giovedì 18 luglio 2024

Dal 30 dicembre 1943 al 14 gennaio 1944 in provincia di Cuneo vengono assassinati dai tedeschi 200 persone tra civili e partigiani


Il 12 settembre i tedeschi entrano a Cuneo. Le SS prendono in consegna l’intera città, rastrellano centinaia di soldati sbandati destinandoli ai campi di concentramento in Germania, insieme agli ebrei in fuga in cui si imbattono. Nel frattempo i ribelli sono alla macchia e si organizzano per la guerriglia. Le bande che iniziano a formarsi raggruppano uomini diversi tra loro, spesso lontani per origine politica e sociale, e con intrinseche peculiarità motivazionali; i loro atteggiamenti e le loro ispirazioni influenzano le impostazioni della guerra partigiana che assume in prima battuta i caratteri di una protesta di pionieri.
Il territorio cuneese, collocato tra la Liguria e la Francia sud-orientale, occupa una posizione strategica che favorisce la precoce formazione delle bande partigiane, ma determinante è l’iniziativa personale degli uomini che fin da subito si impegnano per organizzare e condurre la lotta partigiana. È il caso di Duccio Galimberti. Nel suo studio di avvocato fin dal 26 luglio convergono elementi antifascisti cuneesi e, tramite Dante Livio Bianco <1, anche torinesi, che organizzano un piccolo gruppo e un formale arruolamento. Galimberti e Bianco, con altro dieci compagni, salgono in Valle Gesso, a Madonna del Colletto, dove danno vita alla banda “Italia Libera”, una settimana più tardi si spostano a Paraloup in bassa Valle Stura, dove si unisce a loro Nuto Revelli: si definisce così uno dei primi nuclei partigiani della provincia e del Nord Italia.
Tuttavia questo caso non è l’unico degno di nota, nelle valli vicine altri si stanno preparando alla guerriglia. Due carradori di fede comunista, Giovanni e il figlio Spartaco Barale <2, lasciano la bottega, diventata sede del comando della formazione, e la residenza di Borgo San Dalmazzo per gettare le basi di un nucleo partigiano in Valle Vermenagna, mentre sulle pendici della Bisalta Ignazio Vian <3, un giovane tenente della GaF, raduna un contingente di soldati dispersi.
Ciascuna iniziativa è rappresentativa delle componenti da cui si origina la lotta armata. Ci sono i gruppi spontanei di origine militare, fedeli alle tradizioni dell’esercito e alla monarchia, dalle posizioni generalmente attendiste, o più reazionarie e attive come nel caso della banda di Vian; in quasi tutte le vallate, dalle Alpi Marittime al Monviso, ci sono militari sbandati, molti si sciolgono rapidamente, altri crescono di numero creando le Formazioni Autonome che richiamano l’esercito e il giuramento al re, nonostante mostrino talvolta al loro interno ispirazioni eterogenee, repubblicane o cattoliche come nel caso del nucleo partigiano della Valle Pesio. La seconda componente è costituita dai comunisti, come Giovanni Barale e suo figlio, e dai militanti del PCI di Torino che, guidati da Pompeo Colajanni “Barbato”, <4 riuniscono gli sbandati in Valle Po, dando vita al nucleo fondante delle brigate Garibaldi del basso Piemonte. La terza componente è rappresentata dai militanti del Partito d’Azione cui è legata la banda “Italia libera”, da cui nascono le brigate Giustizia e Libertà.
Una settimana dopo l’arrivo dei tedeschi, il 19 settembre, ecco il primo grande avvenimento che sconvolge la popolazione insieme alla fragile e neonata organizzazione partigiana. Un battaglione di SS, al comando del maggiore Joachim Peiper, muove all'attacco nella zona di Boves. L'azione si propone un duplice scopo: stroncare sul nascere l'organizzazione degli ex militari dislocati nella Valle Colla; punire la popolazione di Boves con una strage esemplare che diventi un monito. Il bilancio della giornata è tragico: ventisette i civili morti, donne e uomini, quasi tutti vecchi; trecentocinquanta le case incendiate, distrutte.
Nei giorni febbrili che succedono l’armistizio si avviano lentamente accordi tra i vari gruppi e partiti politici, non senza difficoltà e diversi obiettivi. <5
L’unico scontro a fuoco in Piemonte tra le truppe naziste e i resti dell’esercito italiano, e l’eccidio che segue a Boves segnano l’inizio della guerra, è per tutti la fine delle illusioni e delle speranze di una pace imminente.
Il movimento partigiano del Cuneese nell’autunno del ’43 ha una natura mutevole. Nelle prime settimane tra i gruppi attivi si contano la Banda di Boves, la “Compagnia Rivendicazione Caduti” nei dintorni del capoluogo, gli elementi della famiglia Barale in Valle Vermenagna, la Banda “Prato” a Roaschia, la Banda di Frise, la Banda di Paraloup, la formazione del capitano Carbone all’imbocco della Valle Maira, dei raggruppamenti in Val Varaita, il gruppo di Geymonat-Barbato in Valle Infernotto e infine reparti di ispirazione militare nelle valli Casotto e Pesio. Mancano ancora i Roeri e le Langhe, dove la Resistenza prende il via nella primavera dell’anno successivo. Si assiste tuttavia a una progressione continua per cui alcune bande spariscono quasi subito, si trasferiscono, entrano in rapporti con altri gruppi o si aprono ad altre ispirazioni politiche e sociali. È in questo periodo che l’intero Cuneese viene suddiviso per volontà del CLNRP <6 in settori: il I settore comprende l’area tra il Monregalese e la Valle Vermenagna, il II settore quella tra quest’ultima e la Valle Grana e il III settore tra le Valli Maria e Po. <7
Dopo l’assestamento dei mesi di settembre e ottobre, a dicembre il partigianato è una realtà consolidata che i nazifascisti fronteggiano con violenze per ripulire il territorio dalle bande. Il comando inviato dalla Germania ha messo in atto le disposizioni di occupazione in termini amministrativi per controllare la vita economica e produttiva del territorio; l’apparato militare della Rsi si mette all’opera e inizia a pubblicare i bandi di chiamata alle armi per i giovani delle classi 1923, 1924 e 1925. A impensierire i nemici è anche l’interessamento del popolo nei confronti dell’attività dei partigiani, questi infatti non sono combattenti isolati, c’è una corrispondenza tra loro e le masse popolari che si manifesta nei modi più vari, dal supporto entusiastico ad atti concreti come la fornitura di viveri, il ricovero dei feriti, il trasporto e l’occultamento di armi. È la gente di montagna, più di altra, a sodalizzare con le bande, prima dando da mangiare o da dormire agli sbandati dell’8 settembre poi aiutando i partigiani, nonostante il terrore delle rappresaglie, degli eccidi e delle vendette.
Questo atteggiamento è l’espressione di uno stato d’animo diffuso che rivela le aspettative della popolazione.
Le iniziative partigiane nei primi mesi di lotta contano molti episodi significativi sia dal punto morale sia militare. Come il “territorio liberato” da parte di elementi bovesani insediatisi in Valle Stura che, cacciate le milizie fasciste, proclamano Vinadio “città libera”; pur trattandosi di un’esperienza breve, perché in soli tre giorni una colonna di tedeschi e di SS italiane riconquista il territorio, essa contribuisce a diffondere entusiasmo per la “liberazione”. Si citano poi il sabotaggio del viadotto ferroviario di Vernante, sulla linea Cuneo-Ventimiglia, che viene fatto saltare paralizzando il traffico per un anno o l’attacco all’aeroporto di Mondovì contro i tedeschi per prelevare un carico di benzina. Sono colpi di questo genere e i sempre più frequenti scontri armati a dare la spinta al grande periodo di rastrellamenti con cui le forze germaniche si impegnano a ripulire il territorio dalle formazioni partigiane. Dal 30 dicembre 1943 al 14 gennaio 1944 vengono assassinati dai tedeschi 200 persone tra civili e partigiani. Si comincia “il 30 dicembre con Bagnolo Piemonte e Paesana, il giorno dopo tocca a Boves, dove l'eccidio, secondo dopo quello di settembre, si prolunga per quattro giorni; il 2 gennaio a Dronero viene compiuta un'esecuzione; il 5 gennaio alla frazione Ceretto, fra Busca e Costigliole Saluzzo, è commesso un eccidio di civili; il giorno successivo si torna in val Po, con le uccisioni a Barge; il 10 gennaio la strage di piazza Paschetta a Peveragno; il 12–13 gennaio rastrellamento in valle Grana e il giorno successivo la morte di numerosi partigiani al Pellone di Miroglio”. <8
A questa prima fase di sopravvivenza e incertezze segue unperiodo di crisi, non solo per i rovesci subiti dalle bande, ma anche per altre ragioni: non ci sono segni di un immediato sbarco alleato, il terrore nazifascista pesa sugli animi della popolazione che teme di appoggiare apertamente il movimento ribelle, si è in pieno inverno con scarse possibilità di rifornimento e un certo pessimismo si diffonde tra i combattenti. In retrospettiva, questo periodo costituisce per molti una risorsa, più che una difficoltà; infatti, a fronte delle perdite e delle difficoltà quanti sono scarsamente motivati ritornano in pianura o in città, e si allontanano dalle formazioni dove restano i più convinti, la cui esperienza torna utile a inquadrare il gran numero di reclute che raggiunge le vallate nelle settimane successive.
[NOTE]
1 Dante Livio Bianco (1909-1953) è stato un avvocato, alpinista e comandante partigiano. Nato a Cannes in Francia da genitori originari della Valle Gesso, nei primi anni del fascismo, durante gli studi universitari a Torino incontra e frequenta importanti figure antifasciste come Piero Gobetti e Alessandro Galante Garrone. Militante del Partito d'Azione, all’indomani dell’armistizio raggiunge Cuneo per organizzare le prime bande partigiane. Viene decorato di due medaglie d'argento al valor militare.
2 Giovanni Barale (1887-1944), primo segretario della Federazione comunista di Cuneo, con l’avvento del Fascismo svolge clandestinamente l’attività antifascista fino al luglio 1943, quando riorganizza nel Cuneese il partito, diventando figura di riferimento del movimento antifascista. È ucciso dai nazisti insieme al figlio Spartaco (1922-1944) nel tentativo di avvisare i comandi partigiani di un rastrellamento imminente.
3 Ignazio Vian (1917-1944) è una delle figure più rappresentative del partigianato cuneese. Chiamato alle armi quando l’Italia entra nel secondo conflitto mondiale, viene destinato alla Guardia di Frontiera di Boves dove dirige la lotta armata. Dalla Valle Colla si sposta in Valle Corsaglia e nelle Langhe dove è nominato vicecomandante del Gruppo divisioni Autonome. Recatosi a Torino per prendere contatti con i dirigenti del CNL del Piemonte, viene arrestato il 19 aprile e tenuto in carcere per mesi prima di essere ucciso dai tedeschi il 22 luglio 1944.
4 Pompeo Colajanni Barbato (1906-1987) fonda il distaccamento Pisacane, uno dei primi nuclei delle brigate Garibaldi di cui diventa comandante. Nell’aprile 1945 organizza la marcia delle formazioni su Torino di cui diventa vicequestore dopo la sua liberazione.
5 Nuto Revelli, introduzione a Guerra partigiana, Bianco, XX.
6 Sigla del Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Piemontese, organizzazione costituita nell’ottobre 1943 per organizzare e coordinare le bande partigiane che si stanno formando; è una cellula regionale del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) formatosi a Roma l’indomani dell’armistizio. Il CLN provinciale cuneese si formalizza in dicembre.
7 Marco Ruzzi, “La guerra partigiana e la guerra di Salò”, in Con la guerra in casa. La provincia di Cuneo nella Resistenza 1943-1945, a cura di Michele Calandri e Marco Ruzzi (Cuneo: Ass. Primalpe Costanzo Martini, 2016), 113.
8 Ruzzi, “La guerra partigiana e la guerra di Salò”, in Con la guerra in casa, 117.
Gaia Viglione, W la Libertà. Storia di due ribelli, Tesi di laurea, Politecnico di Torino, Anno Accademico 2023-2024

