sabato 16 marzo 2024

A detta della Luce, infatti, il Piano Vanoni non era efficace contro il comunismo


Arrivata a Roma, Clare Boothe Luce trovò un clima di grande attesa in vista delle elezioni politiche, che si sarebbero tenute nel mese di giugno e nei cui confronti a Washington c’era una grande fiducia. Si riteneva infatti che la Dc godesse di un buon seguito dopo i risultati deludenti del 1952. Inoltre, Washington confidava nella nuova legge elettorale, la cd. “legge truffa”, ritenuta capace di assicurare la continuità di governi centristi autorevoli e di azzerare tutti i vantaggi delle sinistre. La legge aveva modificato il sistema elettorale proporzionale, assegnando un premio (il 65% dei seggi) al partito o alla coalizione che avesse raggiunto il 50% + 1 dei voti. In base alle previsioni, i partiti della coalizione di governo avrebbero ottenuto la maggioranza assoluta di voti necessaria per far scattare il premio previsto dalla nuova legge elettora, riuscendo a svincolarsi dalle opposizioni <502. Queste valutazioni, unitamente alla necessità di evitare interferenze palesi nella politica interna italiana, spinsero gli Stati Uniti a influenzare l’esito delle elezioni soltanto in misura modesta, limitatamente all’impiego di Voice of America, al ricorso a gruppi privati, e ad azioni di propaganda in favore dei partiti di centro. Il Dipartimento di Stato invitò inoltre la Luce a non prendere posizioni aperte nei confronti della Dc per evitare accuse di ingerenza e colonialismo. L’ambasciatrice non rispettò questa indicazione e decise di intraprendere un tour nazionale allo scopo di enfatizzare l’importanza delle elezioni per la stabilità del paese. A Milano, in un discorso del 29 maggio, la Luce arrivò persino a minacciare la sospensione degli aiuti americani in caso di vittoria delle sinistre, generando un grande imbarazzo sia da parte del partito di governo che del Dipartimento di Stato <503. Anche la Chiesa partecipò alla campagna elettorale contro il Pci, minacciando la scomunica dei suoi elettori.
I risultati delle elezioni furono però lontani dalle aspettative di Washington <504. La Dc recuperò voti rispetto alle amministrative, ma non riuscì a raggiungere la soglia necessaria per ottenere il premio di maggioranza. Come avvenuto nel 1951-1952, inoltre, i voti persi dalla Dc andarono ad ingrossare le liste di estrema destra, ovvero di monarchici e missini, che riscossero un successo senza precedenti soprattutto nel Mezzogiorno <505. Le elezioni del 1953, inoltre, segnarono la fine politica di De Gasperi e l’inizio di una fase convulsa per la Dc, segnata da un lato dalla necessità di governare il paese con una maggioranza risicata e con pochi seggi di scarto, e dall’altro dall’urgenza di individuare una figura in grado di succedere al leader democristiano <506. Oltre che per la situazione politica italiana, il 1953 rappresentò un anno di riorganizzazione anche per gli equilibri internazionali. La morte di Stalin, la firma dell’armistizio tra le due Coree, e il nuovo corso avviato da Malenkov, segnarono l’inizio di una fase di distensione internazionale e dimostravano la necessità di rivalutare il problema del comunismo, sia nell’ambito della strategia americana che nel contesto politico italiano, dove l’impossibilità di formare maggioranze di governo solide imponeva l’urgenza di cooptare nuove forze politiche e allargare il consenso. Queste valutazioni rendevano quanto mai urgente una revisione dei programmi statunitensi per la lotta al comunismo in Italia. Alla Luce sembrava chiaro che, in assenza di azioni concrete contro il comunismo e senza i finanziamenti americani, nel giro di un paio d’anni l’Italia sarebbe diventata la prima nazione ad essere governata dal partito comunista attraverso vie legali <507. Le iniziative dell’amministrazione Eisenhower per combattere il comunismo in Italia si limitarono a riproporre linee guida già esposte nel Piano Demagnetize, introducendo alcune novità di fondo come una maggiore rigidità nell’applicare le attività di carattere psicologico e nel vincolare l’erogazione degli Osp a interventi concreti da parte delle aziende beneficiarie.
In ambito politico, uno degli strumenti cui l’ambasciatrice fece più ricorso fu l’incoraggiamento incondizionato della formazione di un governo di centrodestra, che escludesse i socialisti di Nenni e arrivasse in ultima istanza alla messa fuori legge del Pci. Nella realizzazione di questo progetto la Luce trovò un interlocutore, il Primo ministro Mario Scelba, “privo di emozioni o convinzioni” rispetto al comunismo e preoccupato unicamente di sopravvivere “in uno qualsiasi dei due campi” <508. La Luce esercitò pressioni perché il governo in carica si aprisse alla destra monarchica, con cui gli Stati Uniti avevano intensificato i rapporti proprio a partire dal 1954, e perchè portasse lo scontro con il Pci sulle piazze italiane, inasprendo le misure contro il partito comunista e la Cgil. Il Presidente del Consiglio fu tuttavia molto cauto nell’accogliere le richieste statunitensi. Da un lato, Scelba non riteneva così imminente la presa del potere da parte comunista, e quindi predilesse una linea più moderata nei confronti del Pci. Dall’altro, l’esigenza di accreditarsi a Washington come legittimo successore di De Gasperi e di continuare a beneficiare degli aiuti statunitensi comportarono alcune limitate azioni nei confronti di Cgil e Pci <509. La Luce intendeva invertire rotta anche rispetto al tema dei finanziamenti. Fino a quel momento il governo italiano aveva avuto tutto l’interesse nel mantenere viva la minaccia comunista, mancando di attuare misure concrete contro il Pci. Grazie ad un partito comunista forte e in continua crescita, le istituzioni riuscivano infatti ad assicurarsi un flusso costante di aiuti finanziari da parte degli Usa in funzione anticomunista <510. Per l’ambasciatrice era necessario cessare di accogliere indistintamente le richieste economiche provenienti dagli ambienti politici italiani, e iniziare a subordinare l’erogazione dei finanziamenti al raggiungimento di obiettivi concreti nella lotta al comunismo. In base a questo presupposto, l’ambasciatrice respinse l’ipotesi di sostenere il Piano Vanoni, un programma di sviluppo economico elaborato dal Ministro del Bilancio e fondato sul rafforzamento degli investimenti pubblici per conseguire una diminuzione della disoccupazione e del deficit di bilancio. A detta della Luce, infatti, il Piano Vanoni non era efficace contro il comunismo <511.
[NOTE]
502 La “legge truffa” fu accolta con grande disapprovazione da numerose componenti della politica italiana. Nell’ambito antifascista, ad esempio, la nuova legge ricordava molto la legge Acerbo e le conseguenze che questa aveva prodotto in termini di violazione delle libertà costituzionali. M. Del Pero, Stati Uniti e “legge truffa”, in “Contemporaea”, 6, 3 (2003): 503-518; G. Quagliariello, La legge elettorale del 1953, Bologna, Il Mulino, 2003; M. S. Piretti, La legge truffa: il fallimento dell'ingegneria politica, Bologna, Il Mulino, 2003.
503 Frus, 1952-1954, vol. VI, The Ambassador in Italy (Luce) to the Special Assistant to the President (Jackson), Rome, 18 giugno, 1953, pp. 1612-1613, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1612.
504 Frus, 1952-54, vol. VI, p. 2, The Ambassador in Italy (Luce) to the Secretary of State, Rome, 12 giugno, 1953, pp. 1609-1612, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1609; M. Del Pero, American Pressures and their Containment in Italy during the Ambassadorship of Clare Boothe Luce, 1953–1956, in “Diplomatic History”, 28, 3 (2004): pp. 407-439.
505 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit. p. 60.
506 L. Nuti, The United States, Italy, and the Opening to the Left, in “Journal of Cold War Studies”, 4, 3 (2002): pp. 36–55.
507 Frus, 1952-1954, vol. VI, Memorandum by the Ambassor in Italy (Luce). Estimate of the Italian Situation, Rome, 3 novembre, 1953, pp. 1631-34, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1631; Per l’importanza accordata dal governo italiano al proseguimento degli aiuti statunitensi, si veda il resoconto dell’incontro tra De Gasperi e la Luce: Frus, 1952-54, vol. VI, The Ambassador in Italy to the Department of State, Rome, 21 giugno, 1953, pp. 1614-1617, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1614.
508 Frus, 1952-1954, VI, p. 2, The Ambassador in Italy (Luce) to the Department of State, Rome, 20 novembre, 1953, pp. 1640-1642, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1640.
509 M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit. p. 223.
510 M. Del Pero, The United States and "Psychological Warfare" in Italy, 1948-1955, cit. p. 1326; Id., American Pressures and Their Containment in Italy during the Ambassadorship of Clare Boothe Luce, 1953–1956, in “Diplomatic History”, 28, 3 (2004): pp. 407-439; Frus, 1952-1954, vol. VI, p. 2, The Ambassador in Italy to the Under Secretary of State (Smith), Rome, 8 aprile, 1954, pp. 1671-1675, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1671.
511 Frus, 1952-54, VI, p. 2, The Ambassador in Italy (Luce) to the Assistant Secretary of State for European Affairs (Merchant), Rome, 22 novembre, 1954, pp. 1709-1711, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/Frus1952-54v06p2/pg_1709.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

domenica 10 marzo 2024

Radio Trieste intraprese in quegli anni un vero e proprio indirizzo culturale

Trieste: la sede della RAI. Foto di Laky 1970 su Wikipedia

Radio Trieste durante il Governo Militare Alleato (1945-1955)
Fra il 1945 e il 1946 le messe in onda riguardarono alcune rubriche politico-informative, i notiziari in tre edizioni e alcuni programmi di musica.
L’impostazione generale dei programmi si modificò sull’onda di un rinnovato clima democratico che si respirava e per la pari dignità assicurata alle trasmissioni di lingua italiana e slovena, nonostante quest’ultima fosse orientata politicamente per la maggior parte in ottica filo-titina e non dimostrasse particolare interesse per un’emittente che non poteva essere usata come proprio mezzo di propaganda.
Fu ampliata la parte dedicata alla musica, particolarmente gradita agli ascoltatori, unendo musica sinfonica, lirica, da camera, operettistica e leggera, canzoni e musiche popolari e da ballo, cori e jazz. Si diede spazio, poi, alla riproduzione di opere già esistenti in possesso della RAI e alla creazione di musica prodotta nella sede di Trieste da parte della Compagnia di prosa di lingua italiana di Radio Trieste, guidata da Giulio Rolli.
Furono introdotti anche alcuni allestimenti in lingua slovena, la recita di poesie, una sempre più fiorente produzione drammatica e nuove conversazioni in lingua italiana, sotto la responsabilità di Aldo Giannini. Anche la parte slovena si sviluppò con un numero crescente di opere mandate in onda, in cui si cimentarono anche alcuni insegnanti delle scuole slovene di Trieste e diversi intellettuali sloveni triestini non comunisti.
Insomma, Radio Trieste intraprese in quegli anni un vero e proprio indirizzo culturale e divenne sempre più lo strumento preferenziale della conoscenza e dell’informazione locale.
La collaborazione e i collegamenti con la RAI crebbero moltissimo fino al 947, mentre fra il 1948 e il 1949, a causa delle difficoltà economiche in cui versava l’emittente triestina, i programmi artistici, culturali e ricreativi in lingua italiana prodotti dalla stessa dovettero subire una sensibile riduzione.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Pace del 1947, per ragioni di contabilità pubblica, tutto il personale dipendente del GMA e quindi anche quello in servizio all’ERT fu liquidato e riassunto il giorno seguente: infatti non esisteva alcun rapporto ufficiale, fino all’ottobre 1948, fra l’ERT e la RAI, la quale considerava con preoccupazione l’eventualità di un ritorno di Radio Trieste, poiché questa si era trasformata in poco tempo da piccola emittente locale di riproduzione dei programmi radiofonici centrali a centro di produzione radiofonica di importanza europea, dotata di un rilevante organico di personale e di vari complessi artistici.
Roma mal sopportava questa possibile concorrenza sia per evidenti ragioni economiche, sia per la volontà di accentrare nella capitale e in poche altre sedi privilegiate la propria produzione radiofonica.
Nel 1954 la sigla del Memorandum d’intesa italo-jugoslava di Londra con cui si sancì il ritorno di Trieste all’Italia fece cessare il presidio alleato e i poteri su Radio Trieste passarono al generale Edmondo De Renzi e poi al prefetto Giovanni Palamara, nominato Commissario Generale del Governo per il Territorio di Trieste.
Ma il ricongiungimento di Trieste alla Madrepatria non portò al contemporaneo rientro della stazione radiofonica locale in seno all’organizzazione della radiodiffusione nazionale (la cui denominazione era stata mutata nell’aprile 1954 in RAI), sia per ragioni di politica aziendale della RAI, sia perché questa non aveva ancora giurisdizione sul Territorio di Trieste, sia perché era necessario chiarire alcune delicate ma importanti questioni prima di procedere alla soppressione dell’Ente Radio Trieste.
L’ERT continuò così la sua attività sotto una nuova gestione fino al 1957, presieduta dall’ing. Vittorio Malinverni, allora amministratore delegato dell’ERI, nominato dal Commissario Generale del Governo italiano. Furono chiamati a dirigere l’ERT il direttore Guido Candussi e il vicedirettore Luigi Fonda. L’ERT fu riorganizzata per un breve tempo introducendo la messa in onda di alcuni programmi della RAI, ampliando le trasmissioni di lingua slovena con le opportune traduzioni dall’italiano ed estendendo la ricezione dei servizi giornalistici a tutto l’Isontino e al Friuli.
Si avviò così un lungo e complesso iter che portò a una gestione commissariale dell’ERT e, contemporaneamente, alla stesura di una convezione fra ERT e RAI, con cui si sanciva l’abolizione dell’ERT e la nascita ufficiale di Radio Trieste.
Nell’agosto 1957, Radio Trieste, inserita nel circuito RAI ma con il riconoscimento di particolari esigenze data dalla sua funzione complessa e impegnativa nel territorio, rientrò così nella grande famiglia della RAI, ma questo “non significa disconoscimento delle particolari esigenze a cui le stazioni radiofoniche triestine devono continuare a rispondere per la difesa della italianità del territorio e per l’allacciamento di fecondi e pacifici rapporti con le popolazioni d’oltre confine” <81.
[NOTA]
81 “È sorta Radio Pola su AP”, anno I, n. 7 del 5 agosto 1945, in G. Candussi, Storia della radiodiffusione… cit., p. 595, nota n. 6.
Caterina Conti, Letteratura al microfono. I programmi letterari di RAI Radio Trieste fra il 1954 e il 1976, Università degli Studi di Trieste, Tesi di dottorato, Anno Accademico 2013-2014

