mercoledì 20 settembre 2023

La questione istituzionale e la lotta di Liberazione


All'indomani del 25 luglio i partiti antifascisti ricomparvero sulla scena politica, pur non essendo stata loro riconosciuta legalmente la facoltà di costituirsi (come peraltro era volontà del re che, spaventato dall'atteggiamento apertamente filo-repubblicano assunto da molti partiti, in una missiva a Badoglio scriveva “L'attuale governo deve conservare e mantenere in ogni sua manifestazione il proprio carattere di governo militare come annunciato nel proclama del 26 luglio […], a nessun partito deve essere concesso né permesso l'organizzarsi palesemente […]” <98). Il pomeriggio del 9 settembre, mentre infuriava nei pressi del ponte della Magliana la battaglia per la difesa della Capitale dalla Wehrmacht, al primo piano di via Carlo Poma (casa del banchiere sardo Stefano Siglienti, esponente di punta dell'antifascismo romano) veniva fondato il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), organismo che si proponeva di riunire tutti i partiti antifascisti con il fine di coordinare al meglio la lotta all'occupante. I partiti riuniti sotto l'egida del CLN erano il Partito Socialista Italiano d'unità proletaria (PSIUP) rappresentato alla riunione da Pietro Nenni e Giuseppe Romita, il Partito Comunista (PCI) rappresentato da Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola, la Democrazia del Lavoro (DL) rappresentata da Ivanoe Bonomi (Presidente del Comitato e figura più importante dell'antifascismo italiano dal punto di vista istituzionale data la sua passata esperienza di Presidente del Consiglio prima del fascismo) e Meuccio Ruini, il Partito Liberale Italiano (PLI) rappresentato da Alessandro Casati, e infine due partiti praticamente appena costituitisi; la Democrazia Cristiana - che raccolse l'eredità politica del Partito Popolare di don Sturzo e la tradizione ideologica della Dottrina sociale della Chiesa e la cui nascita si fa risalire al marzo 1943 - rappresentata da Alcide De Gasperi e il Partito d'Azione che - nato in clandestinità nel 1942 e irrobustitosi per via della confluenza al suo interno dei principali esponenti di “Giustizia e Libertà” come Bauer e Lussu - era rappresentato da Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea. Non aderirono al CLN il Partito Repubblicano, che per sua vocazione ideologica poneva una pregiudiziale sulla questione istituzionale e non poteva partecipare a un organo in qualche misura legato alla monarchia sabauda (la responsabilità della linea dell'intransigenza repubblicana si dice fosse dovuta a Giovanni Conti, leader del PRI che provava una inscalfibile avversione nei confronti della casata Savoia <99) e gli ambienti militari-monarchici che per l'altro verso non avevano intenzione di prendere parte a un organismo in cui (come si vedrà) era pressoché unanime la condanna della monarchia e il proposito di cambiare la forma istituzionale; tuttavia entrambi queste formazioni politiche prenderanno parte attivamente alla lotta ai nazifascisti, i primi attraverso formazioni partigiane note come Brigate Mazzini e i secondi attraverso le formazioni partigiane autonome guidate da militari e si dicevano i rappresentanti di Badoglio e del Regno del Sud nella lotta partigiana.
Il Comitato di Liberazione Nazionale era strutturato a livello locale in diversi comitati regionali, di cui i più importanti erano quelli operanti in Toscana, in Liguria, in Veneto e in Piemonte che, unendosi a quello lombardo, si costituirono nel febbraio ‘44 nel CLNAI, Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia; questo divenne la costola del Comitato Centrale di stanza a Roma nell'Italia settentrionale, dove la RSI aveva la sua sede- più precisamente a Salò, sulle sponde del lago di Garda- e dove i tedeschi, sentendosi sempre più minacciati dall'avanzata alleata che pian piano sottraeva loro il controllo di territori, instaurarono un regime di occupazione sempre più violento e repressivo, esasperando il contegno e provocando l'aperta ostilità della popolazione nei loro confronti. Bisogna inoltre considerare che differentemente da Roma, dove la lotta ai nazisti fu condotta soprattutto dagli esponenti del movimento intellettuale antifascista con la sostanziale indifferenza della popolazione- “abituata” ai fascisti per via del capillare insediamento in essa di quasi tutte le istituzioni del regime (ministeri, sedi del PNF, sedi delle associazioni fasciste ecc.) -, al centro-nord la partecipazione popolare alla Resistenza fu assai più significativa; ciò era dovuto al fatto che in queste regioni vi era un forte radicamento operaio e proletario, e cioè di quelle classi sociali che costituivano la base elettorale del PCI e del PSI e che non di rado erano state oggetto di persecuzioni da parte dei fascisti durante il ventennio. Gli operai delle fabbriche della FIAT di Torino, della Romeo a Milano, i braccianti delle campagne nei pressi della Pianura Padana non disdegnarono perciò di imbracciare le armi contro i fascisti e di unirsi alla lotta orchestrata dagli intellettuali; anche coloro che non presero parte attivamente alla lotta manifestarono apertamente la loro ostilità ai tedeschi come testimonia l'ondata di scioperi che scosse la Lombardia, il Piemonte e la Liguria nel novembre-dicembre '43 <100.
Il Comitato Nazionale aveva al suo interno una Giunta militare composta su base paritetica da tutti i partiti e un Comitato deputato a prendere decisioni più strettamente di natura politica, anch'essa composto su base paritetica. Se da un punto di vista militare i partiti non riuscirono perfettamente a coordinare le azioni di guerriglia e di sabotaggio al nemico, poiché le formazioni militari partigiane rispondevano direttamente agli ordini dei propri partiti, da un punto di vista politico il CLN fu in grado di esprimersi come una voce unica; ciò però non significava che non esistessero divergenze politiche al suo interno. Innanzitutto è necessario specificare come il Comitato fosse attraversato, sin dalla sua prima riunione, da una frattura tra i partiti dell'ala rivoluzionaria del CLN - quali il PCI, il PSIUP e il Partito d'Azione - e quelli dell'ala moderata - ovvero il Partito Liberale, la Democrazia Cristiana e la DL. Il primo argomento intorno al quale emerse lo scontro tra i partiti era la questione istituzionale; se unanime era il proposito di affidare la scelta della forma istituzionale dello Stato, e quindi la scelta tra Monarchia e Repubblica, al voto del popolo sovrano attraverso un referendum da svolgersi a guerra finita <101, i contrasti sorgevano nel momento in cui si doveva stabilire la posizione da assumere nei confronti del governo Badoglio, espressione della volontà sovrana. I socialisti e gli azionisti erano fermi nel dichiarare la loro incompatibilità con il re e il maresciallo, considerati troppo compromessi con il fascismo e quindi non in grado di rappresentare l'unità nazionale, e chiedevano un governo che fosse espressione delle forze antifasciste <102, i comunisti oscillavano tra la richiesta di un governo espressione delle forze antifasciste (ma in maniera meno intransigente rispetto agli altri due partiti di sinistra) e l'appoggio al governo Badoglio come mezzo per fare uscire l'Italia dalla guerra <103, mentre i democristiani, i demolaburisti e i liberali erano disposti ad appoggiare il governo monarchico-badogliano per tutto il tempo che fosse necessario a uscire dalla guerra. Evidentemente però le ragioni del primo gruppo erano più forti di quelle del secondo se si considera che al primo congresso dei Comitati di liberazione nazionale svoltosi a Bari il 28-29 gennaio '44 emerse chiara e condivisa da tutti i partiti la richiesta di abdicazione del re; non si vedeva alcuna possibilità di dialogo tra il CLN e il governo Badoglio, che d'altra parte non aveva compiuto alcun passo nella direzione dei partiti. Tale impasse venne sbloccato dall'Unione Sovietica che il 14 marzo diede il proprio inaspettato appoggio al governo monarchico, con una mossa volta a sottrarre alle due potenze alleate (Gran Bretagna e USA) il controllo esclusivo sulla politica del Regno del Sud <104; pochi giorni dopo il leader in pectore del PCI Palmiro Togliatti tornò in Italia dal quasi ventennale esilio in Russia e, sbarcato a Napoli il 27 marzo, pronunciò un discorso dinnanzi ai comunisti napoletani in cui sostanzialmente sosteneva la necessità di una collaborazione delle forze resistenziali con Badoglio, considerata come la migliore soluzione per portare a termine la comune lotta contro il nazifascismo. Era questa la famosa “svolta di Salerno” che inserì definitivamente il PC al centro dell'universo politico italiano del dopoguerra. La mossa di Togliatti- che era assai lungimirante non solo perché assicurava al Partito Comunista il ruolo di forza leader all'interno del CLN ma anche e soprattutto perché gli consentiva di entrare direttamente nel governo <105 - denotò uno spiccato pragmatismo politico, sorprendente per il leader di una forza che negli anni '30, nel pieno della dittatura fascista, ancora si ostinava a ritenere possibile ed attuale la prospettiva rivoluzionaria e denunciava tutti gli altri partiti come “una catena di forze reazionarie, che partendo dal fascismo comprende i gruppi antifascisti che non hanno grandi basi di massa (liberali), quelli che hanno una base nei contadini e nella piccola borghesia (democratici, popolari, repubblicani) e in parte anche negli operai (partito socialista riformista) e quelli che avendo una base proletaria tendono a mantenere le masse operaie in una condizione di passività (partito massimalista)” <106. A Salerno Togliatti delinea una svolta delle forze comuniste sintetizzabile con il passaggio dalla prospettiva della rivoluzione, della dittatura del proletariato alla prospettiva della più realistica creazione di una democrazia pluralista e progressista.
Le resistenze socialiste ed azioniste alla svolta di Salerno e alla proposta togliattiana furono vinte dalla soluzione di compromesso trovata il 12 aprile da Enrico de Nicola, in collaborazione con Croce e Carlo Sforza, consistente nel formale mantenimento della carica di sovrano da parte di Vittorio Emanuele III e nel sostanziale trasferimento di poteri al figlio Umberto I in qualità di Luogotenente del regno. Tale trasferimento si sarebbe verificato a decorrere dall'atto di liberazione di Roma.
[NOTE]
98 P. MONELLI, Roma 1943, cit., pp.177-178
99 ALESSANDRO SPINELLI, I repubblicani del secondo dopoguerra (1943-1953), Longo, Ravenna 1998, pp.3-13
100 M. SALVADORI, Storia d'Italia, cit., p.308
101 IVANOE BONOMI, Diario di un anno (2 giugno 1943-10 giugno 1944), Garzanti, Milano 1947
102 M. SALVADORI, Storia d'Italia, cit., p.302
103 Ivi pp.288-289
104 Ivi p.302
105 M. SALVADORI, Storia d'Italia, cit., p.303
106 A. GRAMSCI e P. TOGLIATTI, Tesi di Lione, 1926 in ANTONIO GRAMSCI, La costruzione del Partito Comunista 1923-1926, Einaudi, Torino 1975, pp. 488-513
Guglielmo Salimei, Roma negli anni della liberazione: occupazione nazista e lotta partigiana, Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2020-2021

Il 9 settembre si costituisce, a Roma, il Comitato di Liberazione Nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi e composto dai rappresentati del Partito Democratico del Lavoro, Partito d'Azione, Partito Comunista, Partito Socialista di Unità Proletaria, Partito Liberale, Democrazia Cristiana. Il suo compito è quello di creare le condizioni per una unità d'azione nella lotta di liberazione, in vista dell'obiettivo generale dell'unità nazionale. Esiste, tuttavia, una “costante tensione tra le componenti degli stessi Cln tra le spinte ad anticipare le forme di un nuovo assetto istituzionale fondate su una forte pressione dal basso e una forte valorizzazione delle istanze di autonomia, di autodeterminazione e di autogoverno, e le resistenze di tipo moderato, sostanzialmente convergenti nel ridurre il rinnovamento dopo il fascismo al ripristino delle regole democratico-liberali, tipiche dell'Italia prefascista” <501. Se nell'Italia meridionale si impone la necessità della mediazione politica, in un contesto caratterizzato dalla presenza del governo militare alleato, del governo Badoglio e della stessa monarchia, nell'Italia centro-settentrionale, occupata dai tedeschi, si delinea invece una maggiore caratterizzazione politico-militare che avrà un'influenza notevole sulla direzione e sullo sviluppo della Resistenza.
Non mancano, comunque, episodi di resistenza anche al Sud.
[...] Il problema della defascistizzazione si intreccia con la questione istituzionale. Se il Governo Badoglio rappresenta in qualche modo la continuità dello Stato e, soprattutto, della Monarchia, i partiti del Comitato di Liberazione rappresentano invece, sia pure con posizioni diverse, le istanze di cambiamento e di discontinuità con il passato.
L'occasione per affrontare questi temi è costituita dal Congresso dei Comitati Provinciali di Liberazione, la “prima espressione della opinione collettiva dei Partiti dell'Italia liberata”, che si tiene a Bari nei giorni 28 e 29 gennaio 1944. Già nei giorni che precedono l'inizio del Congresso emergono le diverse posizioni sui temi che catalizzano l'attenzione delle forze politiche.
[NOTE]
501 Enzo Collotti, Natura e funzione storica dei Comitati di liberazione, in AA.VV., Dizionario della Resistenza, cit., pp. 235-236.

Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

mercoledì 13 settembre 2023

Attraverso le elezioni, i cittadini europei avrebbero potuto accrescere progressivamente il loro interesse nei confronti dei temi comunitari


Una curiosa espressione di Jacques Delors, più volte utilizzata nel corso della sua carriera, definì le istituzioni comunitarie come un "opni, oggetto politico non identificato". L'affermazione di Delors appare come un compromesso tra l'interesse a tutela dei diritti degli Stati e la necessità di attribuire al processo di integrazione europea istituzioni stabili e soprattutto autonome.
In realtà, i caratteri di profonda instabilità mostrati dal modello di Comunità ne fecero scaturire due orientamenti interpretativi differenti. Il primo considerò il raggiungimento dell'obiettivo prefissato nella realizzazione di una unione politica; come sostiene Riccardo Perissich, "Ai limitati trasferimenti di sovranità già decisi, altri ne sarebbero seguiti, anche se sempre in modo graduale. Coerentemente con questo approccio, le istituzioni avrebbero dovuto evolvere verso un modello classico. La Commissione si sarebbe trasformata in un esecutivo federale; il Consiglio dei ministri in un "Senato degli Stati"; l'Assemblea parlamentare in un vero Parlamento federale" <490.
Il secondo orientamento si basò sull'idea che il principio di sovranità non potesse essere frammentato e che il conferimento di potere previsto dai Trattati fosse più di carattere tecnico che politico. Questa seconda interpretazione aumentò i dubbi e la diffidenza nei confronti della Commissione e ancor più del Parlamento. C'è da dire inoltre, che gli Stati firmatari dei Trattati si riconobbero più nella prima lettura del modello, con un necessario distinguo per la Francia che, all'epoca dell'entrata in vigore era presieduta dal generale Charles De Gaulle, fortemente contrario, come noto, all'idea di una qualsiasi minima cessione di potere a livello sovranazionale.
A seguito della fusione di CECA, CEE ed EURATOM una sola Commissione unificò l'apparato amministrativo mentre al Parlamento europeo venne assegnato unicamente il compito di esercitare il potere in materia di bilancio, oltre ad una funzione meramente consultiva; l'elezione diretta del Parlamento fu contemplata nell'articolo n. 138 del Trattato istitutivo della Comunità europea nel quale, oltre ad essere indicato il sistema di elezione dei parlamentari europei delegati come provvisorio, venne previsto che il Parlamento avrebbe elaborato progetti volti alla realizzazione di una procedura di elezione uniforme per tutti gli Stati membri.
Di fatto, negli anni che intercorsero tra il 1951 e il 1976, furono presentate numerose proposte orientate all'istituzione della procedura di elezione a suffragio universale diretto che, dopo molte difficoltà, trovarono soltanto nel 1979 la loro attuazione; questo risultato rappresentò l'inizio di una nuova era in cui l'importanza della comunicazione politico-istituzionale giocò un ruolo fondamentale per creare il necessario contatto con i cittadini, in previsione della loro partecipazione al voto europeo.
Ricordiamo come nel 1974, al vertice francese presieduto da Valéry Giscard D'Estaing, venne adottata la decisione di istituire il Consiglio europeo e l'elezione diretta del Parlamento. L'evento avrebbe esercitato una notevole influenza nella dinamica istituzionale europea; nonostante il suo assetto di Assemblea diversa da quelle nazionali, il Parlamento europeo direttamente eletto avrebbe preteso un aumento della propria influenza politica così come del proprio peso istituzionale.
Attraverso le elezioni, i cittadini europei avrebbero potuto accrescere progressivamente il loro interesse nei confronti dei temi comunitari riuscendo a percepire meglio l'esistenza di un'istituzione fino ad allora poco conosciuta. Su questo aspetto federalisti e "gradualisti" si collocarono su posizioni discordanti, in quanto i primi da sempre consideravano il Parlamento eletto come "Congresso del popolo europeo" e quindi come il potere costituente della futura Federazione europea. Personalità di spicco sui singoli piani nazionali, costantemente impegnate nella causa dell'integrazione europea (solo per citare alcuni nomi si ricordano Altiero Spinelli, Simone Veil, Helmut Kohl, Jacques Chirac), oltre ad esponenti politici ed intellettuali che interpretarono un ruolo di forte influenza all'interno dei loro partiti riguardo alla scelta europeista (per l'Italia ricordiamo Giorgio Amendola, Enrico Berlinguer, Mauro Ferri, Gaetano Arfè), si impegnarono con l'intento di legittimarne il ruolo rispetto alle altre istituzioni, in particolar modo la Commissione. I parlamentari eletti nel primo suffragio universale diretto si trovarono quindi ad affrontare temi che andavano dalla questione dei Paesi comunisti ai rapporti con il Terzo mondo, alla progettazione di una televisione europea fino alla necessità di redigere una prima bozza di Costituzione europea.
Il ricorso alle candidature di personalità politiche ben note all'opinione pubblica quali Enrico Berlinguer, Simone Veil, Willy Brandt, si pensò potesse offrire un maggiore potenziale all'organizzazione della propaganda.
La campagna elettorale del giugno 1979, così come le altre due successive, fu tuttavia caratterizzata, soprattutto in Italia e Francia, da argomenti troppo spesso collegati alla dialettica politica della propria nazione. In ogni caso l'informazione data ai cittadini europei fu in grado di suscitare un inevitabile interessamento ai problemi comunitari, ma soprattutto alla realtà sovranazionale.
L'affluenza al voto fu comunque inferiore rispetto alle elezioni nazionali. Nei motivi della scarsa partecipazione al voto, oltre l'assenza di dibattito propriamente europeo vi fu anche il fatto che le strategie dei partiti tesero ad una sorta di strumentalizzazione delle elezioni europee, puntando attraverso le campagne elettorali al perseguimento di obiettivi nazionali.
Il primo scrutinio diretto fu in grado comunque di dare una ventata di novità al concetto di democrazia europea. La nuova legittimità consentì al Parlamento di consolidare nel tempo i propri poteri e di interpretare un ruolo all'interno del processo decisionale comunitario che all'epoca poteva dirsi quanto meno "nebuloso".
Una volta fissato il periodo di svolgimento delle prime elezioni, le forze politiche nazionali dovettero sostenere una sfida che le avrebbe costrette a rimettersi in gioco, cercando di rinnovare gli argomenti e i temi individuati per le campagne elettorali nazionali. Una maggiore consapevolezza riguardo alla necessità di allargare l'orizzonte, senza trascurare tuttavia il contatto con i propri elettori e cercando le possibili somiglianze con gli altri partiti europei, avrebbe consentito di conciliare la propria ideologia in un contesto più ampio.
Occorre tener presente come tra il 1975 e il 1979 si fossero create all'interno dell'Assemblea parlamentare non eletta, formazioni politiche rappresentative di partiti accomunati da un orientamento affine a quello nazionale. La diversità di ideologie, tuttavia rendeva queste coalizioni molto deboli, soprattutto per via della tanto difficile integrazione ostacolata dalla predominanza degli interessi nazionali anteposti a quelli comunitari. La primazia dei partiti nazionali ha sempre costituito un ostacolo all'autonomia di azione dei gruppi e delle federazioni lasciando, fino ad oggi, inattuata la costituzione di veri e propri partiti europei.
All'indomani del primo suffragio universale diretto, tuttavia, il nuovo parlamentare europeo avrebbe assunto il ruolo di trait d'union tra il proprio elettorato, il proprio partito, la coalizione europea e il Parlamento stesso.
I tratti caratterizzanti il percorso politico-istituzionale del Parlamento europeo sono stati oggetto di approfondimento nello studio dei casi relativi ai tre Paesi considerati rivelando le differenze che, per la natura stessa del ruolo giocato nel contesto sovranazionale, non hanno risparmiato il processo di integrazione e, nel caso specifico, la partecipazione alle elezioni dirette del Parlamento. Accomunando Italia e Francia, Paesi fondatori della Comunità europea che si dimostrarono troppo intenti a trattare temi nazionali durante le campagne elettorali, nel Regno Unito l'idea di Europa si coniugò con la costante valutazione di tutti gli elementi che sarebbero risultati convenienti per partecipare, senza che tutto ciò costringesse a modificare o rinunciare a quanto già in possesso, atteggiamento che trovò nella linea di governo di Margaret Thatcher una perfetta interpretazione durata per l'intero decennio esaminato.
Se per il primo suffragio universale diretto l'attività maggiore fu quella di approntare nuovi metodi organizzativi per le campagne elettorali, adatti alla ricerca di un consenso più ampio, diretto a legittimare l'istituzione sovranazionale, nella seconda e terza tornata le riflessioni delle forze politiche si resero necessarie per cercare di individuare le cause del progressivo calo partecipativo. I difetti di una comunicazione politica spesso basata su issues nazionali, soprattutto riguardo la Francia, ha di sicuro rappresentato una delle possibili cause, ma l'atteggiamento stesso dei partiti, apparso frequentemente poco incline a credere seriamente nell'importanza delle elezioni, ha lasciato percepire incertezza ai cittadini europei.
Per altro verso, anche le campagne elettorali comunitarie, sebbene abbiano investito molte risorse per cercare di catturare il consenso dell'opinione pubblica, hanno mostrato la parziale efficienza dei mezzi messi in atto.
Elezioni di second'ordine quindi? E' possibile parlarne ancora in questi termini? Da quanto emerso nel corso della ricerca condotta sul versante storico-politologico, il livello delle elezioni europee non risulta affatto secondario. Il dato partecipativo, anzi è inversamente proporzionale alla quantità di lavoro preparatorio sia dal punto di vista politico che amministravo-istituzionale, ben superiore a qualsiasi suffragio nazionale.
Ci si chiede allora perché gli elettori non abbiano risposto con altrettanto entusiasmo. Qui le risposte trovano differenti possibilità da tenere nella giusta considerazione: la poca attenzione ai temi comunitari, la qualità della comunicazione, l'errore di propagandare l'evento troppo a ridosso delle date di svolgimento, l'eccessiva distanza tra istituzioni e cittadini, il livello culturale degli elettori, i giorni della settimana individuati per i suffragi spesso troppo vicini ad elezioni nazionali appena svolte, la classe politica poco convinta.
In realtà tutti questi fattori rappresentano concause della scarsa partecipazione. Il cittadino europeo in mezzo a questo guazzabuglio è il personaggio principale di una performance in cui lui stesso determina la riuscita.
Nonostante i numeri evidenzino una progressiva flessione nei dieci anni esaminati, i cittadini non sono rimasti indifferenti di fronte alle novità introdotte dal processo di integrazione europea. Spesso, soprattutto durante i sondaggi, accanto ad una percentuale di "indifferenti" o "euroscettici", molti intervistati hanno lamentato la poca autorità del Parlamento europeo nel contesto istituzionale comunitario <491 confidando in ulteriori progressi strutturali. Il mancato raggiungimento di questo obiettivo, preannunciato già prima del 1979, insieme alle vicende politiche legate al proprio Paese, ha gradualmente provocato negli elettori reazioni di protesta attraverso il non voto o il voto negativo <492, comportamenti capaci di delineare una partecipazione differente rispetto alla decisione di esprimere la propria scelta. Questo tipo di elettore ha mostrato di essere stato raggiunto dall'informazione diffusa durante le campagne elettorali e, sulla base di quanto appreso, ha deciso consapevolmente di non votare o di esercitare un voto diverso annullando o votando scheda bianca; quindi si è recato ai seggi, non è rimasto inerte disinteressandosi di quanto stava accadendo. L'auspicio di un consolidamento istituzionale del Parlamento e di una maggiore coesione politica della Comunità europea non ancora raggiunti, anche per responsabilità delle politiche nazionali, ha posto l'elettore in condizione di negare il proprio contributo o protestare verso il mancato conseguimento dei risultati.
L'accrescimento della conoscenza e del coinvolgimento, sebbene presenti, non sono andati di pari passo con la partecipazione. Elementi di insoddisfazione hanno caratterizzato il comportamento dell'elettore realmente europeista.
I cittadini europei possono in realtà collocarsi in tre macro aree nelle quali si ritrovano gli europeisti, gli euroavversi e gli euroscettici. Se le aspettative degli europeisti sono rimaste deluse, gli euroavversi hanno parzialmente esercitato il diritto di voto alimentando quelle liste comunque presenti nella competizione europea. Gli euroscettici, invece hanno rappresentato il punto nevralgico dell'elettorato. Trovandosi in quella parte di popolazione attenta ad osservare quali e quanti cambiamenti sarebbero avvenuti a partire dal 1979 hanno avuto modo di consolidare la loro posizione continuando a percepire la Comunità ancora lontana e prevalentemente scomoda se non inutile. A differenza dell'europeista deluso che comunque ha continuato a partecipare, magari protestando, e dell'euroavverso che ha espresso il suo disappunto preferendo i partiti antieuropeisti, l'euroscettico ha proseguito nell'osservazione, affiancandosi agli incerti che sono rimasti a casa.
A questo punto sono apparse inevitabili ulteriori valutazioni verso quegli elementi che caratterizzano le elezioni in genere. Ciò che attrae il cittadino ai seggi elettorali è prevalentemente il peso che le elezioni possono esercitare sui cambiamenti del governo nel proprio Paese. Il "less at stake" delle elezioni europee ha rappresentato sicuramente uno dei motivi scatenanti i sentimenti appena descritti; lo scenario si profila diverso, "In such ‘marker-setting' elections, voters have an incentive to behave tactically, but in a sense of the word ‘tactical' that is quite different from what we see in National elections, where large parties are advantaged by their size. In a markersetting election the tactical situation is instead characterized by an apparent lack of consequences for the allocation of power, on the one hand, and by the attentiveness of politicians and media, on the other" <493.
La mancanza di conseguenze sul livello nazionale garantita dalle elezioni europee ha "alleggerito" l'elettore della responsabilità di orientare con la propria scelta il corso della politica nazionale. Sebbene nel 1979 vi fosse stata un'attività partitica a livello transnazionale consentita anche dalla disponibilità di fondi in quel periodo, l'attenzione dell'elettorato fu minima. In termini di risultati transnazionali la percezione fu praticamente irrilevante; circa il cinquanta per cento dei votanti ammise di non aver idea di quali gruppi avessero ottenuto maggiori consensi.
Altro aspetto da non sottovalutare si collega allo sproporzionato successo ottenuto dai partiti più piccoli rispetto ai grandi; è in questo caso che si può parlare di voto punitivo nei confronti della politica del governo nazionale.
[NOTE]
490 R. Perissich, L'Unione Europea una storia non ufficiale, Milano, Longanesi, 2008, p. 54.
491 Si vedano a questo proposito i risultati emersi nella pubblicazione della Commissione delle Comunità europee, Eurobarometro - L'opinione pubblica nella Comunità europea, Vol.1, 32/89, Direzione generale Informazione, comunicazione e cultura, Bruxelles, 1989.
492 Cfr. A. Gianturco Gulisano, La fenomenologia del non voto, in R. De Mucci (a cura di), Election day. Votare tutti e tutto assieme fa bene alla democrazia?, cit.
493 C. Van der Eijk, M. Franklin, M. Marsh, What voters teach us about Europe-Wide Elections: what Europe-Wide Elections teach us about voters, in "Electoral Studies", vol. 15, n. 2, p. 157.
Doriana Floris, Le prime elezioni per il Parlamento europeo e la partecipazione nazionale: un confronto tra Italia, Francia e Regno Unito, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, 2014

