venerdì 17 gennaio 2025

Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese

Una vista dal Colle del Melogno - Fonte: Luca Magini su Mapio.net

Ai primi di settembre del 1944 sembrò per qualche tempo che la liberazione potesse essere vicina. Gli Alleati erano sbarcati in Provenza il 15 agosto, provocando un rapido crollo delle posizioni tedesche in tutta la Francia meridionale. Sembrava ora ragionevole attendersi un’offensiva generale degli americani attraverso i passi alpini, approfittando della stagione ancora clemente e dell’appoggio delle forti formazioni partigiane piemontesi e liguri, che certo non sarebbe mancato. Ma gli strateghi angloamericani avevano altri progetti: ritenendo prioritario l’attacco allo schieramento nemico tra i Vosgi e i Paesi Bassi, fermarono le loro truppe su una linea che lasciava il confine franco-italiano e l’intera valle del Roia saldamente in mani tedesche. Siffatta scelta, forse opportuna dal punto di vista militare, condannò tutto il Nord Italia ad un nuovo inverno di occupazione, ma, probabilmente, gli evitò le immani distruzioni causate dai combattimenti nel resto del Paese.
Nel clima di fibrillazione di quei giorni, alimentato ad arte dalla trionfalistica propaganda di Radio Londra, i partigiani imperiesi della Prima Zona ligure, credendo fosse giunta l’”ora x”, abbozzarono una calata insurrezionale sui centri della costa che venne stroncata sul nascere da un vasto rastrellamento tedesco talmente tempista da risultare sospetto <1.
I savonesi, meno numerosi ed organizzati oltre che più distanti dal fronte, continuarono la loro attività di guerriglia con il consueto vigore, ma senza esporsi in arrischiate azioni su grande scala. Dopotutto, lo stesso Comando Generale delle Brigate Garibaldi avrebbe rammentato pochi giorni dopo che “L’ora x è già suonata” <2 e che pertanto l’obiettivo principale dei partigiani non doveva consistere solo nel prepararsi ad una futura insurrezione, bensì nell’attaccare giorno per giorno il nemico senza mai concedergli tregua <3.
A Savona come altrove, questa direttiva giunse a conforto di una linea d’azione ormai perseguita da mesi.
La tarda estate vide un contemporaneo fenomeno di rafforzamento quantitativo e qualitativo delle unità partigiane di montagna e di città e un serio indebolimento dei corpi armati della RSI: in particolare la divisione “San Marco” continuava ad essere falcidiata dalle diserzioni, come rilevavano le scarne note informative della GNR <4. Molti “marò” erano spinti a “tagliare la corda” dalle insistenti voci di un prossimo ritorno in Germania della divisione, tanto che il 14 settembre il generale Farina dovette intervenire di persona con un ordine del giorno rivolto ai suoi uomini che recitava testualmente: ”Le voci messe in giro sono false ed hanno l’unico scopo di far perdere la fiducia a quelli fra noi che sono più deboli. Io so che qualcuno ha perso la testa e, lasciandosi ingannare dalla propaganda avversaria, si è messo in condizioni di pagare con la propria vita il disonore e la stupidaggine di aver creduto ai traditori. La propaganda nemica e i traditori interni hanno ora di nuovo fatto subdolamente circolare la voce che i reparti italiani ritornerebbero oltr’Alpe, in Germania. Io sono uomo di parola e sono gran signore del mio onore e di quello della divisione “San Marco”. Malgrado tutte le debolezze già dimostrate, io do fiducia a tutti e assicuro che noi abbiamo il diritto e il dovere di rimanere tutti al nostro posto di combattimento. Nessuno dubiti. Nel territorio di guerra italiano noi continueremo fino all’ultimo a combattere” <5.
Le rassicurazioni di Farina trovarono tuttavia orecchie sorde a qualsiasi richiamo, mentre le paure e le lamentele dei “sammarchini” erano oggetto della più sentita (ed interessata) comprensione da parte degli uomini e delle donne della Resistenza savonese. Un quadro realistico ed impressionante dello sbandamento attraversato dalla grande unità comandata da Farina è dato dal furibondo rapporto stilato dal generale tedesco Ott, ispettore dei gruppi di addestramento della Wehrmacht presso le divisioni dell’esercito della RSI, che il 16 settembre aveva fatto visita alla “San Marco”, riportandone un’impressione terribile. A detta di Ott, entro la metà del mese i disertori della “San Marco” erano già qualcosa come 1400 (il 10% dell’intera divisione!). Più in dettaglio, Ott notava come le diserzioni raggiungessero punte impressionanti (20%!) nelle truppe addette ai rifornimenti e nelle piccole pattuglie, mentre i reparti regolari parevano tenere in misura accettabile. Per ovviare a tale disastro, Ott avanzava una serie di proposte quali la sorveglianza di militari tedeschi su tutte le operazioni di rifornimento, fucilazioni, presa di ostaggi e invio di civili in lager per stroncare l’istigazione a disertare, un controllo meticoloso degli uomini che portasse all’eliminazione degli ”elementi cattivi” in particolare tra gli ufficiali e i nuovi arrivati, l’impiego del controspionaggio divisionale (sezione Ic) per la sorveglianza degli ufficiali e dei rapporti della truppa con i civili, un deciso attivismo nella lotta antiribelli per incoraggiare gli uomini, che dovevano comunque essere tenuti sempre impegnati, il ristabilimento di una disciplina ferrea e un attento esame del comportamento degli ex Carabinieri impiegati come polizia militare <6.
Tanta attenzione era pienamente giustificata dalle abnormi dimensioni del fenomeno e dalla crescente aggressività delle formazioni partigiane, che si erano ormai scrollate di dosso qualsiasi atteggiamento di tipo attendista. E se tra le aspre montagne liguri il pericolo era sempre in agguato, nel capoluogo e negli altri centri della costa la sicurezza era un fattore di giorno in giorno più aleatorio a causa dell’inarrestabile crescita organizzativa delle SAP, che aveva consentito il sorgere di nuovi distaccamenti e il rafforzamento di quelli esistenti, nonché l’estensione dell’area di attività dei gruppi sapisti.
Le zone che videro svilupparsi nuovi nuclei SAP furono quelle ad occidente di Savona. A Quiliano, sede sorvegliatissima di ben due comandi reggimentali della “San Marco”, e nella frazione di Valleggia, sorsero a fine agosto i distaccamenti “Rocca” e “Baldo”, forti di un pugno di uomini ciascuno, ma validamente appoggiati dai civili. La zona di Quiliano era nevralgica per i garibaldini, perché da essa e dalla Valle di Vado passava la gran parte dei rifornimenti di armi e volontari destinati alla Seconda Brigata <7. Pullulante di spie, doppiogiochisti, disertori, staffette e delatori, il Quilianese divenne rapidamente un fulcro della guerra civile, e il clima di violenza che vi si instaurò a partire dall’estate permase ancora a lungo dopo la Liberazione. Nella confinante area di Vado i sapisti, non ancora organizzati in brigata, ottennero in agosto e settembre notevoli successi nell’opera di reclutamento di “sammarchini” da inviare in montagna con armi e munizioni. A Porto Vado, a Sant’Ermete e nella Valle di Vado interi presidi, forti di decine di uomini, si squagliarono per le diserzioni e i continui attacchi dei sapisti finalizzati al recupero degli uomini <8. Come avveniva regolarmente in questi casi, una buona metà dei “marò” che disertavano si unì ai partigiani della Seconda Brigata; i restanti, dopo breve tempo, venivano lasciati andare sulla parola, e prendevano la strada di casa. In seguito al controllo sempre più stretto esercitato sulla zona a dispetto dei rabbiosi rastrellamenti, i sapisti furono poi in grado di creare addirittura un ospedaletto da campo per i garibaldini feriti, alloggiato in una stalla del paese di Segno <9. Se a Spotorno, sede del Comando generale tedesco per la Riviera di Ponente, l’attività dei piccoli nuclei ancora non formalizzati si espletava nell’accompagnamento dei disertori della “San Marco” al distaccamento “Calcagno”, a Finale e a Pietra Ligure operavano i distaccamenti SAP “Simini” e “Volpe” (poi “Fofi”), che il 28 agosto formarono la brigata “Perotti”. Questa unità nacque per coordinare i gruppi fondati da “Basilio” (Orso Pino), precedentemente organizzati come GAP, e poté subito fare affidamento sul personale dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, attivo centro nevralgico della resistenza al fascismo repubblicano <10.
Per la Seconda Brigata il mese di settembre significò una lieve diminuzione dell’attività <11 accompagnata da una rapida espansione degli organici. Infatti, stando ai documenti, non meno di 553 uomini risultano essere entrati a far parte dei vari distaccamenti garibaldini durante il mese in questione (e si trattò del dato mensile più elevato in assoluto) <12, anche se bisogna tener conto dei passaggi di volontari da un’unità all’altra. Almeno la metà erano disertori della “San Marco” <13, che andarono a formare il grosso dell’organico di tre distaccamenti, il “Minetto”, poi trasferito nelle Langhe alle dipendenze della 16a Brigata Garibaldi a metà ottobre <14, il “Bruzzone” ed il “Maccari”. Significativa è la quasi totale assenza di disertori della “San Marco” nei ranghi del distaccamento “Calcagno” in questo periodo: da un lato il “distaccamento modello” era già sufficientemente fornito di uomini atti al combattimento, dall’altro il suo accampamento fungeva sovente da centro di smistamento delle nuove reclute verso le altre unità garibaldine. In tal modo la “purezza” ideologica ed etnica (i volontari erano pressoché tutti di Savona, Vado e Quiliano) della “punta di diamante” del partigianato garibaldino savonese si manteneva intatta.
Nel complicato e a tratti oscuro quadro della formazione dei nuovi distaccamenti riveste un certo interesse il caso del “Moroni”, che viene citato a partire dall’8 settembre 1944. Questo distaccamento si trasformò ben presto in un’autentica succursale ligure dell’Armata Rossa perché tra il 15 ed il 20 del mese vi furono incorporati ben 22 cittadini sovietici <15, soldati non più giovanissimi che con tutta probabilità servivano controvoglia nella Wehrmacht come Hiwis (Hilfswillige, ossia “volontari” reclutati nei lager in cui a milioni morivano di fame i prigionieri di guerra sovietici). Non si trattava dell’unico distaccamento “internazionalista”: anche il “Revetria” era ben fornito di russi, polacchi e perfino tedeschi ed austriaci antinazisti o più semplicemente stanchi di battersi per qualcosa in cui non credevano <16.
L’attività armata dei garibaldini, pur meno intensa che nel mese precedente a causa dei problemi organizzativi accennati sopra, si mantenne su livelli tali da perpetuare lo stato d’emergenza in tutta la provincia. In più, come vedremo in dettaglio, il raggio d’azione della Seconda Brigata si allargò a raggiera fin verso l’Albenganese, l’Alta Val Tanaro e le Langhe. I primi ad attaccare furono i volontari del neonato distaccamento “Minetto”, che il giorno 2 prelevarono il presidio “San Marco” di Pietra Ligure (19 uomini) con tutte le armi in dotazione <17, e i veterani del “Calcagno”, che ai primi del mese <18 piombarono di sorpresa con quattro squadre sul Semaforo di Capo Noli, ottenendo la resa di sedici “marò” e recuperando un ingente quantitativo di materiale.
Tre giorni dopo il Comando Brigata corse un rischio gravissimo in seguito ad un’improvvisa puntata nemica. In piena notte un forte contingente misto (forse 200 uomini, probabilmente di meno) composto da SS e Feldgrau (polizia militare tedesca) con cani poliziotto scese furtivamente dalla cima del Settepani nel tentativo di sorprendere il Comando acquartierato presso la base del distaccamento “Maccari”, nelle vicinanze del paese di Osiglia, ma non riuscì ad eliminare le due sentinelle senza far uso delle armi da fuoco, e ciò consentì ai garibaldini di battere rapidamente in ritirata senza ulteriori perdite, ripiegando sul campo del “Nino Bori” dopo una lunga marcia di trasferimento <19.
Anche il “Revetria” sfuggì ad un rastrellamento compiuto dagli “Arditi” della “San Marco”, che ne incendiarono l’accampamento; poco dopo, rinforzato dalla squadra GAP del Comando Brigata, il distaccamento passò al contrattacco infliggendo serie perdite al nemico in ritirata <20.
Entrambe le puntate nazifasciste erano ispirate ad una nuova dottrina della controguerriglia che prevedeva attacchi limitati ma improvvisi e frequenti in luogo di grandi rastrellamenti condotti con forze preponderanti ma poco mobili <21. In realtà la lotta antipartigiana fu poi condotta applicando di volta in volta il sistema più adatto in relazione all’importanza dell’obiettivo e alle forze a disposizione dei rastrellatori. Il 10 agosto un importante successo fu riportato dal “Giacosa”, che si impadronì di una polveriera tra Millesimo e Cengio catturando ben 43 “marò” e rastrellando armi e munizioni in quantità <22. Il giorno successivo vide all’attacco il distaccamento “Bruzzone”, che guidato da “Ernesto” (Gino De Marco) e “Gelo” (Angelo Miniati) assaltò una postazione tedesca a Nucetto, in Val Tanaro, uccidendo due soldati <23. Il 14 fallì un attacco portato dal distaccamento “Rebagliati” contro il presidio di Calice Ligure <24: rimase sul terreno il partigiano “Falco” (Franco Leonardi, romano, classe 1925 <25).
Proprio a Calice era acquartierata la Controbanda della “San Marco”, un reparto specializzato nella repressione antipartigiana alle dipendenze del III° Battaglione del VI° Reggimento. Si trattava inizialmente di un centinaio di “marò”, scelti tra i più decisi e fanatici e comandati dal tenente Costanzo Lunardini coadiuvato dal sottotenente Fracassi <26. Armati ed addestrati in modo eccellente, gli uomini della Controbanda di Calice iniziarono subito un serrato duello con i garibaldini locali e in particolar modo con il distaccamento “Rebagliati”, che a più riprese pagò a caro prezzo la ferocia e l’astuzia di questi commandos, usi ad ogni atrocità e più volte travestiti da partigiani per ingannare i civili.
Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese.
[NOTE]
1.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 161.
2.    Ibidem.
3.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 77.
4.    Cfr. ibidem, pp. 77 - 78 e G. Gimelli, op.cit., vol. I, p. 162.
5.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit, p. 78.
6.    Ibidem, p. 74.
7.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
8.    Ibidem, vol. I, pp. 74 - 75.
9.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 106.
10.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 75.
11.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
12.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 76.
13.    E. Caviglia, op. cit., p. 490.
14.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 107.
15.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
16.    Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, INSMLI - Istituto Gramsci - Feltrinelli, Milano, 1979, vol. I, p. 281.
17.    Ibidem, vol. I, pp. 293 - 295.
18.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
19.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 165 - 166.
20.    G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Mondatori, Milano, 1995, p. 261.
21.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
22.    Ibidem, p. 81.
23.    Per lo sciopero del 1° marzo 1944 vedi in ibidem, pp. 84 - 90; cfr. G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 188 - 191.
24.    Addirittura, pochi giorni prima, tutti i questori delle province interessate dallo sciopero si erano riuniti a Valdagno.
25.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 108.
26.    Per la strage di Valloria, vedi R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., pp. 90 - 92.