sabato 2 marzo 2024

Solo se ciò che si vede sullo schermo appare credibile, e quindi evoca un mondo, le Langhe come metafora possono avere un senso e un’efficacia


L’idea di un’intervista a Guido Chiesa, regista e sceneggiatore della versione cinematografica del "Partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio (nonché di molti documentari sulla Resistenza), è nata dalla riflessione sul fatto che è difficile collocare la figura dei partigiani della guerra civile italiana nell’immaginario collettivo. Un evento storico straordinario che ha determinato il corso della storia d’Italia, in cui il protagonista principale è lo stesso popolo italiano, sembra una condizione fertile per cui creare - nella storia del costume - un’idealizzazione del periodo e di chi lo condusse. Chiaro è che la mitizzazione di un periodo storico non è di per sé positiva, rischia, anzi, di veicolare il messaggio di una nuova retorica, impoverendo i numerosi e diversi significati che la Resistenza ha assunto; ma senza intendere che fosse auspicabile una vera e propria mitologia della Resistenza, è significativo sottolineare che nell’immaginario collettivo sia assente (o quasi) l’immagine dei partigiani, che hanno contribuito non solo alla Liberazione dell’Italia da un punto di vista politico, ma anche intellettuale, contribuendo alla nascita di una cultura nuova e libera, che ancora oggi ci appartiene.
È strano pensare che quella parte di popolo che si ribellò spontaneamente all’invasione dei tedeschi e dei fascisti di Salò, che portò avanti una guerriglia tra boschi e montagne, che riuscì a mantenere una rete di collegamenti con i gruppi clandestini delle città, che riuscì a resistere fino all’arrivo degli alleati, che contribuì decisivamente alla Liberazione di tutti non ha mai ottenuto una rappresentazione precisa.
Se poi si pensa al fatto che la guida partitica arrivò solo in un secondo momento e che fu una realtà eterogenea, composta da più fronti politici, uniti sotto la bandiera antifascista, sembra proprio che ci fossero tutti gli elementi, perché la figura del “partigiano” diventasse una figura nazionale riconosciuta evitando la strumentalizzazione di una sola parte politica o di una sola realtà sociale. Invece, il risultato è quasi il contrario.
Forse perché i partigiani non appartengono a quella categoria di personaggi “illustri”, facilmente identificabili, o forse perché dopo la Resistenza non trovano un posto particolare nella politica della neo-Repubblica; certo è plausibile pensare che l’esperienza italiana degli anni Settanta, i cosiddetti anni di piombo, in cui il principale gruppo terroristico, le BR, dichiarava esplicitamente di avere raccolto il testimone dai partigiani, potrebbe essere (ma occorrerebbe un’analisi più approfondita) una delle principali ragioni che spiegano l’oblio calato su questa figura storica, umana e civile.
[...] Non è toccato quindi alla narrativa il compito di offrire all’immaginario collettivo la figura del partigiano, che, oltretutto, è così preziosa per indagare sull’identità del nostro popolo.
Dopo la Liberazione ci fu un tentativo, fin troppo azzardato, da parte di alcuni partiti e movimenti politici, di strumentalizzare la guerra partigiana e di “appropriarsi” di una sorta di “eroe positivo” da trasformare in mito nazional-popolare, rischiando la nascita di una retorica nuova. Le pagine di letteratura si mostrarono però talmente sfaccettate e complesse, distanti dall’idea di creare “un eroe a tavolino”, che non emerse mai una figura standardizzata.
Il cinema, in questo senso, rappresenta un terreno di confronto estremamente interessante con la narrativa, essendo una forma d’arte per immagini più accessibile al grande pubblico. La figura del partigiano e il suo mondo possono così assumere contorni più definiti e riconoscibili. Ma la guerra civile italiana non sembra avere stimolato particolarmente (se non in alcuni casi) la produzione cinematografica.
Guido Chiesa è una delle eccezioni e la sua filmografia rivela, al contrario, un interesse specifico per l’argomento. Per il suo lungometraggio sceglie un modello letterario di partigiano, ma al tempo stesso fornisce una nuova interpretazione per restituire luoghi e protagonisti.
Il regista traduce in immagini il testo più complesso e in qualche modo rappresentativo di tutta la produzione letteraria della Resistenza. Mostra la regione collinare delle Langhe, i suoi elementi naturali, cerca le ambientazioni descritte nel testo e attribuisce loro un’immagine reale. Chiesa cerca, inoltre, di mantenersi estremamente fedele alla pagina scritta, considerando le Langhe non soltanto come luogo storico e geografico, ma soprattutto come paesaggio esistenziale, metafora dell’eterno conflitto dell’uomo con la Natura. In questo modo realizza la sua analisi per immagini del testo fenogliano, e fornisce un confronto tra la natura letteraria e quella cinematografica della realtà sensibile ma anche introspettiva del mondo partigiano di Johnny. Ai fini della mia analisi, l’incontro con Guido Chiesa è stato un utile confronto per comprendere meglio il processo rielaborativo di Fenoglio sull’esperienza resistenziale, per identificare la figura di Johnny in spazi specifici del territorio italiano, e per interpretare i significati esistenziali che questi spazi assumono.
Come mi spiega il regista: "Paradossalmente, per ottenere questo risultato era necessario un impianto scenico e antropologico di grande autenticità: solo se ciò che si vede sullo schermo appare credibile, e quindi evoca un mondo, le Langhe come metafora possono avere un senso e un’efficacia".
Incontro Guido Chiesa il 30 marzo 2007 a Roma
1) Il Partigiano Johnny è un romanzo incompiuto, edito in più versioni, come si è mosso rispetto al caos filologico del testo?
Mi sono basato essenzialmente sull’edizione a cura di M. Corti, che considero la più completa anche se non condivido la datazione delle opere proposta dalla Corti, ma forse questa è materia per fenogliani puri… L’edizione Isella pur importante, per me, è ancora densa di contraddizioni, per esempio al capitolo 21 quando Johnny entra ad Alba occupata, non và a trovare i suoi genitori. Come può improvvisamente ignorare la presenza della casa paterna? Nell’edizione a cura di M. Corti - come pure nel mio film - questa scena infatti è presente e significativa.
2) Ha avuto qualche problema nel tradurre il testo in immagini, nel rintracciare una narratività che per la verità è sfuggente nel romanzo?
Sotto certi aspetti il passaggio dal libro alla sceneggiatura è stato più facile del previsto. Quando per la prima volta si legge il romanzo si è travolti dal suo magma linguistico: intraducibile sullo schermo e assai poco cinematografico. Invece, ad una lettura più attenta, ci si rende conto che la struttura narrativa del romanzo è molto forte, precisa, quasi di genere nella sua iterazione di fatti ed eventi funzionali alla costruzione del personaggio e del senso dell’opera. È una struttura classica, archetipica, come quella dell’Odissea, a cui il testo fenogliano è stato da molti messo in relazione. Anche se credo che uno dei punti di riferimento-chiave fosse per Fenoglio "Il viaggio del pellegrino" di John Bunyan, un libro poco conosciuto in Italia, ma che rappresenta uno dei testi fondamentali del mondo protestante. È la storia di un pellegrino che, abbandonata la città e la famiglia, parte alla ricerca di Dio e si avvicina alla santità attraverso il superamento di prove sempre più dure. Fenoglio lo cita più volte e all’inizio del romanzo è lo stesso Johnny a leggerlo. Una volta individuata la struttura narrativa, si trattava di compattarla nei tempi e nei modi di una sceneggiatura cinematografica: se Johnny compie tre volte la stessa azione, ne abbiamo tagliate due; se ci sono tre personaggi che svolgono la stessa funzione narrativa, ne abbiamo lasciato solo uno. E via dicendo. Certo abbiamo dovuto sacrificare degli episodi a cui tenevamo molto, ma ci interessava soprattutto che la sceneggiatura funzionasse, più della mera fedeltà alla pagina scritta. In questo senso abbiamo tradito il romanzo, anche perché, senza false modestie, eravamo convinti che il libro di Fenoglio sarebbe stato sempre e comunque più bello, complesso e sfaccettato del film. Considerando il romanzo come un’avventura epica ho scelto le “prove” che Johnny doveva superare, le imboscate, le fughe, gli attacchi frontali, la pioggia, il fango, la neve e infine la solitudine: in cui emerge la vera essenza del partigiano: un uomo di fronte a se stesso. È stato invece difficile raccontare un personaggio che non subisce cambiamenti da un punto di vista psicologico; rendere l’idea di un antieroe eterno.
3) Come ha selezionato i luoghi in cui girare?
Il romanzo, da questo punto di vista, poneva problemi enormi. In prima battuta, vi sono narrati tantissimi luoghi (paesi, colline, cascine, ecc.) e, per forza di cose, abbiamo dovuto tagliare e ridurre il numero dei posti in cui girare. In seconda istanza, questi luoghi sono descritti con molta precisione e questa precisione non è puramente descrittiva, ma funzionale all’atmosfera e al significato della storia. Penso ad esempio ai bastioni di Mango da cui Johnny vive la drammatica attesa del rastrellamento tedesco: non sono dei semplici bastioni, sono un osservatorio morale sul mondo. Quattro location scout, Enrico Rivella, Nicola Rondolino, Gianpiero Vico e Lia Furxhi hanno per mesi battuto le Langhe paese per paese, collina per collina, alla ricerca dei luoghi richiesti dalla sceneggiatura. In alcuni casi, la ricerca di luoghi autentici e non intaccati dall’edilizia moderna li ha portati a sconfinare fuori dai tradizionali confini geografici delle Langhe, per trovare, ad esempio, Montechiaro d’Acqui, uno dei paesi meglio conservati del Basso Piemonte (in cui è ambientata la parte di Mombarcaro con i rossi). Altre volte, la scoperta di location come la cascina di Bossolaschetto, che ha funto da Cascina della Langa (nell’impossibilità di trovare una replica adeguata alla vera Cascina della Langa situata nei pressi di Manera) ci ha spinto a modificare la sceneggiatura in funzione del luogo reale. Lo scenografo Davide Bassan ha quindi operato su questi ambienti naturali secondo tre coordinate: evitare ogni intervento che riveli l’artificio tecnologico (ruspe, seghe elettriche, pitture a spray), prediligendo lavorazioni manuali; scegliendo materiali d’epoca o comunque di fabbricazione artigianale; arredamenti e suppellettili scelti dopo un accurato lavoro di ricerca su fonti iconografiche dell’epoca e su fonti orali. Sono rari, in tutte le Langhe, centri storici che non siano stati rovinati dall’edilizia e dalla cementificazione. Ad esempio, era impossibile usare Mango stesso. Della Mango descritta nel romanzo non vi è quasi più traccia. Ci eravamo quasi rassegnati ad utilizzare Monforte o Serralunga, paesi molto belli e abbastanza ben tenuti, ma molto distanti dalla topografia dei paesi descritti nel romanzo (ad esempio, privi dei bastioni all’ingresso del paese). Un po’ per disperazione, un po’ per testardaggine, siamo andati a vedere Neive, un paese che avevamo sempre scartato, essendo troppo vicino ad Alba e alla zona turisticamente più nota. Ma qui, con nostro grande stupore, abbiamo scoperto che Neive alta è ancora intatta: non un piccolo angolo, ma strade intere. Per noi rappresentava un risparmio di fatica e di lavoro enormi. Neive ci ha risolto tantissimi problemi, mentre per il resto ci siamo arrabattati in lungo e in largo. Durante le riprese ci siamo spostati in oltre 80 set, un numero altissimo per 54 giorni di ripresa. In totale abbiamo girato in oltre 30 comuni.