domenica 3 settembre 2023

Il gappista andava incontro ad una morte quasi certa


Sull’esistenza di un vuoto storiografico riguardo ai Gruppi di azione patriottica (Gap), è facilmente constatabile un comune accordo tra gli studiosi. Ed è un vuoto che pone degli interrogativi di qualche interesse, visto che l’attività dei Gap e le sue conseguenze da sempre hanno innescato dibattiti e polemiche; spesso assai virulente, destinate a ripresentarsi, stucchevolmente ripetitive, bloccate in una contrapposizione tra detrattori ed esaltatori, mentre la ricerca in proposito è stata quanto meno asfittica fino agli anni settanta, e quasi inesistente nei decenni successivi, ad eccezione di alcune biografi e di comandanti gappisti, e di pochi studi su singole realtà provinciali (tra i quali il migliore resta Luigi Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera: le brigate Garibaldi a Milano e provincia, 1943-1945, FrancoAngeli 1985).
Se le ragioni di questo vuoto consistessero nella mancanza di documentazione, il problema sarebbe già risolto, anche se non brillantemente: senza documenti, non si fa storia. Fortunatamente, per quanto riguarda le complesse vicende riguardanti costituzione, finalità, modalità operative, successi ed insuccessi dei Gap, i documenti ci sono, anche se non sempre di agevole consultazione. L’archivio del Partito comunista, che dei Gap fu il principale organizzatore, offre una notevole messe di documenti, spesso volutamente reticenti, o discontinui; intrecciati con le numerose autobiografie, ricordi e saggi di dirigenti e protagonisti, e integrati dalle fonti di polizia, rappresentano un buon punto di partenza per avviare una ricostruzione criticamente fondata della storia dei Gap. Dunque, le ragioni di un visibile vuoto storiografico non vanno cercate in questa direzione.
La spiegazione più ovvia, ma non per questo meno valida, è che si tratti di un argomento scomodo, affrontando il quale è difficile, anzi estremamente arduo, sottrarsi a giudizi di valore.
[...] Nessun democristiano o liberale ha mai condiviso, tanto meno dunque progettato o realizzato, la pratica degli attentati urbani; gli azionisti hanno in teoria approntato qualcosa di simile alle strutture gappiste, salvo utilizzarle quasi mai, o protestare con veemenza la loro estraneità agli attentati più clamorosi, su tutti naturalmente l’uccisione del filosofo Giovanni Gentile. In verità, nemmeno per il Partito comunista è stato facile reclutare e rendere operative le poche decine di gappisti indispensabili ad innescare la lotta armata nelle città occupate dell’autunno 1943; ancor più problematico fu sostituire la prima leva di gappisti, quasi tutti morti entro la primavera 1944: l’altissimo rischio della cattura, della tortura e della morte ebbe certo un ruolo non secondario accanto alle resistenze e perplessità di tipo etico nel rendere estremamente difficile trovare i combattenti disponibili ad entrare nei Gap.
A rendere problematico il superamento di reticenze e censure che hanno caratterizzato le autorapresentazioni del gappismo, oltre alle ragioni già ricordate, un forte contributo è stato fornito dall’offensiva antiresistenziale che a partire dal 1948 ha utilizzato proprio le questioni connesse all’uso della violenza, all’incerto statuto di legittimità nel quale i partigiani erano rimasti confinati, come armi giudiziarie e mediatiche per trasformare i combattenti in avventurieri sanguinari. In questa generale offensiva, i Gap, per molte intuibili ragioni, rappresentarono un argomento prediletto dai detrattori. Dai neofascisti degli anni cinquanta ai loro epigoni degli ultimi vent’anni, nei Gap si è voluto cogliere soprattutto, o esclusivamente, la responsabilità di suscitare feroci rappresaglie, cercate scientificamente dalla parte feroce, o cinica, della Resistenza.
Sia all’esaltazione acritica, sia alla demonizzazione, una ricostruzione del concreto, complicato e drammatico farsi dell’esperienza gappista non è mai parso un compito urgente e inderogabile.
A questo insieme di ragioni, già bastevoli, credo, a capire perché il gappismo sia argomento scomodo e poco frequentato dagli storici, andrà aggiunta almeno un’altra causa, tanto ovvia da poter essere anche solo accennata: il gappismo è stato rivendicato come il proprio antecedente legittimante da parte dei brigatisti degli anni settanta, fatto che ha naturalmente determinato un anatema sulla parola stessa. Terrorismo divenne sinonimo di follia omicida senza giustificazioni. Le stizzite e preoccupate precisazioni del Partito comunista tesero soprattutto a stabilire incommensurabili differenze fra le due epoche e i due fenomeni; ma come è noto, l’ansia autodifensiva non è mai una generosa levatrice di ricerche storiche, e così, ancor oggi il gappismo non è problema con il quale la storiografia della Resistenza si sia più misurata a fondo.
Santo Peli, I Gap nella Resistenza, SIM, 6 agosto 2015