Stefano d’Adamo, "Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45)", Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999-2000

sabato 21 dicembre 2024

La Corte europea dei diritti dell'Uomo circa la criminalità organizzata italiana


Nelle diverse occasioni in cui sono venute in rilievo le misure patrimoniali di prevenzione, la Corte EDU [Corte europea dei diritti dell'Uomo] oltre a negare l’applicabilità dell’art. 6 per quanto concerne i diritti della persona accusata di un reato, ha escluso che detta misura si ponga in contrasto con l’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione (107).
La Corte europea innanzitutto rileva che la confisca dei beni dei ricorrenti è ordinata a norma dell’articolo 2 ter della legge 31 maggio 1965 n. 575; e che, pertanto, si tratta di una interferenza prevista dalla legge. La Corte constata inoltre che la confisca di prevenzione prevista dalla legge italiana ha lo scopo di impedire un uso illecito e dannoso per la società di beni la cui provenienza lecita non è stata dimostrata. Il suo scopo, pertanto, appare certamente conforme all’interesse generale (108).
Quanto al requisito della proporzionalità dell’ingerenza rispetto allo scopo avuto di mira, la Corte osserva che tale tipo di confisca si iscrive nel quadro di una politica di prevenzione criminale, nella cui attuazione il legislatore deve godere di un ampio margine di apprezzamento, sia quanto alla identificazione del problema di interesse pubblico che impone un intervento regolativo, sia quanto alla scelta delle relative modalità.
Al riguardo, la Corte ha ripetutamente sottolineato che il fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso ha raggiunto in Italia proporzioni preoccupanti: «gli enormi profitti che le organizzazioni mafiose traggono dalle loro attività illecite conferiscono a tali associazioni un potere che mette in causa il primato del diritto all’interno dello Stato. Così, i mezzi adottati per combattere questo potere economico, in particolare la confisca di prevenzione, paiono indispensabili per contrastare in modo efficace tali associazioni» («les profits démesurés que les associations de type mafieux tirent de leurs activités illicites leur donnent un pouvoir dont l’existence remet en cause la primauté du droit dans l’Etat. Ainsi, les moyens adoptés pour combattre ce pouvoir économique, notamment la confiscation litigieuse, peuvent apparaître comme indispensables pour lutter efficacement contre lesdites associations») (109).
Nella causa Prisco c. Italia sopra richiamata, la Corte ha esaminato un caso nel quale la confisca di prevenzione veniva applicata ad un soggetto, coinvolto in un procedimento penale per concorso in omicidio e mafia, ritenuto pericoloso per la società perché, secondo i rapporti della polizia, aveva stretti legami con un clan affiliato alla camorra.
Nella causa Arcuri e altri c. Italia sopra richiamata, la Corte ha esaminato un caso nel quale la confisca di prevenzione veniva applicata ad un soggetto più volte condannato per truffa, istigazione alla prostituzione, aggressione e percosse, violenza privata, sequestro di persona, atti osceni in luogo pubblico, emissione di assegni a vuoto, possesso ed un uso improprio delle armi, bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere. Il soggetto nei cui confronti è stata applicata la misura, è stato accertato avesse stretti rapporti con persone legate alla criminalità organizzata; ed era ragionevolmente probabile facesse parte di tale associazione, avendo prestato denaro a tassi d’interesse esorbitanti e minacciato di morte per mancato pagamento.
Nella causa Riela e altri c. Italia sopra citata, la Corte ha esaminato un caso nel quale la confisca di prevenzione veniva applicata ad un gruppo di quattro soggetti considerati parte di una organizzazione criminale radicata in Sicilia, la cui attività era stata ricostruita attraverso la testimonianza di alcuni mafiosi pentiti.
Nella causa Capitani e Campanella c. Italia e nella causa Paleari c. Italia, la Corte ha esaminato un caso nel quale la confisca di prevenzione veniva applicata a soggetti considerati membri di un’organizzazione criminale dedita all’usura e al riciclaggio di denaro.
Nella causa Pozzi c. Italia, infine, la Corte ha esaminato un caso nel quale la confisca di prevenzione veniva applicata ad un soggetto considerato membro di un’associazione mafiosa dedita al riciclaggio di denaro e al racket.
L’estensione delle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca anche a persone non indiziate di appartenere ad associazione criminali di tipo mafioso, però, dovrebbe indurre a riflettere circa la reale tenuta delle argomentazioni sulle quali la Corte europea fonda la propria giurisprudenza in materia di misure di prevenzione patrimoniali.
Vero è - come ha osservato a più riprese la Corte - che il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si sviluppa secondo il principio del contraddittorio, davanti a tre giurisdizioni successive (tribunale, corte d’appello e Corte di cassazione) e con l’attribuzione al proposto della facoltà di sollevare eccezioni, prospettare le proprie ragioni e presentare mezzi di prova (110). Ma è ugualmente vero che le regole di giudizio, previste dall’art. 24 del d.lgs. n. 159/2011, per l’applicazione delle misure di prevenzione e la relativa procedura, semplificando oltremodo le possibilità per lo Stato di aggredire il patrimonio del proposto, si pongono in attrito con il diritto al pacifico godimento dei beni, riconosciuto dall’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.
[NOTE]
(107) Il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione è stato censurato dalla Corte EDU solo per quanto riguarda la mancanza di pubblicità dell’udienza: cfr. C. eur. dir. uomo, Sez. II, Bocellari e Rizza c. Italia, 13 novembre 2007, ric. 399/02, §§ 33 ss.; C. eur. dir. uomo, Sez. II, Perre e altri c. Italia, 8 luglio 2008, 1905/05, §§ 23 ss.; C. eur. dir. uomo, Bongiorno et autres c. Italia, ric. 4514/07, §§ 27 ss.
(108) C. eur. dir. uomo, Prisco c. Italia, cit.; C. eur. dir. uomo, Arcuri e altri c. Italia, cit.; C. eur. dir. uomo, Riela c. Italia, cit.; C. eur. dir. uomo, Bongiorno e altri c. Italia, cit., §§ 43 ss.; C. eur. dir. uomo, Sez. II, Capitani e Campanella c. Italia, 17 maggio 2011, ric. 24920/07, § 32; C. eur. dir. uomo, Pozzi c. Italia, cit., § 26; C. eur. dir. uomo, Paleari c. Italia, cit.
(109) Così testualmente C. eur. dir. uomo, Bongiorno e altri c. Italia, cit., §45; nonché, in senso analogo, C. eur. dir. uomo, Prisco c. Italia, cit.; C. eur. dir. uomo, Arcuri e altri c. Italia, cit.; C. eur. dir. uomo, Riela c. Italia, cit.
(110) C. eur. dir. uomo, Prisco c. Italia, cit.; C. eur. dir. uomo, Arcuri e altri c. Italia, cit.; C. eur. dir. uomo, Riela c. Italia, cit.; C. eur. dir. uomo, Bongiorno e altri c. Italia, cit., § 49; C. eur. dir. uomo, Capitani e Campanella c. Italia, cit., §34; C. eur. dir. uomo, Pozzi c. Italia, cit., § 28; C. eur. dir. uomo, Paleari c. Italia, cit., §30.
Tommaso Trinchera, Lo statuto costituzionale e convenzionale della confisca della ricchezza illecita, Tesi di dottorato, Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano, 2016