4) Ha preferito attenersi ai luoghi reali o ha cercato di raccontare i luoghi letterari?
Naturalmente i luoghi che racconta l’autore, quelli che ci restituisce attraverso i suoi occhi, quindi i luoghi letterari e cercando - quando era possibile - di identificarli con quelli reali. La lettura dei libri di Fenoglio mi ha spinto a vedere nelle Langhe di allora (cioè quelle antecedenti o contemporanee alla scrittura, e comunque anteriori al boom economico), non tanto un luogo geografico determinato, bensì una sorta di paesaggio esistenziale, un teatro ideale per la raffigurazione della tragedia umana (rapporto uomo/natura, conflitti tra le classi sociali). Così, quando ho iniziato realisticamente a pensare alla realizzazione del film sapevo che dovevo andare a cercare quelle Langhe, rinunciando a priori ad ogni tentativo ad ogni affresco globalizzante, a vantaggio dell’unità espressiva e dei significati. Vale a dire, la mia intenzione non era quella di fornire una visione realistica della zona e della sua storia, quanto di mettere in scena un mondo che fosse il più possibile adatto al dipanarsi del dramma umano e morale del protagonista. In questo senso, il film non parla delle Langhe, ma sceglie le Langhe perché offrono un terreno ideale a un certo tipo di discorso sull’uomo. Paradossalmente, per ottenere questo risultato era necessario un impianto scenico e antropologico di grande autenticità: solo se ciò che si vede sullo schermo appare credibile (e quindi evoca un mondo) le Langhe come metafora possono avere un senso e un’efficacia. Il direttore della fotografia Gherardo Gossi, oltre alla visione di molti documentari cinematografici dell’epoca, è stato da me indirizzato alla costruzione di un’immagine complessiva del film che fosse adeguata alla rappresentazione di un’Italia povera, buia, in guerra. In questo senso ci ha aiutato la scelta di girare in autunno, privilegiando così colori che vanno dal verde scuro al marrone fino al grigio. Negli interni, dove ha potuto, Gossi ha messo in scena fonti di luce reali (candele, lampade alogene, lumi a petrolio, ecc,), scegliendo di non illuminare le pareti, di creare forti contrasti di chiaroscuro, su una strada a noi indicata da pittori come Caravaggio. Non tanto in nome del realismo, ma per creare attorno a Johnny un mondo funzionale alla creazione di un determinato significato.
5) È stato difficile “filmare” un paesaggio trasfigurato dallo sguardo di uno scrittore?
Fenoglio è uno scrittore per così dire “fenomenologico”: le vicende dei suoi libri progrediscono per fatti, non per motivazioni psicologiche. La psicologia dei suoi personaggi è quasi inesistente, eppure fortissima perché deriva dalle loro azioni, dal paesaggio e dalle azioni di cui sono testimoni. Tutti elementi squisitamente cinematografici proprio perché visibili, evidenti, filmabili. Inoltre, Fenoglio ha sempre l’accuratezza di scegliere un punto di vista (si pensi alle immagini finali di "Un giorno di fuoco" o "Una questione privata") che altro non è che quel che si chiama inquadrare, filmare. Come un regista, Fenoglio sceglie di guardare la realtà che intende raccontare da un certo punto di vista e solo da quello.
6) Nel film si inquadra spesso lo sguardo del protagonista, questo indica che lo spettatore vede il paesaggio attraverso gli occhi di Johnny? Ha voluto mostrarci il rapporto tra il personaggio e il suo ambiente?
Sì, la bussola è lo sguardo di Johnny, e la grammatica interna del film non può che nascere da lì. La macchina da presa sta con lui, vede quel che lui vede, si muove quando lui si muove (o qualcosa si muove in lui), corre fugge scappa quando è Johnny a farlo. Ma anche quando aderisce al personaggio, lo rispetta e lo ama, mai rinuncia alla possibilità di uno sguardo critico su di esso. Se ciò accade è perché l’ideologia del film non è quella di Johnny, non si appiattisce su di lui, ne è consapevolmente distante benché appassionatamente vicina.
7) È stato importante nel film restituire la presenza di una natura ostile e dei suoi elementi?
Molto. Il romanzo specifica i titoli delle stagioni perché è la Natura che governa il mondo in collina, e l’inverno è la più importante delle stagioni perché genera il conflitto maggiore, e soltanto nel conflitto l’uomo può esprimere se stesso. Lo stesso discorso vale per gli elementi naturali, Johnny sente la sua vera natura umana a contatto con il fango che lo svilisce ma al tempo stesso lo accoglie, testimonia in qualche modo la ricerca di un rapporto viscerale, originario con la Natura. Rapporto che è mancato all’autore nella figura materna.
8) Secondo lei Fenoglio comunica, attraverso Johnny, un rapporto assente con la madre?
Quello che, probabilmente, ho capito solo dopo aver girato il film è l’importanza del rapporto di Fenoglio con la madre, un rapporto difficile che ha influenzato enormemente lo scrittore: spesso Johnny parla di “Madre Langa” e indica la collina con il termine “mammella”, questo - secondo me - è indice di un rapporto di dipendenza con la Natura che rimanda alla dipendenza del figlio con la madre. Il paesaggio lo accoglie nel suo seno e nonostante la Natura sia cieca e indifferente Johnny si affida a lei come fosse l’unica protezione possibile. Questa considerazione, oltretutto, è confermata dal rapporto problematico - che emerge nel romanzo - del personaggio con le donne (Cita due momenti del romanzo, rispettivamente descritti nei capitoli 14 e 19): "Come Johnny notò fin dal suo arrivo nei paraggi del quartier generale, le donne non erano piuttosto scarse nelle file azzurre […] Il latente anelito al puritanesimo militare, appunto, gli fece scuotere la testa a quella vista, ma in effetti, sul momento, appunto, le donne stavano lavorando sodo, facendo pulizia, bucato, una dattilografando… Il solo fatto che portassero un nome di battaglia, come gli uomini, poteva suggerire a un povero malizioso un’associazione con altre donne portanti uno pseudonimo <241. Sulla radura […] stavano donne, staffette, stavano facendo il bucato generale, con un’aria attiva e giocosa e l’allegra coscienza di star facendo il loro vero, naturale lavoro. In faccia a Johnny sbuffò l’odore della saponata, attraverso l’aria rarefatta portando il confortante senso di casalinghità all’aperto. Alcune guardie del corpo stavano vessando le lavandaie, con un’ironia sana e diretta" <242. La difficoltà di questo rapporto si osserva anche nella diffidenza che il personaggio mostra nei confronti di Elda. Infatti Johnny cerca di colmare la mancanza della figura materna, come figura protettiva, non nella donna - che ricorda ancora troppo la madre - ma nella Natura, che è l’unica vera forza generatrice. In questo senso è molto indicativo il momento in cui Johnny si fa il bagno nel fiume: "Notò ai margini della corrente principale una conchetta d’acqua, naturalmente azzeccata e felice. Johnny non ci resistè, si liberò del vestito e delle armi, e si immerse verticalmente, monoliticamente in quell’immobile vortice, fino alle spalle, con un lungo e filato fremito, equivalente perfetto, più perfetto di una carica sessuale" <243. Così Johnny/Fenoglio si ricongiunge alla sua esperienza prima nel ventre materno, ai nove mesi nel liquido amniotico. E nel fiume si sente accolto e consolato. Il rapporto tra Johnny e la Natura diventa simbiotico e il personaggio si affida a Lei nonostante le sue indifferenti ostilità: la neve, la pioggia, il fango, il freddo. Ho compreso tutto questo dopo avere girato il film, in cui si trovano solo alcune intuizioni a livello embrionale, perché durante la realizzazione la mia idea era più concentrata nel ritrarre il partigiano Johnny come “l’uomo autentico”, guidato da uno spirito razionale, pronto ad affrontare l’estrema solitudine invernale e tutta l’esperienza della Resistenza guidato dalla ragione. Lavorando al film ho cercato di comunicare quella che - secondo me - era l’intenzione dell’autore, cioè la ricerca di risposte esistenziali nella ragione, e una volta compreso che queste risposte non ci sono Johnny accetta che l’ultimo risultato della logica porta inevitabilmente al suicidio. Oggi invece, per leggere il personaggio, mi concentrerei di più sul rapporto madre-figlio dell’autore.
9) Legge la morte di Johnny come un suicidio?
Assolutamente sì. Sia di Johhny, che di Milton, dove ancora più chiaramente si vede il partigiano abbandonarsi in un ultimo abbraccio alla Natura - unica fonte di vita - e come in un’esperienza panica si lascia andare ad una Natura che lo riprende a sé. Johnny rappresenta un’umanità che cerca conforto, ma non potrà mai averlo. Per questo il "Partigiano Johnny" è un romanzo che comunica una forte riflessione esistenziale. Considero Leopardi, Fenoglio e Pasolini i maggiori scrittori-filosofi della letteratura italiana. Infatti per Johnny la vita può esistere solo nella natura, nonostante sia una natura cieca, che fa male. Esattamente come per Leopardi.
10) Quindi Johnny come emblema della condizione umana?
Esattamente. Johnny rappresenta l’uomo nella sua considerazione essenziale, e la dimensione unica nella quale può esprimersi pienamente è quella della guerra; perché la guerra è una condizione estrema dove l’uomo si trova di fronte a sé stesso, in una solitudine infinita che permette di affrontare le domande fondamentali sul significato dell’esistenza umana.
[NOTE]
241 B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, cit., p. 159
242 Ivi, p. 211
243 Ivi, p. 220
Anna Voltaggio, Spazi partigiani: il paesaggio letterario nella narrativa della Resistenza italiana, Tesi di Laurea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno accademico 2006-2007

giovedì 22 febbraio 2024

L'accusa ai comunisti di usare gli scioperi come arma politica contro il governo, se non addirittura come atti preparatori alla insurrezione armata


