anni della liberazione: occupazione nazista e lotta partigiana, Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2020-2021

mercoledì 25 gennaio 2023

Il partito nuovo togliattiano, dunque, si presentava come un partito di massa con una vocazione specificamente nazionale


Il primo decennio che affronteremo è quello più critico e forse il più importante per il Partito comunista. Gli anni di questo periodo furono densi di eventi fondamentali, tanto che in effetti si potrebbe pensare a un'ulteriore segmentazione in due parti: prima e dopo il 1948, come suggeriscono ad esempio Martinelli e Gozzini, i due storici che hanno ripreso la monumentale opera di Spriano sulla storia del Pci (Martinelli 1995; Gozzini & Martinelli 1998). Il contesto nazionale è quello della ricostruzione del paese dopo il ventennio fascista e la guerra, e in tale ambito anche il partito si sottopose ad una epocale opera di rifondazione il cui principale artefice fu, indubbiamente, Palmiro Togliatti. Sono gli anni dello stalinismo e del mito dell'Urss, ma anche del radicamento sociale e culturale del Pci, che nel giro di pochi anni - guidato dalla strategia della “via italiana al socialismo” - si affermò come il più grande partito comunista del mondo occidentale.
La data del 25 aprile 1945 si impone quasi naturalmente come spartiacque ed inizio dell'arco storico che vogliamo prendere in considerazione, anche se - per quanto riguarda la storia del Pci nello specifico - il momento decisivo per la definizione della nuova identità del partito risaliva in effetti ad un anno prima, in corrispondenza della cosiddetta “svolta di Salerno”. Fino ad allora, infatti, il Pci era rimasto un partito di quadri con poche migliaia di aderenti, collegato fin dall'origine all'Unione Sovietica tramite la partecipazione al Comintern e operante in clandestinità dalla promulgazione delle leggi eccezionali del 1926. Dopo il crollo del fascismo, esso assunse un ruolo di crescente importanza all'interno della Resistenza, affermandosi come forza trainante sul piano politico-militare e cominciando quindi ad espandersi a livello organizzativo, fino a raggiungere, alla fine del '44, il mezzo milione di iscritti - di cui 90.000 nelle regioni ancora occupate (Ghini 1982). In questo quadro, le nuove direttive per il partito che Togliatti espose dopo il suo rientro a Napoli il 27 marzo 1944 preannunciavano, appunto, una svolta epocale: il Pci si preparava a diventare un partito “nuovo”, pronto ad abbandonare qualsiasi obiettivo di conquista violenta del potere e a collaborare con le altre formazioni politiche alla guerra di liberazione per edificare infine un'«Italia democratica e progressiva» (Togliatti in Spriano 1975, pag. 389).
Il partito nuovo togliattiano, dunque, si presentava come un partito di massa con una vocazione specificamente nazionale, il cui fine di lungo periodo era quello di creare una società socialista per vie democratiche, tramite alleanze ed accordi politici con gli altri partiti, in particolare il Partito socialista e la Democrazia cristiana. L'adesione dei militanti, come poi fu sancito dallo statuto approvato al V congresso, cominciò ad essere approvata sulla base della semplice accettazione del programma politico, «indipendentemente dalla razza, fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche» (Martinelli 1982, pag.68): fu un passaggio fondamentale, testimone del processo di laicizzazione intrapreso dal Pci e che avrebbe favorito il grande afflusso di nuovi iscritti arrivati dopo la Liberazione. Infatti, dal '44 al '46 il numero di tesserati quadruplicò, arrivando a superare i due milioni. Si trattò di un incremento enorme che pose evidentemente una serie di problemi urgenti ai dirigenti comunisti, primo fra tutti la trasformazione di questa “folla” - come venne definita in quel periodo da Longo (in Martinelli 1995, pag. 19) - in un'organizzazione articolata, efficiente e politicamente preparata.