lunedì 9 dicembre 2024

Le conclusioni di uno studio sugli Anni di Piombo alla Fiat


Come abbiamo appreso nel corso di questo lavoro, l’azienda torinese è sempre stata uno dei pilastri del nostro paese e, a prescindere dalla vita di famiglie operaie o meno, sin dal 1899 la Fiat ha fatto parte della vita degli italiani.
Nel bene e nel male la casa automobilistica è stata, e continuerà a essere, parte integrante del nostro paese e della nostra storia, è quindi giusto dedicare questo lavoro alle donne e agli uomini che hanno “abitato” quei luoghi dando vita alla catena di montaggio.
Uno dei momenti più significativi e importanti di questo progetto è stato lo studio degli audiovisivi che ha permesso di verificare in che modo i media hanno influenzato l’immagine dell’operaio e della fabbrica: analizzare fiction e documentari ha portato alla luce una serie di differenze che si legano saldamente al modo in cui il pubblico percepisce l’argomento e crea una propria opinione e una propria presa di coscienza.
Analizzare una fiction piuttosto che un documentario ha messo in evidenza una serie di dinamiche che sembra giusto analizzare nello specifico: per prima cosa appare evidente che un prodotto come "Gli Anni Spezzati" ha avuto una diffusione su larga scala rispetto a un documentario come "Signorina Fiat", per il semplice fatto che, anzitutto, la fiction è stata trasmessa nella fascia oraria di punta, ottenendo quindi uno share molto alto; seconda cosa la scelta di attori noti e l’utilizzo di una pubblicità martellante ha permesso di accrescere la curiosità attorno al programma, complice anche la scelta di riportare il girato sotto forma di serie Tv (che è l’opzione più apprezzata, soprattutto dai giovanissimi) ci rendiamo conto che "Gli Anni Spezzati", prima di essere storia, siano stati soprattutto profitto, pubblicità e lotta allo share più alto.
La cosa che influisce maggiormente sull’immaginario collettivo è la consapevolezza di avere davanti agli occhi un prodotto basato su avvenimenti reali, anche se, nel caso dell’ingegnere, raccontati da protagonisti di fantasia: i personaggi e le azioni che scorrono sullo schermo, giuste o sbagliate che siano, hanno avuto perciò il potere di influenzare lo spettatore portandolo inevitabilmente ad immedesimarsi coi protagonisti; questa empatia mescolata con il potere delle immagini e l’evidente semplificazione dei temi trattati, porta nella maggioranza dei casi alla creazione di un percorso storico distorto che incide in negativo sull’immaginario dello spettatore.
É evidente che questo potere dell’immagine non è altrettanto “prepotente” per quanto riguarda la sezione documentaristica, per il semplice fatto che questa tipologia di audiovisivi ripiega su una forma espositiva più schematica, oggettiva e ovviamente meno enfatica: documentari come "In Fabbrica", nonostante siano dei prodotti molto più riusciti, hanno avuto, per ovvi motivi, un impatto meno deciso sul pubblico.
Proprio dopo questa analisi i quattro audiovisivi sono diventati uno dei punto delle interviste riportate nel capitolo precedente. Dalle risposte è evidente quello che abbiamo appena sottolineato: le fiction sono state il canale trasmissivo più seguito e chiaramente quello che presenta più errori di natura tecnica e di carattere storico, mentre i documentari hanno avuto una diffusione più ridotta riuscendo però a raccontare dignitosamente le vicende storiche.
A questo punto riprendendo quanto detto nel terzo capitolo si può affermare che la maggior parte degli spettatori che ha seguito "Gli Anni Spezzati" si ritrova con una serie di informazioni errate e, a tratti, faziose che però vengono recepite come giuste o comunque fondate, “merito” anche della trasmissione sul primo canale della Rai, da sempre la rete di Stato ammiraglia.
«Siate sempre padroni del vostro senso critico, e niente potrà farvi sottomettere» <118, così scriveva Alberto Manzi <119 in una lettere ai suoi alunni; “il Maestro” parla di senso critico dopo aver insegnato per otto anni l’italiano tramite la televisione, riuscendo a “indottrinare” più di una generazione a quella lingua che in breve tempo diventerà (realmente) nazionale.
Quello che nel 1976 è una raccomandazione, a quasi quarant’anni potrebbe diventare, forse, una richiesta di aiuto: mandare in onda un programma che distorce la realtà dei fatti, raccontando in maniera errata eventi e avvenimenti storici contribuisce ad oscurare la vicenda stessa, creando un immaginario sbagliato dove il senso critico sparisce dietro la “garanzia” di veridicità che dovrebbe conferire una rete televisiva autorevole e, soprattutto, di Stato.
Personalità come quella di Manzi mostrano come l’uso corretto del potere delle immagini potrebbe davvero fare la differenza e conferire quel senso di autorevolezza a quella “scatola” (che ormai non è più nemmeno una scatola), al punto da
renderla un canale di apprendimento valido e, soprattutto, lontano da errori e interpretazioni grossolane, volute o meno.
A prescindere dalla qualità di quello che vediamo, tutto quanto contribuisce alla costruzione del nostro immaginario ed è quindi molto difficile mantenere il controllo sulle cose senza la giusta dose di spirito critico.
Siamo d’accordo sul fatto che rappresentare gli Anni di Piombo potrebbe risultare un’operazione davvero ardua, anche perché il rischio di “dimenticare” qualcosa o qualcuno è sempre in agguato; d’altra parte, però, la correttezza dell’informazione dovrebbe restare il fulcro di ogni rappresentazione.
“Rimozioni” e dati inesatti continuano ad essere l’emblema di un periodo storico che è già radicato (nel bene o nel male) all’interno dell’immaginario collettivo, ma che necessita ancora di studi approfonditi e mirati, soprattutto per quanto riguarda determinate tematiche, come quelle in esame.
Forse non è del tutto corretto parlare di “rimozione” dato che l’argomento preso in esame viene comunque presentato in ambito storico il relazione agli Anni di Piombo; chiaramente gli storici sono costretti ad attuare una selezione (per motivi di spazio e di tempo), lasciando un po’ marginalmente la questione Fiat; sembra più corretto, quindi, parlare di una selezione con possibilità di ricerca.
Probabilmente questa non è la sede adatta (soprattutto nelle conclusioni) per aprire un’ulteriore parentesi su quanto affermato da Gabriele Polo <120, però sembra giusto sottolineare come, in realtà, è assolutamente errato parlato parlare di “rimozione” perché i licenziamenti Fiat del ’79 e ’80, assieme ai “provvedimenti” di Ronald Reagan (1981) e di Margareth Thatcher (1984) segnarono un punto cruciale nella “costruzione” dei nuovi rapporti di forza tra lavoratori e padroni: il compromesso e il dialogo vennero rapidamente soppiantati dal decisionismo e dalla linea dura, alterando profondamente gli equilibri sociali che saranno “relegati” all’ombra di concetti come progresso, consumo e ritmi di produzione sempre più meccanici e sempre meno umani.
La storia da sempre fa il suo corso ed è normale che alcuni eventi riescano ad emergere solo se esaminati in un quadro più ampio e in una prospettiva temporale più estesa; è comunque giusto avere un quadro obiettivo e completo di ciò che si va a studiare, includendo tutti gli avvenimenti che hanno caratterizzato gli Anni di Piombo in primis, e il futuro stesso del lavoro e dei diritti dei lavoratori.
Sono passati quasi quarant’anni da quel 1979: qualcuno ha gradualmente dimenticato, altri ricordano ancora ma «alla fine, anche se la storia ha dei pessimi alunni, in qualche modo insegna» <121, proprio per questo è stato portato avanti questo progetto, arrivando fino a questo punto.
Tutto questo lavoro sarebbe stato impossibile senza le testimonianze del capitolo precedente che con lucidità e correttezza hanno risposto alle domande, riportando a galla anche ricordi che, anche a distanza di tempo, continuano a far riflettere. Qualcuno ha parlato di “tre uomini soli” <122, la verità è che quello che emerge da questo lavoro non ha nulla a che fare con in singolo individuo, ma piuttosto prende in esame la coralità, una collettività che ancora oggi annette al proprio interno una serie di voci autorevoli che hanno fatto parte del racconto; i risvolti e l’evoluzione degli avvenimenti può anche aver portato all’individualità, ma l’appartenere a una categoria segna profondamente la vita di chi fa una determinata scelta e decide di perseguirla.
E allora, che prezzo è stato pagato? Probabilmente quello di sentir dire, nel tempo, «gli operai avevano ragione, per questo scioperavano» <123; o forse il tentativo di ridurre tutto al classico giusto o sbagliato, facendo apparire la questione di una semplicità disarmante; o forse il prendere atto (col senno di poi) dei cambiamenti maturati che hanno influenzato il modo di concepire l’operaio e la fabbrica.
«Il progresso richiede il continuo consumo, la differenza tra vita e respiro. Forse ti sei scordato che la differenza tra vita e respiro è la distanza tra ultimo e primo». <124 La Storia ha fatto il suo corso: gradualmente gli Anni di Piombo hanno lasciato il posto a nuove esperienze proiettate direttamente verso il nuovo millennio; le vittime si celebrano, il ricordo si conserva e, come l’orologio fermo alle 10:25 <125 che rievoca uno dei momenti più bui della nostra storia, anche l’immaginario e la coscienza storica restano “a guardia” di una memoria collettiva in continuo divenire che aspetta soltanto di essere ricostruita ed essere commemorata.
[NOTE]
118 Lettera di Alberto Manzi ai suoi alunni di quinta elementare, 1976.
119 Alberto Manzi (Roma, 3 novembre 1924 - Pitigliano, 4 dicembre 1997) è stato un pedagogista, personaggio televisivo e scrittore italiano, noto principalmente per essere stato il conduttore della trasmissione televisiva «Non è mai troppo tardi», messa in onda fra il 1960 ed il 1968.
120 Cfr. capitolo IV.
121 Vittorio Arrigoni.
122 Cfr. capitolo III.
123 Cfr. capitolo III.
124 Linea 77, Absente Reo, Oh!
125 L’orologio della stazione dei treni di Bologna è rimasto fermo alle 10:25 del 2 agosto 1980.
Mirco Calvano, Terrorismo e tute blu, gli Anni di Piombo alla Fiat, Tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Roma "La Sapienza", Anno Accademico 2014-2015