Solitamente la fiammata insurrezionale del luglio '48, seguita all'attentato a Togliatti, viene considerato l'episodio conclusivo del ciclo conflittuale iniziato con le agitazioni del marzo 1943. Secondo noi risulta invece più corretto, sia a livello nazionale che locale, comprendere anche i due anni successivi fino alle mobilitazioni del 1950: l'eccidio di Modena del 9 gennaio e il grande, ultimo, sciopero bracciantile della pianura padana dell'autunno rappresentano la definitiva chiusura di fase e l'inizio del decennio critico per il movimento dei lavoratori.
Vediamo brevemente i momenti più importanti della fase '47-'50 per quanto riguarda il contesto milanese: la vertenza estiva, luglio-agosto, sulle riunioni interne nelle fabbriche e sul radicale ridimensionamento delle Commissioni Interne; a fine agosto la CGIL nazionale lancia la 'crociata popolare' contro carovita e disoccupazione, che vede Milano in prima fila con un lungo sciopero di 48 ore dei metallurgici il 17 e 18 settembre; dal 7 al 20 settembre 1947 si verifica un grande sciopero bracciantile nelle campagne, di portata nazionale, che presto si estende ad altre categorie, quali anzitutto i mungitori che a dicembre incrociano le braccia; dalla fine di ottobre entrano in agitazione i principali stabilimenti industriali cittadini (Caproni, Lagomarsino, Isotta Fraschini), la cui avanguardia è rappresentata dalle Rubinetterie della Edison, contro i licenziamenti di massa che colpiscono l'industria meneghina e dove affiorano nuovamente le parole d'ordine dell'autogestione; le agitazioni (con proclamazione dello sciopero generale di 12 ore) e l'occupazione della prefettura del novembre '47 guidata dai dirigenti comunisti locali, per protestare contro la sostituzione del prefetto Ettore Troilo (azionista, molto amato dai lavoratori, l'ultimo di nomina CLN) con un funzionario di carriera, da parte di Scelba; gli scontri di piazza del 25 aprile 1948, culmine di un crescendo di violenza poliziesca nei confronti delle agitazioni sindacali e sociali; sciopero bracciantile del maggio-giugno '48, ben presto esteso anche ai mungitori, durante il quale osserviamo il ripresentarsi di antiche forme conflittuali radicali; le mobilitazioni operaie di giugno-luglio, che vedono oltre 250.000 lavoratori in piazza e, dal 2 luglio con la proclamazione dello sciopero generale, l'occupazione delle fabbriche (in particolare Falck, Bezzi, Motta) da parte dei lavoratori; il moto insurrezionale del 14-15 luglio (anche se a Milano assume caratteri decisamente meno radicali rispetto ad altre città, come ad esempio Genova), strettamente connesso con le agitazioni in corso, seguito all'attentato a Togliatti; nuovo sciopero bracciantile a novembre, contro la disdetta di massa che esclude i lavoratori legati alla Federterra; i lavoratori agricoli sono i principali protagonisti delle lotte sociali che dall'aprile '49 fino all'autunno del 1950 agitano la provincia e le campagne milanesi e lombarde; ad essi si affiancano, a Milano, le cosiddette 'lotte difensive' che in alcuni casi portano gli operai ad occupare le fabbriche in risposta alle serrate padronali.
È significativo che lo sciopero bracciantile dell'autunno '50 sia stato chiamato in seguito, dai protagonisti stessi, 'sciopero della sconfitta' <396; mentre gli ultimi episodi del conflitto operaio urbano, risoltisi anch'essi in un fallimento dal punto di vista vertenziale, preludono alla crisi di consenso che FIOM e CGIL conosceranno con le sconfitte storiche nelle elezioni delle commissioni interne, oltre che al completo ribaltamento dei rapporti di forza interni alle fabbriche, di cui i 'reparti confino' saranno la rappresentazione più odiosa. Dopo la fiammata dell'estate '48, l'andamento del conflitto sociale (numero degli episodi, lavoratori coinvolti, successo rispetto al piano rivendicativo) è discendente, fino poi a chiudersi.
È possibile individuare tratti comuni agli episodi di tutto il periodo, anche se dopo le mobilitazioni di luglio '48 il tratto essenziale dell'autonomia e del dualismo di poteri è ormai definitivamente tramontato. Se nel '45-'47 la politica del conflitto ruota attorno alla sopravvivenza e le condizioni di lavoro, i criteri della ricostruzione e l'epurazione antifascista, possiamo dire che nel periodo successivo la battaglia su questi piani è sostanzialmente persa, ma si continua a combattere: la politica economica centrale ha fissato sia la libertà padronale di licenziamento che il piano di sacrifici per i lavoratori, determinando in questo modo la gerarchia sociale del processo di ricostruzione.
Adesso le piattaforme e le modalità del conflitto assumono contenuto radicale e in alcuni casi rivoluzionario (sebbene in assenza di una situazione rivoluzionaria), si recuperano le istanze più estremiste e le aspirazioni classiste di rottura, nonostante il contesto sia nettamente più sfavorevole rispetto al '45.
Importante aprire una parentesi (che riprenderemo più avanti) sull'azione di Mario Scelba ministro degli Interni (dal febbraio '47), dopo la cacciata delle sinistre dal governo. Chi era Scelba? Uomo del circolo ristretto della Democrazia cristiana, esponente di quel filone democratico conservatore che rifiuta la cittadinanza politica alle 'classi pericolose', è sostenitore della necessità di stroncare preventivamente quei movimenti sociali e politici che dietro le bandiere del lavoro sono in realtà gli antichi portatori del germe della sovversione: "È insomma un esponente di primo piano del partito, una figura di rilievo dei governi De Gasperi e il cui impegno, prevalentemente indirizzato al rafforzamento dello Stato, alla riorganizzazione delle forze di pubblica sicurezza e alla protezione della democrazia, va perciò inquadrato nelle scelte e nell'azione della classe dirigente che guida il paese all'uscita dalla guerra e che affronta il problema dell'ordine pubblico 'anche eminentemente come problema politico'." <397
Da questo punto di vista, dunque, egli porta a compimento quel processo di assorbimento e rivalutazione democratico-conservatrice di elementi tipici della tradizionale cultura di governo italiana e di strumenti ereditati dal fascismo (a partire dalla sostanziale preservazione integrale del Testo unico sulle leggi di pubblica sicurezza - TULPS e il codice penale Rocco). Diciamo che lo porta a compimento perché, da quanto abbiamo anticipato nel paragrafo precedente, il processo è stato avviato nel primissimo dopoguerra; Scelba gli dà una dichiarata funzione pubblica, che recupera antiche credenze proprie delle classi dirigenti prefasciste e dandogli carattere di permanenza nei decenni successivi: "Fu soprattutto Scelba a dare alla polizia una chiara direzione politica contro i partiti politici e le organizzazioni collaterali del movimento operaio - condivisa da tutto il gabinetto e dal presidente del consiglio De Gasperi - con una crescente azione repressiva verso il sindacato e gli scioperi. Nel lavoro pratico della polizia ciò si traduceva in continui interventi nei conflitti sindacali per salvaguarda la 'libertà di lavoro'. Gli interventi sempre più duri erano giustificati con l'accusa ai comunisti di usare gli scioperi come arma politica contro il governo, se non addirittura come atti preparatori alla insurrezione armata". <398 Filosofia politica esplicitata inoltre dalla sua riserva nei confronti della Costituzione e dei diritti sociali in essa contenuti: "[…] per assecondare lo sforzo di ciascuno e della Nazione, avranno corso tutte le misure ritenute necessarie perché l'azione disgregatrice non abbia a prevalere, quale che sia il costo e il nostro impegno. Rispettosi della Costituzione, siamo peraltro convinti che essa non può diventare una trappola per la libertà del popolo italiano a cui garanzia è stata voluta". <399
L'epurazione (obiettivo mai realmente perseguito nemmeno sotto il governo Parri) è stata definitivamente bloccata e anzi il processo invertito, con l'allontanamento dagli apparati di sicurezza di uomini della sinistra antifascista e di nomina CLN, il reinserimento di quadri medi e alti del periodo fascista, l'annullamento del decreto di incorporamento di 15.000 partigiani nelle forze di polizia ed esercito. "Scelba, poi, procedette a un'accurata selezione del personale nelle posizioni di comando, allontanando per esempio gli ultimi prefetti di nomina politica. Emblematica delle scelte di Scelba fu la nomina nel 1948 di un militare, il generale Giovanni D'Antoni, già prefetto di Bologna, come nuovo capo della polizia. Degli 8.000 ex partigiani che aveva trovato ancora all'interno della polizia, Scelba fece, come dichiarò in un'intervista a 'il Resto del Carlino' (24/2/1971), 'piazza pulita', offrendo condizioni molto favorevoli a chi era disposto a lasciare volontariamente il corpo, ma facendo anche ricorso a un vero e proprio mobbing con trasferimenti punitivi nelle isole. Il punto più importante per caratterizzare la gestione di Scelba sembra però l'allineamento politico-ideologico della polizia e l'affermazione al suo interno di una mentalità che faticava a comprendere e ad accettare la portata dei diritti sanciti dalla costituzione. Più che di un'affermazione però sarebbe corretto di parlare di una riaffermazione che poteva contare su tendenze consolidate da più generazioni all'interno delle forze dell'ordine […]". <400 Aggiungiamo che Scelba si adopera anche per trasformare il reparto Celere da strumento di 'civilizzazione' della gestione dell'ordine pubblico di piazza, come voleva Romita, in mezzo di contenimento e repressione rapida di manifestazioni, scioperi, presìdi e di tutte le forme conflittuali  pubbliche di massa.