Le città italiane del concitato triennio 1943-45 offrivano una serie di caratteristiche favorevoli per organizzare questo tipo di colpi: i bombardamenti delle forze Alleate rendevano impossibile stabilire i movimenti da e verso i centri urbani e gli sfollamenti impedivano alla neonata Repubblica Sociale Italiana (Rsi) e alle forze occupanti di controllare con efficacia l’ordine pubblico, nonostante gli sforzi profusi <4. In secondo luogo le città garantivano un vasto pubblico operaio, pronto, almeno secondo le convinzioni dei comunisti, a raccogliere l’esempio Gap e ad unirsi alle forze della Resistenza.
Per affrontare l’argomento dei Gap è doverosa una premessa: non è possibile parlare di gappismo senza tenere presente che ci troviamo di fronte ad esperienze eterogenee e assai difficilmente assimilabili; ogni Brigata Gap presenta peculiarità sociali, numeriche, di genere. In molti casi è legittimo domandarsi se queste esperienze siano tenute insieme solo dalla parola Gap e l’esempio più evidente di questa contraddizione è sicuramente il caso emiliano.
In Emilia il gappismo si sviluppò prevalentemente nelle campagne che circondavano le città e, a partire dalla primavera del 1944, la guerriglia in pianura assunse dimensioni tali da poter parlare di un vero e proprio esercito formato prevalentemente da contadini, mezzadri e braccianti, e da rappresentare una secca smentita a chi riteneva la pianura un luogo assolutamente non idoneo per combattere con i metodi della guerriglia <5.
Questa tipologia di lotta è assai diversa da quella che si sviluppò nei maggiori centri industriali del nord Italia (Milano, Torino, Genova) e ancora diversa da quella che si sviluppò in città liberate nella primavera-estate del 1944 (Roma e Firenze), dove il gappismo fu un fatto di pochi.
Il caso emiliano è dunque del tutto specifico e non può essere indicativo per altre realtà: l’appoggio e la partecipazione dei contadini alla lotta è una delle sue caratteristiche distintive. Le ragioni storiche dello straordinario sviluppo della Resistenza in queste zone vanno ricercate nella forte coscienza di classe dei contadini emiliani che si era consolidata attraverso le prime leghe cooperative ed attraverso un’avversione al fascismo che aveva radici ben più profonde di quelle fatte risalire all’8 settembre <6.
All’interno di quello che possiamo definire “gappismo di massa emiliano” si situa però anche la 7ª Gap bolognese che, per la sua caratteristica di agire in un contesto urbano più ampio, è da considerarsi ancora un caso a parte rispetto alle brigate Gap che agirono nei piccoli centri emiliani, i cui colpi furono architettati principalmente nei centri di prima periferia. La 7ª Brigata Gap arrivò a contare 24 squadre di gappisti, divisi tra Bologna ed il circondario bolognese, nella primavera-estate del 1944 <7. Alcide Leonardi, che assunse il comando proprio in quel periodo, riuscì ad imprimere un’efficacia straordinaria alla Brigata: nei centri di prima periferia vennero prese d’assalto le cabine telefoniche ed elettriche, le ferrovie, i tralicci dell’alta tensione e venne riposta molta attenzione all’attacco contro gli automezzi tedeschi, mentre nel centro cittadino non si allentò l’attività più strettamente terroristica. A partire dall’estate del 1944 vennero infatti messi in scena i colpi più clamorosi e spettacolari che presupponevano una grande forza numerica ed organizzativa e che hanno reso la Brigata bolognese un caso assolutamente unico: l’uccisione del vicefederale di Bologna (9 luglio), la bomba collocata al cinema Manzoni (20 luglio), la liberazione dei detenuti politici dal carcere di San Giovanni in Monte (9 agosto), i due attacchi all’hotel Baglioni (rispettivamente 29 settembre e 18 ottobre) e gli spericolati recuperi di armi portati a termine dalla squadra “Temporale” <8.
È quindi chiaro come sia difficile parlare di gappismo senza sottolineare che, in realtà, potremmo parlare di esperienze molto diverse tra loro in ragione del contesto urbano, sociale e politico: cercare di proporre una sintesi senza tenere conto dei diversi casi locali ci porterebbe ad una descrizione parziale e per certi versi anche fuorviante <9.
In generale la storia dei Gap si caratterizza per una difficoltà nel reclutamento e la loro entrata in azione venne più volte sollecitata dai comandi superiori che non si riuscivano a capacitare del cronico ritardo dell’organizzazione. Sia in fase iniziale che in fase inoltrata quando, in molti casi, interi nuclei di Gap caddero sotto i colpi delle delazioni e il lavoro dovette ricominciare da capo, il reclutamento fu assai arduo. Le difficoltà erano dovute ad una serie di fattori umani ed organizzativi. La percezione del forte rischio che si correva era un fattore da considerare: il gappista andava incontro ad una morte quasi certa e, per questo, molti scelsero di andare in montagna, dove in genere si combatteva una guerra più convenzionale, con più probabilità di fare ritorno a casa a liberazione avvenuta.
La peculiarità della lotta dei Gap erano infatti la clandestinità più assoluta e l’isolamento insieme, per i più, al distacco totale dalla famiglia e dagli ambienti frequentati prima di entrare a far parte della guerriglia. Nonostante ciò a Firenze le norme cospirative furono assai più fluide di quelle stabilite: il gruppo fondatore dei Gap proveniva da una banda di montagna, dove le precauzioni cospirative erano meno stringenti. I giovani reclutati avevano continuato a risiedere, anche dopo l’ingresso in clandestinità, nei rioni popolari di San Frediano e Santa Croce, dove erano molto conosciuti. Questi elementi fecero sì che a Firenze non si ebbero nemmeno i nomi di battaglia, se non come pure formalità <10.
Nelle memorie e nei diari pubblicati nel dopoguerra, ricorre con insistenza il tema di una guerra collettiva portata avanti nella solitudine. Carla Capponi descrive così la sensazione di liberazione quando le venne ordinato di abbandonare Roma per raggiungere Palestrina: "avevo riflettuto a lungo su quanto la lotta fosse diversa in città, per le strade e le piazze di Roma, dove ogni albero era un fortino tedesco e i fascisti giravano in branchi armati. Stare nascosti nella cantina di Duilio, vagare di notte per effettuare colpi di mano alle colonne tedesche in transito verso il fronte, girare armati sapendo che a ogni angolo potevi essere perquisito, arrestato, ucciso; conoscere i luoghi della tortura e persino i volti degli aguzzini e dei nemici che opprimevano la città: tutto questo ci aveva tenuti in una tensione continua. A Palestrina le cose erano diverse: la lotta armata si svolgeva a viso aperto e gli scontri, anche se impari, avvenivano a faccia a faccia con il nemico. Io mi sentivo serena, tranquilla nella coscienza di assolvere un dovere. Il gappista tende un agguato e non vede quasi mai le vittime del suo attacco, mentre il partigiano non solo vede in faccia il nemico ma ne vede anche la morte e ne deve seppellire il corpo per impedire conseguenze sulle popolazioni civili" <11.
La freddezza nell’affrontare la morte diventava determinante per chi doveva colpire in pieno giorno: era necessario saper disumanizzare il nemico, non preoccuparsi della sua vita, della sua famiglia, oppure del fatto che il milite in questione fosse o meno convinto della scelta intrapresa. Questo problema si poneva con meno prepotenza nella guerra in montagna dove era possibile affrontare la morte in maniera velata, come conseguenza inevitabile della guerra. La guerra in città poneva invece interrogativi sulla vita e soprattutto sulla morte non eludibili; la morte doveva essere guardata in faccia con meno mediazioni, anche culturali: il gappista dopo aver sparato ripiombava nella solitudine dato che con i compagni di lotta raramente poteva condividere impressioni o titubanze per non contravvenire alle norme cospirative.
Un altro elemento che ritroviamo nei diari e nelle memorie dei gappisti è la difficoltà iniziale ad eseguire gli ordini imposti dal comando di agire subito e di colpire “uomini vivi”. Rompere questo digiuno delle armi fu per molti una scelta sofferta, difficile, ricordata con una sensazione di profondo malessere: "Ma noi non riuscivamo a dimenticare che le nostre armi avevano fatto fuoco su uomini vivi. Li avevamo visti. […] Avevo sparato su un uomo. Non riuscivo a parlare, a mescolarmi di nuovo con i miei amici. Ormai tra me e loro era avvenuta una rottura decisiva: io avevo cominciato la guerriglia. […] Io me ne rimasi solo, sveglio, a pensare. Mi domandavo mille volte se un uomo aveva il diritto di colpire un altro uomo. A una domanda così semplicistica mi rispondevo mille volte di no. Ma la mia guerra era legittima, e soprattutto non l’avevo voluta io, né gli uomini della mia parte. Eravamo stati travolti da un mare di violenza, cercavamo di difenderci da essa e di salvare quanto fosse più possibile dallo sfacelo" <12.
[NOTE]
4 Cfr. L. Paggi, Il «popolo dei morti». La repubblica italiana nata dalla guerra (1940-1946), il Mulino, Bologna 2009, pp. 110-116.
5 Cfr. M. Conti, Guerra in pianura. I Gruppi di azione patriottica (Gap) a Reggio Emilia, «RSRicerche Storiche», 118 (2014).
6 Cfr. D. Gagliani, Culture comuniste tra anni ’30 e ’40: Togliatti e Reggio “rossa”, alcune note, in G. Boccolari, L. Casali (a cura di), I Magnacucchi, Valdo Magnani e la ricerca di una sinistra autonoma e democratica, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 25-46; L. Casali, D. Gagliani, Presenza comunista, lotta armata e lotta sociale nelle relazioni degli «ispettori»: settembre 1943-marzo 1944, in L. Arbizzani (a cura di), Azione operaia, contadina, di massa, in L’Emilia Romagna nella guerra di Liberazione, vol. III, De Donato, Bari 1976, pp. 499-611.
7 Istituto per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Reggio Emilia (d’ora in poi ISTORECO), Fondo Archivi della Resistenza (d’ora in poi AR), b. 1b, fasc. 18, Delegazione per l’Emilia del comando generale dei distaccamenti e Brigate d’Assalto Garibaldi, giugno 1944.
8 Per una sintesi del caso bolognese cfr. M. De Micheli, 7ª Gap, Editori Riuniti, Roma 1971.
9 Il recente libro di Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e resistenza, del quale abbiamo preso visione solo a lavoro ultimato, restituisce per la prima volta una sintesi dell’esperienza dei Gap attraverso un’avvincente ricostruzione dei colpi più rappresentativi. L’autore chiarisce che la scelta del plurale “storie di Gap” in luogo del singolare “storia dei Gap” è tesa a delimitare i confini della sua ricerca che, non potendosi basare su una mole di studi locali criticamente fondati - tuttora assenti -, ha dovuto comprendere solo i casi ritenuti esemplari ed emblematici. Cfr. S. Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e resistenza, Torino, Einaudi 2014, p. 8.
10 A. Fagioli, Partigiano a 15 anni, Alfa, Firenze 1993, p. 106.
11 Carla Capponi, Con cuore di donna, il Saggiatore, Milano 2000, pp. 277-278; cfr. anche R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, a cura di M. Ponzani, Einaudi, Torino 2011, pp. 110-111.
12 Cfr. R. Bentivegna, Achtung Banditen! Roma 1944, Mursia, Milano 1983, pp. 82-83.

Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune line di ricerca in Aa.Vv., Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea - II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici - Rivista di storia contemporanea, 3 (2015)

mercoledì 30 agosto 2023

Negli anni Novanta il settimanale più letto è il «Tv Sorrisi e canzoni»



