giovedì 5 settembre 2024

Programma ideologico e connotazione del MSI entro la destra neofascista


Il MSI, quale partito originatosi dalla costola della RSI, appare “chiaramente debitrice del fascismo repubblicano” <64, nella piena impossibilità di ripristinare il regime fascista del ventennio, dal quale si distacca anche nella denominazione, appellandosi come “movimento”. Tuttavia, nella sua configurazione, il MSI assurge a partito di massa, al pari di quello fascista, che si accresce utilizzando vari strumenti di propaganda (quale la stampa), raccogliendo un numero elevato di iscritti <65.
Esso desidera, quindi, oltrepassare la stretta e angusta nicchia della clandestinità, per raggiungere un ampio consenso popolare, tramutandosi, da “fenomeno di conventicole” in una “forza politica in grado di parlare a molti, se non a tutti” <66.
Il partito prendeva le mosse dalla consapevolezza che il Paese stesse attraversando una fase di crisi, al pari di ogni altro Stato immerso in uno scenario post-bellico, e necessitasse, quindi, di nuovi riferimenti politici che accompagnassero la ricostruzione, recuperando e valorizzando in una diversa luce gli ideali fascisti.
A questo proposito, giova ricordare le parole di Giorgio Almirante, il quale sosteneva: “Che vi sia, in genere una crisi di costume, una crisi morale e civile, prima ancora che politica, di tutto il mondo moderno, è ormai generale ammissione, è angoscia largamente sentita. Noi concepiamo il fascismo come possibilità di superare la crisi del mondo moderno, e nella organizzazione dello Stato, e nei rapporti sociali e nelle relazioni fra le Nazioni, e specificatamente nei compiti che la civiltà assegna all’ Europa e all’Italia” <67.
Il MSI si trovava immerso in un clima politico fondato sull’antifascismo; dunque, esso non avrebbe potuto avviare una politica strettamente aderente a quella del regime, bensì valorizzare quegli ideali a mezzo di un asserito rinnovamento, tale da attirare “consenso e di stabilire criteri di legittimità, e di discriminazione”, rispetto agli altri soggetti partitici, “riconosciuti” e ben identificabili dall’elettorato <68. La nuova manifestazione del fascismo si sarebbe così inserita nei ranghi della “destra”, determinando quella che, secondo alcuni, ha costituito un’“invasione” nell’area della legalità di un gruppo politico erede di un passato “illegale”, almeno alla luce dei crimini commessi dal regime <69.
Gli scopi perseguiti dal partito sono chiaramente enunciati nel relativo programma, composto da una serie di punti sintetici, ai quali era premesso un “Appello agli italiani”, di carattere esortativo, diretto all’ottenimento del consenso di tutti i nostalgici e dei lavoratori che avessero, tra i loro ideali, anche quello di difesa dalla patria, per riportare Roma “all’antica dignità calpestata dall’occupazione straniera e dal servilismo e dall’abiezione morale [...] dalla faziosità imperante, generatrice di scandali e di ruberie” <70.
Una sintesi di questo programma è delineata nell’articolo 2, in cui viene precisata anche la natura del MSI. Si tratta, invero, di “un movimento politico che ha lo scopo di difendere gli interessi e la dignità del popolo italiano, promuovendo tutte quelle iniziative intese ad affermare, difendere e realizzare con la collaborazione di tutti gli italiani”.
Il programma si fondava su alcuni concetti-cardine del neofascismo: la subordinazione della politica estera all’unione nazionale; il superamento della frammentazione territoriale e l’accentramento dei poteri; i limiti posti alle libertà individuali, come quella di espressione, anche a mezzo stampa, e di associazione, le quali non potevano svolgersi in modo contrario al buon costume <71.
Questo programma manifestava le caratteristiche di un partito, almeno apparentemente “ispirat[o] ad una concezione etica della vita, che ha lo scopo di difendere la dignità e gli interessi del popolo italiano e di attuare l’idea sociale nella ininterrotta continuità storica” <72.
Si tratta di un orientamento che venne propugnato durante i vari Congressi del partito, luogo privilegiato per l’elaborazione delle azioni da intraprendere e delle posizioni da assumere rispetto alle varie questioni di rilievo politico <73.