Le conseguenze di questa azione politico-organizzativa furono determinanti per la futura composizione delle forze di polizia in Italia: "le tensioni politiche e sociali portarono, o costrinsero, molti ausiliari a non fare domanda per un regolare arruolamento nella Ps, con il risultato finale che all'inizio dell'anno 1950 dei ventimila ausiliari, poco più di 4000 erano rimasti in servizio, a differenza di praticamente tutti gli ex agenti della Pai rientrati. Il ricambio fu anche regionale: gli ausiliari essenzialmente d'origine settentrionale vennero sostituiti da una nuova leva di agenti meridionali, alla ricerca di una collocazione lavorativa e del tutto privi dell'esperienza politica della lotta di Liberazione". <401
Come già anticipato, è precisamente su questo terreno che l'azione dei comunisti al governo ha trovato dei limiti (esterni e interni) invalicabili: nella continuità tra Stato fascista e post-fascista, esplicitando un fenomeno che Renzo Martinelli ha definito 'autocefalia dell'esecutivo' <402, ovvero di separazione netta della dirigenza dai quadri intermedi e dalla base.
Ma qual è stata la premessa di tutto ciò? La fine dell'emergenza e dell'unità antifascista, con il passaggio del dopoguerra alla sua fase definita di 'guerra civile fredda'. Mario Venanzi, partigiano in Val Sesia e Val d'Ossola, deputato comunista e assessore all'urbanistica nella giunta Greppi, ricorderà anni dopo quel momento di passaggio che non si può dire fosse arrivato come un fulmine a ciel sereno: "Come presidente del Cln lombardo, dopo Sereni, posso dire di aver vissuto da vicino il processo di rottura dell'unità antifascista. Prima sono i liberali che se ne vanno, poi sono i democristiani che tentennano. Già con Romita ministro degli interni si era cominciato ad assistere ai primi tentativi di ricucire il vecchio tessuto statuale. Intanto, si cambiano i questori, e a uno a uno si tolgono tutti quelli nominati dal Cln. A Milano spediscono il questore di Modena, lo stesso che, nell'agosto del '43, era venuto nel carcere di Castelfranco Emilia assieme al procuratore del re quando noi detenuti politici avevamo iniziato lo sciopero della fame perché non si decidevano a liberarci. Ancora più che un affronto poteva sembrare una beffa. […] Ci mandano un altro questore, Vincenzo Agnesina, un vecchio volpone della questura romana che era stato capo della polizia speciale di Mussolini ma che, nel '43, aveva preso ad assumere degli atteggiamenti da antifascista. […] Sono proprio le elezioni [quelle amministrative, nda] l'ultimo golino, come dicono i toscani, l'ultimo colpo sotto la gola. Il Cln viene liquidato e il vento del Sud, che cominciava a risalire la penisola, intacca e sbreccia quell'unità antifascista che, a Milano, era ancora molto forte e sentita. Ma noi, da questo osservatorio, stentiamo a capire che quelle forze che la Resistenza sembrava avesse spazzato via riprendono a sollevare la testa. Solo dopo il 2 giugno cominciamo a renderci conto di qual è la scacchiera sulla quale ci muoviamo […] Noi non avevamo, come potevamo averlo a Roma, il polso reale della situazione. Certo, le volte che andavamo a Roma ci si accorgeva che, scendendo verso il Sud, la realtà cambiava sotto gli occhi. Altro linguaggio, altri comportamenti, altra mentalità. Ma solo le elezioni del 18 aprile ci diedero la misura di quel che era il paese". <403
La direzione PCI si trova in realtà costretta da due cause principali a lanciare la controffensiva con il rilancio a fondo delle lotte, a tutti i livelli: lo spostamento a destra dell'asse politico nazionale, in previsione delle elezioni generali del 18 aprile '48, e le direttive del neonato Cominform ai partiti comunisti occidentali di interrompere le politiche di compromesso. C'è poi anche una ragione economica legata alla crisi nera che vive il paese e che in alcuni centri (come Milano) è particolarmente dura, portando le Camere del Lavoro locali a superare la svolta moderata decisa dalla CGIL nazionale. In alcuni casi viene accolta con sollievo la nuova linea di Mosca e la fine dell'unità antifascista, vista come un costante compromesso al ribasso; anche a livello locale i dirigenti comunisti la interpretano positivamente, come l'uscita da una situazione ambigua: questo è ad esempio il giudizio espresso da Pajetta sull'uscita della DC dalla giunta di Milano guidata dal socialista Antonio Greppi. Nel capoluogo lombardo è Longo che coordina l'applicazione delle nuove direttive, che hanno nelle fabbriche il luogo privilegiato, affermando che la Direzione "denuncia l'offensiva padronale che, mirando ad avere mano libera nei licenziamenti, vuol gettare sul lastrico centinaia di migliaia o addirittura milioni di lavoratori… la Direzione invita pertanto tutti i compagni che ricoprono cariche sindacali e tutte le organizzazioni del partito a dare la massima attenzione alla preparazione e all'organizzazione della resistenza e del contrattacco […] Il partito riprenda la lotta fino in fondo, chi non intende impegnarvisi può andarsene". <404
Non potrebbe essere altrimenti: secondo il rapporto di Pietro Secchia, responsabile dell'organizzazione, alla fine del 1947 "nella provincia di Milano abbiamo nel partito il 71% di operai, poco più del 4% di artigiani, neppure l'1% tra intellettuali, studenti e tecnici. L'1,65% di coloni, piccoli proprietari e piccoli affittuari. Poco più del 7% di giornalieri, obbligati e salariati agricoli". <405
La svolta a sinistra del PCI milanese è data però anche da altri due cambiamenti: il passaggio di Giuseppe Alberganti dalla segreteria della CdL a quella della Federazione comunista; la maggiore forza acquisita da Pietro Vergani, esponente dell'ala dura del partito, come segretario  d'organizzazione a Milano. Contemporaneamente, come già accennato, anche nel PSIUP si consolida a livello nazionale la svolta a sinistra data in particolare dal gruppo settentrionale e milanese (qui per un moto più spontaneo che imposto da direttive esterne, come nel caso del PCI), che culmina con l'uscita dei moderati e socialdemocratici interni guidati da Giuseppe Saragat, nella famosa scissione di Palazzo Barberini (11 gennaio 1947), che darà vita al Partito socialista dei lavoratori italiani - PSLI (successivamente Partito socialdemocratico italiano - PSDI) e porta i socialisti ad assumere la vecchia denominazione di Partito socialista italiano - PSI. A fine dicembre '47 PCI e PSI danno vita al Fronte democratico popolare in vista delle elezioni.
A settembre è lo sciopero di oltre 600.000 braccianti nel centro-nord a scuotere il paese: le tradizionali questioni dell'imponibile e del collocamento sono al centro delle agitazioni nelle diverse province padane, in particolare rivendicando la regolamentazione degli imponibili e la giusta causa nelle disdette dei lavoratori delle cascine, per cercare di limitare l'arbitrio degli agrari: "Agrari che sparano contro gli scioperanti sono segnalati nel Bresciano, nel Pavese, nel Padovano, mentre d'altro canto allarmi crescenti destano sia la tendenza a estendere lo sciopero ai mungitori sia gli 'scioperi alla rovescia' per imporre ai proprietari lavori di miglioria: proclamati in nome delle esigenze della produzione ma vissuti per la verità sia dagli agrari che dai braccianti come 'invasioni' od 'occupazioni' delle aziende (e una relazione sindacale segnala con preoccupazione 'qualche incidente, di cui qualcuno abbastanza grave come incendi di cascine, fucilate per le strade, atti di crumiraggio')". <406 Si richiede inoltre un contratto unificato che equipari la loro condizione a quella dei lavoratori industriali.
Nelle campagne il conflitto assume caratteri molto duri ed estremi: non solo per i braccianti che ripropongono antiche forme di lotte, quali il 'gallo rosso' e il sabotaggio, ma anche perché gli agrari rappresentano il principale sostegno del terrorismo neofascista che si sta riorganizzando in questi mesi e che colpisce, tra i diversi obiettivi, in particolare cooperative e case del popolo. Il 9 novembre, ad esempio, un gruppo di giovani comunisti sta rientrando a mezzanotte da una festa da ballo a San Giuliano Milanese e, mentre attraversa un ponte, vengono sparati alcuni colpi di rivoltella che ne feriscono tre. L'11, su invito del sindaco di Mediglia (un paesino nei pressi del capoluogo), alcune centinaia di operai della Breda e della Caproni raggiungono sui loro autocarri il paese dove si sarebbe tenuta una dimostrazione: viene presa d'assalto la casa dell'agrario Giorgio Magenes, ritenuto implicato sia nell'attentato del ponte sia nel lancio di alcune bombe contro un cooperativa sempre a San Giuliano e una trattoria popolare a Desio; Magenes spara contro i lavoratori, uccidendo l'operaio 21enne della Breda Luigi Gaiotti e ferendo Domenico Rivolta. Nonostante l'arrivo dei carabinieri che tentano di portarlo via, questi vengono soverchiati dalla folla che lincia a morte il proprietario terriero. Così un militante della Volante Rossa, presente a quella come ad altre dimostrazioni, ricorda l'episodio: "Abbiamo fatto l'assalto alla cascina. E quando sono arrivati i carabinieri con sei autoblindo è stato troppo tardi, l'avevamo già linciato. Due autoblindo dei carabinieri non ci hanno poi mollato fino a Milano, scortavano il nostro camion". <407
[NOTE]
396 G. Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti dall'Ottocento alla fuga dalle campagne, p. 246, Donzelli 2007
397 L. Bertucelli, All'alba della repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L'eccidio delle Fonderie Riunite, p. 26, Edizioni Unicopli 2012
398 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., p. 73
399 M. Scelba, discorso alla Basilica di Massenzio, Roma, 15 agosto 1950, cit. in ibidem, p. 70
400 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 74-75
401 P. Dogliani, La polizia alla nascita della Repubblica, p. 25, in P. Dogliani, M.A. Matard-Bonucci, op. cit.
402 Cfr. R. Martinelli, op. cit., p. 233
403 G. Manzini, op. cit., pp. 89-91
404 L. Longo cit. in G. Galli, op. cit., p. 177
405 P. Secchia, Il partito della rinascita (Rapporto alla Conferenza Nazionale d'organizzazione del Partito comunista italiano), p. 33, cit. in R. Martinelli, op. cit., p. 165
406 G. Crainz, op. cit., p. 237
407 C. Bermani, op. cit., p. 84
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