Inoltre, il Pci doveva essere inserito a pieno titolo nella vita democratica del paese, eliminando qualsiasi residuo delle tendenze insurrezionalistiche ancora presenti in alcune frange. Accanto alla creazione di strutture in grado di orientare e raccogliere gli iscritti fu dunque necessaria un'azione ad un livello più astratto che riuscisse a rendere omogeneo il partito anche dal punto di vista culturale. Questo processo fu condotto, come rileva Guido Liguori, a partire dalla costruzione di un passato comune, che definisse l'identità dei comunisti italiani:
«[Vi era] la necessità di dare un passato al Pci, a un partito in pochi mesi giunto da cinque o seimila militanti del luglio 1943 al milione e settecentomila iscritti del dicembre 1945, con tutti i problemi insiti nel passaggio da partito di quadri a partito di massa, senza una tradizione storica e teorica unificante. Accanto a ciò, la necessità di ribadire la peculiarità del comunismo italiano» (Liguori 1996, pag.30).
Venne quindi intrapresa una grande operazione di educazione e “nazionalizzazione” delle masse comuniste - condizione indispensabile per la realizzazione della cosiddetta via italiana al socialismo - che passava attraverso l'elaborazione di una storia condivisa ed originale rispetto a quella del movimento internazionale a cui il partito rimaneva legato. Da questo momento in poi, dunque, azione culturale e azione politica proseguirono affiancate come parti egualmente importanti di uno stesso progetto, come potremo osservare analizzando le tappe principali di questo percorso (cfr. Gundle 1995).
In effetti inizialmente, subito dopo la Liberazione, il cosiddetto “lavoro culturale” era concepito essenzialmente in termini di propaganda (Martinelli 1995) e dedicato alla diffusione delle posizioni politiche del partito e dei testi fondamentali su cui era basata la sua ideologia. Il Pci si fece quindi “partito editore” (Betti 1989) e cominciò un'intensa attività di pubblicazione per supplire alle esigenze di formazione della base: vennero inaugurate collane come 'La piccola biblioteca marxista', poi sostituita da 'I classici del marxismo' - destinate a rendere “popolare” la dottrina di riferimento - e soprattutto fu potenziato il sistema della stampa comunista che si ampliò a comprendere, oltre alle quattro edizioni locali de L'Unità, una vasta scelta di periodici e riviste differenziati nei contenuti e nella forma a seconda dei destinatari (Gundle 1995; Martinelli 1995). Furono proprio queste riviste, in particolare quelle dirette agli strati popolari del partito - come Il Calendario del Popolo, Vie Nuove o Noi Donne - a costituire il veicolo principale per la divulgazione dei principi del marxismo e della storia d'Italia tra la base secondo l'impostazione pedagogica che in questo momento era predominante nell'approccio del Pci alla dimensione culturale (Bellassai 2000).
Lo stesso spirito, unito alla necessità di formare in breve tempo una fascia di quadri di livello basso ed intermedio, guidò l'apertura delle scuole di partito (Boarelli 2007) e dei corsi nelle sezioni: dal 1945 al 1950 il numero di corsi complessivamente tenuti fu di 2.010, per un totale di 58.634 allievi (Ghini 1982, pag.248).
L'opera di diffusione del marxismo fu quindi perseguita in questi primi anni come una priorità politico-istituzionale e rappresentò uno degli elementi di raccordo più forti tra il Pci e il movimento comunista internazionale. Tuttavia, a fianco di questo lato sicuramente essenziale della politica culturale del partito, si trovava anche, come abbiamo detto, la volontà di costruire un'identità specificamente nazionale per le masse di nuovi militanti, oltre ad un'attenzione particolare al rapporto con gli intellettuali che portò il Pci ad allontanarsi dal settarismo più rigido ed ortodosso:
«In questo senso, la cultura del “partito nuovo” è nello stesso tempo il sensibilissimo termometro che registra su un terreno determinato gli effetti delle scelte politiche concrete e dei vincoli organizzativi e ideologici, così come, inversamente, il fattore che ci permette di comprendere - per la molteplicità di livelli e la possibilità di unificare correnti e tradizioni diverse - la capacità del Pci di contemperare le istanze ideologiche di fondo con l'adesione alla realtà culturale del paese, e la sua resistenza a forme eccessive di chiusura e monolitismo» (Martinelli 1995, pag.296).