Emblematico appare il fatto che, nel corso del primo Congresso del MSI, svoltosi a Napoli nei giorni 27, 28 e 29 giugno 1948, il partito emanò alcune determinazioni, in forma di relazione, circa gli interventi proposti dal Governo. Esso si schierò contro l’istituzione di enti con competenza territoriale (nella specie, le Regioni), che avrebbe dovuto, secondo i missini, essere sottoposta al vaglio referendario (relazione sulla Politica interna e costituzionale). A latere, si collocava la relazione sulla Politica Estera, con la quale il MSI si opponeva ai Trattati di Parigi, ritenendo la sottoscrizione di tali accordi poco degna per la protezione dell’interesse del Paese, pur sconfitto dalla guerra.
Si trattava di rendere coerente quanto espresso nel programma del partito, il quale desiderava dare vita a un vero e proprio “movimento di consensi per la revisione degli accordi internazionali esistenti” <74 che superasse la logica dei “vinti” e dei “vincitori”.
Infine, con l’approvazione da parte del Comitato centrale della relazione in materia di Politica sociale ed economica venne esposta la posizione del MSI contraria al liberismo e favorevole al corporativismo, nonché alla nazionalizzazione delle imprese e, dunque, all’intervento dello Stato nell’economia <75.
Sotto l’aspetto della composizione e della membership, il MSI raccoglieva tanto le istanze dei militanti che costituivano la corrente rivoluzionaria della destra - avendo combattuto per una riaffermazione degli ideali fascisti, all’indomani dell’avvento della Repubblica - quanto quelle dei moderati, che desideravano conferire veste legale alle attività clandestine organizzate sotto l’egida del neofascismo fino a quel momento.
Si trattava, in altri termini, di trovare un’adeguata sede per evitare che “decine di migliaia di giovani fascisti clandestini o semiclandestini” scegliessero di continuare ad agire “sul piano della lotta armata” <76.
Nella storia del MSI, la fazione “anticapitalista e antiatlantic[a]” <77 trovò sempre un equilibrio nella presenza dell’ala moderata, emblematicamente espressa dal Segretariato, in origine occupato da Almirante, e - in veste di vicesegretari - da Giorgio Roberti e Arturo Michelini.
Proprio questo elemento consentì al MSI di inserirsi nel tessuto democratico e nella logica parlamentare, che - invece - il fascismo rivoluzionario negava e rifiutava.
I rischi, tuttavia, dell’uscita dalla clandestinità e della fondazione di un’organizzazione che avesse una fisionomia partitica, erano ben evidenti agli stessi neofascisti, preoccupati per come sarebbe stata interpretata la loro scelta a favore della strada della legittimità.
Giorgio Almirante, in occasione del Congresso del MSI del 1956 <78, ricordava che lo scopo del MSI era quello di “fare una politica di rilancio sociale”, in qualità di “fascisti della Repubblica Sociale Italiana”, reduci da quella esperienza. Il timore era, invece, quello di ingenerare “l’equivoco” di “essere fascisti in democrazia”, qualifica che appare di “spaventevole difficoltà per [la] democrazia, per [l’] Italia del dopoguerra”; dunque, il fine doveva essere quello di un inserimento “come MSI cioè come partito operante in questa democrazia” e in piena legalità <79. Tale bilanciamento risultava, però, difficile da realizzare, soprattutto a causa del permanere di gruppi di giovani neofascisti, soprattutto studenti, che sostenevano la componente “militare” del partito, attivandosi concretamente anche con manifestazioni di violenza, condannate (formalmente) dal MSI, ma di fatto avallate per poter consentire la stessa sopravvivenza del partito, che altrimenti avrebbe ceduto di fronte ai tentativi di rafforzamento politico della sinistra.
Queste azioni vennero, nel tempo, canalizzate e indirizzate attraverso la creazione di soggetti organizzati, nella forma di associazioni studentesche. Si pensi, per esempio, al Fronte Universitario di Azione Nazionale (FUAN) - poi divenuto, alla fine degli anni Settanta, FUAN Destra Universitaria - che raccoglieva studenti universitari animati dalla volontà di rinsaldare i valori fascisti oltre ciò che proponeva il MSI, distaccandosi da esso <80. Fondato a Roma, nel 1950, il Fronte trovò la tolleranza del MSI, anche se a più riprese ebbe contrasti accesi con quest’ultimo.