Negli anni Novanta i profondi stravolgimenti che hanno coinvolto la società italiana (dal terrorismo alla crisi economica e politica, dalla riforma televisiva all'affermarsi delle radio libere, dalla continua ascesa delle tv private alla nascita di numerosi nuovi mensili e modi di comunicare), non hanno intaccato il numero degli acquirenti dei settimanali, che oltre a rimanere numericamente più cospicui rispetto a quelli dei quotidiani <40, sono rimasti fedeli alle loro testate, alle immagini e alle firme più importanti che li caratterizzano <41.
La stampa settimanale degli anni Novanta si presenta come un panorama stabile, nonostante qualche cambiamento <42. La spiegazione di questa «fissità» è insita nella struttura stessa dell'offerta dei settimanali di questi anni: «un mercato pervaso da coppie di antagonisti, sufficientemente differenziati fra loro per dare il senso della varietà, ma abbastanza analoghi per imporre al lettore un'agenda uniforme, da cui non è possibile evadere, e che è difficile soddisfare meglio» <43.
Le diverse coppie («Panorama» contro «L'Espresso», «Grazia» contro «Amica», «Gente» contro «Oggi») si rivolgono a settori di pubblico ben distinti, ovvero parlano a «un lettore ben conosciuto e sostanzialmente stabile» <44. Si può pertanto parlare di una «segmentazione del pubblico» <45: gli acquirenti de «L'Espresso» e di «Panorama» è difficile che siano gli stessi di «Sorrisi», «Grazia», «Gente» e viceversa.
Questa struttura commerciale a due poli è legata a sua volta da scelte giornalistiche e culturali. Il settimanale, più del quotidiano e della televisione, individua un suo pubblico sulla base di determinate ipotesi di gusto, classe, tendenza politica, età, sesso, interessi e «si modella su queste ipotesi, cercando di assomigliare al lettore su cui scommette; ma tentando anche con pazienza di plasmarlo a propria immagine e somiglianza» <46.
Le notizie che un settimanale può fornire, se sono importanti, in linea generale sono già state ricevute prima dalla televisione e poi dai quotidiani. Non si apprende da un settimanale né lo scoppio di una guerra, né il programma di un cinema, né la propria identità sociale. Quella dei settimanali è, come si è detto, una «terza lettura» <47 che trova la sua giustificazione solo con un «taglio particolare, con una identificazione forte di valori e di interessi» <48.
I settimanali d'altronde non possono specializzarsi su argomenti particolari perché raggiungerebbero un pubblico altrettanto limitato, anche se fedele e identificato, come fanno i mensili. La forza dei settimanali è, dunque, nell'avere la possibilità di «rileggere la cronaca, più o meno tutta, stabilendo una peculiare gerarchia di notizie, proponendo al proprio lettore un'agenda <49 di argomenti e di interessi, selezionando per conto suo un numero limitato di informazioni nel vastissimo campo delle notizie disponibili ogni settimana, allestendo una griglia di leggibilità e una gerarchia di importanza fra questi elementi scelti» <50.
Ciò che determina «il contratto di lettura della redazione con l'acquirente di un settimanale»51 ruota intorno alla specifica immagine della realtà, alla gerarchia di valori e di importanza che viene fornita.
Una volta realizzata questa «omogeneità fra giornale e lettore» <52 è difficile spezzare l'implicita fedeltà che ne deriva. Anche le imitazioni o la concorrenza ravvicinata di una testata che punta sugli stessi valori, rafforza questo sodalizio <53.
Negli ultimi anni si sono verificati alcuni cambiamenti nel settore dell'informazione settimanale. Si constata, infatti, la cessata pubblicazione di testate storiche come «L'Europeo» ed «Epoca» che tra gli anni Settanta e Novanta hanno esercitato un'importante influenza d'immagine e di opinione <54; e vi è stato un «rimescolamento di carte nel settore più popolare dell'informazione» <55 con la nascita di nuove testate.
Il decennio decorrente dalla seconda metà degli anni Novanta ha inciso in maniera significativa sul mercato dei settimanali. In generale, infatti, sono diminuiti in numero e di influenza, subendo la concorrenza dei quotidiani, dei loro supplementi, dei prodotti editoriali da essi veicolati, dell'informazione televisiva e dei mensili specializzati, ma anche degli approfondimenti informativi disponibili su Internet (Volli 2008: 382)
Il rapporto Audipress, prodotto in comune dai maggiori istituti di ricerca di mercato (Demoscopera, Doxa, Ipsos Explorer) censisce per l'anno 1999 trentaquattro settimanali ed otto supplementi dei quotidiani di periodicità settimanale, che possiamo suddividere nella seguente maniera: fra i primi, sette, sono femminili, (due fra i supplementi), cinque sono centrati sulla televisione(più un supplemento per intero e la maggior parte degli altri in buona parte), tre riguardano il mondo dei motori, sette, a vario titolo, si occupano del mondo delle celebrità, del gossip, delle narrazioni sentimentali, tre sono settimanali -familiari - generalisti (a cui si accostano quattro supplementi), uno riguarda la salute, uno l'economia, uno i ragazzi, uno lo sport (con annesso supplemento). (Volli 2008: 385)
Solo due, infine, i newsmagazine tradizionali, esempi italiani di una formula che comprende, nel mondo occidentale tra gli altri, «Time», «Newsweek», «The Economis»,«Der Spiegel»,«L'Express» e «Le Nouvel Observateur».
Il settimanale più letto è il «Tv Sorrisi e canzoni», che raggiunge circa il 16% della popolazione adulta, con quasi otto milioni di lettori. Seguono «Famiglia Cristiana»  con quasi cinque milioni di lettori, vale a dire, il 10% della popolazione, ed «Oggi» con quattro milioni e mezzo, cioè il 9% dei lettori.
A seguire «Donna Moderna»  e «Gente» con 3,8 milioni(poco meno dell'8%) «Panorama» con 3,6 milioni, «Il Venerdì di Repubblica» con 3,4 milioni, «Sette» del «Corriere della Sera» con 2,4 milioni ed infine, «L'Espresso» con 2,1 milioni.
Le cifre di cui sopra mostrano con chiarezza la difficoltà attuale dei settimanali.
La funzione più diffusa, per quantità di lettori e numero di testate, è l'informazione sulle trasmissioni televisive e sui personaggi che le popolano. L'intrattenimento, a vari titolo, è anche l'argomento principale delle testate familiari e dei settimanali di gossip, che insieme vengono al secondo posto per diffusione e numero.
I newsmagazine hanno subito un notevole ridimensionamento, sia per l'uscita di scena di testate storiche come «Epoca» e «Europeo», sia perché sono falliti tutti i tentativi di fondarne degli altri di diverso orientamento politico.
Anche i supplementi dei quotidiani di prestigio come la «Repubblica», « Il Corriere della Sera» e « La Stampa», si sono collocati definitivamente sul versante dei familiari piuttosto che su quello dei newsmagazine: una scelta dovuta, in parte, ad esigenze tecniche - il prezzo sotto il livello di costo non giustifica l'uso intensivo di macchine per la stampa all'ultimo minuto, sicchè difficilmente vi si possono affrontare «temi caldi» sul piano informativo - ed, in altra parte, per la scelta di un mercato più vasto di lettori, interessati si ad approfondimenti ed alla storia, ma anche a servizi più leggeri. Lo stesso fenomeno, del resto, si può notare, entro certi limiti, anche per gli stessi newsmagazine (Volli 2008: 384).
Altro punto di attenzione è in riferimento ai settimanali femminili che, se non eliminati dalla concorrenza dei supplementi specializzati dei quotidiani, hanno certamente trovato un limite importante alla loro diffusione.
Il fenomeno più interessante in questo ambito, è la crescita di «Donna Moderna» che è riuscito a farsi leggere da un pubblico più del doppio delle testate concorrenti, tutte, inclusi i due supplementi, raggruppate fra il milione ed il milione e mezzo dei lettori.
Certamente questo successo va messo in relazione alla formula del periodico, molto pratica e concreta, più di servizio che di moda.
Va notato come sia influente anche la concorrenza dei mensili.
Molte delle testate più prestigiose compaiono una volta al mese, e, a questa periodicità, fanno riferimento anche i nuovi periodici maschili, che accostano moda, costume, immagini erotiche ed interessi motoristici.
Una riproduzione settimanale da parte dei supplementi dei quotidiani di questa formula, che in Italia, comunque, non ha la medesima risonanza ottenuta nei paesi anglosassoni, è stata ripetutamente ipotizzata e studiata, ma mai realizzata concretamente.
Come si è accennato, dunque, le trasformazioni significative sono avvenute nel campo dei newsmagazine ed i settimanali di maggior prestigio politico e culturale.
Sul piano degli schieramenti, non solo le testate si sono ridotte da quattro a due, ma si sono polarizzate secondo le due aree politiche presenti nel Paese.
Mentre nel corso degli anni Ottanta e Novanta tutti e quattro i settimanali di informazione erano appartenuti con diverse accentuazioni, ad un'area genericamente laico-progressista, ora il riferimento dell'«Espresso» è rimasto nel centro sinistra, mentre su «Panorama» ha preso peso progressivamente la proprietà berlusconiana, fino a farne uno degli organi più autorevoli ed importanti che fiancheggiano lo schieramento del centro-destra.
Questo progressivo slittamento politico ha conosciuto il momento più esplicito sotto la direzione di Giuliano Ferrara, già ministro del governo Berlusconi nel 1994 e direttore del «Foglio».
Anche dopo le sue dimissioni, il settimanale è rimasto saldamente ancorato allo schieramento del centro-destra, condividendo molti collaboratori con il «Giornale», col «Foglio» e con «Libero», vale a dire un'area di giornalismo schierato con il Polo.
Un altro aspetto interessante è stata la trasformazione degli allegati ai settimanali. Nella stessa riga di quanto è accaduto ai quotidiani, ma in misura ancora maggiore, i settimanali di informazione sono passati dalla logica dell'allegato come gadget promozionale a quella dell'allegato come prodotto da vendere e da cui ricavare profitto. Il settimanale vero e proprio si trova fisicamente circondato da una serie di altri prodotti, quali cd-rom di lunghe serie enciclopediche, cd audio ed altri prodotti editoriali, tanto da apparire soprattutto come un veicolo commerciale, una specie di negozio editoriale mobile e periodico. Da questo punto di vista anche i supplementi tematici gratuiti che, ogni tanto, appaiono con i settimanali, ed i loro siti internet, sono da considerare come elementi di una strategia commerciale complessa, in cui l'identità formativa lascia spazio ad un marketing editoriale che spesso è concepito e realizzato a livello di gruppo. Ciò comporta, talvolta, un certo rischio per l'identità culturale delle testate, ma probabilmente è la condizione economica della loro sopravvivenza.
Questo, dunque, il tema che si è imposto nella seconda metà degli anni Novanta per il giornalismo dei settimanali in Italia: si tratta dei prodotti editoriali più difficili e costosi, che solo grandi gruppi, con una gestione molto accorta, possono permettersi.
Mentre esistono, infatti, mensili di nicchia o altri che tentano strategie e contenuti innovativi, mentre i quotidiani - leggeri - di opinione si sono moltiplicati, mentre in Internet e nel mercato librario è possibile a chiunque esprimere i propri punti di vista, il mercato dei settimanali è sicuramente il più chiuso, il più difficile ed il più concentrato.
[NOTE]
40 «Il rotocalco copre un particolare settore di esigenze dei lettori che sono diverse e, in un certo senso complementari, rispetto a quelle soddisfatte dal quotidiano. Si può dire che il quotidiano fotografa l'attualità mentre il periodico la passa ai raggi infrarossi» (Mauri 1993:186).
41 Volli 2008: 348-349.
42 Ibidem.
43 Volli 2008: 349
44 Ibidem
45 Ibidem.
46 Ivi, 351.
47 Volli 2008: 351.
48 Ibidem.
49 Per un'esposizione delle teorie dell'«agenda setting» dei media cfr. Wolf 1990.
50 Volli 2008: 351-352
51 U. Volli, I settimanali, in La stampa italiana nell‟età della TV, Bari, Laterza, p. 352.
52 Ibidem.
53 Un esempio chiarificatore di questo processo è quello dei settimanali familiari: «Oggi» e «Gente». Il primo nasce nel 1945 e si rivela subito un successo economico. Nel 1957 vendeva circa 650 mila copie, tale numero si è mantenuto costante nei decenni successivi, passando a 613 mila copie negli anni Novanta. Il suo antagonista «Gente» vende 331 mila copie nel 1964 e raggiunge le 775 mila copie nel 1990. Il sorpasso finale di «Gente» non ha danneggiato affatto la formula di «Oggi» che ha mantenuto in comune col suo concorrente, una formula rimasta sostanzialmente inalterata in quarant'anni, a metà tra newsmagazine e gossip. Cfr. Idem, I settimanali…, pp. 352-353.
54 Idem, I settimanali…, p. 347.
55 Ivi, 350.
Milena Elisa Romano, La "popolarizzazione" di lingua e cultura nell'Italia del Novecento. Il rotocalco dagli anni Cinquanta a oggi, tra editoria cartacea ed editoria multimediale, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Catania, Anno accademico 2012-2013

domenica 20 agosto 2023

Mauri non possiede poi assolutamente il controllo sulle sue sparse formazioni partigiane

Uno scorcio delle Langhe. Fonte: mapio.net

All'inizio del 1945 il quadro generale del movimento partigiano era ancora confuso: dopo sedici mesi di guerra restavano da risolvere questioni fondamentali. In particolare era prioritaria la necessità di stabilire regolari rapporti tra le formazioni, per cui era indispensabile costituire il comando della VII zona che ancora non aveva iniziato a svolgere il suo compito. Da lì sarebbe discesa la soluzione all'altro problema di assoluta rilevanza, cioè la delimitazione delle zone di influenza delle singole formazioni e soprattutto dei confini tra VI zona ligure e VII zona piemontese.     
A novembre, dietro sollecitazione del CMRP <127, si erano svolti i primi incontri tra i comandanti, ma non vi avevano partecipato i comandanti GL e autonomi, e il risultato era stato una serie di «proposte» che vennero puntualmente disattese. Gli incontri si intensificarono su tutto il territorio della provincia [di Alessandria] tra dicembre '44 e gennaio '45, ma i dissidi si moltiplicavano anche per via dei contrasti personali tra i comandanti delle formazioni: comunque a febbraio il Comando di zona venne costituito con un comandante garibaldino, un vicecomandante delle brigate GL, un militare come membro tecnico, un intendente sempre garibaldino e un commissario politico lasciato alle formazioni democristiane <128.
L'accordo era evidentemente debole, minato dall'assenza di un rappresentante delle Matteotti, ma per intanto permetteva di rapportarsi alla pari con i liguri prestabilire le rispettive zone di influenza: e infatti cominciarono i problemi sull'Appennino, con un susseguirsi di smembramenti e ricostituzioni di gruppi partigiani, in cui si distinse per irrequietezza Giuseppe Merlo <129.
[NOTE]
127 Il CMRP aveva constatato che a novembre erano costituiti solo tre comandi di zona, in G. PANSA, Guerra partigiana tra Genova e il Po,  cit., p. 360. Una copia della circolare, datata 3 novembre 1944, è conservata in ISRAL, Fondo Formazioni Partigiane, busta 1, fascicolo 4.
128 Il comando era così costituito: comandante Pietro Minetti (Mancini), vicecomandante Ernesto Pasquarelli (Barbero), capo di Stato Maggiore il tenente colonnello Girolamo Fochessati (Argo), intendente Paolo Ivaldi (Vinicio), commissario politico democristiano (da nominare). G. PANSA, Guerra partigiana tra Genova e il Po,  cit., p. 362.
129 Il comando della VI zona ligure aveva infatti giocato d'anticipo emanando una disposizione negli ultimi giorni del 1944 in cui ribadiva la propria competenza fino alla zona di Predona: molti si erano attenuti, ma non la brigata Patria guidata da Sparviero. Tuttavia i metodi di lotta della divisione Mingo portarono Merlo a fuoriuscirne nuovamente e a ritornare autonomo. Ibid., 363-370.
Lodovico Como, Dall'Italia all'Europa. Biografia politica di Edoardo Martino (1910-1999), Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2009-2010