Questa doppia valenza della dimensione culturale si rivelava, ad esempio, nella forma che presero le feste di partito (Ridolfi 1997). Già dal 1945 il Pci cominciò ad organizzare un calendario rituale che prevedeva una serie di occasioni di aggregazione, all'interno delle quali le attività di svago e socialità si affiancavano alla propaganda politica e all'autoaffermazione simbolica del partito. Queste feste vennero però spesso sovrapposte ai preesistenti riti festivi popolari e folclorici (Bertolotti 1991) considerati uno strumento eccezionale di penetrazione del consenso, in modo molto simile a quanto aveva fatto il regime fascista prima della guerra. Tuttavia, mentre il fascismo aveva posto l'accento sulle differenze regionali, la festa comunista ambiva invece «a ricondurre la pluralità delle storie territoriali ad un comune spirito di italianità e patriottismo» (Ridolfi 1997, pag. 101). Infatti, soprattutto nei primi anni dopo la guerra, le feste furono associate ad alcune date fondamentali, che, se da un lato erano tese a rafforzare l'identità “di parte” comunista tramite la costruzione di una memoria collettiva - ad esempio con la celebrazione della fondazione del Pci il 21 gennaio e della Rivoluzione sovietica il 7 novembre - dall'altro si trovavano invece in diretta competizione con il calendario “sacro” della nazione, che proprio in quegli anni si cercava di affermare.
È il caso del 25 aprile, la data che più di ogni altra avrebbe dovuto rappresentare l'idea di unità nazionale, fornendo un correlativo simbolico e commemorativo a quel “paradigma antifascista” (Baldassarre 1986) che costituiva la base della legittimazione del nuovo Stato costituzionale. Di fronte al tentativo debole e fallimentare da parte della classe politica dirigente di costruire intorno a questo fulcro rituale una vera pedagogia patriottica ed unitaria, si consolidarono invece le «ritualità “di parte”, che aspiravano ormai ad uno spazio sovralocale, con la prefigurazione di un'identità nazionale polarizzata e l'emergere dei richiami simbolico-rituali delle diverse “Italie” politiche» (Ridolfi 1997, pag. 82).
Queste divisioni sarebbero diventate ancora più profonde, poi, dopo la fine dell'alleanza antifascista: nel 1955, in occasione del decimo anniversario della Liberazione, il Consiglio dei ministri deliberò che che i comunisti fossero esclusi dalle celebrazioni (Crainz 1996, pag. 158), sancendo così il passaggio, avvenuto nel frattempo, dal paradigma antifascista a quello anticomunista come collante ideologico della classe al governo (Flores 1986).
Il Pci, quindi - così come accade anche per la Dc, seppure in forme diverse - si sostituì alle istituzioni con la propria “politica della festa”, che riuscì ad oltrepassare i confini ideologici e ad assumere carattere nazionale.
Claudia Capelli, Memoria comunista e memoria del comunismo in Italia dopo il 1989: il caso dei militanti bolognesi, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2009-2010

lunedì 16 gennaio 2023

La lista venne pubblicata su Op nel celebre numero del 12 settembre 1978


Nel 1975 il Cardinale Giovanni Benelli assegnò al comandante dell’arma dei Carabinieri, Generale Enrico Mino, l’incarico d’accertare un’eventuale penetrazione massonica tra i prelati della Curia romana. Due mesi dopo il Generale Mino consegnò il dossier dei presunti massoni vaticani, tra cui spiccarono nomi di un certo rilievo.
Nell’estate del 1977 il cardinale ultraconservatore Giuseppe Siri incaricò nuovamente il generale Mino per una seconda inchiesta sui prelati della Curia affiliati o vicini alla massoneria. Il comandante dell’Arma non riuscì a concludere la sua inchiesta poiché, a fine ottobre, precipitò con l’elicottero sulla quale viaggiava. Le dinamiche dell’incidente e dell’esplosione del velivolo non vennero mai chiarite, mentre il dossier del 1975 venne fatto sparire tra le carte dell’archivio Vaticano.
Con due articoli pubblicati rispettivamente il 17 ed il 25 agosto 1977, l’agenzia informativa «Euro-Italia» fornì i nomi in codice, i numeri di matricola e la data d’iniziazione alla massoneria di quattro cardinali appartenenti all’ala più avanzata dello schieramento clericale <120. Pecorelli ottenne una copia di tale lista, apprendendo l’intrigo finanziario che legava il presidente dello IOR <121, monsignor Paul Marcinkus, con i piduisti Sindona, Ortolani, Calvi e Gelli.
La lista venne pubblicata su Op nel celebre numero del 12 settembre 1978, raffigurante un cardinale con un cappuccio nero sul capo, dal titolo "La gran Loggia Vaticana". Centoventuno nominativi di cardinali, vescovi ed alti prelati indicati per numero di matricola impressi su tre pagine del giornale.