venerdì 16 febbraio 2024

La creazione dell'Alpenvorland rese appunto chiara la politica di Hitler nei confronti di questa zona


Ciò che avvenne a Malga Zonta si inserisce dunque nel grande rastrellamento che, iniziato la notte tra l'11 e il 12 agosto [1944] si protrasse fino al 15 agosto. Questo rastrellamento puntava ad eliminare la presenza partigiana in tutta la zona di Posina e di Folgaria. Come già detto, nella Valle di Posina era stata creata una sorta di zona libera, ovvero una zona che era sotto l'organizzato controllo della Resistenza. I partigiani delle “Garemi” inoltre l'avevano eletta a zona nella quale impiantarvi i loro “uffici” dirigenti, non temendo alcun attacco nemico, così come per la zona di Passo Coe, dove c'era la base di Germano Baron.
Per i nazisti però queste zone erano troppo importanti: la creazione di “zone franche”, come quella di Posina, era così particolarmente combattuta dai tedeschi in quest'area del Veneto.
[...] Tutti i partigiani morti a Malga Zonta erano vicentini. La maggior parte di loro era nata a Malo e Monte di Malo, altri a San Vito, Bruno Viola a Vicenza. L'eccidio di Malga Zonta è avvenuto però a poca distanza da Folgaria, in provincia di Trento. Certo, molto vicino al confine con il Veneto. Ma in territorio trentino.
Ma non è questo il motivo per cui ho deciso di dedicare una parte di questa tesi alla Resistenza nel Trentino Alto Adige. Non è stata insomma una mera questione geografica a motivare la mia scelta, bensì il desiderio di capire più a fondo alcune questioni che sono nate durante lo svolgimento della tesi e che all'inizio dello studio non avrei pensato di dover affrontare.
In particolare sentivo la necessità di verificare quello che, durante le interviste, mi veniva detto da alcune persone, che esprimevano un sentimento di ostilità, di mal celato “rancore” nei confronti dei partigiani, fino a veri e propri giudizi negativi sul loro operato.
Si può giustamente obiettare che questi giudizi sono sicuramente presenti nella memoria di molte persone, non solo qui in Trentino.
Bisogna però considerare le grosse difficoltà che ebbe la Resistenza a nascere e diffondersi in questa parte dell'Italia. Ecco allora che le due questioni sembrano collegarsi e porre degli interrogativi ai quali rispondere.
Da questi presupposti infatti la mia intenzione era quella di capire il perché delle difficoltà organizzative della Resistenza e il tentativo di capire se il sentimento di “ostilità” di alcune persone nei confronti dei partigiani fosse motivato da questioni di carattere esclusivamente personale o se tale sentimento poggiasse su basi più “solide”, trovasse cioè qualche riscontro nelle vicende storiche; capire insomma per quale motivo siano nati tali giudizi negativi.
Il Trentino Alto Adige non rappresentava solamente una realtà a sè stante rispetto al resto d'Italia, ma anche al suo interno era notevolmente differenziato. Se l'Alto Adige era caratterizzato per il suo forte consenso alla Germania, il Trentino aveva carattere anti tedesco ma anche anti italiano, riconoscendo nell'Italia il regime fascista, arrivando quindi a tendenze autonomistiche.
Va detto infine che sebbene la Resistenza abbia avuto grosse difficoltà a svilupparsi in Trentino Alto Adige, le “Garemi” intervennero anche su questo territorio, congiungendo idealmente Resistenza veneta e trentina.
Per capire appieno ciò che successe in Trentino Alto Adige tra il 1943 e il 1945 bisogna fare una premessa, che ci porta indietro di qualche anno.
Il Trentino Alto Adige era stato sottratto all'impero asburgico e annesso al Regno d'Italia nel primo dopoguerra.
Il regime di Mussolini mantenne, nei confronti di questa regione, un comportamento che sarà causa di un grosso malcontento. Mussolini infatti procedette verso una italianizzazione forzata della regione, cercando di ridurre l'influenza della componente tedesca ad esempio vietando l'uso della lingua tedesca nelle scuole e in pubblico, modificando i cognomi delle persone da tedeschi a italiani o ancora ingrandendo l'area industriale di Bolzano e mandandovi a lavorare persone italiane. Altri malumori nacquero, soprattutto nella parte trentina, nel 1927, quando Bolzano e Trento vennero separate e furono create due province differenti. Il fascismo così non ebbe mai grosso seguito: “non perché la gente trentina fosse estranea per costituzione ad ideologie di questo tipo,ma perché mancavano le premesse politiche e sociali che consentissero il diffondersi dell'ideologia fascista.” <46
La borghesia industriale, come i grandi proprietari terrieri erano esigui numericamente. La gran parte della popolazione era formata da piccoli coltivatori diretti, inseriti nelle organizzazioni del clero e del movimento cattolico. Si può dire che le decisioni del fascismo “avevano alimentato nella popolazione un senso di rimpianto e di simpatia per la “buona” amministrazione austriaca...” <47
Ai motivi sociali si aggiungeva poi il fatto che il fascismo aveva creato, con la sua politica centralista, indifferente alle esigenze locali e autonomistiche, un malumore crescente nella popolazione trentina.
Anche la Germania puntava alla conquista del Trentino Alto Adige.
L'interesse di Hitler per questa regione era insito nell'idea che perseguiva, quella cioè di riunire in un'unica nazione tutto il popolo tedesco, e dunque anche le minoranze all'estero: “il 20 febbraio 1938 in un discorso al Reichstag Hitler rivendicava il diritto di tutelare e provvedere ai 10 milioni di tedeschi viventi all'estero, in un tono e in un contesto tale del discorso che non lasciava dubbi sul programma ultimo, quello di risolvere le questioni relative anche con la forza, modificando la carta politica dell'Europa.” <48
Questo nonostante le dichiarazioni come quella del 7 maggio 1938, in cui a palazzo Venezia, a colloquio con Mussolini, affermava il contrario: “È mia incontrollabile volontà ed è anche mio testamento politico al popolo tedesco che consideri intangibile per sempre la frontiera delle Alpi eretta fra noi dalla Natura.” <49
Una “soluzione” fu siglata il 23 giugno 1939. Gli accordi di Berlino regolamentavano l'opzione e il trasferimento nel Reich dei sudtirolesi: entro il 31 dicembre 1939 la popolazione di Bolzano e provincia, di Ampezzo e Livinallongo, nel bellunese, e della Val Canale, in provincia di Udine (ma anche altre genti della Val di Fassa, secondo accordi verbali) dovevano esprimere la loro preferenza, se assumere o meno la cittadinanza tedesca. Entro il 31 dicembre 1942, quindi nell'arco di tre anni, il trasferimento doveva essere completato.
“Vanno male le cose in Alto Adige. I tedeschi, in seguito agli accordi, si preparano a compiervi un vero e proprio plebiscito. E fin qui niente di male, se i tedeschi subito dopo aver optato, se ne andassero. Invece niente. Hanno la facoltà di rimanere fino a tre anni... Mussolini dice che non ci vede chiaro” scriveva nei suoi diari Galeazzo Ciano. <50
Il risultato di tali accordi però fu quello di dividere ancora di più la popolazione, tra dableiber, coloro i quali scelsero di rimanere in Italia, e optanten, che invece scelsero di “aderire” al Reich.
Si può stimare che dal 69% al 88% degli aventi diritto abbia scelto di optare per il Reich anche se gli espatri furono rallentati da molteplici fattori: lo scoppio della seconda guerra mondiale, difficoltà burocratiche dovute alla reale valutazione del patrimonio, le perplessità degli optanti per l'incertezza del loro destino (a volte si diceva che sarebbero stati portati sui monti Beskidi in Polonia, altre volte in Borgogna, altre in Crimea).
Così in tutto “gli espatriati effettivi furono circa 85.000, un terzo scarso della popolazione tedescofona, e di essi almeno 20.000 espatriarono perché essendo divenuti cittadini del Reich erano stati richiamati alle armi.”51Altre cifre ci vengono date da Hubert Mock. Mock dice che su 246.000 votanti, un numero compreso tra 188.978 e 201.336 persone scelsero di trasferirsi nel Reich. Circa 78.000 furono però gli optanti che effettivamente emigrarono. I non optanti e quanti optarono per l'Italia furono tra 44.600 e 57.000 persone. <52
L'iniziale rinuncia di Hitler al controllo del Trentino Alto Adige era stata dettata dall'alleanza con il fascismo allo scopo di raggiungere fini comuni in politica interna ed internazionale. Tali remore cadranno definitivamente in seguito all'8 settembre 1943 seguendo così in Trentino la strada già perseguita in Austria, Cecoslovacchia, Polonia. Insomma, l'interesse di Hitler per il Trentino era stato sempre dissimulato, latente, ma mai sopito.
L'8 settembre comportò dei cambiamenti anche da questo punto di vista: “Questa data fu come il disco verde per iniziare l'attuazione dei progetti annessionistici. Il Reich si sente più libero nei confronti dell'Italia che è uscita dall'alleanza militare...” <53
La creazione dell'Alpenvorland rese appunto chiara la politica di Hitler nei confronti di questa zona.
Il 10 settembre 1943 venne istituita la “Zona d'operazione delle Prealpi”, comprendente le province di Trento, Belluno e Bolzano, che venivano annesse di fatto alla Germania, sotto il controllo di Franz Hofer, Gauleiter di Innsbruck e del generale Joachim Witthöft. Il primo veniva nominato commissario supremo, il secondo comandante nella Zona d'operazione delle Prealpi.
Di fatto la Germania non tollerava l'ingerenza fascista in questi territori, avocando a sè la totale facoltà di amministrarli.
Tra il 25 luglio e l'8 settembre l'Alto Adige era già stato occupato da truppe tedesche, per lo più però di passaggio; l'occupazione militare era però un fatto compiuto anche prima dell'8 settembre.
“Fu il 17 settembre che giunse ufficialmente a Trento la nuova dell'avvenuto distacco politico-amministrativo delle tre province italiane (Belluno, Trento e Bolzano appunto, nda) dal resto del Paese e della loro riunione, per ordine del Capo nazista in un organismo denominato Zona d'Operazione delle Prealpi (Alpen Vorland), direttamente controllato dalle autorità germaniche d'occupazione al cui vertice era stato messo, col titolo di Commissario Supermo, il Gauleiter del Tirolo e Vorarlberg, Franz Hofer, di Innsbruck.” <54
La creazione “ufficiale” dell'Alpenvorland (Zona d'operazione delle Prealpi, detta anche OZAV da Operationszone Alpenvorland appunto) e della Adriatisches Küstenland (zona di operazioni Litorale Adriatico, OZAK, affidata al Gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer, comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume) risale dunque al 10 settembre 1943.
Numerosi furono i provvedimenti e le azioni mirate che resero chiaro che la Germania intendeva di fatto esercitare poteri sovrani sull'Alpenvorland.
Hofer invitava i dipendenti delle pubbliche amministrazioni a non prestare giuramento alla Rsi, poiché “i diritti sovrani del Governo italiano nella zona di Operazioni delle Prealpi sono attualmente sospesi” <55, si vietava a Mussolini di porre la sede della neonata Repubblica sociale in territorio trentino, si vietava nell'Alpenvorland la ricostruzione del Pfr, venne tolta alla Rsi la possibilità di nominare i prefetti (come ad esempio l'estromissione di Italo Foschi a Trento, poi “ripagato” con la carica a Belluno). L'arruolamento di nuovi soldati era di competenza del commissario supremo Hofer e le autorità militari italiane non potevano circolare liberamente, se non con il consenso delle truppe germaniche.
[NOTE]
46 Anna Maria Lona, Amministrazione, società e resistenza nel Trentino occupato (1943-1945), in Venetica. Rivista di storia delle Venezia, numero 2, luglio-dicembre 1984, Francisci Editore, Abano Terme, 1984 pag. 151
47 ibidem
48 Umberto Corsini, L'alpenvorland, necessità militare o disegno politico?, in AA.VV, Tedeschi, partigiani e popolazioni nell'Alpenvorland (1943-1945), Marsilio Editori, Venezia, 1984, pag. 18
49 Cit in Umberto Corsini, op. cit., nota 6 pag. 12
50 Galeazzo Ciano, Diario, in Umberto Corsini, op.cit., pag. 13
51 Gustavo Corni, Spostamenti di popolazioni nella Seconda guerra mondiale. Una nuova fonte sulle opzioni in Sudtirolo (1939-1943) in AA.VV, Demokratie und Erinnerung. Südtirol Österreich Italien. Festschrift fur Leopold Steurer zum 60. Geburstag, StudienVerlag, InnsbruckWien 2006, pag. 169
52 Hubert Mock, Geher e Bleiber. Concetti, eventi, esperienze, in Andrea Di Michele, Rodolfo Taiani (a cura di), La Zona d'operazione delle Prealpi nella seconda guerra mondiale, Fondazione Museo storico del Trentino, Trento, 2009, pag. 175
53 Umberto Corsini, op. cit., pag. 31
54 Antonino Radice, La Resistenza nel Trentino. 1943-1945, Collana del museo trentino del Risorgimento, Rovereto, 1960, pag. 57
55 Umberto Corsini, op. cit., pag. 41
Francesco Corniani, Un marinaio in montagna. Storia di Bruno Viola e dell'eccidio di Malga Zonta, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno accademico 2009-2010