D’altra parte, la decisione di intraprendere un percorso legale di riconoscimento e legittimazione politica da parte del MSI era incompatibile tanto con il supporto ad azioni di carattere eminentemente eversivo, quanto con un atteggiamento di impedimento a iniziative giovanili di autonoma organizzazione, che trovavano proprio del MSI la propria forza propulsiva.
È anche innegabile, però, che la mancanza di coesione interna e le difficoltà per addivenire a una linea politica unitaria avrebbero potuto causare una scissione insuperabile, tale da compromettere la stessa sopravvivenza del partito <81, ragione per cui il MSI si schierava solo a parole contro le dimostrazioni dei rivoluzionari, non assumendo, in pratica, alcun provvedimento per impedirne la realizzazione.
Allo stesso modo, esso criticava le posizioni dei giovani neofascisti fuoriusciti dal partito per ingrossare le fila delle associazioni studentesche, senza - tuttavia - pervenire a una formale condanna di questo tipo di atteggiamento.
La ratio che sottendeva a questa strategia risiedeva nella consapevolezza di non poter godere di un vasto e diffuso consenso politico, ragione per cui la conservazione, anche a fronte di un latente compromesso, costituiva l’unica arma di difesa contro i possibili attacchi alla unità del partito.
[NOTE]
64 P. IGNAZI, Il polo escluso, cit., p. 22.
65 Così osserva P. IGNAZI, La cultura politica del Movimento Sociale Italiano, in “Rivista Italiana di Scienza Politica”, vol. 19, n. 3, 1989, pp. 431-465, confrontando il MSI con altri partiti espressione della destra italiana del dopoguerra.
66 G. PARLATO, op. cit., p. 250.
67 G. ALMIRANTE, F. PALAMENGHI CRISPI, Il Movimento Sociale Italiano, Nuova Accademia, Roma, 1958, p. 19.
68 G. SORGONÀ, Cantagallo o Predappio? Il Movimento sociale italiano in Emilia Romagna tra esclusione e tolleranza (1970-1983), in M. Carrattieri, C. De Maria (a cura di), La crisi dei partiti in Emilia Romagna negli anni ’70/’80. E-review dossier, n. 1, 2013, p. 86.
69 G. PARLATO, La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo (1946-1954), in G. Petracchi (a cura di), Uomini e nazioni. Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento, Gaspari editore, Udine, 2005, p. 134.
70 Ivi, p. 32.
71 La tutela del pudore e di ogni altro profilo rientrante nella nozione extra-giuridica di “buon costume” aveva costituito uno dei principali interessi pubblici protetti dal legislatore fascista, il quale proponeva, soprattutto nella normativa penale, un archetipo “astratto e paternalistico” con l’obiettivo di sostenere altre finalità (si pensi solo alla politica demografica), attraverso una imposizione di un “valore deontologico”, in parte rimasto ingabbiato anche nel vigente quadro giuridico, G. FIANDACA, Il codice Rocco e la continuità istituzionale in materia penale. Dibattito su “Il codice Rocco cinquant’anni dopo”, “La questione criminale”, vol. I, 1981, p. 77.