sabato 30 novembre 2024

Decisero di portarsi verso le linee alleate in quel momento in grande movimento

Palena (CH). Foto: Zitumassin. Fonte: Wikipedia

Nella prima decade di dicembre [1943] la banda [Bandiera Rossa] fu costretta a lasciare Palena che a seguito degli incalzanti eventi bellici - l’avanzata dell’8a armata verso Ateleta, l’affluire di un gran numero di forze tedesche impegnate nella difesa delle linee del fronte, ed i pesanti bombardamenti alleati su tutta la zona - fu giudicata troppo rischiosa per un’ulteriore permanenza. Gli uomini della banda si diressero quindi verso nord, prima a Civitella, poi a Palombaro, Guardiagrele e Rapino in cui giunsero il 18 e che abbandonarono subito perché «il movimento tedesco sulla camionabile […] era ingente e costituiva un pericolo tanto che molti contadini della zona si erano allontanati e sparpagliati alle falde della Majella», ed infine Pretoro dove sostarono per 5 giorni <1882. Durante questo periodo di peregrinazioni non mancarono gli avvicendamenti: il giorno 16 il Ciavarella ed il Fatatà decisero di lasciare i compagni per «portarsi verso le linee alleate in quel momento in grande movimento e superando le alture di Ricca Scalegna scesero verso il Sangro all’altezza di Valle Cupa, si portarono verso gli avamposti alleati» <1883, e così in comando dei gruppi passò al Novelli <1884; per contro a Pretoro si unì alla banda il capitano del genio Domenico Passalacqua la cui grande esperienza tecnica «incoraggiò molto gli uomini» <1885. Durante la pur breve sosta a Pretoro, i partigiani non rimasero inattivi: il 20 dicembre uno dei gruppi affrontò in località Sant’Angelo una pattuglia tedesca di razziatori in uno scontro violento che portò al ferimento del partigiano Vittorio La Salandra <1886 e di un soldato tedesco, e «alla morte di due bovi […] nonché la cattura di due giovenchi e di sette sacchi a pelo»; in contemporanea un altro gruppo minò e fece saltare una postazione antiaerea tedesca posta sulla cima di «Torre Di Colle» <1887. Informati di un prossimo rastrellamento tedesco attivato in seguito alle loro azioni, i partigiani sfuggirono alla cattura rifugiandosi a Lettomanoppello, poi a San Valentino e quindi a Roccamorice dove trascorsero il Natale. In quei giorni si procedette ad un nuovo riassetto della banda con la formazione di tre squadre: una con a capo il Novelli stanziata nella zona di San Valentino, un’altra distaccata nell’area di Manoppello alla guida del Passalacqua, e la terza costituita da soli 6 elementi diretta dal Galletti con funzione di raccordo tra le precedenti due <1888. In attesa degli eventi ritenuti di rapida risoluzione <1889 individuarono quale «settore operativo le pendici dei colli che degradavano sulla camionabile Popoli-Pescara» <1890.
Nel mese di gennaio i due gruppi divennero operativi nell’area, alternandovi scontri armati col nemico ad azioni di sabotaggio. Il 10, il gruppo del Novelli si incontrò improvvidamente con due auto cisterne tedesche dirette a Caramanico e nell’impossibilità di nascondere le armi si decise per aprire il fuoco contro i mezzi che esplosero «in modo pauroso»: nell’azione un partigiano e due tedeschi rimasero feriti <1891. Seguirono due azioni di sabotaggio: il 15 da parte della squadra del Passalacqua che danneggiò in contrada Madonna delle Grazie sei baracche approntate dai tedeschi quali depositi di materiale bellico; mentre il 19 il Novelli e i suoi distrussero una linea telefonica provvisoria abbattendone i sostegni, per un raggio di oltre cento metri in contrada Madonna del Monte <1892. Il 21 gennaio, il Galletti e due suoi compagni <1893, di ritorno dal gruppo di San Valentino a cui aveva comunicato «come erano stati predisposti i collegamenti e quali erano le vie più sicure di comunicazione fra i due gruppi», furono sorpresi presso Lettomanoppello da una pattuglia tedesca: ne seguì una fuga rocambolesca con tanto di guado del torrente Lavino, durante la quale uno dei partigiani - l’ex prigioniero «Enrico Ecwith» - fu catturato dai tedeschi «e non si seppe come andò a finire», mentre gli altri due riuscirono a mettersi in salvo <1894. Con notizie via via più confortanti dal fronte <1895, il Novelli decise di mettere a segno un’azione contro un deposito di munizioni e vettovaglie tedesco installato nel pianoro delle Coste di Plaja. Pianificato il colpo con diversi appostamenti, ed organizzati i suoi uomini in un nucleo operativo e uno di copertura, nella notte del 28 gennaio raggiunse il deposito provocandovi un incendio che distrusse due capannoni <1896.
All’alba del 6 febbraio il Passalacqua ed il suo gruppo attaccarono con lancio di bombe a mano un’autocolonna tedesca diretta verso Pescara, sotto il ponte della ferrovia nei pressi della stazione di Manoppello. Il 16 febbraio il gruppo di Novelli sostenne una faticosa marcia sulle montagne del Marrone con l’intento di danneggiare le postazioni di artiglieria antiaerea «site nel versante nord presso le Officine Elettriche di San Martino»: dopo un appostamento durato un giorno entrano in azione posizionando due mine che nella successiva esplosione danneggiarono «due pezzi da 881» <1897.
Intanto il Ciavarella, rientrato a Roma il 12 febbraio per riferire delle sue missioni oltre il fronte al Comando della Bandiera Rossa, venne arrestato in seguito ad un’«oscura macchinazione» il 13 marzo mentre si accingeva a partire per rientrare dai suoi compagni in Abruzzo. Nottetempo arrestato e condotto a via Tasso, fu sottoposto a «sevizie inaudite» ma rimase «fermo e deciso nel suo silenzio [ed] uscì da quel triste luogo» - si legge nella relazione del Novelli - «solo la sera del 24 Marzo, per essere condotto, insieme a tanti altri Eroi, alle Fosse Ardeatine ed essere trucidato».
[NOTE]
1882 Cfr. Banda Bandiera Rossa, relazione di Novelli Bruno.
1883 Secondo la dichiarazione di Rossi Costantino, capo della banda Rossi, assente dal carteggio esaminato, attiva «nella zona di Monte Carico e delle Mainarde», il Ciavarella si trattenne nell’area per breve tempo dando «prove di arditezza e di coraggio non comuni e pur sapendo a quali rischi andava incontro, si decise al passaggio [delle linee del fronte], con cosciente e superiore sprezzo del pericolo», ivi, Raggruppamento Bande Bandiera Rossa, dichiarazione di Rossi Costantino del 24 aprile 1949.
1884 Cfr. ivi, Banda Bandiera Rossa, relazione di Novelli Bruno.
1885 Ibidem.
1886 Secondo la dichiarazione di Novelli Bruno dell’8 gennaio 1949, La Salandra Vittorio, riportò una ferita riportata all’occhio che lo costrinse ad allontanarsi dalle zone operative, dopo aver partecipato «a diverse azioni nelle zone del Sangro, di Palena e di San Valentino», ivi, Raggruppamento Bande Bandiera Rossa. Secondo il Nuccitelli Alvise, il La Salandra si aggregò alla banda della «Vittoria» «presentatoci dalla signora La Sorsa nostra partigiana, addetta al servizio di collegamento», per restarvi solo due mesi e poi aggregarsi con la stessa La Sorsa alla banda del Ciavarella. Ivi, dichiarazione di Nuccetelli Alvise del 6 gennaio 1948. Cfr. ivi, anche dichiarazione di La Sorsa Cordelia e dichiarazione di Daniele Italo. La Salandra Vittorio, nato a Foggia il 3 novembre 1918, caporale, ha svolto attività partigiana nella banda dal 08/09/43 al 10/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani.
1887 Ivi, Banda Bandiera Rossa, relazione di Novelli Bruno.
1888 Cfr. ibidem.
1889 Secondo la ricostruzione del Novelli, «le notizie che giungevano dal fronte erano quanto mai incoraggianti perché l’8[a] Armata combatteva ormai sulla linea Guardiagrele, Orsogna, Arielli, Villa Grande, Ortona e dal movimento delle forze tedesche e dei furibondi bombardamenti che avvenivano in tutta la zona costiera e sui contrafforti della Maiella, si arguiva che da un giorno all’altro l’8[a] Armata avrebbe raggiunto Pescara riuscendo così a forzare il dispositivo tedesco ed inoltrarsi verso Roma», ibidem.
1890 Ibidem.
1891 Cfr. ibidem.
1892 Cfr. ibidem. Nell’azione restò ferito il Savoca Salvatore. Cfr. ivi, schedario partigiani.
1893 Il Sarra Gaetano e un ex prigioniero alleato di cui a breve si dirà nel testo.
1894 Cfr. ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Bandiera Rossa, relazione di Novelli Bruno.
1895 «Da Orsogna giungevano notizie sempre più incoraggianti circa l’avanzata della 8a Armata e l’eco della battaglia si faceva più vicino ed attanagliava con sempre maggiore aggressività il dispositivo della resistenza tedesca che per altro aumentava di giorno in giorno, con l’affluire sulle linee di sempre maggiori forze. I bombardamenti si susseguivano di notte e di giorno e di notte il pericolo per i nostri costretti a vivere alla macchia era maggiore perché i movimenti tedeschi si effettuavano quasi sempre di notte e nei luoghi a volte più impensati», ibidem.
1896 Cfr. ibidem.
1897 Ibidem.
Fabrizio Nocera, Le bande partigiane lungo la linea Gustav. Abruzzo e Molise nelle carte del Ricompart, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2017-2018

domenica 17 novembre 2024

La risposta del Pci al partito armato passa quindi attraverso l’organizzazione delle masse