Scriveva Pecorelli: "Lanciate le reti un po’ su tutte le piste della capitale non siamo andati delusi. Lunedì ventotto agosto siamo entrati in possesso di una lista di centoventuno tre cardinali, vescovi e alti prelati indicati per numero di matricola e nome codificati come appartenenti alla massoneria. Certo la lista può essere apocrifa, certo persino la firma di un cardinale oggi può essere falsificata. Per un laico l’appartenenza alla massoneria può essere motivo di distinzione perseguendo le logge fini umanitari di libertà, giustizia, ordine e progresso civile. Per un ecclesiastico il discorso è un tantino diverso, l’ufficio sacerdotale di per sé comprende tutti gli obblighi della massoneria e l’appartenenza alla setta segreta è vietata dal Diritto canonico. Chi viola un principio può violarne altri, ci ha detto un alto prelato che ha escluso che un così gran numero di preti possa essere iscritto alla massoneria" <122.
Molto probabilmente la lista, veritiera, venne diluita tramite aggiunta di nominativi erronei o di personale non realmente aderente. Pecorelli lo sospettava: "Papa Luciani ha davanti a sé un difficile compito e una grande missione. Tra le tante quella di mettere ordine ai vertici del Vaticano. Pubblicando questa lista di ecclesiastici forse affiliati alla massoneria, riteniamo di offrire un piccolo contributo. Ci aspettiamo una pioggia di smentite o, nel silenzio, l’epurazione" <123.
In Vaticano circolarono voci riguardanti la preoccupazione di alcuni elementi non soddisfatti dell’elezione di Luciani al soglio pontificio tra i quali il monsignor Paul Marcinkus. Egli intuì immediatamente i pericoli dell’elezione di questo pontefice che, sin dai suoi primi discorsi, lasciò chiaramente intendere di voler far tornare la chiesa cattolica a quegli ideali di carità cristiana propri del cristianesimo antico, rinunciando alle ricchezze superflue che troppo avevano distolto gli uomini di chiesa dai propri sacri compiti.
Lo stesso Marcinkus espresse serie perplessità riguardo il Papa: «Questo Papa non è come quello di prima, vedrete che le cose cambieranno <124».
Su due punti il Papa fu irremovibile: l’iscrizione degli ecclesiastici alle logge deviate della massoneria e l’uso del denaro della Chiesa nei confronti di talune banche che gravitavano intorno a nomi quali Calvi e Sindona. La prematura ed inspiegabile morte di Papa Luciani, dopo soli trentatrè giorni di pontificato, lasciò aperta l’ipotesi della «longa manus» del circuito massonico.
Ipotesi che Carmine Pecorelli non fece in tempo a vagliare approfonditamente.
[NOTE]
120 Sebastiano Baggio, Seba matricola 85/2640 iniziato alla massoneria il 14 agosto 1957; Salvatore Pappalardo, Salpa matricola 243/07 15 aprile 1968; Ugo Poletti, Upo matricola 32/1425 e Jean Villot, leanvi matricola 041/3 6 agosto 1966, DI GIOVACCHINO, Scoop mortale, Mino Pecorelli, p. 76.
121 Istituto per le Opere di Religione
122 La gran Loggia Vaticana , «Osservatore politico», 12 settembre 1978.
123 Ibidem.
Giacomo Fiorini, Penne di piombo: il giornalismo d’assalto di Carmine Pecorelli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012/2013

martedì 10 gennaio 2023

L’8 settembre lo colse a Oleggio


[...] Il 26 luglio 1943 Pertini, Jacometti e Spinelli sono nella terrazza prossima a piazza Castello che domina sul mare;  «Devono essere le 7 e un quarto o le 7 e 20 quando vediamo il repubblicano Buleghin venire verso di noi tutto affannato e gesticolante. Buleghin è un po’ il gazzettino di Ventotene, il gazzettino serio e controllato […] Il suo viso è rosso. Prima ancora di esserci vicino, alza le due mani all’altezza della fronte e dice: Mussolini è caduto, c’è un governo Badoglio, … Incapace di star fermo, se ne va a portare altrove la notizia formidabile». In paese, tutti a trastullarsi a fare ciò che sino al giorno avanti era proibito. «Entrano nei caffè e vi si siedono, domandano un mazzo e giocano a carte». Una mattinata di gioia infantile. «Nelle mense, cuochi e sotto cuochi si affaccendano intorno a piramidali paste asciutte»…I confinati di Ventotene andranno via a scaglioni.