sabato 6 luglio 2024

La maggior parte dei pareri nell’estrema destra era favorevole al golpe


L’ipotesi del golpe, inoltre, fu presa pubblicamente in considerazione durante le trasmissioni televisive dai dirigenti missini che così facendo minarono ancora di più l’autorità del governo di centro-sinistra. Il 25 maggio 1970 Almirante, intervenendo per la prima volta alla trasmissione della Rai-tv «Tribuna Politica», incalzato dalle domande di un giornalista a proposito dell’eventuale consenso del Msi ad un intervento militare sul modello greco, si era espresso con chiarezza: «qualora soluzioni anche di forza potessero salvarci dal comunismo, ben vengano le soluzioni di forza» <412.
L’ipotesi del colpo di Stato era una soluzione caldeggiata da diversi ambienti (non tutti necessariamente orientati a destra), non ultimo, per ordine di importanza, da una cordata all’interno dei servizi segreti con a capo Vito Miceli <413. Tra il 1969 e il 1970 si erano succeduti diversi interventi pubblici delle associazioni d’arma e di singoli esponenti delle Forze Armate che auspicavano una maggiore presenza dei militari nella vita politica del Paese <414.
Questi appelli si intensificarono in coincidenza dell’autunno caldo <415. Il primo novembre fu il generale Giuseppe Aloia dalle colonne del «Tempo» a parlare della garanzia all’ordine costituzionale rappresentato dalle Forze Armate «non
certo assenti dalla vita e dall’avvenire del Paese» <416. Il 13 dicembre le associazioni d’arma e l’Unuci presero pubblicamente posizione accusando della strage di piazza Fontana «tutti coloro che hanno seminato nel popolo il verbo dell’odio e predicato la violenza» <417, mentre nel marzo 1970 il vice comandante della regione Tosco-Emiliana illustrò ad un gruppo di giovani riuniti in un circolo ufficiali di Firenze il ruolo delle Forze Armate volto a «mobilitare gli italiani contro la sovversione» <418. Tali appelli proseguirono, sotto varia forma, per tutto il corso degli anni Settanta. Il 14 giugno 1971, ad esempio, all’indomani del risultato delle elezioni amministrative e regionali, l’Unuci inviava agli ufficiali in congedo al termine del servizio di prima anonima una lettera in cui si invitava ad esprimere «solidarietà alla grande Famiglia Militare [sic!]…in questi tempi, mentre in settori ben individuati si tende ad avvilire ed irridere tutto ciò che si allaccia ai nobili sentimenti di amor di Patria ed onore militare» <419.
A questo si aggiunse la pressione esercitata dalla destra radicale in favore di un intervento dei militari con i quali, dagli inizi degli anni Sessanta, erano stati stretti alcuni importanti rapporti <420. Le Forze Armate erano considerate l’ambiente più idoneo nel quale fare proseliti per la causa della rivoluzione nazionale e della battaglia anticomunista. Il gruppo “Giovane Europa”, ad esempio, era intenzionato a formare «equipe di ufficiali, di quadri politico-militari, decantare l’ambiente ed eliminare coloro cui i polsi tremano alla vista di un fucile e di un poco di sangue e far partecipare questo corpo militarizzato alla lotta armata» <421.
Per questi ambienti l’azione di forza e la guerra civile apparvero come il mezzo più idoneo per compiere una rivoluzione nazionale che trasformasse profondamente l’Italia. Secondo il terrorista neofascista Vincenzo Vinciguerra, ad esempio, la manifestazione del 14 dicembre 1969, indetta dal Movimento Sociale a Roma, doveva sfociare in incidenti di una gravità tale da costringere il governo a convocare lo “stato d’emergenza”; una decisione che a sua volta avrebbe provocato la reazione di piazza delle sinistre gettando il Paese nel caos e costringendo i militari ad intervenire <422.
In questa prospettiva il Fronte Nazionale, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale decisero di partecipare alla rivolta di Reggio Calabria cercando di cavalcare la protesta popolare nella quale era già presente il Movimento Sociale, uno dei primi partiti a riconoscere le istanze avanzate dai rivoltosi. I gruppi neofascisti radicalizzarono la protesta con sparatorie, ordigni e attentati di ogni sorta, contribuendo a delineare lo scenario che porterà, il 22 luglio 1970, al deragliamento della Freccia del Sud, presso Gioia Tauro, uno degli episodi più oscuri della vicenda repubblicana <423.
In taluni casi affiorarono altre posizioni che sottolineavano il rischio che dietro i militari vi fosse un progetto politico conservatore sostenuto dalla Democrazia cristiana; per il Movimento Politico Ordine Nuovo, ad esempio, il colpo di Stato era considerato come «un fatto controrivoluzionario» <424. Per ragioni opposte la rivista «Occidentale», un mensile di un circolo neofascista romano, accusò gli «anarchici di destra» degli attentati e caldeggiò una rottura con gli ambienti evoliani e nazisteggianti vicini ad Ordine Nuovo che sostenevano il colpo di Stato. «L’Orologio» riconobbe negli attentati di dicembre la manifestazione patologica di una «insoddisfazione di fondo» prendendo, al contempo, le
distanze dalla politica conservatrice patrocinata dal Msi e dai neofascisti che sostenevano il colpo di Stato <425. Ma la maggior parte dei pareri nell’estrema destra era favorevole al golpe: molti militanti dei gruppi della destra radicale vi intravedevano la possibilità di accentuare il distacco nei confronti del Movimento Sociale a cui venne rimproverato di non aver saputo compiere quella rottura con il sistema democratico che i gruppi più oltranzisti avevano cercato di attuare con le bombe.
Tra la crisi governativa del 6 febbraio 1970, la caduta del terzo governo Rumor nel successivo luglio e la formazione del quadripartito organico di centro-sinistra guidato da Emilio Colombo, i discorsi sul colpo di Stato si intensificarono. Nei comizi pubblici si esaltò il ruolo dei «battaglioni d’assalto» e i «corsi di ardimento» contro la “guerra rivoluzionaria” scatenata dal comunismo <426.
La minaccia non era solo teorica: negli stessi mesi, infatti, si stavano organizzando le reti golpiste protagoniste del tentato putsch del dicembre del 1970, assieme ai preparativi di altre realtà eversive in ebollizione, dal Movimento di Azione Rivoluzionaria di Carlo Fumagalli ai Comitati di Resistenza Democratica di Edgardo Sogno, orientate al medesimo obiettivo <427.
Queste voci ed appelli sembrano nuovamente contraddire, come è stato osservato per la marcia su Roma del 1922, «uno degli elementi fondamentali che la teoria politica ha creduto di potere individuare come peculiarità del colpo di Stato, ossia la segretezza» <428. Nelle proclamazioni di appelli all’insurrezione si distinse, infatti, il Fronte Nazionale, futuro protagonista del tentato golpe del dicembre 1970. A febbraio Junio Valerio Borghese pubblicò un appello per la costituzione di un raggruppamento di tutte le forze anticomuniste <429: serviva un’azione di forza per abbattere il centro-sinistra che nonostante la profonda crisi non era crollato e rischiava di riproporsi come formula governativa ancora per molto tempo <430. Si temeva, inoltre, che i sindacati con una vasta agitazione e la proclamazione di uno sciopero generale potessero innescare una crisi di governo che riproponesse la questione dell’ingresso del Pci nella maggioranza <431. Uno scenario che effettivamente si delineò nell’agosto del 1970 con le dimissioni di Rumor in seguito alla mobilitazione dei sindacati e alla minaccia di sciopero generale. La riproposizione di un governo di centro-sinistra organico apparve, quindi, una concessione al Partito comunista. In questo frangente il Fronte Nazionale ritenne che la richiesta di elezioni politiche anticipate era vana per il rischio di moti di piazza che avrebbero impedito qualsiasi trasformazione del quadro politico; una situazione che rendeva il colpo di Stato «una necessità inderogabile» <432. A dicembre, in un’intervista a Giampaolo Pansa sulla «Stampa», Borghese fece accenno alla preparazione di un «centro di potere» che doveva sostituirsi allo Stato <433.