A fianco dell'VIII zona viene a costituirsi anche la VII, profondamente legata alla VI zona operativa ligure. <859 La situazione della VII zona è molto complessa. Legata alle formazioni liguri, in particolare alla Divisione Garibaldi "Mingo", per i contatti che questa stringe con le brigate "Patria" e "Martiri della Benedicta", la provincia di Alessandria è zona vasta e contesa. A inizio febbraio si costituisce un primo Comando unico, con Pietro Minetti "Mancini" (Garibaldi) comandante e Ernesto Pasquarelli "Barbero" (com.te VIII divisione GL, in sostituzione di Ferdinando Cioffi "Ivan", arrestato nel gennaio) come vice (accordi di Carpeneto). Questo primo accordo però presenta dei limiti: la mancanza nel comando di un rappresentante delle Matteotti e la difficoltà di esercitare un vero e proprio comando su tutto il territorio. A ciò si aggiungono i contrasti con i liguri, che a fine '44 avevano unilateralmente ufficializzato l'appartenenza della zona tra lo Scrivia e il Sassello, tra il mare e Tortona-Novi-Predosa e sud di Acqui alla VI zona ligure. Alcune brigate entrano operativamente a far parte della VI zona, <860 sollevando le proteste di "Barbero", il quale tenta in ogni modo di far annullare gli accordi tra garibaldini e Merlo, comandante della brigata GL "Martiri della Benedicta". Solo verso la fine di marzo si giunge a un accordo tra liguri e alessandrini, ma che non scioglie il nodo dei confini. La discussione sul comando di zona si riapre infatti ad aprile, questa volta per iniziativa dell'ex comandante della VIII divisione GL, "Ivan", e di Elio Pochettini, "Aldo Red", comandante della X divisione Garibaldi. In un incontro tra i rappresentanti della VIII divisione GL, della X Garibaldi e della Divisione autonoma "Patria", viene proposto infatti di scindere la zona in due parti, una nord, comprendente la val Cerrina, e una a sud, per i territori dell'Acquese-Ovadese, ritenendo questa suddivisione più utile ai fini del coordinamento delle bande. <861
La proposta, inviata al costituito comando della VII, viene valutata positivamente nelle sue premesse, ma invece di accordare la costituzione di un nuovo comando viene decisa la creazione di una «sottozona con funzioni operative staccate». <862 La controproposta di "Barbero", con cui "Ivan" non era in buoni rapporti, <863 e di "Mancini" non piace all'ex comandante della VIII divisione, il quale il 13 aprile dichiara la sua opposizione alla costituzione della «sottozona», e pochi giorni dopo, scrivendo al CMRP, richiede l'autorizzazione per la creazione della VII zona, specificandone comando, confini e formazioni che vi operano. <864
Il comando di "Ivan" non avrà reale esecuzione, contribuendo invece a creare ulteriore confusione nella difficile gestione della provincia di Alessandria. <865
La creazione di questi comandi, in particolare quello dell'VIII zona, pur non toccando direttamente le Langhe, ne condiziona assetti territoriali e organizzazione interna. L'influenza maggiore però eserciterà la decisione del CMRP di costituire, nel mese di marzo, una nuova zona operativa, la IX.
3.7.2.3 Tra VI e IX zona
Le vicende conclusive sulla costituzione del comando della VI zona, seppur non fondamentali per l'insurrezione generale in Piemonte, <866 ci offrono l'opportunità di fare le ultime considerazioni in merito ai rapporti tra i comandanti della zona e di inquadrare questi ultimi nel contesto più generale del basso Piemonte.
Il 10 febbraio, con la circolare n. 231/945, il CMRP ufficializzava la costituzione della VI zona operativa piemontese, i cui confini erano delimitati a est da Casotto e Mondovì, a nord da Bra, Canale e Asti, mentre a ovest dal corso dei fiumi Bormida e Belbo fino al confine con la Liguria. <867 Per il mese successivo il comando non è ancora stato costituito, e ciò fa ritenere necessario l'intervento del comitato militare. Nel frattempo, nella VI zona i colloqui tra comandanti proseguono, ma le difficoltà a raggiungere un compromesso si trasformano in ostacoli insormontabili verso la metà di marzo, dopo cioè la decisione del CMRP di concedere la propria autorizzazione alla costituzione di una nuova zona operativa, la IX. <868
D'ora in avanti le vicende dei due comandi risultano strettamente legate. In una riunione tra "Nanni", "Mauri" [Enrico Martini] e delegati del CMRP, tenutasi nella seconda metà di marzo, <869 si palesano le difficoltà di procedere alla costituzione del comando delle Langhe se prima non viene sciolto il nodo della IX zona. "Di fronte a questo atteggiamento del Maggiore Mauri [chiusura verso creazione IX zona] ed in assenza del delegato delle formazioni autonome il problema della formazione del comando della zona VI diventava insolubile sul posto ed i due delegati hanno deciso di rimetterlo al C.M.R.P." <870 L'opposizione di "Mauri" alla creazione della IX zona, di cui pare non voglia neppure discutere i confini, supera di molto l'interesse del maggiore per la VI, il cui comando militare pure gli viene offerto. <871 Evidentemente "Mauri" sa che una proposta di quel tipo è una contropartita al suo nulla osta rispetto alla costituzione della IX zona, il cui comando andrebbe ai GL. Ma il maggiore è anche consapevole - ed è questa la ragione della sua opposizione - che della IX zona entrerebbero a far parte alcune delle sue divisioni, di cui perderebbe di fatto il comando proprio nella fase finale della guerra.
"Mauri" infatti scrive: "I due membri del CMRP facenti parte della Commissione incaricata di definire la costituzione del comando VI zona mi hanno confermato che, in sede di CMRP, sarebbe già stata disposta la costituzione della IX zona. Di conseguenza verrebbero a cessare di dipendere da me la 6ª Divisione "Asti", la 5ª Divisione "Monferrato", la 15ª Divisione "Alessandria" e la 12ª Divisione "Bra", cioè circa la metà delle forze attualmente dipendenti da me" <872 rivolgendo infine un appello "Prego vivamente cotesto Comando di esaminare la possibilità di evitare simile provvedimento, ma di fare anzi il possibile affinché tutte le unità alla cui costituzione ho io provveduto rimangano sotto il mio Comando [...] In caso contrario io sarò costretto a dimettermi". <873
La non ostilità del CFA del Piemonte alla creazione della IX zona, con tutte le conseguenze per le divisioni di "Mauri", è motivata dal fatto che - secondo quanto si legge nella citata relazione dell'ispettore GL "F." - lo stesso comando autonomo ritiene che il maggiore non sia più in grado di tenere collegamenti «con alcune sue divisioni e precisamente con quelle che dovranno passare sotto la IX zona». <874 Il maggiore però si difende da queste accuse, sostenendo che "Non solo non corrisponde a realtà la ragione di cattive possibilità di collegamento con le formazioni del Monferrato e di riva sinistra del Tanaro, ma anzi tanti vincoli di affetto, di sentimenti, di fraternità d'armi legano tra loro le mie formazioni che né io né i miei dipendenti le possiamo vedere disgiunte" <875
Nel frattempo, le discussioni intorno al comando della IX zona continuano. In una lettera della delegazione piemontese del CBG indirizzata a "Costa", si parla di un incontro, di cui riferisce anche la relazione dell'ispettore F., a cui partecipano il comandante "Alberto" e il commissario "Paolo" della III divisione GL, il commissario "Leo" della X divisione GL, il delegato del comando GL "Panfilo", il comandante "Nanni", il commissario del raggruppamento di divisioni Garibaldi "[indecifrabile]", il comandante della IX divisione Garibaldi "Primo" Rocca, "Ulisse" e il commissario "Emilio" del raggruppamento Monferrato-Astigiano. I comandanti e i commissari sono d'accordo a nominare, per la nuova zona che comprenderà l'area tra le Langhe e il Monferrato, un comandante proveniente dai GL, scelto tra "Aldo", comandante della I divisione, "Nuto", comandante della brigata Rosselli e "Detto", commissario del I raggruppamento divisioni "Duccio Galimberti". I garibaldini esprimono però la preferenza per il comandante "Alberto", e chiedono che una volta costituito il comando vengano distribuite equamente le armi. I garibaldini propongono inoltre che "Ulisse" ricopra il ruolo di vicecomandante e "Emilio" quello di commissario di zona, in rappresentanza delle Matteotti. <876 L'accordo tra garibaldini e GL esclude di fatto gli autonomi del Monferrato da una qualsiasi rappresentanza all'interno del Comando, creando così un contesto in cui i maurini, pur rappresentando una consistente forza militare, non ottengono adeguate posizioni di comando. Inoltre, per la designazione di "Mauri" al comando della VI zona, bisognerà attendere la fine di marzo, quando dopo l'ultimo fallimento nel tentativo di trovare un accordo il CMRP, <877 avocando a sé i poteri per il comando, nomina il maggiore degli alpini comandante, Latilla vicecomandante e Guerra commissario politico, <878 in un contesto in cui le Langhe, in previsione di un maggiore sforzo operativo lungo la via Asti-Torino e Alessandria-Milano, perdono definitivamente di importanza nel piano generale di insurrezione. <879
[NOTE]
859 Cfr. G. Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, cit., pp. 357-370
860 Giorgio Agosti, all'incirca nello stesso periodo, esprimeva «l'intendimento [...] [di] addivenire ad una più stretta collaborazione fra le formazioni alessandrine e quelle liguri; e questo non solo per ragioni militari (controllo dei valichi appenninici), ma anche per gravitare politicamente su Genova e rafforzare col peso delle GL la nostra situazione in quella città», "Relazione del commissario politico del Comando piemontese delle formazioni Giustizia e Libertà", 31.12.44, in G. De Luna et alii (a cura di), Le formazioni GL, cit., doc. 104, p. 270
861 Comunicazione di "Ivan" al Comando Regionale Piemontese delle Formazioni G.L., 10.4.45 in AISRP, B 37 a, p. 2. Il comando prende la seguente configurazione: Comandante della zona settentrionale è "Ivan" per le GL, il commissario politico "Aldo" per le Garibaldi e vicecomandante e capo di Stato Maggiore ad interim "Malerba" per la divisione "Patria".
862 G. Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, cit., pp. 447-448
863 Ivi, p. 448
864 "Richiesta retifica [sic] VII zona", comandante "Ivan", comm. pol. "Aldo Red" al CMRP, 16.4.45 in AISRP, B 37 a
865 «L'accordo definitivo sulla sua [comando VII zona] composizione venne raggiunto soltanto il 29 aprile nella prefettura di Alessandria, quando già tutta la provincia era libera», in G. Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, cit., p. 449
866 Non è infatti la VI, ma la VIII zona, comandata da "Barbato", a dover liberare Torino, insieme alla III e IV. Parte delle formazioni langarole avrebbero costituito truppe di riserva e sostegno. Si veda Circolare CMRP del 10.2.45 in AISRP, B 59 d/4, citata in A. Young, "La missione Stevens e l'insurrezione di Torino", cit., p. 107
867 "Competenza territoriale", "Mauri" al Comando I divisione Langhe, 24.3.45 in AISRP, B AUT/mb 1 d
868 La IX zona nasce da un settore nord occidentale della VI, collocandosi a ovest della VIII di "Barbato", comprendendo due divisioni Garibaldi, una GL, una Matteotti e tre autonome, in Comunicazione di "Ivan" al Comando Regionale Piemontese delle Formazioni G.L., cit.; si veda anche P. Maioglio, A. Gamba, Il movimento partigiano nella provincia di Asti, cit.
869 «Il Comandante Nanni, V. [indicato come delegato garibaldino] e F. [a matita] si sono recati nel pomeriggio di sabato dal maggiore Mauri per prendere con lui opportuni accordi su due punti sostanziali: la delimitazione esatta della IX zona di recente costituzione e la scelta dei componenti del comando della VI zona», "Relazione dell'ispettore F. nella VI e IX zona", Al Comando Regionale Piemontese delle Formazioni "Giustizia e Libertà", [fine marzo] 1945 in AISRP, B 37 a, pp. 1-3
870 Ibidem
871 Come vicecomandante viene proposto "Nanni", "Remo" invece commissario e un membro delle GL nel ruolo di vicecomandante o di commissario, "Relazione dell'ispettore F. nella VI e IX zona", cit.
872 "Comunicazione sulla costituzione del Comando IX zona", "Mauri" al Comando F. A. Piemonte, 31.3.45 in G. Perona (a cura di), Formazioni autonome, cit., doc. 41, p. 419
873 Ibidem
874 "Relazione dell'ispettore F. nella VI e IX zona", cit. Per quello che riguarda i collegamenti tra il comando del 1° GDA e le divisioni "periferiche" si veda il seguente episodio. Nel luglio il cap. Della Rocca, comandante della XII divisione "Bra", lamentava di essere trattato con superficialità dal Comando Langhe e di essere in scarsità di armi a causa della spartizione di queste con Marco e Renato; inoltre accusava "Mauri" di non aver fatto nulla per cercare di liberare suoi cinque uomini catturati dai fascisti, "Schiarimenti (a proposito dello sbandamento di Marco)", Comando Distaccamento n. 10, comandante Della Rocca al Comando Langhe, 19.7.44 in AISRP, B AUT/mb 4 c. Non abbiamo trovato altri documenti che contengano denunce di questo tipo. Probabilmente perché il collegamento che intendono le formazioni maurine si basa su un semplice appoggio logistico e militare, e non su un costante scambio di informazioni sul coordinamento generale della guerriglia; inoltre il loro carattere «autonomo» è segnale di una certa indipendenza sul piano operativo, almeno è quanto emerge dalle parole di "Otello", comandante della VI divisione "Asti", che nella citata lettera del 28 febbraio '45 teneva a precisare che la dipendenza da "Mauri" «è venuta naturalmente per poter essere appoggiati ad un'attività veramente forte in condizione da poterci fornire le armi che a noi mancavano e per poter operare sotto una certa unità di indirizzo», "Comunicazione di Otello al generale Nito", cit.
875 "Comunicazione sulla costituzione del Comando IX zona", cit.
876 "Relazione dell'ispettore F. nella VI e IX zona", cit., al punto 4) Costituzione del Comando della IX zona. Secondo quanto riportato da P. Maioglio, A. Gamba, Il movimento partigiano nella provincia di Asti, cit., al comando della IX zona va il comandante della X divisione alpina GL, "Raimondo" Paglieri, il commissario il garibaldino "Tino" Ombra, vicecomandante "Ulisse", capo di Stato Maggiore "Gino" Paltrinieri, vicecommissario Giuseppe Gerbi "Leo". In ogni caso, il rapido procedere degli eventi bellici non permetterà la formalizzazione della IX zona, la quale non parteciperà come comando effettivo alle operazioni finali né sarà contemplata nel Piano E. 27

Giampaolo De Luca, Partigiani delle Langhe. Culture di banda e rapporti tra formazioni nella VI zona operativa piemontese, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013