Gianni Cervetti riporta le riflessioni raccolte tra gli operai registrando problemi di orientamento rispetto al rapporto con la violenza e con le forze dell’ordine: "A Bologna, parlando con i compagni e con molte persone presenti alla manifestazione promossa in risposta agli scontri dell’11 marzo, erano evidenti incertezze e dubbi tra gli operai e nelle organizzazioni sindacali. L’atteggiamento poi da assumere nei confronti della polizia e del suo operato era quasi una cartina di tornasole: ci si chiedeva se la polizia deve essere considerata un organo e uno strumento dello Stato democratico o addirittura un nemico da battere, magari non con la violenza, ma con la denuncia della sua estraneità allo Stato democratico" <926. Queste riflessioni ancora presenti all’interno della classe operaia danno in qualche modo la stura delle difficoltà del Pci e della Cgil nel far digerire alla propria base la nuova strategia politica di collaborazione inaugurata dopo le elezioni del 1976. Gli interrogativi espressi sull’atteggiamento da tenere nei confronti delle forze dell’ordine sono indicative anche della concezione e del retaggio culturale della classe operaia.
L’intervento conclusivo è tenuto da Giorgio Napolitano che esprime le posizioni della segreteria: "La nostra Repubblica va difesa contro chiunque l’attacca e la insidia ed in questa difesa non ci devono essere esitazioni, anche quando la minaccia viene da movimenti e gruppi che si autodefiniscono proletari, rivoluzionari, di ultrasinistra e che però, in sostanza, mirano a colpire ed a travolgere le istituzioni democratiche e che ormai proclamano d’altronde apertamente come loro nemico fondamentale lo schieramento operaio e il Pci" <927.
La risposta del Pci al partito armato passa quindi attraverso l’organizzazione delle masse e l’individuazione precisa dei gruppi violenti isolandoli e contrastandoli. L’obiettivo diventa quello di dividere le diverse formazioni estremiste, aprendo al loro interno delle contraddizioni e provando a recuperarne una parte. Per rispondere alla strategia degli attacchi autonomi contro il Pci nelle scuole e nelle università, il partito decide di costruire un movimento giovanile unitario basato su grandi temi politici come il rifiuto della violenza e dell’intolleranza, l’alleanza tra giovani e movimento operaio.
PCI e CGIL di fronte alla violenza diffusa
In queste concitate settimane Torino è al centro dell’opinione pubblica. La città si prepara al primo processo contro i capi storici delle Br che rifiutano di difendersi. I brigatisti minacciano apertamente gli avvocati che accetteranno il mandato d’ufficio accusandoli di collaborazionismo. Il 4 aprile intanto il tribunale di Bologna respinge le istanze presentate dall’Ordine degli avvocati torinesi, in quanto le minacce subite dai difensori non vengono ritenute gravi, né credibili e quindi non perseguibili. Ma non si tratta di semplici minacce verbali. Nel giro di una settimana si susseguono infatti episodi delittuosi. Il 20 aprile un commando composto da 3 persone spara numerosi colpi di pistola contro Dante Notaristefano, ex segretario della Dc torinese, ma la mira è sbagliata e il dirigente democristiano è illeso <928. Il 22 aprile Antonio Munari, capo officina della Fiat viene invece colpito alle gambe a poche centinaia di metri dalla Fiat Mirafiori. Entrambi gli attentati vengono rivendicati dalle Brigate rosse <929. Ma non è finita. Il 28 aprile, un altro truce e simbolico delitto scuote la città di Torino. Le Br uccidono, nell’androne del suo studio, il presidente dell’Ordine degli avvocati torinesi Fulvio Croce. Cinque colpi pistola alla testa e al torace spezzano la vita di un uomo la cui colpa è quella di aver designato i difensori d’ufficio dei brigatisti al processo fissato per il 3 maggio <930. La notizia del delitto sconvolge l’intera città e irrompe durante la seduta del Consiglio regionale. Il Presidente Dino Sanlorenzo interrompe i lavori esprimendo durissime parole di condanna: "Esprimiamo la più forte condanna nei confronti di questo nuovo episodio di terrorismo politico nella lunga serie di attentati che hanno colpito Torino. Dall’uccisione del brigadiere Ciotta fino agli attentati contro le sedi di partiti e associazioni, all’aggressione al capo-officina della Fiat e all’esponente democristiano Notaristefano, ben trenta sono gli episodi criminosi avvenuti solo nell’ultimo mese a Torino e in Piemonte. Tutto ciò indica che Torino sta diventando il nuovo epicentro di una forma di terrorismo estremamente pericoloso e preoccupante per la particolare odiosità e vigliaccheria che la contraddistinguono. Essa si rivolge contro i cittadini che altra colpa non hanno se non quella di rivestire cariche pubbliche o di svolgere determinate funzioni" <931. Le forze politiche si appellano alla cittadinanza affinché non si lasci intimorire e chiedono a chi venga chiamato di assolvere con senso civico alle funzione di giudice popolare. Ma la paura di una rappresaglia da parte delle Br è altissima e nei giorni successivi sulla scrivania di Guido Barbaro, presidente della Corte d’Assise, si accumulano pile di certificati medici che chiedono l’esonero per sindrome depressiva. Per il giudice istruttore Gian Carlo Caselli è “la traduzione in termini clinici della paura” <932. A causa dell’impossibilità di comporre il collegio la Corte è costretta a rinviare a tempo indeterminato il processo, mentre la magistratura tenta di dare una risposta compatta al delitto. Il Consiglio superiore della magistratura chiede esplicitamente al governo l’assunzione di un decreto legge sospensivo della custodia cautelare in casi di terrorismo in cui si legge: "I termini massimi della custodia preventiva sono sospesi in caso di impossibilità di regolare svolgimento del giudizio e, nei procedimenti avanti la Corte d’assise, anche in caso di impossibilità di formazione del collegio, sempre che tali impossibilità derivino da fatti di eccezionale gravità ovvero da comportamento dell’imputato o del difensore tendente ad impedire lo svolgimento del giudizio" <933.
La questione relativa all’accettazione o meno delle funzioni di giudice popolare è al centro di un’aspra polemica tra alcuni importanti intellettuali e il Pci. Eugenio Montale, ad esempio, intervistato da «Il Corriere della Sera» risponde: "Se fosse stato estratto il mio nome non credo avrei accettato. Sono un uomo come gli altri ed avrei avuto paura come gli altri. Una paura giustificata dallo stato attuale delle cose, ma non metafisica, né sostanziale" <934.
Alessandro Galante Garrone, magistrato ed ex comandante partigiano, risponde all’intervista di Montale scrivendo di non essere convinto dal catastrofismo del poeta: “la Repubblica non è in agonia e non è irrimediabilmente sconfitta perché attorno ad essa si stringe la grandissima maggioranza degli italiani” <935. Al fianco di Galante Garrone si schiera Italo Calvino sostenendo che “lo Stato consiste soprattutto di cittadini democratici che non si arrendono” <936.
Norberto Bobbio dal canto suo scrive che la ragione lo spinge a ritenere impossibile che la fine della Repubblica possa essere evitata: "Le Br sono riuscite a impedire lo svolgimento del processo di Torino perché si sono dimostrate, rispetto al potere deterrente, che è o dovrebbe essere l’estrema risorsa dello Stato, più credibile dello Stato stesso" <937. Il filosofo prende le distanze dai «fanatici» che vogliono la catastrofe e dai «fatui» che pensano che alla fine tutto si sarebbe accomodato. Ma il pessimismo, è secondo Bobbio un dovere civile perché solo il pessimismo radicale della ragione avrebbe potuto ridestare «qualche fremito» in coloro che non si stavano accorgendo di quanto stava avvenendo. Giorgio Amendola risponde accusando Bobbio di avere una concezione aristocratica della lotta politica. Scrive il dirigente comunista: "Nel paese si manifestano ben più che i fremiti evocati da Bobbio e ogni giorno contro il terrorismo emerge il coraggio politico di chi vuole salvaguardare le conquiste della Resistenza. Preannunciare una sconfitta sicura quando la battaglia è ancora in corso significa, a mio parere, non essere pessimisti, ma semplicemente disfattisti. […] non è il momento di fuggire o di capitolare di fronte al terrorismo. È il momento della più ferma intransigenza per respingere con coraggio il ricatto della violenza. Purtroppo il coraggio civico non è mai stato una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana" <938. Anche il giudizio di Giorgio Bocca è molto duro: "A Torino le Brigate rosse hanno vinto e la giustizia dello Stato democratico si è arresa, vergognosamente: avvocati divisi, giudici popolari piangenti, magistrati sbiancati dalla paura" <939.