Più complesso e defilato, nonostante le numerose prese di posizione in pubblico, il ruolo del Movimento Sociale. Documentate inchieste giornalistiche e indagini giudiziarie hanno rilevato un atteggiamento positivo della dirigenza missina nei confronti dell’ipotesi del colpo di Stato. La documentazione in nostro possesso, però, non permette di stilare un giudizio complessivo sulla vicenda, mentre sono emerse con chiarezza i ruoli svolti da Ordine Nuovo e da Avanguardia Nazionale. Un’informativa della Questura di Roma dell’8 ottobre 1970 ci informa, però, della decisione di Almirante di predisporre, nell’ateneo della città di Roma, la formazione di un raggruppamento studentesco, il “Fronte Delta”, che avrebbe rappresentato il punto di raccordo tra il Fuan, Avanguardia Nazionale e il Fuan “Caravella”, per coordinare le attività anticomuniste nelle facoltà romane. Il “Fronte Delta”, come emergerà dalle carte giudiziarie, risultò poi essere uno dei gruppi “attivi” nella notte della Madonna, l’8 dicembre 1970 <434.
[NOTE]
412 Tribuna elettorale, 25 maggio 1970, Opuscolo a cura del Movimento Sociale Italiano, in AFUS, f. Msi, b. 1.
413 Cfr. G. Flamini, L’Italia dei colpi di Stato, Newton Compton Editori, Roma 2007, p. 107.
414 Il 31 luglio 1969, ad esempio, il «Borghese» pubblicò una lettera di un gruppo di ufficiali al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito per sollecitare l’ordine di «reagire, singolarmente o collettivamente, con i fatti, se necessario con le armi, a qualsiasi aggressione, a qualsiasi offesa alla Bandiera, all’uniforme, all’essenza spirituale e materiale dell’organismo militare», «Il Borghese».
415 In seguito alla morte dell’agente Annarumma la “Federazione Associazioni Nazionali Ufficiali e Sottoufficiali Provenienti Servizio Attivo” diffuse un manifesto in cui si invitavano le «forze sane responsabili della Nazione perché sia rafforzata, consolidata e sviluppata la comune inflessibile volontà e la conseguente azione di difesa delle leggi e delle istituzioni. In modo da garantire, in ogni circostanza, con assoluta certezza, la libertà, la vita nella legalità, nella giustizia e nella sicurezza di tutti gli Italiani degni di questo nome nei sacri confini della convivenza sociale e nazionale», Presa di posizione della Fanus, «Il Secolo d’Italia», 21 novembre 1969.
416 Gen. Giuseppe Aloia, La crisi dello Stato, «Il Tempo», 7 novembre 1969. Sul ruolo delle Forze Armate nell’Italia repubblicana vedi l’inchiesta di V. Ilari, Forze armate tra politica e potere, 1943-1976, Vallecchi, Firenze 1978.
417 Le associazioni d’Arma contro la sovversione, «Il Secolo d’Italia», 13 dicembre 1969.
418 Mobilitare gli italiani contro la sovversione, «Il Secolo d’Italia», 22 marzo 1970.
419 Unuci - Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia - Gruppo Regionale della Lombardia, prot. n. 848//G - Pot -, Oggetto: “Rinnovo iscrizione all’Unuci”, Milano, 14 giugno 1971. Si ringrazia per la consultazione della lettera il prof. Angelo Panvini (mio padre).
420 Nel 1965 Pino Rauti, Guido Giannettini e Flavio Messala scrivevano il libro Le mani rosse sulle forze armate con l’intento di “politicizzare” i reparti speciali dell’esercito nella lotta al comunismo. Vedi F. Messala, a cura di, Le mani rosse sulle forze armate, Centro Studi e Documentazione sulla guerra psicologica, 1966.
421 Prefettura di Ferrara, prot. n. 767, Div. Gab., Oggetto: “Ferrata - I congresso nazionale del Movimento Giovane Europa”, Ferrara, 1 febbraio 1968, in Ministero dell’Interno-Gabinetto, Oggetto: “Associazione Giovane Europa”, 348 P/6, 1968, ACS, MI, GAB, 1967-1970, b. 24.
422 Cfr. l’intervista di V. Vinciguerra in P. Cucchiarelli, A. Giannuli, Le strategie della tensione, suppl. a «l’Unità», Roma 2005, p. 70. Il 13 dicembre, a Messina, una macchina di attivisti di Ordine Nuovo girò per la città distribuendo volantini in cui si esortava la popolazione a rispondere alla «violenza…con la violenza» e indicando gli attentati come «il preludio alla guerra civile». Cfr. Volantino di Ordine Nuovo, allegato a Cgil, Camera Confederale del Lavoro “F. Lo Sardo”, Oggetto: “Iniziativa a seguito dei fatti di Milano”, Messina, 15 dicembre 1969, in ACGIL.
423 Su questo tema vedi l’inchiesta giornalistica di F. Cuzzola, Cinque anarchici del Sud. Una storia negata, Città del Sole edizioni, Reggio Calabria 2001.
424 «Documenti del Movimento Politico Ordine Nuovo», aprile 1972 in N. Rao, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali di destra, Sperling&Kupfer Editori, Milano 2006, p. 163.
425 Cfr. Anarchici di e da destra, «Occidentale», a. I, dicembre 1969 e Enrico Montanari, Ordine Nero e civiltà occidentale, «Occidentale», a. II, gennaio 1970; Non hanno vinto, «L’Orologio», a. VII, gennaio 1970.
426 La “Rivoluzione Nazionale” dei colonnelli valida risposta alla “guerra sovversiva”, in AFUS, F. Msi, b. 3.
427 Sugli aspetti organizzativi cfr. gli studi di J. Greene, A. Massignani, Il principe nero, Junio Valerio Borghese e la X Mas, Mondadori, Milano 2007, pp. 232-245; vedi anche C. Arcuri, Colpo di Stato, Rizzoli, Milano 2004; S. Flamigni, Trame atlantiche, Storia della loggia massonica segreta P2, Kaos Edizioni, Roma 2005, pp. 38-58; Fasanella, Sestieri, Pellegrino, Segreto di Stato…cit., pp. 64-73.
428 G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 63.
429 L’appello di Borghese, «Azione Nazionale», febbraio 1970.
430 P. Capello, Ritrovarsi, «Azione Nazionale», n.u., febbraio 1970.
431 B. Borlandi, Impossibilità di governare l’Italia, «Azione Nazionale», 15 aprile 1970.
432 L. Civitelli, Orientamenti e considerazioni, «Azione Nazionale», 15 aprile 1970.
433 G. Pansa, Deliri del principe nero. Che cosa fa l’estrema destra italiana, «La Stampa», 9 dicembre 1970.
434 Questura di Roma, n. 059901 - U.P. - A. 4. A., Riservata, Oggetto: “Fronte Delta - gruppo universitario extraparlamentare anticomunista - costituzione, Roma, 8 ottobre 1970, in Ministero dell’Interno, Gabinetto, Oggetto: Roma e Provincia Attività dei Partiti, Fascicolo 12010/69, ACS, MI, GAB, 1967-1970, b. 100.
Guido Panvini, Le strategie del conflitto. Lo scontro tra neofascismo e sinistra extraparlamentare nella crisi del centro-sinistra (1968-1972), Tesi di Dottorato, Università degli Studi della Tuscia - Viterbo, Anno Accademico 2007-2008

lunedì 24 giugno 2024

Con Caveggia eravamo militari insieme a Camporosso

Camporosso (IM): poco a valle del centro urbano

Caprile Pietro “Bersaglio”. Bersagliere
Nato a Sanremo nel 1925. Dopo l’otto settembre 1943 viene forzatamente arruolato dalla R.S.I. ed inviato in Francia a Hières a lavorare per l’esercito tedesco. Dal gennaio del 1944 viene trasferito in Germania in un campo di lavoro e addestramento ad Oliberg. Qui aderisce al gruppo di addestramento della divisione Italia e con questa rientra in patria nella stessa primavera. Di nuovo in Francia sotto comando operativo tedesco (da ciò il successivo nome di battaglia “Bersaglio”), rientra in Italia nell’estate del 1944 dopo lo sbarco alleato in Provenza. Fuggito assieme a numerosi altri commilitoni nella zona di Salsomaggiore (Parma) entrerà nella Resistenza con la Brigata “Beretta”, che opera tra le provincie di Parma e Modena, dove resterà fino alla liberazione.
Redazione, Caprile Pietro, la corsa infinita