Nella Resistenza (1943-1945)
Con Pertini Alberto Jacometti sbarca sul continente, ma mentre quest’ultimo si dirige a Roma per partecipare alla riunione di ricostituzione del PSI [95] la sua scelta di rientrare a Novara per riabbracciare dopo diciassette anni (tranne una breve visita a Bruxelles prima della guerra) la madre e la moglie che con la piccola Mirella che si era ricongiunte alla sua famiglia [96], rinunziando in quell’occasione al ruolo di primo piano a livello nazionale cui poteva aspirare, indica che per lui la dimensione politica era essenziale ma non al punto da  anteporla agli affetti familiari, e probabilmente anche per il suo carattere schivo e più propenso ad operare in ambito locale.
“Ero arrivato a Milano per il ferragosto… da Ventotene, il treno si era fermato a Lambrate. La città non aveva più né tranvai né tassì. Mi avevano detto che dalla stazione Centrale non partiva più alcun treno…[che] avrei forse potuto trovare alle Ferrovie Nord, dall’altra parte di Milano….fu così che dopo alcune ore, sudato, grondante, slegato in ogni articolazione, raggiunsi le Ferrovie Nord …. Tolti i tre mesi di carcere, eran quasi diciassette anni che vi mancavo” [97].
Incominciò con i vecchi compagni ritrovati, Porzio, Ranza, Camillo Pasquali, con i nuovi venuti, a ricostruire il Partito: si trattava di legare le prime maglie, di trovare cioè un punto d’appoggio in ogni paese, qualcuno che si assumesse l’incarico d’avvicinare i simpatizzanti  e di radunarli per un primo incontro con l’incaricato della città. L’ostacolo più grosso era proprio il trovare la cerniera, il perno. “Porzio Giovanola faceva appello alla sua memoria: ci doveva essere ancora il vecchio… Ma che cosa aveva fatto durante il ventennio il vecchio? come si era comportato? aveva resistito? aveva piegato? domande che restavano troppo spesso senza risposta. Il meglio era d’andare a vedere. Ci andavo: in poco più di venti giorni riuscimmo a mettere insieme il nocciolo di quaranta sezioni. A Romagnano m’incontrai, per la prima volta, con Giancarlo Pajetta. Non lo conoscevo e sapevo ben poco di lui. Fu del resto il frutto di un errore. Avevo avvertito Mosconi, un vecchio fabbro ferraio, di promuo­vere la riunione e l’uomo s’era dato da fare. Il giorno convenuto una decina di persone erano riunite in una sua camera sopra la bottega e fra queste un giovane magro, dall’aria sofferente e dagli occhi vividi. Mosconi non m’aveva avvertito di nulla. Tenni la riunione, dissi le cose che dicevo un po’ dappertutto e attesi. Fu allora che mi si avvertì che per errore o mala interpretazione della mia richiesta, erano stati invitati oltre che i socialisti anche i comunisti. Niente di male. Pajetta si scusò. Non c’era di che.” [98]
L’8 settembre lo colse a Oleggio, dove la moglie era sfollata con la bambina: “L’indomani di primo mattino ero a Novara nello studio dell’avvocato Porzio. Nei quarantacinque giorni si erano costituiti i comitati dei cinque partiti e quella mattina nel suo studio  convennero i delegati. La situazione si era andata schiarendo: ai tedeschi occorreva resistere. Come e con chi? Con l’esercito in primo luogo, c’era da sperarlo e poi con gli operai. Eravamo, noi socialisti, i meglio rappresentati, ma c’erano anche i democristiani, i liberali, gli azionisti. I comunisti avevano inviato due giovanetti ventenni. C’era nell’aria un’atmosfera di dramma e nei convenuti una buona dose di apprensione……Si prospettava la necessità di prendere contatto con il generale Sorrentino, comandante della divisione di Novara….Fu deciso di procedere immediatamente all’arruolamento di tutti coloro che non si sarebbero accontentati di stare con le mani in mano e di aprire, all’uopo, tre centri di reclutamento….