I "buoni" rapporti sono, in realtà, determinati da motivazioni diverse ma convergenti: ai gielle interessa potersi inserire a pieno titolo nelle Langhe ed ai garibaldini sono utili le armi che Bocca e compagni concedono loro dopo i lanci <37. Non dissimili sono le relazioni con le formazioni autonome del maggiore Mauri, nel cui schieramento le unità GL si sono infilate dopo il "buco" creatosi con il rastrellamento del dicembre 1944 <38.
"Ho avuto l’impressione" - scrive Giorgio a Detto e Gigi - "che [Mauri] nonostante la freddezza voluta e calcolata per il solito gioco di prestigio, in sostanza ha accolto la notizia del nostro arrivo abbastanza bene. Questo per il fatto che tanta acqua è passata sotto i ponti dai fastigi di Alba e per il fatto che l’astuto politico […] ci vede (e noi non abbiamo smentito) in funzione anti Garibaldi" <39.
Anche sul comandante autonomo e sulla sua direzione della guerra partigiana cala la "scure" dei "puristi": "Mauri, già di per se poco disposto a prestare obbedienza a un organo come il CLN (che puzza alle sue narici delicate di rivoluzione ed i pochi atti di obbedienza che fa li compie con mille riserve espresse e non espresse) non possiede poi assolutamente il controllo sulle sue sparse formazioni libere così di seguire gli indirizzi dati dai singoli comandanti" <40.
Vivissimo anche nelle Langhe, come in tutto l’universo partigiano, il problema delle armi, delle munizioni e dell’equipaggiamento in generale. La X divisione deve - per mantenere uno standard operativo efficiente - dibattersi fra le sue necessità interne e le cessioni alle unità consorelle (III divisione) o alle formazioni Garibaldi. Queste arrivano persino ad appoggiare candidature di elementi del Partito d’Azione a cariche di rilievo pur di accedere ai lanci alleati:
"I Garibaldini avrebbero offerto a Ivan il C.do della zona" - scrive Raimondo - "fiduciosi nella sua possibilità, quale GL , di poter fare avere loro lanci […]. A me personalmente hanno chiesto parecchie armi. Ho rifiutato per i seguenti motivi: 1) perché non sarebbero i nostri 10 sten invocati a sollevare una situazione che dovrebbe essere impostata da principio. 2) dopo la cessione di armi e uomini alla III Div. (totale 98 armi, di cui moltissime automatiche) non possiamo permetterci simili lussi" <41.
L’abilità di Bocca e Scamuzzi prima e il piglio "militaresco" di Raimondo poi, servono a stabilire un cordiale rapporto di collaborazione con gli inglesi della missione di assistenza, positivamente impressionati dalla organizzazione della X divisione, ma pur sempre guardinghi, soprattutto in tema di armi ed equipaggiamento. "Ci siamo lasciati molto cordialmente [Giorgio Bocca ed il maggiore Ballard. Nda] dopo che mi aveva fatto capire che di lanci da parte loro sino a che non lo giudicheranno opportuno, ne vedremo pochi. A meno di non essere più apolitici e ossequienti" <42.
Il 15 marzo 1945 Giorgio traccia il bilancio della situazione, individuando sei punti principali: la sistemazione dei quadri, la regolarizzazione dell’amministrazione, la creazione di un servizio informazioni efficiente, la creazione di un servizio stampa e propaganda, il rigido inquadramento di tutte le forze secondo i principi più squisitamente GL e lo sfollamento dei comandi con la conseguente riorganizzazione dei collegamenti. Questi, un mese dopo, sono ancora un nodo da sciogliere sicché il comando regionale striglia, alla vigilia dell’insurrezione, il vertice della X poiché "bisogna che trovi un paio di buone staffette [..] in modo da assicurarvi un collegamento bisettimanale. Deve però trattarsi di staffette professionali, capaci di raggiungere la città in bici o a piedi o in qualsiasi altro modo possa essere necessario […] ma le staffette bisogna che le scoviate e le amministriate voi" <43.
Per la 1ª brigata - costituita il 21 gennaio 1945 e intitolata al caduto Vincenzo Squassino - il problema principale era rappresentato dalla fusione degli elementi locali con quelli scesi dalla montagna, sia a livello di uomini, sia a livello di quadri. Gli ufficiali locali sono considerati con condiscendenza dai "montanari": le tre bande che formano la brigata sono guidate rispettivamente dai fratelli Silvestri, Ercole e Luigi, e Luri <44. Le prime due sono formate da persone del luogo, l’ultima è composta da distaccamenti provenienti dalle vallate alpine; la "Squassino", poco più di 110 uomini, è sistemata fra Costigliole e Repergo (I banda), Agliano e Montegrosso (II banda), Isola e Mongardino (III banda). Anche nella formazione della 2ª brigata, intestata al comandante caduto Gianni Alessandria, il principio guida è stato quello di rompere e dividere le vecchie cricche, di vivificare l’ambiente. Al comando è stato confermato Libero, commissario politico è stato nominato Edolo, medico della Varaita. La brigata è organizzata su due bande ed un distaccamento comando: alla guida della I banda è stato chiamato il capitano Cecco, già ufficiale della formazione, mentre la II è diretta da un altro ufficiale in spe, Angelo; il distaccamento comando è direttamente agli ordini di Libero. L’unità, una novantina di uomini, è schierata nei dintorni di Castagnole, senza occupare centri degni di nota <45. La 3ª brigata, dedicata al giovane volontario Rodolfo Bertolotti, è comandata da Gildo, con commissario Libero; le bande sono affidate a Gruffia e Mic, già ufficiali in val Maira <46, e sono sistemate a Mango e fra Neviglie e Neive. La brigata conta poco più di un centinaio di volontari <47. L’amministrazione è affidata ad Antonio Semini. A capo del servizio informazioni è stato inviato Fiore <48 che dispone della polizia divisionale e di brigata. In via di costituzione anche una rete informativa e spionistica composta da elementi di supporto esterni. La stampa, affidata a Gildo, ha progetti grandiosi. Due giornali, uno polemico, dal titolo "corrosivo" di H2SO4 e un secondo - meno pretenzioso - simile ad un semplice notiziario degli avvenimenti; la mancanza di carta blocca entrambi i progetti anche se le tipografie disponibili alla collaborazione con i GL sono due. In attesa della stampa, il comando divisionale, avendo rilevato la profonda diseducazione civile dei nuovi arrivati, sforna una serie di volantini da distribuire fra gli uomini.
A metà marzo il cambio di comandante pone Enzo Paglieri alla guida della divisione. Raimondo, con 14 suoi fidati partigiani, parte per le Langhe verso la metà del marzo 1945 ed il 27 è a Bene Vagienna <49. Il 3 aprile riceve le consegne da Giorgio Bocca e quattro giorni dopo, al termine di un giro esplorativo e di conoscenza, stende un primo bilancio della sua unità, definendo buona la situazione militare, sufficiente l’armamento e in via di definizione l’affiatamento fra vecchi e nuovi partigiani. Sebbene le Langhe siano una zona relativamente "ricca" rispetto alle valli alpine, i gielle insistono per avere maggiori riguardi nei confronti degli abitanti: Matteotti, Garibaldi ed Autonomi tassano ogni merce uscente dalla zona senza criteri di eguaglianza che possano dare alla popolazione una parvenza di legalità […]. E’ necessario che si indica presto, prestissimo una conferenza […] dove il CLN […] imponga la costituzione del comando zona il quale stabilirà in modo definitivo la legalità e la misura di certe tassazioni <50.
L’8 aprile, a Castagnole, un documento redatto da Edolo Fogliati regolarizza in modo progressivo, cioè sulla base delle brente prodotte nel 1942, ultima annata di cui è stata conservata la documentazione, la procedura di ammasso del vino. Il prodotto così immagazzinato andrà metà alla popolazione, un quarto alle formazioni di Poli ed un quarto alla divisione GL <51.
[NOTE]
38 Enrico Martini (Mauri), nato a Lesegno il 29 gennaio 1911, laureato in giurisprudenza, ufficiale presso il Comando Superiore FFAA in Africa Settentrionale. Dopo l’armistizio costituisce le formazioni autonome del Monregalese subendo la disfatta del marzo 1944. Riorganizzatosi nelle Langhe, da origine alle formazioni autonome della provincia di Cuneo, di cui sarà il responsabile indiscusso fino alla chiusura delle ostilità.
39 L’incontro con il comandante autonomo è ben descritto nel romanzo Il provinciale, che ricalca - nella sostanza - il testo della relazione scritta a Dalmastro e Ventre. Cfr. G. Bocca, Il provinciale, cit., p. XX a Isrcn, Detto Dalmastro, B. VIII F. 64.
40 Isrp, C 45 a.
41 Ferdinando Cioffi (Ivan), napoletano, classe 1909, patriota, nella Resistenza dall’ottobre 1944, comandante della VIII divisione GL da metà novembre 1944 al 9 gennaio 1945, quando è arrestato e destituito. Sul suo passato gravano ombre pesanti. Bernieri scrive Colajanni che "Ivan comandante della divisione GL della VII zona, a parte il fatto che era fino ad uno o due mesi fa ufficiale della repubblica fascista, alle dirette dipendenze del famigerato generale Delogu comandante della piazza di Alessandria, era nel 1940 ufficiale della milizia fascista con incarico di polizia a Ventotene presso i confinati politici. Il riconoscimento è certo. Non servono commenti". Isrp, C 45 b. In relazione al problema della armi cfr. anche A. Cipriani, Armi e partigiani, in "Il Presente e la Storia", 50/1996. In merito a Cioffi cfr. C. Pavone (a cura di), Le brigate, cit. 448 - 449.
42 Edward (o Ugo) Ballard, maggiore dell’esercito britannico, giunto nelle Langhe nel novembre 1944 con la missione TEC, insieme al tenente colonnello Stevens ed all’ardito radiotelegrafista Tullio Biondo. Isrp, C 45 a. In merito alle missioni alleate cfr. R. Amedeo (a cura di), Le missioni alleate e le formazioni dei partigiani autonomi nella Resistenza piemontese. Atti del convegno internazionale. Torino, 21 - 22 ottobre 1978, Cuneo, L’Arciere, 1980.
43 Isrp, C 45 b.
44 Silvestri Ercole (Lino), classe 1920, cuneese, dottore in lettere, sottotenente di complemento degli alpini, partigiano nelle formazioni GL della val Varaita dall’ottobre 1943. Silvestri Luigi (Luis), classe 1920, cuneese, dottore in lettere, sottotenente di complemento degli alpini, partigiano delle formazioni GL della val Varaita dall’ottobre 1943.
45 Edolo Fogliati, (Megu, Stelvio), torinese, classe 1920, medico chirurgo, partigiano con i gielle di val Varaita dall’aprile 1944.
46 Michelangelo Ghio (Mic), cuneese, classe 1924, studente, partigiano dal marzo 1944 in val Maira. Sebastiano Parola (Gruffia), cuneese, classe 1923, geometra, partigiano dal novembre 1943 prima in val Grana e poi in val Maira.
47 Alle cifre summenzionate vanno aggiunti 20 uomini del distaccamento comando divisionale che ha il compito di fornire i collegamenti; le forze di polizia, 15 uomini, e gli addetti ai municipi ed alla stampa, in tutto la forza della
divisione ascende ai 300/350 uomini. "La brigata val Bormida che su denuncia dei suoi comandi sarebbe forte di 150 uomini è da noi considerata per ora solo sotto influenza e non inquadrata". Isrp, C 45 a.
48 Vittorio Leccà (Fiore), fiorentino di nascita, classe 1907, impegato, partigiano dal giugno 1944 nelle colonne di Alessandro Scotti. Aisrp, C 45b.
49 Cfr. E. Paglieri, Diario, cit., p. 190.
50 Isrp, C 45 a.
51 Piero Balbo (Poli), classe 1917, ufficiale di marina, dottore in legge, partigiano dal settembre 1943, poi comandante della II divisione autonoma "Langhe". Isrp, C 45 b.