C. [Stefano Malatesta (Croce)] Bisagno [Aldo Gastaldi] è venuto con Lesta il 10 o il 12 di giugno in val Trebbia, quando abbiamo disarmato il gruppo dello Slavo [31]. Avevamo preso accordi con Bisagno per iscritto. C’era questa banda… Bisagno mi aveva chiesto se portare in appoggio un distaccamento dei nostri. Ma là c’era già Marco [32] con i suoi, che erano venuti dalla val Borbéra dove stavano prima che in val Borbéra arrivasse Scrivia; Scrivia in val Borbéra è arrivato dopo il rastrellamento di agosto.
GB. [Giambattista Lazagna (Carlo)] In val Borbéra siamo arrivati il 24 agosto, il secondo giorno della battaglia di Pertuso.
C. Noi eravamo sull’Antola, a Capanne di Carrega, e andando in giù, a Cabella avevo trovato, insieme a Marco, un ragazzo col quale eravamo stati militari insieme. Pensa che quando ci siamo incontrati, con questo Caveggia…
GB. Ah! Eliseo Cavecchia, "Tullio” [33].
C. Ci siamo parlati un quarto d’ora, venti minuti senza riconoscerci. Lui era conciato male, proprio male. Noi bene o male avevamo almeno un paio di scarpe; lui ne aveva un paio di gomma senza suola; il piede che gli perdeva sangue di sotto, la barba lunga, i capelli lunghi. Poi, dopo un po’ gli dico: "Sei Caveggia?”, e lui risponde: "E tu sei Malatesta?”.
M.  [Manlio Calegari] Era carabiniere, Cavecchia?
C. No. Carabiniere io sono passato dopo. A militare erano arrivate delle richieste, secondo le quali avevano bisogno di carabinieri e chi faceva la domanda poteva passare dall’esercito ai carabinieri. Io, tutte le mattine - eravamo a Camporosso - andavo a Ventimiglia con uno di Riva Trigoso, che aveva poi un negozio a Sestri Levante, e vedevo questo manifesto per il passaggio nei carabinieri. Allora facciamo la domanda. A lui, dopo un mese e mezzo, gli è arrivato l’ordine di tornare allo stabilimento di Riva Trigoso [34] dove già lavorava prima di andare sotto le armi. E così sono rimasto io. Avevo già fatto una richiesta di avvicinamento a casa - avevo mio padre da solo in casa - quando mi è arrivato l’ordine di trasferimento ai carabinieri. Il colonnello mi ha chiamato e mi ha detto: "Non ci vuoi proprio più stare qui. Prima hai fatto domanda per andare a Genova, e ora…”, e io rispondo: "E voi non me n’avete concessa una”. "Adesso ti hanno richiesto alla Legione di Genova, hai fatto una domanda…”, e mi ha mandato alla Legione di Genova.
Con Caveggia eravamo militari insieme a Camporosso. Quando Bisagno mi dice: "Vengo, che distaccamento ti porto?”, io gli ho risposto: "Guarda che qui c’è già un distaccamento con un comandante, Marco, che è un ufficiale dell’esercito, dell’aviazione, e ci conosco un amico, così faccio venire questi coi quali ormai ci siamo conosciuti”. Quando Bisagno è arrivato da noi, alla sera, con Lesta, io avevo il distaccamento di Tullio e di Marco già in val Trebbia, a Gorreto.
M. È in quella occasione che Bisagno ha conosciuto Marco?
[NOTE]
[32] Franco Anselmi (1915-1945); nato a Milano, ufficiale dell’Aeronautica militare, all’armistizio si trovò all’aeroporto di Cameri, presso Novara, dove si sottrasse alla cattura dopo che il comandante del campo, tenente colonnello Alberto Ferrario (genovese, n. 1904), si tolse la vita per non consegnarsi ai tedeschi. Anselmi raggiunse Dernice, in val Curone, luogo di villeggiatura della sorella, dove or­ganizzò uno dei primi gruppi partigiani dell’alessandrino, poi inquadrato nella divisione Cichéro nell’estate del 1944 con il nome di "battaglione Casalini”; in settembre fu nominato vice-comandante della brigata Oreste, in ottobre comandante della brigata Arzani, poi dispersa dal rastrellamento di dicembre. Arrestato a Milano il 30 gennaio 1945 ai funerali del padre, ritornò libero grazie ad uno scambio di prigionieri. Trasferito in Oltrepò pavese, fu capo di stato maggiore della divisione Gramsci, alla testa della quale il 26 aprile 1945 entrò a Casteggio, dove rimase ucciso nel corso dei combattimenti.
[33] Eliseo Cavecchia (1914-1969), di San Quirico, in val Polcevera; comandante di un distaccamento della banda di "Marco”.
[34] La militarizzazione della manodopera interessò numerosi stabilimenti industriali liguri, fra cui il Cantiere Navale di Riva.

Manlio Calegari, Intervista a Stefano Malatesta “Croce” (realizzata nella sua abitazione di Arma di Taggia il 3 agosto 1995, presente Giambattista Lazagna “Carlo”), Archivio della Divisione Partigiana “Coduri”

I repubblichini di Salò rientravano in fabbrica più rabbiosi ed arroganti che mai e per molti lavoratori fu giocoforza allontanarsi anche dalle loro case. Su consiglio di “Luigi” papà andò a lavorare per l’organizzazione TODT che assumeva personale per costruire opere di fortificazione sulla riviera e assieme a lui si trovava anche Ghirelli, il marito della Gigia.
Lavorarono per un po’ di tempo a Ventimiglia abbastanza tranquilli mentre a Genova l’organizzazione clandestina aumentava. La polizia fascista e la squadra politica di Veneziani cominciava ad infierire (infliggere) duri colpi, tutti i vecchi antifascisti erano ricercati e sorvegliati. Temendo di essere individuati dovettero quindi lasciare quel lavoro. Tornarono quindi a Genova dove Ghirelli fu arrestato insieme alla Gigia e dovettero subire violenze, processo e campo di concentramento.
Appena arrivato a Genova papà si diresse verso la casa in corso Firenze dove mi ero trasferita con la moglie di Scappini, in quel momento la Clara era già nelle mani dei tedeschi e la nostra abitazione era piantonata da una decina di giorni dai poliziotti che speravano operare di sorpresa qualche altro arresto.
Manlio Calegari, Intervista alla partigiana Angela Berpi “Marietta”, div. Jori, VI Zona Liguria, Archivio della Divisione Partigiana “Coduri”

lunedì 17 giugno 2024

Tentai un esperimento nel mio dialetto ligure


... riprendiamo una dettagliata analisi dello studioso e giornalista Franco Onorati sull’interesse di Pasolini per i dialetti, tradotto in pionieristici studi nel campo della letteratura dialettale, tra cui anche gli interventi critici nelle iniziative di Mario dell’Arco, che fu  collaboratore del poeta di Casarsa per il volume del 1952 Poesia dialettale del Novecento (Guanda).
[...]
Presenze pasoliniane su “il Belli”
Come accennato, nel nome di Belli prende il via nel dicembre 1952, cioè stesso mese ed anno della più volte citata antologia dell’Arco-Pasolini, l’ennesima iniziativa dellarchiana: una rivista intitolata appunto “il Belli”, che nel fondo di apertura (anno I, n. 1, dicembre 1952) Trompeo definisce sinteticamente  “una rivista figlia delle Muse, che raccoglie il meglio della poesia in dialetto e il meglio della relativa critica letteraria”. Fin troppo evidente che tale impostazione valorizza il grande lavoro di preparazione che Pasolini e dell’Arco avevano affrontato per la loro antologia: quel lavoro prosegue sulla nuova testata e spalanca al lettore panorami di inaspettata vitalità e vastità del fenomeno dialettale, affrontati con metodo critico e filologico.
La rivista durerà quattro anni (dicembre 1952-novembre 1955)
[...]
Le risposte dei poeti
Premesso che le tre domande rivolte ai poeti erano
1.Perché scrivi in dialetto anziché nella lingua letteraria?
2.La tua poesia (secondo te) fa parte della letteratura italiana o di una letteratura regionale?
3.Supponi che ci siano delle speciali istanze di impegno sociale nell’uso del dialetto?
riproduco nell’ordine le risposte dei poeti
Il Belli Anno I, n.1 - dicembre 1952
[...]
Le tre domande sono a mio [Cesare Vivaldi] parere e per quanto mi riguarda così strettamente collegate che non posso non coordinarle in una unica risposta. Proprio la terza domanda infatti è quella che, almeno per il sottoscritto, fornisce la chiave della altre due. Né d’altra parte è possibile considerare il questionario che mi viene sottoposto come qualcosa volto ad un semplice soddisfacimento di curiosità, o come una indagine statistica cui si possa rispondere anche soltanto con affermazioni o negazioni, bensì come un serio invito ad una autocritica, nei limiti di spazio concessi, la più approfondita e serena possibile. Debbo premettere che la mia opera di scrittore in versi si è prevalentemente esplicata in “lingua” e con obiettivi spiccatamente “sociali”, nel senso preciso che a questo aggettivo si dà parlando della poesia del nostro Risorgimento o, per fare un esempio più alto, di quella di un Petofi. Ma poiché i risultati raggiunti erano molto lontani - a motivo della loro “aulicità” e della loro lontananza dalla vita popolare, dal linguaggio e dalla realtà popolari - dal soddisfarmi, e poiché capivo che il problema di un nuovo realismo non poteva essere affrontato che partendo ab imis (e cioè da un punto diverso di visuale, più concreto, più umile, se vogliamo, di fronte alle contraddizioni della realtà, colte non tanto nei loro “gesti”, e quindi nella loro “retorica”, ma nella loro “quotidianità”), mi accorsi che questo non avrebbe potuto avvenire se non a prezzo di un mutamento radicale, mutamento nel quale anche la questione del linguaggio si poneva in termini nuovi.
Ciò avvenne nel 1951, ed appunto in quell’anno tentai un esperimento (lo chiamo così perché fallito nei suoi scopi principali) nel mio dialetto ligure. Furono otto poesie che pubblicai in volume nello stesso 1951 e che, prescindendo da ogni valutazione estetica, non portarono a grandi risultati. Anziché un approfondimento del linguaggio in senso popolare non ne sortì infatti che una serie di figure e paesaggi della nostalgia. In altri termini il poeta, anziché dominare il linguaggio dell’infanzia, ne era stato dominato. La cosa fu molto chiara quando, scrivendo nuovamente in “lingua”, mi avvidi di ricadere nei vecchi difetti. Ed oggi, sulle soglie del 1953 il problema è  sostanzialmente rimasto nei suoi vecchi termini. Come risolverlo non posso dire perché io stesso lo ignoro. Ma se può interessare dirò che dopo la già fatta esperienza, mi propongo di tornare, con diverso impegno, all’uso del dialetto.
Ma con ciò mi avvedo di aver risposto alle due domande principali, la prima e la terza, e non alla seconda. Dal tenore del mio scritto penso però che i lettori non dureranno fatica a trovare la risposta mancante; comunque, per risparmiare loro una fatica, dirò che considero anche quanto ho scritto in dialetto come facente parte non di una letteratura regionale ma della letteratura nazionale, dato che non può essere dissociato dal complesso della mia opera quanto occorre  al suo divenire.
Cesare Vivaldi
[...]
Franco Onorati, Pasolini dialettologo, Centro Studi Pier Paolo Pasolini, 4 gennaio 2015