(…)… Fu inoltre deciso di mandare, senza perder tempo, una diecina di noi all’uscita degli operai del mezzogiorno, a parlare davanti alle fabbriche…..Ci dirigemmo verso le officine che si trovano tutte alla periferia della città. Le strade erano percorse da un’agitazione occulta: gruppetti di persone si fermavano sui marciapiedi, davanti ai negozi, confabulavano un istante e si scioglievano per raggrupparsi di nuovo qualche diecina di metri più in là. La stessa agitazione di un alveare minacciato. Buon segno, buon segno. Sarebbe bastato dare un orientamento e la com­mozione si sarebbe incanalata e avrebbe fatto nodo e ariete. M’era toccato il settore di S. Agabio, il più fortemente industriale di Novara. M’era compagno il più giovane dei due comunisti, un ragazzo di diciottenni appena, biondo, esile, dalla dolce espressione femminea. Si chiamava Gaspare Pajetta. Era parente di Giancarlo? Sì, era fratello. Morì pochi mesi più tardi, a Megolo, a lato e insieme con Filippo Beltrami … e Antonio Di Dio. Non so come, ci procurammo un tavolino e ci mettemmo davanti alla Montecatini; la giornata era buona, soleggiata; piccole nubi bianche vagavano neghittosamente nel ciclo. Quando gli operai, chi in bicicletta, chi a piedi, incominciarono a uscire come la prima acqua di una chiusa che stia per cedere, salimmo in piedi sul tavolino. Gli operai ci guardavano: qualcuno si fermava, un po’ più lontano. I quarantacinque giorni badogliani erano stati, in certa guisa, un periodo di transizione, una specie di convalescenza dopo una lunga malattia. Non ci conoscevano, gli operai, a quel tempo, Pajetta perché troppo giovane, io, dopo diciassette anni di assenza. Facemmo cenni d’invito e un cerchio si fermò, sottile dapprima, via via più folto e compatto. Seguivano le nostre parole con la testa un poco protesa e le palpebre calate a mezzo. Dovevano essere parole nuove, fabbricate di fresco, che appunto perché nuove e fabbricate di fresco, penetravano con difficoltà, di difficile assi­milazione. Alla fine, tuttavia, si sollevò, un po’ timido, un applauso. Ma nel pomeriggio non entrarono in fabbrica e incominciarono ad affluire, a diecine, a quei centri di arruolamento: la sera, se n’erano iscritti alcune centinaia. Verso sera arrivò una notizia disastrosa: Sorrentino che aveva nicchiato tutta la giornata fra il sì e il no, rifiutava le armi. A questa se ne aggiunse subito un’altra; l’arrivo dei tedeschi era previsto per l’indomani 10 settembre. Fu deciso di ordinare a tutti coloro che già s’erano arruolati o che intendevano farlo, di raggiungere Arona in bicicletta. Partimmo verso le otto del mattino a gruppetti di otto o di dieci.. Verso le tre eravamo ad Arona, una cinquantina [ma] per quanto ci dessimo d’attorno, non fu possibile trovare un albergo che ricoverasse tutta quella gente; andammo quindi a Meina, a tre chilometri più in su, sulla riva del lago… Quanto poi all’andare in montagna facevamo i conti senza l’oste: le notizie di quella mattina, erano catastrofiche: a Milano il generale Ruggiero aveva, anche lui, rifiutato di consegnare le armi, preferendo consegnarle ai tedeschi, piuttosto che al popolo italiano…..Così finiva la nostra avventura, appena incominciata o almeno finiva provvisoriamente. Non avevamo, a quel momento, alcuna base, alcuna idea concreta, alcun modo di provvedere al sostentamento e all’armamento di quaranta o cinquanta uomini. Li chiamammo e li avvertimmo che da quel momento ognuno di noi riprendeva la propria libertà d’azione. Io, insieme con Rognoni e con Porzio, mi recai a Macugnaga, sul fondo della Vallanzasca, ai piedi del Rosa, ad attendere gli avvenimenti….Ma la sorpresa maggiore fu l’altra, fu quella che ci toccò l’indomani 13 verso il mezzodì. S’udì una voce: «Arrivano i tedeschi! arrivano i tedeschi!» e, di dietro la chiesa, vedemmo, sullo stradale, due macchinoni mimetizzati sovraccarichi di soldataglia nazista….anche a Macugnaga arrivavano i tedeschi e quarantott’ore appena dopo essersi messi in moto: salute e complimenti! Fu così che il giorno dopo 14, ritornai al piano. E fu così che l’indomani, 15, la Resistenza pubblicava, a Novara, il suo primo foglietto alla macchia; era firmato: Matteotti.”[99]
Assunto il nome di battaglia di «Andrea», il 20 settembre con Carlo Torelli per i democristiani e Carlo Leonardi [100] per il PCI fondò il Comitato di Liberazione nazionale della provincia di Novara, in cui fu delegato socialista fino alla Liberazione [101]. Tra la fine  del ’43 e gli inizi del ’44 vennero costituiti i primi gruppi armati guidati da Moscatelli e Beltrami. In questo periodo si occupò anche di pubblicare il foglio clandestino 'Bandiera rossa'.