Marco Ruzzi, La X Divisione Giustizia e Libertà, Asti Contemporanea, n. 7, 2000, ISRAT Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Asti 

giovedì 17 agosto 2023

Il 2 settembre 1981 la sezione feriale della corte di Cassazione spostava a Roma tutto ciò che riguardava la vicenda P2


La scoperta della Loggia P2 aveva portato ad un'aspra polemica tra magistratura e classe politica. Protagonisti di questo contrasto erano stati soprattutto gli esponenti del Partito socialista come Francesco Forte, responsabile economico del partito, ma anche Dino Felisetti e Rino Formica. Federico Mancini, membro in carica del Csm, aveva definito irresponsabili e politicizzati i magistrati milanesi che avevano scoperto lo scandalo P2, introducendo nel dibattito parlamentare il tema della responsabilizzazione politica del pubblico ministero <320.
Il Consiglio superiore della magistratura il 23 luglio 1981 aveva dedicato una delle sue prime sedute al tema dell'indipendenza della magistratura. Il presidente Pertini, nel suo intervento iniziale, aveva letto un testo nel quale venivano indicati i principi fondamentali del rapporto tra libertà di critica e tutela dell'indipendente esercizio dell'attività giudiziaria <321: nessuno spazio a chiusure corporative ma anche un monito a chi pensava al Csm come stanza di raffreddamento delle iniziative che investivano settori del potere <322.
Le accuse di politicizzazione mosse contro la magistratura erano tuttavia cessate quando tutti gli atti riguardanti la P2 erano stati sottratti alla Procura milanese. Con un documento di 9 pagine, il 20 giugno 1981 il sostituto procuratore di Roma Domenico Sica si era proclamato "competente" anche per i procedimenti della Procura di Milano e di Brescia, e ordinava ai suoi colleghi la riunione di tutti i processi nelle sue mani. <323
L'ordine riguardava le istruttorie su Gelli in corso a Milano e l'inchiesta di Brescia relativa ad interferenze e alle deviazioni per salvare il banchiere Roberto Calvi dalle conseguenze della colossale esportazione di capitali. Nell'inchiesta erano coinvolti l'ex vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, Ugo Zilletti e il Procuratore capo della Repubblica di Milano, Mauro Gresti.
Il documento di Sica partiva dall'inchiesta sull'assassinio Pecorelli del marzo 1979 per rammentare che documenti relativi a Licio Gelli e alla P2 erano stati ritrovati fin da allora. Pecorelli aveva infatti un appunto da cui risultava che "Gelli era stato officiato per interferire nella nomina del comandante generale dell'Arma dei Carabinieri e che la massoneria voleva il processo a carico di Vito Miceli per consentirgli di attaccare pubblicamente l'on. Giulio Andreotti". <324
L'azione della Procura romana aveva portato ad un vigoroso attacco mediatico. Domenico Sica nel suo documento aveva omesso di spiegare perché tali documenti erano rimasti a riposare per anni saltando fuori solamente dopo che i giudici milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo avevano sequestrato parte dell'archivio di Gelli <325. Franco Scottoni, su "Repubblica" commentava: "Gallucci ha ricordato soltanto che in caso di conflitti di competenza l'ultima decisione spetta alla suprema Corte di Cassazione. Purtroppo l'esperienza fatta in passato, in particolare per alcune inchieste scottanti lascia presagire che quando vengono sollevati conflitti di competenza c'è qualcosa che cova sotto il fuoco. Il più delle volte i conflitti preannunciano affossamenti e depistaggi. Sarà così anche per la P2?" <326.
Il 2 settembre 1981 la sezione feriale della corte di Cassazione, presieduta da Giovanni Cusani <327, spostava a Roma tutto ciò che riguardava la vicenda P2, pronunciando sentenza con la quale riconosceva interamente "la validità delle ragioni tratte a fondamento della denuncia di conflitto sollevata da quest'Ufficio", rivelando "la odiosa strumentalità della speculazione polemica che ha scandito i vari momenti della procedura di conflitto e conferma come il puntuale rispetto della legge processuale da parte di tutti, fuori da ogni pur generoso attivismo, è condizione non soltanto dell'ordinato svolgersi della ricerca probatoria ma anche "della credibilità dei risultati che ad essa debbono conseguire". <328
Anche il "Corriere della Sera" faceva rilevare che "per la terza volta nelle ultime 4 estati la sezione feriale della Cassazione si pronuncia su importanti inchieste giungendo a conclusioni diverse da quelle sostenute dalla Procura generale che si era opposta a trasferimenti nella capitale dalle procure titolari delle indagini. È accaduto nel '78 per Caltagirone, lo scorso anno per la revoca dei mandati di cattura sullo scandalo dei "fondi bianchi" dell'Italcasse, e ieri per la P2. L'osservazione, puramente statistica, può avere tuttavia un significato perché è assai raro che la Suprema Corte decida in contrasto con il parere della procura generale".
Dopo uno scambio di lettere avvenuto nell'estate del 1982, il presidente della Commissione P2 Tina Anselmi definiva avvilenti le indagini della Procura romana, censurando il procuratore capo Gallucci per la sua "scarsa collaborazione" <329. Del caso discusse anche il Consiglio Superiore della magistratura riunitosi in assemblea plenaria il 26 ottobre. <330
A partire da tali critiche iniziava una campagna di attacchi al Csm, soprattutto di natura parlamentare: il 12 novembre 1982 il liberale Alfredo Biondi con interrogazione a risposta orale chiedeva al governo di chiarire i motivi dei "numerosi attacchi nei confronti della magistratura romana con particolare riferimento al procuratore capo della repubblica dottor Gallucci <331; il socialdemocratico Dante Cioce nello stesso giorno voleva avere lumi "sulle provocazioni effettuate da alcuni componenti del Consiglio superiore della magistratura a danno degli uffici giudiziari romani <332. Il 14 ottobre 1982 il senatore Vitalone aveva presentato una denuncia scritta contro ignoti per la delibera con cui il Consiglio non lo ha promosso a magistrato di Cassazione; il giudice istruttore di Roma, Francesco Amato, il 29 gennaio 1983 comunica a sei componenti del Csm che essi sono imputati di interesse privato in atto d'ufficio <333.
Esponendosi in prima persona, il presidente Pertini bloccò la crepa che stava aprendosi nelle fondamenta di Palazzo dei Marescialli. L'organo di governo dei giudici veniva difeso dal capo dello Stato il quale, nell'ordine del giorno 3 febbraio 1983, stabiliva che i giudizi espressi dal Csm sull'operato della procura romana "attenevano a comportamenti che sono comunque espressione di convincimento liberamente formatosi all'interno del Consiglio in ampio ed articolato dibattito sui necessari elementi di giudizio". <334
Ma fu soprattutto da una interpellanza del radicale Franco De Cataldo che derivarono conseguenze importanti. De Cataldo al punto 7 della propria interpellanza denunciava l'uso abnorme del caffè da parte del Consiglio superiore della magistratura. <335 Sebbene per consuetudine nell'anticamera della sala del plenum del Csm, durante i giorni di seduta venissero posti su un tavolo un thermos con caffè, un bricco di latte freddo e bustine di zucchero, la Procura di Roma dava comunicazione a tutti i componenti elettivi del consiglio che il suo ufficio procedeva nei loro confronti per peculato aggravato. <336
Respingendo forti pressioni esterne, venti sostituti procuratori della capitale chiesero di aprire una inchiesta sulla procura stessa e lo fecero con una lettera aperta al Presidente della Repubblica Pertini nella sua veste di Presidente del Consiglio superiore della Magistratura. I sostituti procuratori, nel prendere atto che "alcune iniziative degli uffici giudiziari romani continuano a provocare tensioni istituzionali e ad accrescere un generalizzato senso di sfiducia nell'attività degli uffici stessi", sollecitavano il capo dello stato affinché intervenisse perché fossero adottate tempestivamente "nelle sedi competenti le iniziative ritenute più opportune per ricondurre nell'alveo della massima trasparenza i criteri di gestione di questo ufficio". <337
Il 21 marzo 1983 l'ufficio di presidenza della Commissione parlamentare P2 stilava un ordine del giorno che preventivava la possibile audizione del procuratore capo di Roma Achille Gallucci. Mentre i giornali titolavano: "Tra Commissione parlamentare sulla loggia massonica P2 e magistratura romana ormai è guerra aperta", una convocazione di questo genere rischiava di inserirsi fin troppo chiaramente nel clima di "guerra" tra Commissione parlamentare d'inchiesta e Procura romana.
In un editoriale dal titolo "Una ferita allo Stato", pubblicato su "La Repubblica" del 16 marzo si leggeva: "Non è escluso che il procuratore voglia spingere la sua azione ancora più a fondo emettendo una raffica di mandati di cattura che di fatto obbligherebbe Pertini a sciogliere l'organo da lui presieduto (...). E' impensabile che Pertini, ove ciò avvenisse, possa assistere passivamente; vi sarebbero infatti gli estremi di una denuncia nei confronti del procuratore della Repubblica per attentato contro la personalità dello Stato" <338.
Nonostante "l'esemplare comportamento di un capo dello Stato nella sua veste di Presidente del Csm, che tutelava in ogni modo e ad ogni costo l'indipendenza di questo organo" <339 , le frizioni in atto non erano soltanto frutto di una dicotomia giudiziaria e politica, ma soprattutto il sintomo di visioni contrapposte in cui l'indipendenza giudiziaria sul controllo della legalità diventava strumento di rivendicazione politica. Quasi come a porre un punto, di inizio o di fine, al grande rumore sollevato dal procedimento sulla P2 attratto a Roma, la contestazione di grave delitto di cospirazione politica mediante associazione si concludeva il 18 marzo 1983 con la sentenza di proscioglimento generale pronunciata dal consigliere istruttore Ernesto Cudillo: "Allo stato deve essere presa in considerazione la posizione di coloro che hanno aderito in buona fede alla loggia P2 per diversi motivi: per ideali massonici; per beneficiare lecitamente del principio della reciproca assistenza; per spirito di conformismo e di compiacenza nei confronti dei superiori gerarchici in particolare, qualora pubblici dipendenti; per acquisire prestigio, essendo la P2 considerata una loggia per persone importanti; per essersi fatti semplicemente convincere da conoscenti o amici ad iscriversi alla loggia P2, trattandosi di loggia riservata senza l'obbligo di partecipare a lavori massonici" <340.
Ciò che stava avvenendo era che la magistratura romana non riscontrava violazione della norma scritta nell'attività della loggia P2, nello stesso momento in cui la commissione parlamentare di inchiesta la considerava una gravissima distorsione delle regole del gioco democratico, con sacche di corruzione estese e radicate.
[NOTE]
320 V. Zagrebelsky, La polemica sul Pm e il nuovo Csm, in "Quaderni costituzionali", 1981, p. 391; L. Pepino, Il pubblico ministero tra indipendenza e controllo, in "Questione giustizia, 1983, n. 5 p. 588.
321 "Notiziario Csm", 1981, n. 14, p. 3.
322 Ved. Zagrebelgky, Tendenze e problemi del Csm, in "Quaderni costituzionali", 1983, p. 124; nello stesso S. Senese, Il Consiglio Superiore della magistratura, p. 484.
323 CP2, Documentazione raccolta dalla Commissione, Documenti citati nelle relazioni, 2-quarter/3, Tom. V, Vol. III, Documenti inerenti il conflitto di competenza tra la Procura della Repubblica di Roma e la Procura della Repubblica di Milano, in ordine al procedimento penale a carico di L. Gelli ed altri, pp. 309 e ss.
324 Ibid. p. 312.
325 I giudici di Milano: No all'avocazione per la P2, «L'Unità», 24 giugno 1981.
326 F. Scottoni, «La Repubblica», 25 giugno 1981.
327 Descritto da Gherardo Colombo "non un esempio di terzietà, ossia di equidistanza rispetto alle parti" poichè "fonde nella propria persona le qualità di giudice e di difensore, in quanto nella prima veste è chiamato a giudicare quale ufficio debba occuparsi dei reati legati alla P2, e nella seconda veste assiste un collega iscritto alla loggia", in G. Colombo, Il vizio della memoria, op. cit., p. 98.
328 CP2, Documenti citati nelle relazioni, 2-ter/5/III, pp. 343 e ss, Requisitoria del procuratore della Repubblica di Roma del 29 maggio 1982, dott. A. Gallucci, procedimento a carico Licio Gelli.
329 Lo scambio di lettere tra l'Ufficio di Presidenza e la Procura della Repubblica romana si trova su CP2, 2-quater/3 Tomo V, parte III, pp. 499-507.
330 «La Repubblica», 15 febbraio 1983, Il Csm spaccato per Gallucci.
331 Camera dei Deputati, Leg. VIII, Interrogazione a risposta orale, presentatore A. Biondi, Atto. N. 3/06962, seduta n. 583, 12 novembre 1982.
332 Camera dei Deputati, Leg. VIII, Interrogazione a risposta orale, presentatore D. Cioce, Atto. N. 4/03343, seduta n. 583, 12 novembre 1982; nella stessa data il senatore Dante Cioce; Ferdinando Reggiani; Matteo Matteotti.
333 Bruti Liberati op. cit.
334 "Notiziario Csm", febbraio 1983, n. 2, p. 3, e il numero straordinario del luglio 1983, con i verbali completi della seduta.
335 Camera dei Deputati, Atti parlamentari, Discussioni, Seduta pomeridiana del 18 marzo 1983, Interpellanza di F. De Cataldo n. 2-02442.
336 G. Zaccari, Tutti i giudici del Csm messi sotto inchiesta per peculato, «La Stampa», 12 marzo 1983.
337 «La stampa», 22 marzo 1983.
338 «La Repubblica», 16 marzo 1983.
339 A. Baldassarre - C. Mezzanotte, Gli uomini del Quirinale, Da De Nicola a Pertini, Bari, Laterza, 1985.
340 CP2, Documenti allegati alle relazioni, 2-ter/V TRIS., p. 507, Tribunale Penale di Roma, Giudice Istruttore E. Cudillo, Sentenza istruttoria di proscioglimento e decreto di impromuovibilità dell'azione penale, 18 marzo 1983.
Lorenzo Tombaresi, Una crepa nel muro. Storia politica della Commissione d'inchiesta P2 (1981-1984), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno Accademico 2014-2015