Se Delfini non trova posto tra gli umoristi, il suo nome è però incluso pochi anni dopo nell’antologia "Poesia satirica nell’Italia di oggi", a cura di Cesare Vivaldi, Guanda, Parma, 1964. Nella sua introduzione, Vivaldi non manca di esprimere le ben note perplessità sullo stile di Delfini, la cui pagina scritta «spesso, non è che immediato sfogo sentimentale, letterariamente sordo». Sottolinea tuttavia come «nonostante i loro limiti le "Poesie della fine del mondo" sono state però, a mio avviso, un caso letterario non abbastanza valutato dalla critica; e la rovente materia cara all’ultimo Delfini (l’insulto, la scatologia, perfino la coprofilia) in parecchi versi si trasfigura, si schiarisce in una sorta di stralunata, lucente fissità».
Sempre nella prefazione, Vivaldi ci tiene ringraziare Giambattista Vicari, sottolineando come «senza la consultazione assidua delle annate del suo ‘Caffè’ l’antologia non avrebbe potuto essere compilata» (p. XXVIII).
Anna Palumbo, «Quanto conta la memoria nella storia». Antonio Delfini 1951-1963, Tesi di perfezionamento, Scuola Normale Superiore di Pisa, Anno accademico 2021-2022

mercoledì 5 giugno 2024

Fucilati il giorno successivo a Velo d’Astico


La valle dell’Astico costituisce una delle vallate prealpine nella parte nord-occidentale della provincia di Vicenza; essa è attraversata dal fiume che le conferisce il nome, fiume che nasce in Trentino per poi proseguire il suo corso in territorio vicentino. La valle separa l’Altopiano dei Sette Comuni e quello di Tonezza del Cimone ed è accessibile dalla zona in cui incrocia la valle del Posina, tra Piovene Rocchette e Caltrano. Durante il secondo conflitto mondiale la Val d’Astico rappresentava uno dei passaggi preferenziali per l’eventuale ritirata tedesca dal territorio veneto. Essa era sorvegliata dal forte di Casa Ratti e da quello di Punta Corbin; la popolazione locale venne reclutata principalmente nelle formazioni alpine, seguendo l’idea che per una difesa in quota fossero necessarie persone abituate a vivere e a muoversi in territorio montuoso. Spesso, questa dottrina faceva si che gli individui reclutati prestassero servizio nella stessa zona d’origine <208.
Con l’arrivo del 1943 le conseguenze dell’armistizio e dell’istituzione della RSI cominciarono a pesare sulla popolazione locale che, probabilmente a causa della vicinanza con la zona di Schio, era attraversata da un forte sentimento antifascista. Come per l’Altopiano di Asiago e il Pasubio, anche nella Val d’Astico cominciarono a formarsi gruppi di resistenza armata, soprattutto garibaldini, che iniziarono ad effettuare azioni violente nella zona di Arsiero. Nei primi mesi del 1944 la “Garemi” costituì un distaccamento che cominciò ad operare tra il confine occidentale dell’Altopiano di Asiago e la Val d’Astico: il Battaglione “Pretto”, guidato da Giovanni Garbin detto “Marte”. Verso la metà dell’anno la zona venne considerata “infestata” dai partigiani e sia il 19 che il 21 maggio avvennero dei rastrellamenti <209. Il capo della provincia cominciò ad invitare le autorità periferiche a fare opera di dissuasione verso la popolazione civile rispetto al prestare aiuto alle formazioni partigiane:
«A seguito dell’attività svolta da gruppi di ribelli, perturbatori dell’ordine e della rinascita nazionale ritengo opportuno far presente che è dovere di tutti i cittadini di non cooperare a tale forma di attività e che tutti devono essere a conoscenza che concedere in qualsiasi forma aiuto ai ribelli è grave delitto severamente punito.» <210
Da quel che traspare le autorità locali non possedevano le risorse necessarie per contenere la guerriglia e questi documenti passavano agli atti nel giro di pochissimo tempo; essi rappresentano un’importante spia del morale della popolazione civile e delle difficoltà economiche che, spesso, sfociavano in manifestazioni vere e proprie <211.
L’attacco partigiano alla Scuola Allievi Ufficiali di Tonezza <212, come abbiamo già visto, segnò un inasprimento della lotta tra occupanti e partigiani ma vide la GNR abbandonare la Val d’Astico che, per un breve periodo, poté considerarsi quasi una “zona libera”. Nell’estate del 1944 l’avanzata degli alleati venne arrestata lungo la “Linea Gotica”, nel nord del paese venivano affrettate le opere di fortificazione della “Linea Blu” lungo il confine tedesco. Nella zona di Arsiero i cantieri apparvero già nel marzo del 1944 ma vennero ampliati a luglio; il piccolo paese divenne la sede della direzione dei lavori tra la Val d’Astico e l’Altopiano di Asiago <213. Lo stesso accadde anche nei comuni di Chiuppano e di Caltrano dove possiamo trovare le direttive per lo sfruttamento della popolazione, risalenti all’agosto del 1944:
«Per misure di carattere precauzione, inerenti allo stato di guerra, saranno eseguiti nella provincia di Vicenza alcuni lavori che richiederanno l’impiego di manodopera. Tale manodopera dovrà essere fornita anche dal Comune di Chiuppano con il reclutamento degli uomini compresi tra i quattordici e sessant’anni di età. Il periodo del reclutamento avrà la durata di tre o quattro settimane, durante le quali, gli interessati, nelle zone di impiego, saranno sistemati in appositi campi di lavoro, dove riceveranno ogni assistenza da parte delle autorità germaniche.» <214
Nel settembre del 1944 i notiziari della GNR riportarono che il giorno 6 un Maggiore della Polizia veniva colpito da raffiche di mitragliatori, mentre usciva di casa, rimanendo ucciso; a causa di questo avvenimento causò un’azione di rastrellamento immediata che portava all’arresto dei sicari, facenti parte di una banda che operava tra il Tretto e Thiene. Due renitenti trovati in possesso di armi vennero fucilati il giorno successivo a Velo d’Astico <215. Dove erano presenti i cantieri per i lavori di fortificazione vi erano dei presidi armati che comprendevano anche le truppe dell’Ost-Bataillon 263, specializzate nella lotta antipartigiana <216.
Durante il mese di agosto del 1944 la zona venne interessata dalle azioni preparatorie dell’Operazione “Belvedere”; a Pedescala una truppa di circa quaranta uomini irruppe nel paese dove percossero violentemente e minacciarono di morte un presunto partigiano. Dopo gli avvenimenti di Malga Zonta vennero fatti tre prigionieri che vennero giustiziati nel cimitero di Arsiero <217. L’inasprimento delle azioni antipartigiane non riuscì a cancellare la loro presenza dalla zona e, anzi, alla fine dell’estate la loro attività aumentò; nel mese di luglio il Capo della Provincia, Gen. Edgardo Preti, scrive al Capo della Polizia quanto segue:
«[…] si è accentuato lo stato di smarrimento della popolazione. L’argomento della diffusa preoccupazione è dato maggiormente dalle notizie di moti interni, insurrezioni di ribelli, rapine, prelevamenti di persone, anche donne e bambini, di cui spesso si ignora la sorte, incendi di abitazioni ed intere contrade, severità di rappresaglie di cui rimangono vittime spesso estranei e innocenti. […] Anche nel decorso mese le bande di ribelli si sono manifestate molto attive nelle zone montane e pedemontane della provincia […]. Numerosi atti di sabotaggio, crescente il numero degli atti di rapine e violenze contro le persone. […] Sono stati attaccati e sopraffatti dai ribelli in numero preponderante tre distaccamenti della GNR nella zona montana. […] Durante il mese in corso si sono avuti numerosi delitti contro le persone e numerosissimi contro la proprietà.» <218
La situazione continuò a peggiorare con l’aumento dei bandi di leva dell’esercito di Salò e della precettazione al lavoro; nell’ottobre del 1944 lo stesso comandante del presidio tedesco a Thiene riconosceva il fatto che la popolazione continuava ad appoggiare e tollerare le azioni dei partigiani e che non vi era alcun interesse rispetto alle uccisioni di tedeschi o fascisti; nonostante gli inviti alla collaborazione e le minacce di rappresaglia nessuno sembrava dare supporto agli occupanti per la caccia ai ribelli e, nelle poche occasioni in cui esso vi era, arrivava con ritardo tale da risultare inutile <219.
[NOTE]
208 Residori, L’ultima valle, p. 39.
209 Ivi, p. 85.
210 Kozlovic, Chiuppano e Caltrano nella repubblica di Salò 1943-1945, p. 47.
211 Ivi, pp. 44-45.
212 Citato in Franzina, La provincia più agitata, p. 103.
213 Residori, L’ultima valle, pp. 135-136.
214 Kozlovic, Chiuppano e Caltrano nella repubblica di Salò 1943-1945, pp. 58-59.
215 Citato in Franzina, La provincia più agitata, pp. 121-122.
216 Residori, L’ultima valle, p. 140.
217 Gardumi, Feuer! I grandi rastrellamenti antipartigiani dell’estate 1944 tra Veneto e Trentino, pp. 50-51.
218 Citato in Franzina, La provincia più agitata, pp. 213-214.
219 Kozlovic, Chiuppano e Caltrano nella repubblica di Salò 1943-1945, pp. 66-67.
Matteo Ridolfi, La guerra civile nel vicentino nord-occidentale. Stragi ed eccidi dalla Val Chiampo alla Val d’Astico (1943-1945), Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2022-2023