72 M. GIOVANA, op. cit., p. 48.
73 Proprio durante il primo Congresso del partito, tenutosi a Napoli, fu redatto quello che costituì lo schema del programma del MSI, in sette punti così articolati: “I) Non rinnegare e non restaurare [...] Negare il passato significa svilire il presente e rinunciare all’ avvenire... II) Lanciare tra le generazioni che il dramma della guerra civile ha diviso il ponte della concordia nazionale e della solidarietà sociale [...] III) Esigere che la Nazione sia ricondotta al suo rango di dignità ed onore [...] IV) Lottare ad oltranza [...] soprattutto contro gli abusi e le iniquità di una legislazione anticostituzionale e di una Costituzione antinazionale [...] V) Riconoscere in modo nettissimo che il nostro problema interno è oggi essenzialmente un problema sociale il quale si pone in termini incisivi e indilazionabili: o attuare un sistema che dia al lavoro il rango di protagonista della vita nazionale o cedere al dilagare della reazione bolscevica. Per avviare il problema a soluzione occorre restituire ai lavoratori l’orgoglio del lavoro come manifestazione fondamentale della propria umanità, risolvere in una nuova sintesi il drammatico squilibrio che il prevalere della macchina sul l’uomo ha determinato. In tal senso noi non esitiamo a richiamarci all’idea corporativa concepita come armonia finale degli elementi naturali: individuo e nazione [...] tale idea si ispira la dottrina dello stato Nazionale del Lavoro che è sociale e non socialista, nazionale e non nazionalista. VI) Attuare questa idea nella socializzazione della impresa attraverso la compartecipazione del lavoro manuale e direttivo, agli utili delle aziende, e la corresponsabilità dei lavoratori alla gestione di essa [...] VII) Dare al sindacato [...] personalità e poteri di diritto pubblico e il compito di stipulare i contratti collettivi di lavoro aventi efficacia di leggi”, “Il Secolo d’Italia”, 23 gennaio 1973.
74 G. ALMIRANTE, F. PALAMENGHI CRISPI, op. cit., p. 58. Cfr. sul punto anche R. CHIARINI, «Sacro egoismo» e «missione civilizzatrice». La politica estera del Msi dalla fondazione alla metà degli anni Cinquanta, “Storia contemporanea”, vol. XXI, n. 3, 1990, p. 457 ss.
75 Secondo il programma del partito, suddetto intervento costituiva un “dovere” dello Stato, che richiedeva di essere adempiuto “vastamente e pesantemente” (G. ALMIRANTE, F. PALAMENGHI CRISPI, op. cit., p. 21).
76 P. G. MURGIA, Il Vento del Nord. Episodi e cronache dopo la Resistenza, Edizioni Sugar, Milano, 1975, p. 150.
77 P. BUCHIGNANI, Ribelli d'Italia, Marsilio, Venezia, 2017.
78 Intervento pubblicato in “Il Secolo d’Italia”, 15 novembre 1956.
79 Ibidem.
80 Il Fronte è legato ai nomi di Silvio Vitali, il quale assunse la carica di Presidente, nonché di Franco Petronio, Tomaso Staiti di Cuddia, Benito Paolone, e Giuseppe Tricoli, tutti aderenti al MSI.
81 Tale era la preoccupazione di Romualdi, il quale riteneva che un partito non potesse presentare scissioni interne, ma dovesse riunirsi in una unica corrente, espungendo coloro che non aderivano in pieno alla linea di azione intrapresa.
Andrea Martino, Nascita del MSI nel periodo dal 1946 al 1960 con riferimento al rapporto tra società italiana e neofascismo, Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2019-2020

martedì 27 agosto 2024

La principale differenza tra il pensiero di Moro e quello di Berlinguer


Ciò che il fallimento del referendum abrogativo del 1974 aveva messo in evidenza era non tanto il tentativo mancato da parte della dirigenza della Dc di rafforzare il partito, quanto la minaccia che mirava alla sua centralità. Il partito non aveva saputo mediare fra le istanze del mondo laico e del mondo cattolico: aveva dimostrato di non saper più svolgere quella funzione di sintesi cui aveva assolto nella fase precedente della storia repubblicana <35. Fu in questa situazione, nel quadro di una pesante crisi economica e sotto l’incalzante minaccia del terrorismo, che si sviluppò la strategia di Moro riassunta nella efficace formula della “terza fase” <36. Come si evidenza nell’intervista rilasciata dal segretario della Dc a Eugenio Scalfari <37, la “terza fase” doveva essere divisa in due tempi: il primo consisteva nella realizzazione di una solidarietà tra tutte le forze democratiche, con la reciproca legittimazione dei due partiti maggiori; il secondo tempo era quello della stabilizzazione di una democrazia dell’alternanza, anche se, come sottolinea Scoppola, «questo era solo un barlume di speranza, un’ipotesi di tipo culturale più che politico» <38.