Il governo dal canto suo reagisce inasprendo le misure di polizia <940 nel momento stesso in cui risponde negativamente alla richiesta degli agenti di costituire un sindacato all’interno delle tre Confederazioni dopo che migliaia di assemblee hanno deciso le tappe per la nascita dell’organizzazione <941. Netta la presa di posizione in questo senso del commissario Ennio Di Francesco del Coordinamento per il sindacato di polizia che ribadisce la necessità democratica della costituzione di un sindacato libero per gli agenti: "Sindacato di polizia, breve parola che è sintesi sociale di anni di lotte. Come tutti i movimenti di pensiero in termini di riscatto della dignità umana e di democrazia anche questo è passato attraverso inevitabili tappe di dura repressioni, di sottili lusinghe.[…] Ma tutto questo non sarebbe valso a nulla o peggio, in cilena disciplina, non potremmo neppure parlarne oggi se non si fosse realizzata quella sensibilizzazione di voi tutti lavoratori accanto al problema del sindacato di polizia. Così sia pure attraverso momenti di iniziale diffidenza ci siamo incontrati, lavoratori tra i lavoratori, nelle fabbriche, nei quartieri. […] in questo quadro di crescita democratica i poliziotti intendono dire no alla loro utilizzazione quale braccio secolare del potere, da utilizzare nei conflitti sociali, dalla cui comprensione è stato sinora tenuto gelosamente lontano nella gabbia del corpo separato, dà il senso più profondo del perché del sindacato di polizia" <942.
Il sangue è oramai una costante nelle piazze italiane e a Roma conosce in quei mesi di aprile e maggio una nuova fiammata. Il 21 aprile la polizia interviene all’università occupata da alcuni giorni. Gruppi di autonomi sparano e uccidono l’agente Settimio Passamonti <943. Nella notte, accanto alla chiazza di sangue viene lasciato un truce e orrendo messaggio: «qui c’era un caramba, il compagno Lorusso è «vendicato». È una spirale di odio ormai irreversibile.
[...] Il 20 maggio è Massimo D’Alema a intervenire su «Rinascita» per spingere i gruppi extraparlamentari a prendere le distanze dagli autonomi: "Non è più possibile sostenere che, stando a fianco a chi è armato con una P38, non è facile rendersi conto se si tratta di un autonomo o di un agente provocatore. Finalmente si comincia a sgomberare il campo da stupidaggini irresponsabili tipo compagni che sbagliano o da fumose giustificazioni sociologiche della violenza. […] la posizione diffusa in molti gruppi e militanti della sinistra di non sentire la democrazia, questa democrazia italiana, come cosa propria, ha radici profonde nel rifiuto di ogni democrazia organizzata. […] gli autonomi sono una banda squadristica dai torbidi collegamenti e vanno combattuti e isolati" <950.
Nel stesso tempo le Br allargano il campo dello scontro contro lo Stato lanciando una campagna di azioni contro la stampa e colpendo quei giornalisti che a loro giudizio hanno contribuito a dare una visione fuorviante e mistificatoria del brigatismo. Il primo giornalista a essere colpito in tale ottica è il vicedirettore de «Il Secolo XIX» di Genova, Vittorio Bruno, ferito alle gambe il 1° giugno 1977. Il giorno dopo è la volta del direttore de «Il Giornale» Indro Montanelli, mentre il 3 giugno a Roma viene colpito Emilio Rossi, direttore del telegiornale del primo canale. Nel volantino di rivendicazione di quest’ultima azione le Br spiegano come nell’ambito di quella campagna ancora non hanno sparato per uccidere ma ciò non significa non essere pronte a farlo. Con l’attentato a Rossi si conclude la prima parte della campagna contro la stampa che riprenderà in autunno.
[...] La replica di Berlinguer arriva il giorno dopo con una lunga lettera su «La Stampa» in cui il segretario del Pci spiega di aver parlato di «nuovo squadrismo» e di «nuovi fascisti» riferendosi solo ai gruppi autonomi armati, in relazione alle violenze di questi ultimi: "Coloro che con l’etichetta dell’autonomia scatenano le aggressioni, le violenze, le devastazioni più cieche e gratuite usando armi proprie e improprie; coloro che dichiarano di voler agire come partito armato contro ogni istituzione della nostra società civile; coloro che programmaticamente scelgono come bersaglio dei loro attacchi teppistici e delle loro azioni criminali il movimento operaio organizzato e quindi anche il Pci, i suoi dirigenti, i suoi militanti, i suoi giornalisti; coloro che non esitano a imporre la loro prevaricazione persino a chi da essi dissente nell’area dell’estremismo; ebbene, costoro non possono rappresentare una corrente con cui, fosse pure da distanze abissali, sia possibile tentare di stabilire un dialogo. Con tutti gli altri sì" <959.
A Bologna, durante la tre giorni organizzata dalla sinistra extraparlamentare, va in scena un duro confronto fra i leader dell’Autonomia, intenzionati a rovesciare la logica legalitarie di alcune componenti studentesche per trasformare il convegno in un momento di lotta contro le istituzioni democratiche, e i militanti di Lotta continua che invece sono intenzionati a denunciare la repressione dello Stato restando quindi nella logica tematica del convegno. È questo l’ultimo confronto pubblico e di massa, prima delle definitive derive e disgregazioni <960. Uno degli effetti del convegno è infatti la dimostrazione che le distanze fra le due parti sono ormai divenute insanabili.
[NOTE]
926 I comunisti e la questione giovanile, Atti della sessione del Comitato centrale del Pci, Roma, 14-16 marzo 1977, cit., Intervento di Cervetti, p. 332.
927 Ivi, Intervento di Napolitano, p. 361.
928 Due giovani e una donna sparano otto colpi di rivoltella contro l’ex segretario della Dc, in «La Stampa», 21 aprile 1977.
929 Le Br feriscono un capofficina Fiat con otto colpi di pistola alle gambe, in «La Stampa», 23 aprile 1977.
930 Assassinato il presidente degli avvocati di Torino: sono state le Brigate rosse?, in «La Stampa», 29 aprile 1977.
931 Il discorso del Presidente del Consiglio regionale del Piemonte Dino Sanlorenzo del 28 aprile 1977 è in Una Regione contro il terrorismo, cit., p. 60.
932 G. Caselli, D. Valentini, Anni spietati. Torino racconta violenza e terrorismo, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 81.
933 Il testo del decreto legge proposto dal Consiglio superiore della magistratura è riportato in E. R. Papa, Il processo alle Brigate rosse: Brigate rosse e difesa d’ufficio: documenti (Torino, 17 maggio 1976 -23 giugno 1978), Torino,
Giappichelli Editori, 1979, p. 43.
934 Intervista ad Eugenio Montale, in «Il Corriere della Sera», 3 maggio 1977.
935 A. Galante Garrone, Il coraggio di essere giusti, in «La Stampa», 8 maggio 1977.
936 I. Calvino, Al di là della paura, in «Il Corriere della Sera», 11 maggio 1977.
937 N. Bobbio, Il dovere di essere pessimisti, in La Stampa, 15 maggio 1977.
938 Intervista a Giorgio Amendola in «L’Espresso», 5 giugno 1977.
939 G. Bocca, A Torino vince la paura. Mancano i giudici: rinviato il processo delle Br, in «la Repubblica», 4 maggio 1977.
940 Proteste dei partiti e precisazioni del governo. La polizia sparerà solo per legittima difesa, in «la Repubblica», 24 aprile 1977; Misure di polizia. Intercettazioni telefoniche, fermo preventivo e carceri più severe, in «la Repubblica», 5 maggio 1977.
941 L’intervento di Fedeli al Consiglio sindacale, in «la Repubblica», 9 gennaio 1977; Il progetto Dc nega agli agenti il sindacato libero, in «la Repubblica», 6 aprile 1977; «Ordine pubblico», ottobre 1977.
942 As Cgil nazionale, Problemi pubblica sicurezza. Sindacato polizia. Realizzare il sindacato di polizia nell’interesse del paese. Intervento di Ennio Di Francesco al Congresso confederale della Cgil, 16 giugno 1977, fascicolo 19, b. 29.
943 Un agente assassinato, in «la Repubblica», 22 aprile 1977.
950 M. D’Alema, Liberare il movimento dall’infezione della violenza, in «Rinascita», 20 maggio 1977.
959 E. Berlinguer, Chi sono i nuovi fascisti, in «La Stampa», 23 settembre 1977; Cfr., anche E. Berlinguer, Con chi non è possibile dialogare, in «l’Unità», 23 settembre 1977.
960 G. Bocca, Un fatto inedito nella vita politica del paese, in «la Repubblica», 27 settembre 1977.
Francescopaolo Palaia, La Cgil e il Pci fra violenza terroristica e radicalità sociale (1969-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi "Sapienza" - Roma, Anno Accademico 2016-2017