venerdì 9 febbraio 2024

Sarebbe stato l’ultimo atto del governo Forlani prima di essere sfiduciato


Secondo il magistrato Giuliano Turone i documenti sequestrati all’aeroporto di Fiumicino furono deliberatamente fatti ritrovare da Gelli al fine di lanciare un messaggio chiaro sulla quantità e sulla qualità di informazioni che ancora erano in suo possesso. <66
In quest’ottica, il “PRD” sarebbe servito solamente a stimolare una reazione da parte di quei settori della classe politica più compromessi con la storia piduista; un canovaccio di idee atte a richiamare all’ordine tutti quei personaggi politici che sono legati a filo doppio alle logiche e ai ricatti del sistema P2. Quest’ultimo giudizio coincide parzialmente con quello dato da Teodori nella relazione finale, che giudica il “Piano” un “pezzo di carta […], un collage di ovvie e banali proposte di riforme costituzionali in circolazione negli ambienti politici ed accademici alla metà degli anni settanta”. In conclusione il “Piano di Rinascita Democratica” era un testo che lasciava presagire l’ipotesi di una istituzione totale chiusa all’impegno di cittadini consapevoli. Un trattato che se non destabilizzava il sistema democratico, certamente lavorava per mettere la sordina alle sue componenti più vitali.
1.3 La legge istitutiva.
Nei giorni successivi alla perquisizione e al sequestro di Castiglion Fibocchi, il silenzio avvolgeva l’intera operazione della Procura della Repubblica di Milano. Niente era trapelato a livello ufficiale e l’affaire P2 occupava un posto marginale nelle redazioni dei giornali. Ma le voci insistevano nel mese di marzo, e i trafiletti diventavano articoli guadagnando il sempre più vivace interesse dell’opinione pubblica, tanto che nel mese di aprile già ci si domandava: “Quali segreti nelle carte di Gelli?” <67
All’inizio del maggio 1981 alcuni deputati del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale avevano depositato un disegno di legge che estendeva i poteri della Commissione parlamentare che stava indagando sul caso del banchiere Sindona allo scopo di appurare i possibili collegamenti con le inchieste giudiziarie partite dalla Procura della Repubblica di Milano che interessavano il ruolo svolto dalle logge massoniche negli avvenimenti politici, economici e bancari, degli anni 1970-1980. <68
Mentre il Presidente del Consiglio Forlani definiva “fantasiosi” <69 i nomi dei presunti iscritti alla loggia P2 che i giornali continuavano a pubblicare, il settimanale “Panorama” si era spinto a divulgare un’intera lista di 82 personalità del mondo politico, delle forze armate, della magistratura, dell’editoria, del giornalismo e delle banche. Erano nomi importanti: vi si trovava il ministro del Commercio con l’estero, Enrico Manca <70, il senatore Gaetano Stammati, il capogruppo del Partito socialista alla Camera, Silvano Labriola, il segretario del Partito social-democratico, Pietro Longo.
Il Presidente del Consiglio Forlani aveva cercato invano di minimizzare la portata dello scandalo. A capo di una coalizione allargata a socialisti, repubblicani e socialdemocratici, composta da 13 ministri democristiani, 7 socialisti, 3 ciascuno ai repubblicani e ai socialdemocratici, l’indole di Forlani non sembrava reggere il peso di decisioni impellenti come quelle a cui il governo era chiamato in quella primavera del 1981 <71
Nel referendum indetto il 17 maggio il mondo cattolico non era riuscito a impedire che gli italiani aderissero a leggi ritenute dalla Chiesa contrarie all’insegnamento evangelico, tanto che il 68% dei votanti aveva espresso il suo assenso alla legalizzazione dell’aborto. Questa prova elettorale era stata preceduta di soli quattro giorni dall’attentato di Mehemet Ali Agca al Papa in una piazza San Pietro gremita di fedeli.
Contemporaneamente proseguiva lo stillicidio delle azioni sanguinarie dei brigatisti. Mentre si imponeva agli onori della cronaca lo scandalo P2, altri episodi di terrorismo politico si aggiungevano ai tanti del precedente decennio: il sequestro del magistrato Giovanni D’Urso e quello dell’assessore regionale in Campania, Ciro Cirillo.
Il 19 maggio a Montecitorio Forlani, rispondendo alle interrogazioni dei deputati, era chiamato a confermare o smentire quegli elementi di carattere mafioso, di affarismo internazionale e di collusione politica che sembravano essere l’architrave portante dell’ associazione segreta; e quali misure erano state adottate per impedire che queste attività potessero svolgersi in violazione della legge; ma soprattutto, chi erano i nomi contenuti nella lista e perchè il Parlamento non ne era stato informato. <72
I nomi riportati sui giornali non consentivano di temporeggiare dal momento che il danno più ingente nascosto dietro lo scandalo era la congettura, che devastava la realtà colpendo tutti indistintamente. Nel rispondere alle interrogazioni, Forlani aveva provato a coprire la propria prudenza con quella “ispirazione garantista e quel rispetto dei valori democratici” che dovevano presiedere ogni momento della vita del governo e che non gli consentivano di scendere in piazza con i forconi prima ancora che le responsabilità dei singoli fossero state accertate al di là di ogni ragionevole dubbio.
Racchiudere il proprio operato entro il perimetro della legittimità democratica non bastava però a spiegare i mesi di inerzia che il governo aveva lasciato trascorrere senza informare il Parlamento e il paese. Pochi giorni prima era stato affidato ad un gruppo di tecnici, detto il “Comitato dei tre saggi”, il compito di capire cosa fosse questa Loggia e quali finalità perseguisse. Composto da eminenti giuristi - Aldo Sandulli, Lionello Levi Sandri, Vezio Crisafulli - scelti per l’importante prestigio delle loro biografie, il comitato aveva concluso i propri lavori dopo poche settimane dall’inizio dell’indagine con un giudizio estremamente pesante sulla Loggia P2 <73. Ma ai più intransigenti che chiedevano l’immediata pubblicazione degli elenchi, Forlani ancora temporeggiava e ancora una volta la responsabilità di questo ritardo non era la sua: "Desidero dichiarare che sono ben lontano da voler opporre il segreto in parola alla conoscenza o alla pubblicazione degli elenchi di presunti affiliati alla loggia P2. Nessuno ostacolo sarà quindi frapposto dal governo. Condivido anzi l’auspicio di una sollecita pubblicazione degli elenchi. Tuttavia spetta alla stessa autorità giudiziaria disporre in ordine alla libera conoscenza del contenuto degli atti e dei documenti suddetti. <74
Tale strategia sembrava dettata più dal calcolo politico che dall’attitudine alla delega, dal momento che il terzo potere dello Stato non avrebbe potuto pubblicare l’elenco degli iscritti alla Loggia senza venire accusato di interferenza illecita. Come ricorda nelle sue memorie Gherardo Colombo: “Scriviamo una lettera a Forlani. Sosteniamo che non esistono controindicazioni da parte nostra alla pubblicazione del materiale. Nonostante la lettera inviata, il governo non decide”. <75 La situazione si era sbloccata grazie alla Commissione parlamentare sul caso Sindona, la quale, con un comunicato ufficiale, aveva annunciato che avrebbe provveduto essa stessa alla pubblicazione delle liste. Solo a quel punto, dal telegiornale della notte, usciva la notizia che il governo aveva deciso. La lista completa degli affiliati alla Loggia massonica P2 veniva pubblicata dall’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio alla mezzanotte del 20 maggio 1981. <76 Sarebbe stato l’ultimo atto del governo Forlani prima di essere sfiduciato. Avrebbe lasciato il posto al primo presidente laico della storia repubblicana, Giovanni Spadolini. Nei giorni successivi alla pubblicazione delle liste, tra il 26 maggio e il 5 giugno 1981, venivano depositate alla Camera quattro proposte di legge per istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2: la prima su iniziativa della Democrazia Cristiana <77; la seconda del Partito Comunista <78; la terza e la quarta rispettivamente del Partito socialista <79 e del Partito socialdemocratico. <80
Le proposte di legge si presentavano tecnicamente simili. Tutte prevedevano una commissione bicamerale, che assicurasse la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo esistente in almeno un ramo del Parlamento. <81 Inoltre per tutti i partiti, l’inchiesta doveva avere carattere sia di controllo - ossia finalizzata ad accertare i caratteri, la natura e le finalità dell’associazione massonica - che legislativa, proponendosi di mettere le Camere nelle condizioni di approntare quegli strumenti normativi e organizzativi necessari ad evitare la ricomparsa del fenomeno criminoso. <82
[NOTE]
66 G. Turone, Il contesto e la teorizzazione del golpe strisciante, op.cit., p. 15.
67 S. Bonsanti, Trovato l’elenco supersegreto dei 1720 massoni della “P2”?, «La Stampa», 24.03.1981; la notizia della perquisizione a Castiglion Fibocchi trapela su un telgiornale della sera già il venerdì 20 marzo 1981; sabato 21 marzo sul «Giornale Nuovo»: “Nell’ambito delle indagini per l’affare Sindona, stasera si è appresa una doppia operazione compiuta dalla magistratura di Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di Licio Gelli, “venerabile maestro” della loggia P2. Per conto dei giudici milanesi l’intervento sarebbe stato operato dalla Guardia di Finanza mentre Roma avrebbe partecipato agli accertamentei attraverso il sostituto procuratore Domenico Sica”; Su «L’Unità» di lunedì 23 marzo “Dopo il sequestro di materiale importantissimo relativo alla Loggia massonica P2 e alle sue attività economiche svolte tramite il bancarottiere Michele Sindona, dopo l’interrogatorio del deputato socialdemocratico Flavio Orlandi per il suo intervento diretto a evitare a Sindona l’estradizione, questa della Usiris, società svizzera, e di Filippo Micheli, segretario amministrativo della Dc, destinatario di ingenti some sottratte alle banche milanesi del Sindona appare un elemento di grande rilievo”.
68 Atti parlamentari - Camera dei deputati - VIII legislatura - Disegni di legge e relazioni. Proposta di legge n. 2580 d’iniziativa dei deputati Tatarella, Pazzaglia, Menniti, Martinat, Rubinacci, Staiti di Cuddia Delle Chiuse. Integrazione della legge 22 maggio 1980, n. 204 istitutiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona mediante l’articolo unico 1-bis: “La commissione ha anche il compito di accertare ruoli e responsabilità di logge massoniche negli avvenimenti politici, economici, finanziari e bancari negli anni 70-80”.
69 Smentita di Forlani sulla loggia di Gelli, in «Corriere della Sera», 12 maggio 1981.
70 Furono altri due i ministri del governo Forlani i cui nomi erano stati ritrovati nelle liste della Loggia P2: il ministro di Grazia e Giustizia Adolfo Sarti e il ministro del Lavoro Franco Foschi.
71 Definito da Alessandro Piazzesi il “coniglio mannaro”, secondo le suggestioni di Indro Montanelli: “Forlani era un uomo senza molti nemici. Non li aveva per il temperamento accomodante, per le enunciazioni politiche totalmente generiche e prive di qualsiasi concretezza. Mediocre nel comandare, sublime nel minimizzare”, in I. Montanelli, L’Italia degli anni di fango, Milano, Rizzoli, 1993, p. 170; per una coeva ricostruzione politica dei mesi immediatamente precedenti l’istituzione della Commissione d’inchiesta si veda E. Scalfari, Da Sindona a Gelli, in A. Barberi, L’Italia della P2, Milano, Mondadori, 1981.
72 Camera dei Deputati - Discussioni - Seduta del 19 maggio 1981, p.29859 e sg. L’interpellanza a firma Bonino e altri chiede che la Presidenza del Consiglio “pubblichi per intero e immediatamente l’elenco di questa società segreta, lasciando poi ai magistrati e agli interessati il compito e l’onere di acclarare se la semplice appartenenza alla P2 si sia accompagnata per ciascuno di essi ad un comportamento illecito o no”. Nella medesima direzione si muovono le interpellanze degli altri gruppi parlamentari.
73 Il Comitato amministrativo, cominciò i suoi lavori il 7 maggio 1981 consegnando la relazione finale il 5 giugno 1981. La P2 veniva definita “una formazione postasi fuori dall’ordinamento massonico [...] Il vertice della cosiddetta loggia P2 gelliana ha vissuto e si è proposto di operare in Italia come un luogo di influenza e di potere occulto insinuandosi nei gangli dei poteri pubblici e della società civile, e di ordinare in un unico disegno bisogni, aspirazioni, ambizioni e interessi individuali sì da convogliarli verso tutt’altri risultati che quelli della solidarietà umana intesa nel suo autentico significato. [...] Un’associazione occulta può diventare uno Stato nello Stato. E questo non può esser consentito nell’ordine democratico. Un’associazione occulta potrebbe non soltanto contribuire a snaturare il sistema rappresentativo della Repubblica, potrebbe altresì far deviare quegli organi pubblici che sono tenuti a far puntuale applicazione delle scelte del potere politico e ad osservare l’imparzialità nell’esercizio delle rispettive attribuzioni. Nè può essere taciuta la nefasta azione che i centri di influenza occulti potrebbero essere in grado di esercitare in tutta la società civile condizionando le attività economiche, l’informazione, la vita dei partiti e dei sindacati”.
74 Camera dei Deputati - Discussioni - Seduta del 19 maggio 1981.
75 Lettera di G. Turone e G. Colombo ad Arnaldo Forlani, 20 maggio 1981, in CP2, Allegati, Serie II, Vol. I, tomo IV, p. 56; mi sono avvalso di G. Colombo, Il vizio della memoria, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 66. . Inoltre per tutti i partiti, l’inchiesta doveva avere carattere sia di controllo - ossia finalizzata ad accertare i caratteri, la natura e le finalità dell’associazione massonica - che legislativa, proponendosi di mettere le Camere
76 Cfr. Barberi (a cura di), L’Italia della P2, op. Cit.; S. Flamigni, Trame atlantiche, op.cit.; G. Galli, La venerabile trama, Lindau, Torino, 2007; G. Mastellarini, Assalto alla stampa, Dedalo, Bari, 2004.
77 Atti Parlamentari, Camera dei deputati, VIII Legislatura, Disegni di legge e relazioni, proposta di legge n. 2623 d’iniziativa dei deputati Carta, Del Rio, Fontana Elio, Grippo, Mora Gianpaolo, Padula, Segni, Silvestri, Zarro, Zurlo, presentata il 26 maggio 1981, Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia Massonica P2.
78 Ivi, proposta di legge n. 2632, d’iniziativa dei deputati Fracchia, Cecchi, Chiovini, Pochetti, presentata il 2 giugno 1981, Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia P2.
79 Ivi, proposta di legge n. 2634, d’iniziativa dei deputati Casalinuovo, Seppia, Raffaelli Mario, Sacconi, Falisetti, Ferrari Marte, presentata il 3 giugno 1981, Costituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla cosiddetta Loggia massonica Propaganda 2.
80 Ivi, proposta di legge n. 2643 d’iniziativa dei deputati Reggiani, Rizzi, Cuojati, Madaudo, Furnari, Costi, presentata il 5 giugno 1981, Istituzione di una Commissione palamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2.
81 Così come stabilito con legge istitutiva della “Commissione Moro”, 23 novembre 1979, n. 597, la quale prevedeva che, oltre a garantire la proporzionalità tra i vari gruppi si dovesse comunque assicurare la presenza di un rappresentante per ciascuna componente politica costituita in gruppo in almeno un ramo del Parlamento, Senato della Repubblica, “Bollettino delle Giunte e delle Commissioni”, 12 maggio 1977.
82 La normativa delle Commissioni parlamentari era stata definita in Assemblea Costituente sull’onda della caduta del fascismo, dove era prevalsa la funzione di garanzia. L’articolazione del dibattito sviluppatosi nei decenni successivi intorno allo strumento dell’inchiesta parlamentare è ben descritto in G. De Vergottini (a cura di), Le inchieste delle Assemblee parlamentari,Rimini, Maggioli, 1985; per la distinzione tra inchieste legislative e inchieste di controllo mi sono avvalso di G. Troccoli, Le Commissioni parlamentari di inchiesta nella esperienza repubblicana, op. cit., p. 47; in G. Recchia, L’informazione delle Assemblee rappresentative, Napoli, Jovene, 1979, p. 252-257; in G. Maranini, Storia del potere in Italia, 1848-1967, Firenze, Vallecchi, 1968. Per una trattazione divulgativa delle Commissioni parlamentari come strumento di inchiesta ho consultato A. P. Tanda, Fondamenti normativi e prassi dell’inchiesta parlamentare, in Regione Toscana (a cura di), Le Commissione parlamentari di inchiesta, Regione Toscana, Firenze, 1997; per un raffronto storico sulle inchieste parlamentari negli ordinamenti europei e americani rimando a P. Avril, Le commissioni d’inchiesta in Francia, p. 313; B. Bercusson, Le commissioni parlamentari d’inchiesta nel diritto costituzionale britannico, p. 325 in G. De Vergottini; A. Reposo, L’ordinamento statunitense e Le inchieste negli ordinamenti socialisti, Padova, La Garangola, 1975.
Lorenzo Tombaresi, Una crepa nel muro. Storia politica della Commissione d'inchiesta P2 (1981-1984), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno Accademico 2014-2015

domenica 4 febbraio 2024

C'è anche un altro elemento da considerare rispetto al mancato consenso della classe operaia milanese verso il fascismo