martedì 28 maggio 2024

Il paesaggio terrazzato delle Cinque Terre e il progetto Stonewallsforlife

Fig. 15: immagine fotografica dell’anfiteatro terrazzato che sovrasta il paese di Manarola. Fonte: questa. Immagine qui ripresa da Erica Lapperier, Op. cit. infra

Come affermato nel corso del capitolo precedente, il Parco Nazionale delle Cinque Terre rappresenta una realtà singolare plasmata dall’intervento antropico poiché non è solo la più piccola delle Aree Protette presenti sul territorio italiano ma anche la più densamente popolata. In particolare, il valore paesaggistico di questa zona risiede proprio nel gioco di equilibri che si è creato tra i fattori naturali e quelli artificiali, poiché è grazie al duro lavoro umano che questo territorio ha potuto ottenere nuova vita e vedere sorgere, laddove prima si trovavano solamente ripidi pendii coperti da una distesa boschiva, cinque magnifici borghi e un’intricata architettura di terrazzamenti volti a sorreggere le nuove terre coltivabili.
Nelle Cinque Terre, di fatto, la popolazione ha tramandato per secoli i saperi tradizionali relativi ai giusti metodi di coltura e manutenzione dei terreni e, facendo ciò, è stata in grado di conservare fino ai giorni nostri il paesaggio e gli ecosistemi ivi presenti. Tuttavia a partire dalla da fine anni ’80 la zona in esame ha conosciuto un incremento notevole delle presenze turistiche, e ciò ha avuto conseguenze considerevoli non solo a livello paesaggistico ma anche per quanto riguarda il cambiamento del tessuto sociale locale e il conseguente allontanamento dai valori tradizionali (Storti, 2012). Innanzitutto, per accogliere la crescente mole di turisti che ogni anno sceglievano questa piccola fascia costiera come meta per le loro vacanze, è stato necessario ampliare l’offerta turistica e ricettiva disponibile in loco.
L’aumento della presenza turistica nell’area ha comportato anche un cambiamento per quanto riguarda il tessuto socio-economico locale. In particolare, è importante mettere in luce che la popolazione autoctona un tempo era formata principalmente da contadini e pescatori; con l’avvento di nuove opportunità di lavoro prima nelle province limitrofe e poi direttamente in loco grazie alla creazione di nuove imprese turistiche, la maggior parte della comunità decise di dedicarsi a nuovi impieghi molto più redditizi. Questo fenomeno di allontanamento dalla vita agricola in favore delle attività di ricezione e accoglienza ha causato in poco tempo un impatto negativo sul fragile equilibrio locale. La popolazione vedendo infatti nuove opportunità di lavoro in settori più vantaggiosi sia dal punto di vista economico che da quello della forza fisica necessaria, iniziò lentamente ad abbandonare i terreni agricoli coltivati per dedicarsi a queste nuove occupazioni emergenti.
L’attività agricola svolta in questo luogo può essere definita come “multifunzionale” <90 o polifunzionale (Frappaz et al., 2008) poiché essa non veniva messa in pratica solamente per semplici finalità produttive ma, al contrario, svolgeva un importante ruolo in relazione al mantenimento della stabilità dei versanti e alla conservazione del paesaggio circostante.
L’allontanamento da questo stile di vita tradizionale fece sì che le lunghe fasce di terra sorrette dalle complesse strutture di muretti a secco venissero abbandonate e, di conseguenza, nuovamente occupate dalla vegetazione infestante che le popolazioni locali erano riusciti a domare con grande fatica. La rinaturalizzazione dei versanti, ovvero la crescita di vegetazione spontanea sui pendii interessati, è però un processo piuttosto lungo e complesso che è necessario monitorare e controllare con attenzione poiché, durante il periodo di assestamento che porta poi alla creazione di nuovi equilibri in sintonia con gli ecosistemi locali, si assiste di norma ad una fase caratterizzata da un alto livello di instabilità in cui il rischio di dissesto idrogeologico aumenta notevolmente (Gilardi, 2015).
Nelle Cinque Terre la quasi totale cessazione dell’attività agricola e il conseguente deterioramento del territorio hanno danneggiato non solo la stabilità del suolo, aumentando per l’appunto il rischio di dissesto idrogeologico, frane o smottamenti, ma anche il tipico paesaggio fortemente antropizzato che ha reso questo luogo una meta così amata a livello nazionale e internazionale. Inoltre, la trasformazione di questi luoghi da borghi fondati sull’economia agraria e abitati quasi esclusivamente da pescatori e agricoltori a mete turistiche famose in tutto il mondo e residenza temporanea di molti turisti facoltosi ha causato anche una progressiva perdita dei valori e del legame che univa le comunità locali con il territorio. «Tutto ciò ha dato il via a un processo, ancora in corso, di indebolimento dell’identità territoriale della comunità locale, dovuto principalmente allo snaturamento del rapporto comunità territorio e a una diffusa trasformazione della percezione del paesaggio» (ibid., pg.56).
Possiamo dunque comprendere che gli organi gestionali del Parco, negli ultimi anni, sono stati posti di fronte ad una complessa sfida, ovvero quella di identificare le tappe necessarie per l’avviamento di un percorso di ripristino della rete di terrazzamenti composta da circa 6.72991 km di muretti a secco, di rafforzamento dei valori tradizionali locali, di corretta condivisione di questi ultimi con il pubblico e di sviluppo di percorsi turistici sostenibili e rispettosi verso la fragile locale. È per questa ragione che a partire dal 2019 l’Ente Parco Nazionale delle Cinque Terre è divenuto il capofila dell’innovativo progetto Stonewallsforlife volto per l’appunto alla rinascita del territorio terrazzato dell’area con l’obiettivo di incentivare la produzione agricola locale migliorando allo stesso tempo la resilienza di questo territorio ad eventi meteorologici estremi e sempre più frequenti.
Dato il ruolo attivo e l’esperienza ventennale dell’Ente Parco nella tutela e salvaguardia di questo fragile territorio, esso ha assunto il ruolo di guida nella gestione delle attività tecniche e finanziarie del progetto stesso. Come è stato affermato nel corso di questo capitolo però, la buona riuscita delle azioni di ripristino e conservazione di questi territori è strettamente correlata al grado di cooperazione a diversi livelli della scala istituzionale nazionale ed internazionale e dei tessuti sociali locali ed esterni; per questa ragione, associazioni ed istituzioni competenti in diversi ambiti scientifici ed economici uniscono le loro forze per concorrere all’ottenimento degli obiettivi comuni del progetto.
L’Ente Parco funge per l’appunto da partner principale per la conduzione delle operazioni tecniche e degli aspetti legati alla sovvenzione del progetto; esperti del DISTAV, Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita dell’Università degli Studi di Genova hanno il compito di effettuare tutti i rilevamenti scientifici in ogni fase del progetto concernenti sia le caratteristiche proprie del terreno che le dinamiche che interessano specificatamente un determinato manufatto murario. L’Università di Genova è inoltre il partner incaricato di monitorare l’evolversi del progetto e di analizzare i risultati ottenuti. Un ruolo fondamentale per la riuscita di Stonewalls è rappresentato dalle azioni portate avanti dalla Fondazione Manarola, Onlus che sin dal 2014 si impegna nella raccolta dei fondi necessari alla ricostruzione del paesaggio terrazzato di Manarola e alla rimessa a coltura dei versanti <92. Ancora prima del lancio del progetto, la Fondazione si era impegnata nell’individuare attraverso le mappe catastali i proprietari dei terreni posti all’interno dell’“Anfiteatro dei Giganti” di Manarola (Fig. 15) (Raso E. et al., 2020) con l’obiettivo di proporgli contratti di acquisto, locazione o comodato che permettessero l’avvio di interventi di ripristino e manutenzione del sistema di muri a secco ormai in gran parte abbandonati e deteriorati.
L’obiettivo di Stonewalls è quello di ripristinare circa 6 ettari <93 di terreno e la Fondazione è stata in grado, prima con le sue forze e poi con l’aiuto della notorietà del progetto, di ottenere fino ad ora un totale di circa 3 ettari, la metà di quelli previsti <94. Dopo aver acquisito o affittato per prezzo irrisorio i terreni ormai in abbandono e aver riparato i terrazzamenti ivi presenti, il fine della Fondazione è quello di affittare i terreni a lungo termine e allo stesso prezzo ad aziende agricole o agricoltori locali che devono dimostrare di essere in grado di mantenerli uno stato di conservazione idoneo. La Fondazione svolge quindi un ruolo fondamentale nel fare da intermediario tra i proprietari dei lotti di terra, il partenariato del progetto e le aziende agricole che in futuro coltiveranno e manterranno questi terreni. È però importante sottolineare come l’adesione a questo progetto iniziato dalla Fondazione sia aumentata notevolmente a seguito della creazione di Stonewallsforlife; le attività di divulgazione e comunicazione legate al progetto europeo sono infatti state in grado di far comprendere ai cittadini l’importanza della buona riuscita del progetto per i benefici di tipo ambientale, economico e sociale che esso si prefigge di realizzare e hanno quindi facilitato alcuni processi di acquisizione dei terreni. Il partner incaricato della direzione delle attività di comunicazione rivolte a tutti i portatori di interesse è Legambiente che svolge inoltre un ruolo importante nel supporto della gestione amministrativa e finanziaria del progetto. L’onlus si occupa infatti di supervisionare e controllare le rendicontazioni contabili, di vigilare sul rispetto delle norme previste dal bando del programma LIFE e di redigere e condividere con tutti i membri del partenariato una panoramica delle spese che dovranno essere sostenute. Legambiente ricopre quindi il ruolo di tramite tra i membri del partenariato, il pubblico e i membri del Comitato consultivo <95.
Tra gli altri membri del progetto possiamo individuare il Gruppo ITRB, una società di ingegneria internazionale con esperienza su temi legati alla sostenibilità e alla gestione di programmi dell’Unione Europea. Stonewallsforlife è infatti un progetto cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma LIFE “Mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici <96” con un budget complessivo previsto di circa € 3.7 milioni, di cui circa 2 milioni provengono direttamente da finanziamenti dell’UE mentre il restante 45% del totale viene cofinanziato da parte dei partner <97. L’Ente Parco con il supporto e la supervisione di Legambiente si occupa della distribuzione delle quote di fondi spettanti ai diversi soggetti del partenariato.
Infine, un’istituzione internazionale e partner del progetto che svolge un ruolo fondamentale per gli obiettivi di replicazione del progetto è il DIBA (Diputació de Barcelona, Àrea d’Infraestructures i Espais Naturals), il Consiglio Provinciale di Barcellona. Uno degli obiettivi del progetto è infatti quello di individuare almeno tre siti con condizioni simili in cui sia possibile applicare le conoscenze acquisite per poterle adattare e trasferire in altri luoghi. È prevista infatti l’identificazione di due siti all’interno dell’area protetta delle Cinque Terre, uno dei quali è l’area di Tramonti nella parte orientale del Parco, e di un luogo di trasferibilità delle conoscenze acquisite in Catalogna, in particolare nell’area di Can Grau (Mandarino et al. 2021). Gli esiti dell’applicazione del progetto in queste differenti zone di intervento fungeranno da base per la stesura di un manuale volto all’analisi dell’utilizzo dei
terrazzamenti di muri a secco come strumenti contro la lotta ai cambiamenti climatici; si presenteranno infatti piani di adattamento del territorio terrazzato che dimostreranno come la riconversione dei versanti terrazzati e la loro manutenzione tramite tecniche tradizionali possano implementare la resistenza del territorio ad eventi meteorologici estremi. Il fine ultimo delle attività di divulgazione dei risultati sarà quello di poter utilizzare l’esperienza acquisita con l’ottica di riprodurre il progetto in altri territori dell’Unione Europea e di tutto il mondo che presentano condizioni e necessità differenti.
Il progetto Stonewalls è stato presentato per la prima volta nel novembre 2019 nel paese di Vernazza alla presenza non solo dei membri attivi del partenariato, ma anche di molti cittadini, imprenditori ed associazioni locali interessanti alle potenzialità e ai benefici che il progetto prometteva di apportare al territorio in oggetto. La pandemia ha causato alcuni rallentamenti nell’evolversi del progetto a causa dell’impossibilità di riunirsi in sedute collettive volte alla definizione dei piani di intervento e anche in conseguenza dell’interdizione nei mesi di lockdown di poter effettuare sopralluoghi e rilevamenti sul campo. Nonostante questi impedimenti però i partner hanno potuto riunirsi in sessioni telematiche per definire gli step necessari all’avvio del progetto e da giugno 2020 hanno preso il via le operazioni di studio sul campo riguardanti lo stato di conservazione dei manufatti murari e le migliori tecniche di intervento per procedere con la ricostruzione di essi. A dicembre 2021 sono state avviate nel primo lotto del sito pilota all’interno dell’anfiteatro di Manarola le operazioni volte alla rimozione della vegetazione infestante dai pendii, in modo tale da poter riscoprire i muri scomparsi da decenni e in parte gravemente compromessi; dai rilievi effettuati è emerso infatti che circa il 30% dei manufatti versava in una condizione di degrado tale da necessitare interventi di ricostruzione e in alcuni casi, specialmente nelle zone caratterizzate da una maggiore verticalità e pertanto abbandonate da più tempo, i danni strutturali causati dall’erosione rendevano i lavori di recupero molto costosi e difficoltosi e per questa ragione si è resa necessaria la demolizione totale del muro e la sua ricostruzione integrale <98. Uno dei compiti dei ricercatori e dei geologi incaricati di seguire lo sviluppo del progetto è anche quello di identificare i metodi costruttivi tradizionali più idonei per ricostruire le porzioni di manufatti crollate e comprendere in che modo queste ultime possano essere adattate ed innovate senza però perdere il loro originario legame con la cultura locale. Nelle azioni di costruzioni dei muri uno degli aspetti che sicuramente ha subito un cambiamento radicale rispetto alle pratiche originali di creazione dei terrazzamenti è quello riguardante all’approvvigionamento e al trasporto dei materiali in loco. Nell’antichità le pietre utilizzate per la costruzione dei muri venivano infatti reperite direttamente in loco ma oggigiorno molti dei massi disponibili versano in uno stato di conservazione che non li rende idonei all’utilizzo; per questa ragione, i nuovi materiali vengono acquistati in cave situate in Liguria ed Emilia-Romagna, a seguito di indagini che dimostrino la loro idoneità per il luogo <99. Per quanto riguarda le operazioni di trasporto, come affermato esse hanno subito un drastico cambiamento poiché mentre un tempo i materiali venivano trasferiti tra i versanti direttamente dagli agricoltori locali con un dispendio ingente di forza e fatica fisica, però nell’ambito delle azioni di ripristino odierne essi vengono al contrario portati in loco grazie all’ausilio di elicotteri che rendono le operazioni più sicure e repentine.
I ricercatori hanno inoltre il compito di individuare le tecniche agricole di coltura che potranno essere utilizzate sui versanti a seguito del loro affidamento alla cura delle aziende agricole che provvederanno con l’impianto di coltivazioni a vite; anche in questo caso le tecniche tradizionali di coltura a pergola verranno integrate o sostituite da approcci innovativi, più sostenibili dal punto di vista della fatica fisica e più adattivi rispetto alle problematiche legate ai cambiamenti climatici <100. Per monitorare la risposta dei versanti e dei manufatti murari agli eventi atmosferici che si verificano sul territorio, sono state installate quattro stazioni multiparametriche in aree che versano in circostanze differenti in modo tale da poter comprendere come terrazzamenti che presentano stati di conservazione e tecniche di costruzione diversi possano reagire agli stessi fenomeni climatici. In particolare, i ricercatori dell’Università di Genova avevano già raccolto dati necessari a stabilire che i versanti abbandonati da più tempo sono quelli a maggiore rischio di dissesto idrogeologico, ma questi nuovi rilevamenti sono volti a comprendere quali tecniche di costruzione e manutenzione possano essere più efficaci nel mitigare questo rischio e nel migliorare la resilienza dei versanti <101.