La lotta armata lo vide partecipe attivo sin dal primo momento, nonostante i rischi[102]: "Il giorno dopo di Natale [1943]…eravamo da Moscatelli, il 2 gennaio da Filippo Beltrami. In gennaio arrestarono Alfredo Di Dio e parve che dovesse essere fucilato da un momento all’altro; scapparono Porzio Giovanola e l’avvocato Torelli".
Il 26 gennaio 1944, con gli altri due membri del CLN provinciale, Torelli e Leonardi, l’avvocato Ugo Porzio e due ufficiali del comando garibaldino, partecipa alla riunione a Campello Monti, presso la formazione autonoma “Brigata patrioti Valstrona”  comandata da Filippo Berltrami [103] in previsione di un attacco; la riunione, che vede pareri discordi, si scioglie all’annuncio di un concentramento di forze nazifasciste all’imbocco della valle e i partecipanti riescono a filtrare a stnto attraverso i posti di blocco; il 13 febbraio si svolse la battaglia di Megolo con la morte di Beltrami e di Antonio Di Dio [104].
In marzo il Comitato di Liberazione si frantumava per la terza volta. "Il 6 aprile, mentre c’era ancora nell’aria l’eco delle scariche del Martinetto, arrestarono Carletto Leonardi. Ci eravamo incontrati il mattino in un boschetto nei pressi di Cavaglio; lo portarono a Mauthausen di dove non fece ritorno. A Roasio ne impiccarono una dozzina, con l’uncino, come maiali. A Borgoticino ne fucilarono tredici, in piazza, con tutta la popolazione presente, tredici indicati nel mucchio, poi appiccarono il fuoco alle case. A Fondotoce ne fucilarono quarantadue, il quarantatreesimo essendo rimasto incòlume sotto i cadaveri. A Vignale, ai sette, fra cui due fratelli, fecero prima scavare la fossa… A Ghemme…Erano litanie che non finivano mai".
In settembre il Comitato di Liberazione fu rifatto per la quarta volta. Il 7 settembre 1944 con Fornara partecipa ad Alzo all’inconto con i comandanti e commissari garibadini Gastone “Ciro”, Moscatelli “Cino” e Coppo “Pippo”, e con De Marchi “Justus” della Valdossola ed Enrico Massara della Valtoce, e dalla riunione esce un accordo per la costituzione  di un comando unico e una spinta alla liberazione dell’Ossola. “[A novembre] arrestarono Piero Fornara. Per mesi, ogni giorno che capitavo a Novara, mi recavo da lui, prima nel suo studio, poi in un gabinetto della Casa di Cura o all’Ambulatorio di Pediatria e li incontravo gli amici e raccoglievo le informazioni. L’arresto di Piero Fornara mi
lasciava cieco e privo di mani. Che fare? ….Fu un inverno terribile. La neve veniva giù senza sosta e assediava i partigiani sui monti. Per recarmi da Oleggio a Novara in bicicletta (17 chilometri) impiegavo più di due ore, arando la neve come il vomere dell’aratro la terra. La fortuna m’aveva preso per mano e non mi abbandonava ancora, una fortuna sfacciata. La cospirazione s’impara e s’intesse come una rete, ma per prudente, cauto, circospetto che sia, c’è sempre una maglia che sfugge e si rompe; la fortuna soltanto può riprenderla e fare il rammendo. Fu lei a tirarmi fuori il 26 gennaio dalla Valstrona, sotto il muso dei tedeschi, fu lei a frastornare l’attenzione delle guardie repubblichine di Borgoticino nel punto in cui passavo carico di stampa clandestina, fu lei a suggerirmi la via per uscire dalla stazione di Novara bloccata. Poi venne la primavera. Il comizio del 26 aprile riconsacrava la città e apriva le vie dell’avvenire. C’era la folla occhiuta e dalla bocca enorme, dalla quale passavano i tuoni; la folla del formicaio, indistinta, quella ch’era stata l’anima del sottosuolo, tremebonda e intrepida, vigliacca ed eroica; la folla che aveva tremato e sperato, che aveva arretrato  come un’acqua davanti alla frana e poi, come un’acqua con i suoi mille tentacoli, con i suoi allacciamenti mortali, s’era infiltrata dappertutto, anonima, cieca, incosciente, scacciando i topi e gli scarafaggi. I suoi evviva eran boati. Era una folla che si assolveva e si acclamava, una folla che fugava con quel suo rombare, le paure pesanti, le esitazioni, che staccava l’ombra da sé per non essere che crosta e spigoli e roccia. La vittoria era sua.”[105] [...]