Il rinascere della mobilitazione operaia nel triangolo industriale e in particolare a Milano è strettamente connesso con l'andamento generale della guerra e con il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Il fascismo non era mai del tutto riuscito a rompere quella resistenza morale e ideologica che i lavoratori industriali avevano opposto negli anni del regime; questo non necessariamente per identificazione con gli sconfitti degli anni Venti (sebbene la memoria dell'origine antiproletaria del movimento mussoliniano permanesse soprattutto nelle generazioni più vecchie), quanto per quello che il fascismo aveva concretamente significato per le condizioni di lavoro in fabbrica: compressione salariale, negazione della rappresentanza e dell'autonomia dei lavoratori, la 'trappola' del corporativismo interclassista. Uno dei terreni su cui si svolgerà l'interpretazione operaia della lotta antifascista sarà appunto la questione della rappresentanza, come testimoniano le interpretazioni 'consiliariste' di molte organizzazioni operaie e della sinistra classista a Milano relativamente alle commissioni interne istituite dopo l'8 settembre, in parte mantenute anche sotto Salò, e ai CLN aziendali: "La richiesta dei consigli era comparsa nel 1942 in un giornale il cui titolo e sottotitolo erano già tutta una rimembranza: 'L'Ardito del popolo. Organo degli operai, contadini e soldati'. La Federazione comunista libertaria milanese si rivolse al CLN provinciale informando di aver partecipato 'con altri movimenti rivoluzionari alla creazione di un movimento per la costituzione dei consigli di fabbrica, riprendendo l'idea torinese dell'altro dopoguerra', e di avere conseguentemente formato le 'brigate dei consigli', che chiedevano di operare 'in accordo con quelle del CLN'. I bordighisti del Partito comunista internazionalista rivendicarono anch'essi i consigli come organo della rivoluzione. La marginalità di questi gruppi e la posizione minoritaria dei socialisti che facevano capo a Lelio Basso, anch'essi favorevoli ai consigli, suffragano il giudizio espresso di recedente da uno dei più sensibili, fra i protagonisti di quegli eventi, alla tematica consiliare. Vittorio Foa ha infatti escluso che durante la Resistenza sia davvero riemersa 'la linea rivoluzionaria dei consigli di fabbrica' […]: i consigli del periodo resistenziale furono, e non solo in Italia, 'strumenti di collaborazione di classe e di democratizzazione del sistema sociale'. […] Lo spirito consiliare e autonomistico che animava un'ala del Partito d'azione si riversò più che sui consigli, soprattutto sui CLN […]". <259
Tuttavia, come vedremo, questa interpretazione rivoluzionaria della rappresentanza operaia o comunque legata alla necessità operaia di autonomia e controllo, ha un seguito molto superiore ai soli gruppi dell'estrema sinistra, arrivando a contagiare buona parte della base operaia del Partito comunista. Quando i repubblichini e gli occupanti nazisti riconoscono infatti le commissioni interne badogliane, il PCI dà ordine di scioglierle e rifiutarle, ma molti simpatizzanti e militanti non accettano e manifestano critiche, dubbi: "Non si trattava di opposizioni poco qualificate. Le riserve vengono dagli stessi compagni della base, da fabbriche che hanno al loro attivo dure e recenti lotte. Nel novembre il comitato di fabbrica della Breda rivolge alla direzione del partito una lettera contenente ampie riserve sulla sua decisione: le commissioni interne, scrive il comitato comunista di fabbrica, garantiscono la sorveglianza della mensa e della mutua; controllarle può significare impedire il ritorno dei fascisti a posti di rilievo, porre i compagni al riparo da persecuzioni". <260
Su questo punto incontriamo il nodo dell'interpretazione 'istituzionale' critica che una parte della Resistenza esprimerà attraverso quella che Claudio Pavone ha definito 'ideologia consiliare' o 'ideologia dell'autonomismo' <261.
Ed è sul terreno sindacale che si consuma la prima significativa rottura tra il governo Badoglio e operai del nord nell'agosto ‘43: il nodo è quello della libertà di rappresentanza e della rottura con l'apparato fascista, attraverso nuovi organismi. Badoglio aveva infatti disposto il passaggio delle organizzazioni sindacali di regime alle dipendenze dei prefetti, ma il ministro delle corporazioni, Piccardi, aveva avviato contatti con esponenti del vecchio sindacalismo prefascista per nominarli commissari e vicecommissari alle diverse confederazioni: "L'operazione è diretta a blandire ed a rassicurare l'opinione pubblica antifascista, ma non si svolge senza contrasti. Ci sono delle ostilità all'interno del governo in primo luogo, provenienti dall'ala più vicina al re, attestata su una linea che vuole la continuità dell'apparato statale e che si illude di conservare un blocco di sane forze d'ordine attorno alla monarchia senza concessioni all'antifascismo o alle richieste popolari. Questa linea è perdente a tutti gli effetti, ma altri conflitti si annodano attorno alla questione sindacale". <262
Ciò cui fa riferimento Ganapini sono le richieste di libertà politica e sindacale, di cui gli scioperi estivi del '43 in particolare a Milano si fanno portavoce nazionali. I commissari sindacali diventano così, da strumento di legittimazione del nuovo governo, dimostrazione del limite invalicabile tra questo e l'antifascismo.
C'è anche un altro elemento da considerare rispetto al mancato consenso della classe operaia milanese verso il fascismo: la sua composizione e le caratteristiche dell'operaio meneghino e dell'hinterland di fine anni Trenta - inizio Quaranta. Alla vigilia della guerra, nel '40-'41, si verifica infatti un incontro importante che è generazionale e sociale al tempo stesso: i vecchi nuclei di lavoratori urbani, dove più forte è la tradizione operaista e l'identificazione con gli sconfitti degli anni Venti, si contaminano con i giovani operai di origine contadina e recente inurbamento. Sono figli di gruppi sociali poverissimi, provenienti dalla Brianza a nord o dalla vastissima area agricola a sud, che vivono le difficoltà dell'immigrazione e non usufruiscono di provvidenze e dopolavoro; inoltre sono i principali obiettivi di quella rivalità tra operai e contadini che la propaganda fascista ha sempre esaltato, fattore che alimenta il senso di emarginazione ed esclusione nei secondi. Non che la classe operaia fosse immune dal pregiudizio antirurale: a Milano il termine 'paolott', bigotto, si riferisce proprio agli immigrati di origine contadine, descritti come sottomessi e incapaci di ribellione <263.
Tuttavia lo scoppio della guerra, il suo andamento, la crisi economica e alimentare, la militarizzazione dell'industria portano a crepe importanti nell'apparato del regime che, alla fine del '42, aprono uno spazio significativo perché la vecchia e la nuova classe operaia esprimano il loro malcontento che presto sfocia in protesta a carattere sindacale. I bombardamenti angloamericani sulla città e nei dintorni rappresentano l'innesco per le prime ridotte, ma significative mobilitazioni già nel novembre-dicembre 1942: "Le masse operaie, che a differenza degli abitanti del centro non possono permettersi di seguire il sensato consiglio del dittatore [di sfollare fuori città, NDA], reagiscono come possono. Anche se i loro atti di indisciplina sono ancora contenuti e limitati (relazione del 25 novembre 1942) hanno sufficiente energia per manifestazioni di malumore alla Breda, all'Alfa Romeo, alla Magneti Marelli; mentre un ritardo nella corresponsione delle paghe provoca all'Isotta Fraschini una sospensione temporanea del lavoro (relazione del 26 dicembre 1942)". <264
Il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro rappresentano un elemento unificante tra le diverse generazioni ed estrazioni di operai che, unitamente alla questione abitativa e dei trasporti (connesse direttamente ai danni dei bombardamenti e della guerra), trovano nella fabbrica e nella vita quotidiana i fronti delle loro vertenze. In particolare il fronte delle necessità quotidiane, esterne al posto di lavoro, come luoghi della battaglia sindacale e politica, diventerà importantissimo nella fisionomia della politica del conflitto a Resistenza avviata e nel dopoguerra.
Fino all'8 settembre possiamo individuare i seguenti episodi di conflitto: le già citate astensioni dal lavoro dell'inverno 1942 centrate, fuori dalla fabbrica sulla questione alimentare, abitativa e sanitaria, dentro la fabbrica sul regime di lavoro; gli scioperi del marzo 1943 in Alta Italia, che a Milano iniziano in ritardo a fine mese e che segnano l'inizio vero e proprio della prima parte del ciclo conflittuale di guerra, che durerà fino allo sciopero generale di un anno dopo: la mobilitazione scatena una dura repressione che renderà impossibile fino al 26 luglio qualunque altra manifestazione operaia <265; manifestazioni e scioperi che dal tardo luglio e per tutto agosto attraversano il paese e in particolare i poli industriali; a Milano in particolare il 2 agosto viene lanciato (sulla base dei contrasti già descritti) un ordine del giorno fortemente antibadogliano centrato su 'pane, pace, libertà'. La ripresa di intensi bombardamenti sui grandi centri del nord, tra l'8 e il 17 agosto scatena mobilitazioni e scioperi ancora più vasti. <266
Questione sindacale, questione politica, questione della pace si intrecciano in questa prima fase di politica del conflitto che si relaziona con due interlocutori governativi diversi (la dittatura fascista e il governo monarchico-militare di Badoglio) e dove cresce d'importanza la parola d'ordine dell'insurrezione antifascista fino al 25 luglio e centrale diventano quelle della pace e della libertà sotto Badoglio. I comitati unitari delle opposizioni che nascono nella prima metà del '43 hanno infatti nell'azione insurrezionale il principale elemento di divergenza; la soluzione legalitaria, il golpe di palazzo di luglio mette al riparo (momentaneamente) il fronte antifascista moderato da una prospettiva scomoda.
Le modalità con cui questi interlocutori interpretano e gestiscono il conflitto sociale che esplode in particolare nell'estate confermano la sostanziale continuità con il fascismo e mostrano la ricomparsa di antiche culture di governo, costitutive della classe dirigente italiana: "Attuali agitazioni assumono qua e là tendenza comunista. Masse operaie intenderebbero secondo notizie fiduciarie prossima notte oppure notti successive occupare mano armata uffici pubblici. Pregasi prendere opportuni accordi con autorità militare per stroncare con qualsiasi mezzo tentativi del genere". <267
E ancora: "Le autorità militari pensano di poter rispondere con la forza. Sui maggiori centri industriali vengono fatti affluire consistenti rinforzi. A Milano, in particolare, viene inviata 'una delle due divisioni dislocate sulle “posizioni d'arresto” della Toscana ed una parte delle divisioni di cavalleria rientrate dalla Russia (reggimento bersaglieri e l'artiglieria)'. Il comportamento cui devono ispirarsi le forze in servizio d'ordine pubblico è fissato dalla nota circolare Roatta: '…qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe […] delitto: […] poco sangue versato risparmia fiumi di sangue in seguito' ". <268
86 morti e 329 feriti è il bilancio della repressione governativa; solo a Milano e provincia i morti sono 26. Era corretto il sospetto che avevano le vecchie e le nuove autorità di una presenza comunista dietro le agitazioni? Sicuramente è dalle pagine de l'Unità clandestina che partono gli appelli e le indicazioni sugli obiettivi delle proteste, ma le manifestazioni di strada e molte proteste di lavoro nascono spontaneamente. Il Partito comunista precedente alla svolta di Salerno <269 dell'agosto 1944 è ancora un partito a prevalente tendenza insurrezionalista e cospirativa, con (ridottissimi) nuclei di militanti clandestini nelle fabbriche, l'unico (assieme alle formazioni 'Giustizia e libertà') a non aver lasciato il paese nei duri anni della dittatura. Quando si presenta l'occasione, poche decine di volantini e le copie illegali de l'Unità servono a fornire un embrione di contenuto politico alle lotte economiche e di sopravvivenza. Ed è qui che comincia a formarsi l'immaginario operaio del 'nemico', dove si sovrappongono le figure del fascista, del padrone e, dopo l'8 settembre, dell'occupante nazista.
[NOTE]
259 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, p. 315, Borlinghieri 2003 (Prima edizione 1991)
260 L. Ganapini, Una città, la guerra (Milano 1939-1951), p. 69, Franco Angeli 1988
261 C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, p. 81, Bollati Boringhieri 1995
262 Ibidem, p. 56
263 Ibidem, pp. 43-44
264 Ibidem, p. 37
265 Oltre 350 sarebbero stati, secondo diverse fonti orali e testimonianza, gli arresti e le condanne che seguirono gli scioperi.
266 Il 9 agosto alla Pirelli Bicocca di Milano, all'Elettromeccanica, alla Breda, alla Falck di Sesto San Giovanni oltre 15mila lavoratori entrano in sciopero contro la guerra; il 17 agosto il 20-30% degli addetti all'industria di Milano e provincia, circa 65mila persone, si astiene dal lavoro.
267 Carmine Senise (capo della polizia) nel telegramma ai prefetti del 27 luglio 1943, cit. in L. Ganapini, op. cit., p. 51
268 L. Ganapini, op. cit., pp. 52-53
269 Quando il segretario PCI, Palmiro Togliatti, di rientro in Italia lancia la svolta politico-organizzativa definita del 'partito nuovo'.
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017