giovedì 7 novembre 2024

La mobilitazione in massa delle forze partigiane del distaccamento di Finale Emilia si realizzò il 20 aprile

Mirandola (MO), Piazza della Costituente. Foto: Boardvital111. Fonte: Wikipedia

Nella mattinata del 22 aprile 1945 le avanguardie della Brigata «Remo» entrarono in azione contro le retroguardie tedesche in ritirata. Mirandola fu così liberata definitivamente domenica 22 aprile come risulta dalla relazione del Comando Piazza di Mirandola che riproduciamo integralmente, anche se ci pare lecito avanzare in nota alcune riserve: «Il 1° Battaglione patrioti operante nella zona di Mirandola, il 22 aprile 1945, all'approssimarsi delle truppe alleate, sotto la guida della nota missione inglese, serrava le file e prima dello scadere della mezzanotte raggiungeva a piccoli gruppi questa città, deciso di strapparla al nemico per evitarne la distruzione. Durante la marcia di avvicinamento a Mirandola uno di tali gruppi catturava 3 agenti della Questura repubblicana fascista che furono prontamente eliminati. Alla periferia della città le nostre avanguardie si scontravano con reparti fascisti in ritirata che venivano subito agganciati in combattimenti; ma, data la preponderanza numerica del nemico, le nostre pattuglie, dopo breve sparatoria, si sganciavano dall'avversario ripiegando in posizione più favorevole e attendendo il grosso del Battaglione. «Poco dopo l'intero Battaglione entrò in città stessa costituendo posti di blocco nei punti periferici di maggior traffico. Il nemico, impegnato ripetutamente in duri combattimenti, veniva scacciato prima dalla città e poscia ostacolato nella sua ritirata; i nostri reparti, costituendo i posti di blocco, infatti, attaccavano coraggiosamente le colonne in ritirata falciandole e disperdendole. Numerosi attacchi nemici furono respinti e la città venne tenuta fino all'arrivo degli Alleati sebbene bersaglio di un bombardamento durato molte ore» (11). La relazione prosegue elencando le azioni di rastrellamento compiuto nella notte fra il 22 e il 23 e nella giornata del lunedì, nel corso delle quali caddero i partigiani «Hans» (un soldato tedesco passato alla Resistenza) ed Erminio Ori di Mirandola.
Se questa relazione compresa nel "Diario storico della Brigata «Remo»" suscita alcune perplessità, altre e ben più serie ne propone la versione dei fatti (piuttosto discordante dalla prima) quale ci viene fornita da una relazione stesa in data imprecisata da alcuni componenti del nucleo mirandolese del Partito d'Azione: a meno che essa - pagando un debito evidente a quel patriottismo di partito al quale abbiamo accennato - non intenda riferire, amplificandone all'estremo il significato, uno dei tanti episodi attraverso i quali si operò la liberazione di Mirandola (12).
Anche nel Finalese si accese in quei giorni intensa la lotta armata, - e non solo nella zona di Massa, in cui la Resistenza sia pure con alterne vicende era stata tuttavia abbastanza costantemente presente come abbiamo ricordato fin dall'autunno-inverno del '43-44, bensì anche da parte delle forze che anche dopo l'esodo verso la montagna di parecchi giovani militanti (a proposito del quale già s'è detto avanti) continuarono a mantenere una sia pur debole e scarsamente attiva struttura organizzata della Resistenza nel centro urbano di Finale Emilia e che dovettero pagare col sacrificio più duro da esse tributato alla lotta di liberazione - cioè con la morte dei partigiani Edoardo Banzi e Giustino Veronesi - questo estremo e pure anch'esso importante sussulto di ribellione contro fascisti e tedeschi (13). La mobilitazione in massa delle forze partigiane del distaccamento di Finale si realizzò il 20 aprile, allorchè di fronte all'evidente precipitare degli avvenimenti le varie squadre armate furono comandate di prendere posizione nei loro posti di combattimento, già in precedenza indicati tenendo conto di quelle che potevano essere le località da tenere sotto controllo. Comandati da Albino Superbi e da Luigi Battaglioli, una trentina circa di partigiani armati del Battaglione «Omero» si dislocarono pertanto nelle zone che fronteggiavano il Panaro, soprattutto nelle vicinanze immediate del centro urbano, avendo due obiettivi: anzitutto ostacolare per quanto fosse possibile la ritirata dei tedeschi e, seminando fra questi il panico con attacchi improvvisi e imboscate micidiali, trasformare una ritirata più o meno ordinata in una vera e propria fuga; in secondo luogo impedire o almeno ridurre al minimo la devastazione di Finale e la perdita di vite umane fra i civili. A tal fine nella notte sul 22 fu dato fuoco al ponte di legno che i tedeschi avevano gettato sul fiume, impedendo in tal modo che colonne nemiche potessero affluire a rinforzo dei reparti che già stanziavano nella città (14).
Per tutta la giornata del 22 aprile, mentre le armate alleate incalzavano le truppe tedesche dalla pianura bolognese fino verso la sponda meridionale del Panaro, fra l'altro sparando numerosi colpi di artiglieria nella zona a nord del fiume (ciò che rendeva ancor più pericolose le operazioni partigiane, sottoposte ad una duplice insidia) la Resistenza armata continuò nel Finalese la sua azione di disturbo contro le preponderanti forze tedesche, nel corso della quale cadde in località Mulino di Massa il partigiano Giustino Veronesi; infine la mattina del 23, alle ore 11, dopo che il grosso dei tedeschi si era ormai ritirato e mentre le forze partigiane tentavano di stabilire un contatto con gli alleati (15), fu data la disposizione di issare ovunque bandiera bianca onde evitare che il paese fosse fatto segno di ulteriori attacchi da parte delle artiglierie e dell'aviazione americana. Alcuni gruppi isolati di retroguardia della Wehrmacht tentarono di reagire a questo colpo di mano e cercarono di strappare i drappi bianchi issati sulle case, ma in generale il nemico percepì anche da questo gesto di una intera popolazione, un gesto ad un tempo di difesa e di sfida, che la partita anche a Finale era perduta, e si mise in rotta opponendo tuttavia ancora qua e là una sporadica resistenza che costrinse i partigiani ad assaltare un carro armato e a snidare alcune postazioni di mitragliatrici (16).
All'imbrunire del 23 aprile finalmente le truppe americane varcavano il Panaro e anche Finale Emilia poteva cominciare a vivere le sue prime ore di libertà.
[NOTE]
(11) Abbiamo tenuto ovviamente presente - per l'implicita autorevolezza che deriva dalla sua ufficialità - questa relazione del Comando Piazza di Mirandola: essa ci appare tuttavia assai lacunosa, approssimativa e in certi punti addirittura scarsamente attendibile: ad esempio, non si riesce da essa a capire se lo «scadere della mezzanotte» si riferisca alla notte fra il 21 e il 22 aprile, come altre fonti sostengono, oppure alla notte fra il 22 e il 23 aprile come parrebbe di dover dedurre a prima lettura del testo; e ancor più problematica diventa l'attendibilità del documento allorchè si afferma addirittura che il battaglione «Pecorari» procedette all'occupazione di Mirandola «sotto la guida della nota (sic!) missione inglese»: è infatti ben accertato e documentato da centinaia di testimonianze che i rapporti fra le forze partigiane e le missioni alleate furono sì di collaborazione assai stretta, anche se talvolta increspata da reciproche «diffidenze» politiche, ma non certo di subordinazione o di rinuncia alla loro autonomia da parte delle formazioni patriottiche che invece seguirono sempre la corretta linea gerarchica di dipendenza dai comandi militari della Resistenza.
(12) Riproduciamo qui intanto il testo della relazione (conservata con numero di protocollo 369 presso l'Archivio I.S.R.M. deposito Borsari, cart. C/2), al quale ci pare comunque necessario far seguire una nota critica circa la sua attendibilità. «Il 22 aprile 1945 al Comando Piazza alle ore 13,45 Cocchi Giuseppe, capo della squadra del Partito d'Azione si assunse l'incarico di raccogliere quanti più uomini possibili per prendere alle ore 18 possesso della caserma GNR perchè, secondo i patti di resa, a quell'ora i militi avrebbero dovuto consegnare le armi e allontanarsi in borghese. Alle 14 Cocchi e Pozzetti Bruno in perlustrazione davanti alla caserma suddetta, constatando che solo pochi militi erano ancora presenti, decisero di prenderne immediatamente possesso e invitarono la popolazione ad armarsi con le armi ex repubblichine. Venne sull'istante costituito un nucleo di armati che man mano ingrossò le file al numero di una quarantina. La caserma venne tenuta pur sotto le minacce di un cannoncino e di due autoblinde tedesche. Senonchè per ragioni di sicurezza viene dato ordine a Castellini di trasferirsi con parte di armi ed armati in un cortile del centro cittadino. Alle ore 18,30 Mirandola si può dire praticamente nelle mani della popolazione insorta sotto la guida del Partito d'Azione. Alle 22,30 il Comando Piazza prese il comando diretto del gruppo che venne organizzato in tre squadre e una pattuglia di collegamento. Capo pattuglia fu uno del Partito d'Azione, Castellini, che guidò il gruppo fino all'indomani, giorno dell'arrivo delle truppe alleate». Anche per spiegare le ragioni dei nostri interrogativi sull'attendibilità del documento, vogliamo soffermarci solo su due evidentissime inesattezze: in primo luogo si parla di una «squadra del Partito d'Azione» comandata da Giuseppe Cocchi, mentre è del tutto accertato che tranne che nei primissimi tempi della lotta di liberazione nella Bassa modenese non esistevano affatto formazioni «di partito» (nè del P.d'A, nè del P.C.I., nè di alcun altro partito antifascista) ma tutte le forze partigiane erano organizzate in una formazione unitaria: nella fattispecie, le forze militari della Resistenza operanti nella Bassa erano tutte inquadrate nella Brigata «Remo». In secondo luogo, il documento afferma testualmente: «Mirandola si può dire praticamente è nelle mani della popolazione insorta sotto la guida del Partito d'Azione»! A parte il fatto che - per motivi richiamati altrove - il nucleo mirandolese del P.d'A. aveva perduto la più gran parte della sua consistenza già nella primavera-estate del 1944, vien da chiedersi: dove erano allora e cosa facevano in quelle ore cruciali il C.L.N., il Comando di Piazza, il Comando del battaglione «Pecorari», e infine il Comando della Brigata?
(13) Dobbiamo a questo punto «fare i conti» e ancora una volta criticamente con un documento già altrove ricordato, una relazione sull'attività svolta dal distaccamento del battaglione «Omero» dislocato a Finale Emilia, stesa il 21 maggio dal capitano Gaetano Salvi che firma come «comandante del distaccamento». Il documento è nell'Archivio I.S.R.M., deposito Borsari, cartella C/5). Questo scritto rappresenta in qualche modo una testimonianza da cui non si può prescindere, stante la grave povertà di altre fonti dirette, e tuttavia non può essere preso in considerazione se non con grande cautela tenendo conto della qua e là trasparente e al limite persino ingenua finalità di autoincensamento da parte dell'autore, inteso sì a ricostruire i fatti ma soprattutto ad esaltare oltre misura il ruolo ch'egli effettivamente svolse in quelle vicende. Ad assumere questa posizione in parte dubitativa ci induce anche il rapporto fra le cose scritte dal Salvi e le testimonianze orali che si son potute raccogliere nell'autunno del 1973 da uomini - quali Albino Superbi «Allegro» (commissario del distaccamento) e Luigi Battaglioli - che furono indubitabilmente reali protagonisti della Resistenza nel centro di Finale fin dal settembre '43.
(14) «Relazione del movimento partigiano di Finale Emilia». (Archivio I.S.R.M., deposito Borsari, cartella C/5).
(15) Secondo la relazione Salvi citata, fu lo stesso Salvi a stabilire questo collegamento: «Alle ore 14 dello stesso giorno, il Comandante dei Partigiani Cap. Salvi, sotto il fuoco rabbioso degli ultimi centri tedeschi riuscì a mettersi in contatto con gli Americani»; i già ricordati Albino Superbi e Luigi Battaglioli hanno da parte loro dichiarato di essere riusciti essi stessi a raggiungere le truppe alleate avanzate e ad informare queste del fatto che il centro di Finale era ormai stato evacuato dal nemico, ciò che risparmiò una prevedibile azione distruggitrice da parte degli alleati.
(16) Si veda la citata «relazione Salvi». Fu nel corso di queste operazioni che cadde il partigiano Edoardo Banzi e furono feriti i partigiani Ermes Caselli (al quale dovette esser amputata una gamba) e Ferruccio Pignatti.
F. Canova - O. Gelmini - A.Mattioli, Lotta di liberazione nella Bassa Modenese, a cura dell'A.N.P.I di Modena, 1974