[NOTE]
[95]  Alla riunione (23-25 agosto in casa di Oreste Lizzadri) erano presenti Nenni, Romita, Vassalli, Basso, Buozzi, Pertini, Lizzadri, Basso,  Luzzatto,  Vecchietti, Zagari, ecc. (con Bonfatini, Acciartini, Andreoni e Ogliaro  provenienti dal Piemonte)
[96]  A. Jacometti. Mia madre, cit.
[97]  Ibid.
[98] L’episodio è ricordato anche da Pajetta in “Ragazzo rosso”, Milano, 1983.
[99] A.Jacometti, Il filo d’Arianna, cit. . Mentre PCI e Pd’A fecero della resistenza armata l’obiettivo prioritario, i socialisti fino alla primavera del ’44  sottovalutarono l’importanza dell’organizzazione militare di partito. La formazione delle “Matteotti”  fu possibile per l’impegno di  dirigenti che si erano attivati nei comitati militari del CLN specie in Piemonte: Corrado e Mario Bonfantini, R. Martorelli, L. Passoni. L. Cavalli, C. Strada “Nel nome di Matteotti: materiali per una storia delle Brigate Matteotti in Lombardia, 1943-45”,  Milano, 1982
[100] Nato nel 1893, nel 1921 aderisce al PCdI, da cui è espulso nell’emigrazione per bordighismo; ripresi i contatti col partito nella Resistenza, è catturato e richiuso nel lager di Gusen dove muore nel gennaio 1945.
[101] P. Secchia-C.Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano, Tori­no, 1958; E.Massara, Antologia dell’antifascismo e della Resistenza novarese, Novara, 1984.
[102] La vis polemica giunse al punto da far scrivere a Corrado Bonfantini: “…coloro che mascherando…la fifa nè combattevano nè intendevano avere alcun “contatto” e se ne  stavano quindi prudentemente nascosti, come l’on. Alberto Jacometti direttore del “Sempre Avanti” (C.B, Risposta a un mascalzone, “Mondo nuovo”, 13.7.1947). Nel gennaio 1948  fu nominato un giurì d’onore che diede del tutto soddisfazione a Jacometti. Inizia allora a delinearsi  il rapporto conflittuale con il conterraneo Corrado Bonfantini, che li vide contrapposti nelle scelte politiche con quest’ultimo che partecipò alla fondazione del partito di Saragat.
[103] Giuliana Gadola Beltrami “Il Comandante“, Milano, 1964, toccante testimonianza della moglie.
[104] “Il 26 a Campello Monti, ci comunicarono che la Valstrona era stata bloccata dalle truppe tedesche. La stessa notte Beltrami intraprese quella terribile e tragica scalata che lo portò, con la sua brigata, in Valgrande dove, il 13 febbraio cadeva a Megolo, circondato da tutte le parti, con Antonio Di Dio, Citteri, Gaspare Pajetta. Aveva diciott’anni, Pajetta, e il 9 settembre aveva parlato con me, davanti alla Montecatini, per incitare gli operai a prendere parte alla guerra contro i tedeschi”.
[105] Ibidem
Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO
Redazione, Alberto Jacometti, vita di un socialista "scomodo", SocialismoItaliano1892, 28 giugno 2018