[NOTE]
90 Fonte: intervento di Vivaldi M. all’interno del podcast “Voci del Parco” Anteprima, disponibile online al seguente link: https://open.spotify.com/show/1fTppDC2uFPiTEG2uUjxuR
91 Fonte: www.parconazionale5terre.it/pagina.php?id=4#:~:text=Il%20Parco%20nazionale%20nasce%20come,dal%20duro%20lavoro%20dell'uomo.
92 Fonte: https://fondazionemanarola.org/la-fondazione/
93 LIFE Project, STONEWALLSFORLIFE, (2022) Mid-term, Covering the project activities from 01/07/201993 to 31/01/2022.
94 Fonte: Schiaroli L, Una caccia al tesoro tra i muri a secco di Manarola, 2022.
95 Membri del comitato connsultivo del progetto Stonewallsforlife: Associazione Agricoltori Monterosso, Associazione Per Tramonti, Salviamo Vernazza, ABPS Associazione Les Artisans Bâtisseurs en Pierres Sèches (Francia), ITLA Alleanza Internazionale per i Paesaggi Terrazzati, SPS Société scientifique internationale pour l'étude pluridisciplinaire de la Pierre Sèche (Francia), Unitat de Pedra en Sec i Senderisme - Palma de Mallorca, Illes Balears (Spagna), Institut d'Estudis Penedesencs (Spagna), APSAT Associaciò per la Pedra Seca i l'Arquitectura Tradicional (Catalunya - Spagna) (LIFE Project, STONEWALLSFORLIFE, 2022).
96 LIFE è un programma di finanziamento comunitario nato nel 1992 per sostenere le attività volte all’applicazione e all’implementazione delle politiche comunitarie in materia ambientale e aiutare pertanto le azioni di conservazione e salvaguardia degli habita. Il programma viene gestito dalla Commissione Europea che si occupa dell’emanazione di Bandi periodici, della valutazione e approvazione delle domande di candidatura, dell’erogazione dei fondi e del monitoraggio costante dei progetti. Fonte: https://www.mase.gov.it/pagina/il-nuovo-programma-l-ambiente-e-l-azione-il-clima-life-2021-2027
97 Fonte: intervento di Marchese F. all’interno del Podcast “Voci del Parco” Episodio 12/11/2022, disponibile online al seguente link: https://open.spotify.com/show/1fTppDC2uFPiTEG2uUjxuR.
98 Fonte: Schiaroli L., (2022), Alla scoperta degli antichi muri.
99 Fonte: ibid.
100 Fonte: LIFE Project, STONEWALLSFORLIFE, (2022) Mid-term, Covering the project activities from 01/07/2019100 to 31/01/2022.
101 Schiaroli L., (2022), Il futuro del paesaggio terrazzato si sperimenta alle Cinque Terre.