giovedì 31 ottobre 2024

Le giornate di Genova furono uno shock per il Msi



La tensione raggiunse il culmine il 18 aprile 1970 a Genova, durante un comizio di Almirante, qualche giorno prima che il Movimento Sociale inaugurasse ufficialmente la propria campagna elettorale. Una radiotrasmittente pirata si intromise nelle trasmissioni della Rai, invitando la popolazione a bloccare la manifestazione del Msi: erano i Gap, i Gruppi di Azione Partigiana, una delle prime formazioni clandestine di estrema sinistra, nate dopo gli attentati del 12 dicembre 1969 per contrastare l’eventualità di un golpe. Le elezioni regionali del giugno 1970 furono le prime elezioni degli anni Settanta a vedere la partecipazione attiva di formazioni terroristiche di destra e di sinistra impegnate in una serie di attentati volti a influire sul voto elettorale. Accanto all’attività dei Gap, infatti, fece la sua comparsa, con una serie di attentati dinamitardi contro i tralicci dell’alta tensione in Lombardia, il MAR (Movimento di Azione Rivoluzionaria), un gruppo terrorista neofascista in contatto con i servizi segreti e alcuni ex-partigiani anticomunisti <535.
Nei giorni precedenti il Partito comunista, l’Anpi e i sindacati avevano invitato i genovesi a manifestare contro il comizio del Msi. Il 18 aprile giunsero in piazza centinaia di antifascisti che si scontrarono con i servizi d’ordine del Movimento Sociale. Nei tafferugli venne ferito gravemente alla testa Ugo Venturini, un militante del Msi, che morì qualche giorno dopo <536. Le giornate di Genova furono uno shock per il Movimento Sociale, quasi che quella città, dal luglio 1960, fosse divenuta la riprova dell’eterna ghettizzazione e marginalizzazione del partito. Secondo Nino Tripodi, infatti, si era scatenata «la medesima rabbia che un decennio addietro [aveva colpito] con gli uncini acuminati degli scaricatori del porto, carabinieri e agenti» <537. Ugo Venturini divenne un martire, il «caduto per l’Idea» <538. La prima vittima della violenza politica dopo la strage di piazza Fontana fu osannata dai neofascisti e passata sotto silenzio dalla maggior parte delle forze politiche, ad eccezione di un duro intervento sull’«Avanti!» di Gaetano Arfè volto a stigmatizzare le violenze che si stavano registrando durante la campagna elettorale. <539 Una circostanza denunciata con forza dalla stampa di destra <540. Persino la sinistra extraparlamentare rimase quasi indifferente all’accaduto, nonostante avesse partecipato attivamente agli scontri di Genova, e fece riferimento alla morte di Venturini, come vedremo nel prossimo capitolo, solamente nel novembre del 1970, qualche mese dopo che era stata lanciata da Lotta continua e dagli altri gruppi extraparlamentari la campagna dell’antifascismo militante <541.
Per l’estrema destra il discorso fu completamente diverso. Alla liturgia commemorativa della Repubblica Sociale, del fascismo-movimento e dell’epopea del Piave, si andava ad aggiungere, adesso, il culto dei martiri, vittime della violenza rossa <542. A Roma un corteo funebre si diresse al monumento del Vittoriano, con l’intento di deporre una corona di fiori, sulla falsariga delle celebrazioni dei caduti per la rivoluzione fascista svolte nel Ventennio <543.
I funerali si tennero il 6 maggio a Genova e furono un momento celebrativo fondante, destinato a ripetersi per tutto il corso degli anni Settanta. La sala mortuaria fu allestita nella sede della federazione provinciale del Msi; la salma fu trasportata in corteo fino al tempio della Consolazione, una delle chiese più importanti della città ligure. All’interno la bara fu deposta di fronte all’altare maggiore, con ai lati una selva di bandiere tricolori e di ceri. Il rito funebre, a cui parteciparono tutti i più importanti esponenti del partito, fu celebrato da un ex-cappellano militare della Rsi. Terminata l’omelia la bara fu trasportata dai militanti del Movimento Sociale più giovani <544.
Queste liturgie accreditarono la lotta politica come una lotta fratricida: la violenza invadeva uno spazio simbolico prima appannaggio del dolore personale; i funerali divennero un momento di militanza attiva, quasi a ricordare il carattere assoluto dello scontro in atto. Non a caso Almirante si affrettò a chiamare la campagna elettorale una «guerra civile» <545; mentre Nino Tripodi parlò, addirittura, di una guerra «italo-italiana» che si era combattuta nei giorni precedenti <546.
Il lutto non fermò la campagna elettorale del Msi. A Livorno Almirante rischiò un vero e proprio linciaggio, quando la sua macchina venne bloccata in una via laterale ed attaccata da alcuni manifestanti <547. A Roma, a ridosso di un comizio elettorale di Pino Romualdi, i missini assalirono la sede della direzione del Partito Socialista, ma furono respinti dal servizio di vigilanza e dai giovani della Fgsi <548. Tutti i comizi che il Movimento Sociale tenne nel mese di maggio furono occasione di scontri con gli antifascisti. Si registrarono gravi incidenti a Firenze, Mestre, Milano, Bolzano, Reggio Calabria, Catania, Roma e Torino <549. I servizi d’ordine che presero parte agli scontri furono ribattezzati, significativamente, con il nome di Venturini <550. In prossimità del voto, inoltre, il Partito comunista invitò alla vigilanza di massa e chiamò i propri militanti a presidiare le sezioni dopo che si era sparsa la voce per l’imminenza di un colpo di Stato per bloccare il risultato delle elezioni <551.
Nonostante le aspettative negative, le elezioni regionali videro il Movimento Sociale invertire la tendenza al declino che si era manifestata nelle politiche del 1968. Il Msi, infatti, conquistò, complessivamente, il 5,2% dei voti. La fiducia nel positivo risultato elettorale portò il partito di Almirante a proporsi come il polo di un’alleanza politica trasversale a tutte le forze anticomuniste <552.
Il 12 settembre 1970 il 4° corso di aggiornamento per i giovani del Msi, che si tenne a Cascia, in provincia di Perugia, sanzionò definitivamente il riconoscimento dell’impiego della violenza come risorsa strategica della mobilitazione del partito <553. A novembre il IX congresso nazionale del Movimento Sociale propose la costituzione di un “Fronte Anticomunista Articolato” sul quale costruire l’impalcatura di una maggioranza alternativa al centro-sinistra <554. Per fare ciò era necessario «preparare i giovani allo scontro frontale» <555. Nelle parole di Almirante l’«estremismo di destra sarebbe diventato un centro di equilibrio» <556: il bilanciamento con la sinistra passava, infatti, anche attraverso un pari dispiegamento di forze.
[NOTE]
535 Ibio Paolucci, Arrestato un gruppo di dinamitardi fascisti: preparava una «settimana di fuoco» nel Nord, «l’Unità», 24 aprile 1970; vedi anche Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali - Sezione Terza -, Roma, 20 aprile 1970; Ministero dell’Interno, Gabinetto, Ufficio del Telegrafo e della Cifra, telegramma, da Milano, 18 aprile 1970, 25682; in Ministero dell’Interno, Gabinetto, 195/P/98, sottofasc. 4., Movimento Autonomo Rivoluzionario, MAR, ACS, MI, GAB, 1967-1970, b. 19.
536 Solo rafforzando il Msi si stronca la sovversione, «Il Secolo d’Italia», 9 aprile 1970; Emittente «fantasma» si rifà viva a Genova, «l’Unità», 20 aprile 1970. Sulla storia dei Gap si veda Progetto Memoria, La mappa perduta, Sensibili alle Foglie, Roma 1994, pp. 33-40; Una puntuale descrizione degli eventi che portarono alla morte di U. Venturini è contenuta nell’inchiesta giornalistica di L. Telese, Cuori Neri, Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli, 21 delitti dimenticati degli anni di piombo, Sperling&Kupfer, Milano 2006, pp. 2-25.
537 N. Tripodi, Cinismo contro martirio, «Il Secolo d’Italia», 5 maggio 1970.
538 Caduto per l’Idea, «Il Secolo d’Italia», 3 maggio 1970.
539 Pochissimi gli articoli in quei giorni sulla stampa nazionale e tutti di poche righe. Si veda, ad esempio, Morto il missino ferito durante il raduno fascista, «l’Unità», 3 maggio 1970; È morto il missino colpito da una bottiglia, «Il Corriere della Sera», 3 maggio 1970. Per la posizione del Psi G. A., Contro tutte le provocazioni, «l’Avanti», 21 aprile 1970.
540 Licenza di uccidere, «Il Candido», n. 20, 14 maggio 1970.
541 Genova: comizio di Almirante durante le elezioni regionali. Il Pci dice di vigilare. I proletari invece attaccano. Giustiziato il fascista Venturini, «Lotta continua», a. II, n. 20, 12 novembre 1970.
542 Mobilitati i giovani del Msi per respingere le aggressioni rosse, «Il Secolo d’Italia», 5 maggio 1970.
543 All’altare della Patria per onorare il sacrifico di Venturini, «Il Secolo d’Italia», 5 maggio 1970.
544 Nel nome dell’operaio Venturini per la libertà e la Nazione col Msi, «Il Secolo d’Italia», 6 maggio 1970.
545 G. Almirante, Campagna elettorale o guerra civile?, «Il Secolo d’Italia», 23 aprile 1970. Cfr. anche l’omonimo opuscolo in AFUS F. Cassiano, b. 16.
546 N. Tripodi, La guerra italo-italiana, «Il Secolo d’Italia», 30 giugno 1970.
547 Gravi incidenti a Livorno durante il comizio di Almirante, «Il Secolo d’Italia», 19 maggio 1970.
548 Rintuzzato un tentativo fascista di assalire la direzione del partito, «l’Avanti», 8 maggio 1970.
549 Violenti scontri a Firenze nel corso del comizio di Tripodi, «Il Secolo d’Italia», 20 maggio 1970; Campagna elettorale all’insegna della violenza, «Il Secolo d’Italia», 3 giugno 1970. Tafferugli a Mestre per un comizio del Msi, «Il Corriere della Sera», 4 maggio 1970; Tafferugli a Roma tra polizia e missini, «Il Corriere della Sera», 8 maggio 1970; Tafferugli a un comizio di Almirante a Livorno, «Il Corriere della Sera», Violenti scontri a Milano tra neofascisti e polizia, «Il Corriere della Sera», 25 maggio 1970; Tafferugli ai comizi del Msi, «Il Corriere della Sera», 2 giugno 1970.
550 I Volontari Nazionali nel nome di Ugo Venturini, «Il Secolo d’Italia», 3 maggio 1970.
551 Armando Cossutta, La nostra responsabilità, «l’Unità», 26 maggio 1970; Continuare nell’impegno e nella vigilanza, «l’Unità», 8 giugno 1970. La stessa notizia fu riportata dall’«Astrolabio». Cfr. Arturo Gismondi, 6 luglio l’ultima carta del partito della paura, «L’Astrolabio», a. VIII, n. 23, 7 giugno 1970.
552 Il Msi realizzerà il fronte anticomunista, «Il Secolo d’Italia», 27 luglio 1970.
553 Nell’impegno dei giovani la vera forza del Msi, «Il Secolo d’Italia», 13 settembre 1970. Il ruolo attribuito alla violenza è segnalato anche nell’informativa della Prefettura di Perugia, Prot. N. 10/913, Div. Ps, Riservata, Oggetto: “Cascia (Perugia) - Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori del MSI - IV Corso di aggiornamento”, in ACS, MI, GAB, 1971-1975, b. 19.
554 All’insegna della coerenza e dell’unità il IX Congresso Nazionale del Msi, «Il Secolo d’Italia», 20 novembre 1970.
555 Dall’unità del Msi all’unione degli italiani, «Il Secolo d’Italia», 21 novembre 1970.
556 Almirante confermato all’unanimità segretario nazionale del Msi, «Il Secolo d’Italia», 24 novembre 1970.
Guido Panvini, Le strategie del conflitto. Lo scontro tra neofascismo e sinistra extraparlamentare nella crisi del centro-sinistra (1968-1972), Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia - Viterbo, Anno Accademico 2007-2008