Erica Lapperier, L’importanza del lavoro umano sul territorio: analisi di progetti di valorizzazione del Parco Nazionale delle Cinque Terre, Tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, Anno accademico 2021-2022

domenica 19 maggio 2024

Città colpite dalla guerra

Milano: Arco della Pace all'inizio di Corso Sempione

Alla tipologia della manmade atopia, ovvero all’invivibilità creata per opera dell’uomo, si può accostare la maggior parte delle ambientazioni della guerra: sono luoghi destituiti dal loro passato, dalla loro primaria funzionalità, spazi privati dalla loro essenza: l’asfalto delle strade è «qua e là sfondato, sdrucito dappertutto» (QP [Una questione privata di Beppe Fenoglio] 4), i portici dei posti di guardia sono «semidiroccati» (QP 55), le baracche «miserabili e sporche» (AVM [L’Agnese va a morire di Renata Viganò] 123), le case dei villaggi e delle città «bucate, frantumate, corrose dalle bombe e dai colpi d’artiglieria» (AVM 206), le abitazioni ridotte a «spettri di case» (UN [Uomini e no di Elio Vittorini] 23), con delle finestre «semiaccecate da assiti» (QP 84) oppure «slabbrate e quasi tutte mascherate da assiti fradici per le intemperie» (QP 64). In alcuni casi, i romanzi presuppongono un paesaggio presentato nella sua stiuation faite, a cui spetta il ruolo di mettere in evidenza la distruzione bellica sin dall’inizio della narrazione, altre volte, invece, l’instancabile traduzione dei luoghi in spazi sprovvisti della loro identità, in paesaggi rasi al suolo e riproposti solamente nella loro qualità materiale ormai inutile, viene illustrati in presa diretta. Per esempio, la Milano vittoriniana è già dall’apertura del romanzo interamente costruita sull’estetica della lacuna: "(...) il deserto era come non era mai stato in nessun luogo del mondo. Non era come in Africa, nemmeno come in Australia, non era né di sabbia, né di pietre, e tuttavia era com’è in tutto il mondo. Era com’è anche in mezzo a una camera. Un uomo entra. Ed entra nel deserto. Enne 2 vide ch’era il deserto, lo attraversò, e pensava a Berta che non abitava a Milano, andò fino in fondo al corso Sempione dov’era la sua casa". (UN 21)
Analogamente, il protagonista fenogliano, nel suo percorso per le Langhe, soffermandosi a studiare la zona per mettere in atto con successo il piano della sua azione, nell’osservazione dei paesi constata come tratto principale del nuovo paesaggio bellico il vuoto di quella “terra di nessuno” installatasi all’interno dei luoghi abitati: "Da un promontorio della collina Milton guardava giù a Santo Stefano. Il grosso paese giaceva deserto e muto, sebbene già interamente sveglio, come dichiaravano i comignoli che fumavano bianco e denso. Deserto era pure il lungo rettilineo che collegava il paese alla stazione ferroviaria, e vuota, dalla parte opposta, la diritta strada per Canelli, tutta visibile fin oltre il ponte metallico, fino allo spigolo della collina che copriva Canelli. (…) Non vedeva nessuno, non una vecchia né un bambino, alle finestre o sui ballatoi posteriori delle case sopraelevate che da quella parte chiudevano la piazza maggiore del paese". (QP 75-77)
La città vecchia [di Sanremo] lasciata alle spalle da parte di Pin, invece, anche se ugualmente soggetta a uno svuotamento, subisce una trasformazione graduale: "Pin sente la terra vibrare sotto il rombo e la minaccia delle tonnellate di bombe appese che trasmigrano sopra la sua testa. La Città Vecchia in quel momento si sta svuotando e la povera gente s’accalca nella fanghiglia della galleria. (…) Pin vede il Dritto che s’è messo su un’altura e guarda nella gola della valle con il binocolo. Lo raggiunge. (…) Mi fai vedere anche a me, poi, Dritto? - dice Pin. Te’, - fa il Dritto, e gli passa il binocolo. Nella confusione di colori delle lenti, a poco a poco appare la cresta delle ultime montagne prima del mare e un grande fumo biancastro che s’alza. Altri tonfi, laggiù: il bombardamento continua". (SNR [Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino]) Se all’inizio della vicenda, la città vecchia conserva una sua dinamicità nell’«eco di richiami e d’insulti» (SNR 3), nei raggi di sole che si incrociano con i «cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali» (SNR 3), nella riapparizione finale si profila come un luogo assente, come una «città proibita». L’ultimo capitolo de "Il Sentiero" si apre con Pin «seduto sulla cresta della montagna, solo» (SNR 139), mentre contempla le «vallate, fin giù nel fondo dove scorrono neri fiumi» (SNR 139) e le «lunghe nuvole (che) cancellano i paesi spersi e gli alberi» (SNR 139). Ogni idea di ritorno al passato del carruggio gli viene negata proprio a causa dell’inesistenza dei luoghi del passato: l’osteria è svuotata a causa della retata durante la quale tutti sono stati deportati o uccisi, la casa è disabitata perché la sorella si è trasferita all’hotel occupato dai tedeschi, mentre il vicolo «è deserto, come quando lui è venuto», con delle impannate delle botteghe chiuse e «a ridosso dei muri, antischegge di tavole e sacchi di terra» (SNR 144): "Pin è triste. (…) Pin vorrebbe essere con Pietromagro e riaprire la bottega nel carruggio. Ma il carruggio è deserto ormai, tutti sono scappati o prigionieri, o morti, e sua sorella, quella scimmia, va coi capitani". (SNR 132)
Il decadimento di ogni forma umana dell’abitare viene spesso illustrato anche al momento stesso in cui accade, cancellando non solo il passato collettivo di un popolo, ma anche quello privato dei singoli personaggi, sprovvisti in un attimo dalla propria dimora. Con una funzione formativa, quasi di rito di passaggio, sembra proporsi la perdita della dimora di Agnese del tutto distrutta dal fuoco e ridotta a un «mucchio di macerie nere» (AVM 176), distruggendo ogni residuo della vita della protagonista prima della sua definitiva entrata nel mondo della Resistenza. Walter, invece, uno dei compagni che operano tra le valli di Comacchio, diviene testimone diretto della perdita del proprio “luogo”: "Un mucchio di macerie tra l’orto e il frutteto. Dove erano state le belle camere e la grande cucina, il forno e il portico, non c’era più niente: in pezzi anche le pietre. Una linea di meno nel paesaggio, un vuoto che lo rendeva strano, sconosciuto, un posto cambiato. E un’altra famiglia che due ore prima aveva tante cose, adesso se ne andava a cercare un ricovero per la notte, con le mani vuote e il vestito che portava addosso; e contentarsi se erano tutti salvi". (AVM 116)
Tra le ambientazioni più importanti di questa manmade atopia, però, si collocano i luoghi più “stratificati” sul piano diacronico, come i luoghi pubblici delle città colpite dalla guerra, e soprattutto le loro piazze, irriconoscibili nel nuovo aspetto e, di frequente, dotate di una precisa funzionalità dal punto di vista del messaggio ideologico alla base dei romanzi. Il panorama bellico esposto nella sua invivibilità diviene al contempo significativo nella sua visibilità, poiché il guardare diventa imperativo, «un metodo d’indagine, un modo nuovo di guardare attorno a sé, di vedere i fatti e gli uomini e le cose non come proiezione di una particolare ideologia, ma come stimolo, semmai a una revisione di valori, a un approfondimento di temi, a una ulteriore indagine conoscitiva» (Melanco, 2005, p. 64). In quest’ottica si propone lo spazio di Largo Augusto di "Uomini e no", in cui l’egemonia della modalità visiva sulle altre percezioni sensoriali si coglie già dall’univoca direzione in cui si muove la folla, «tutta in un senso, tutta verso la piazza dov’è il monumento delle Cinque Giornate» (UN 82) e, soprattutto dall’insistenza sullo sguardo di Berta, divenuta protagonista del romanzo a partire dal LXII capitolo: "Scese, e camminava; guardava da ogni parte, e anche si voltava per guardare. (...) vide davanti a sé degli uomini fermi, con dei berretti strani e lunghi bastoni neri tenuti sulle braccia, come ne aveva veduti il giorno ch’era stata con Enne 2 in bicicletta, sul corso Sempione. (...) Scese allora dal marciapiede, si mise con la folla, passò davanti a quegli uomini, e guardava che cosa avessero che luccicava al sole sui berretti. Vide che avevano delle teste di morto in metallo bianco, il teschio con le tibie incrociate; ma vide anche che sul marciapiede, tra quegli uomini e altri più in fondo, stavano allineati come dei mucchietti di cenci, qualche mucchietto bianco, e qualche mucchietto invece scuro, di pantaloni, giacche, capotti: panni usati. Che cos’era? (...) Avrebbe voluto saperlo da qualcuno della folla, non vederlo da sé, e invece vide da sé, e vide che erano morti, cinque uomini allineati morti sul marciapiede (…)". (UN 93-94)
Ana Stefanovska, Lo spazio narrativo del neorealismo italiano, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2019