Dopo la tornata elettorale del ’75 era arrivato per Moro il momento di affrontare il nodo politico del rapporto con il Pci: riprendendo le riflessioni che già nel 1969 aveva iniziato formulando la «strategia dell’attenzione», parlava ora dell’indispensabilità di «un confronto non superficiale, né formale, con la massima forza di opposizione, sul contenuto del programma [di governo] e sulla situazione politica» <39.
Anche per Berlinguer, forte della fiducia ottenuta dal partito alle amministrative del 1975 e ancora più rafforzato dal processo di secolarizzazione che stava investendo l’Italia in quegli anni, di cui la vittoria del ‘no’ al referendum fu una prova inconfutabile, sembrava giunto il momento di iniziare a parlare chiaramente di questo dialogo tra i due partiti. Per scavalcare il recinto di accesso al governo i comunisti avrebbero dovuto sciogliere il loro legame con Mosca e rinnegare il leninismo. Berlinguer non era ancora in grado di affrontare questa radicale trasformazione ideologica, politica e culturale, nonostante fosse stato fautore di un allontanamento dalla casa madre che aveva portato alla nascita di un polo comunista alternativo a quello sovietico e guidato appunto dal suo partito, portavoce di un comunismo democratico compatibile con le democrazie occidentali <40. Berlinguer era convinto che l’Italia dovesse fare tesoro della sua esperienza passata, quando, nel periodo 1944-45, i partiti antifascisti avevano cooperato per consentire il risorgimento della nazione, malgrado i diversi e opposti orientamenti politici. Questa esperienza andava ripetuta dopo trent’anni per superare la frase critica in cui la nazione transitava, sbandata dalla crisi economica e dalla minaccia terrorista sempre alle porte. Spettava quindi ai partiti farsi carico della responsabilità di ricerca di un accordo dall’alto per comporre i conflitti che i cittadini lasciati a se stessi non apparivano in grado di regolare <41. Questo pensiero del segretario comunista si era già ampiamente rafforzato due anni prima quando, nel 1973, in Cile i militari guidati dal generale Augusto Pinochet avevano rovesciato con un colpo di stato il governo socialista di Salvador Allende, instaurando una dittatura. Berlinguer non aveva dubbi che quella del “compromesso” fosse l’unica strada da intraprendere, e lo dimostrò nello stesso 1975 quando la corrente socialista di Riccardo Lombardi gli propose una collaborazione alternativa a quella con la Dc, ossia con il Psi. Questi, infatti, era uscito dalle elezioni del 1975 con un 11,8%, che, sommato ai voti del Pci, avrebbe consentito di raggiungere il 45,3%, una percentuale mai conquistata da socialisti e comunisti insieme. Berlinguer rifiutò l’offerta nella convinzione che Moro condividesse il ragionamento di fondo alla base del dialogo tra i partiti: la democrazia italiana era una democrazia debole, bisognosa della cura attenta da parte dei due partiti che insieme rappresentavano più del 70% dei cittadini-elettori <42.
La principale differenza tra il pensiero di Moro e quello di Berlinguer risiedeva, tuttavia, proprio nel carattere specifico della “solidarietà nazionale”: la sua durata, o meglio, il fatto che per Moro l’accordo fosse destinato ad avere una durata limitata nel tempo, in quanto il fine ultimo sarebbe stato quello di arrivare ad un’alternanza politica.
L’accordo tra i due leader di partito rimase accuratamente taciuto durante la campagna elettorale per le politiche del ’76: i comunisti dipinsero la Dc come il ricettacolo di tutti i vizi politici, i democristiani rievocarono il fantasma della dittatura comunista. Il 20 giugno 1976, quando gli italiani furono chiamati alle urne per il rinnovo dei due rami del Parlamento, i risultati delle votazioni attestarono una ripresa della Democrazia cristiana, arrivata al 38,7% a dimostrazione dell’arresto della spirale negativa in cui era caduto il partito l’anno precedente. Sorpresa ancor più grande fu il mancato “sorpasso” del Pci sul partito di maggioranza, nonostante i pochi punti percentuali tra le due forze. Il Pci infatti raggiunse il 34,4%, maturando il miglior risultato della sua storia.
Una volte chiuse le urne, il problema di formare un governo sembrò insolubile <43: dalle votazioni risultavano indeboliti i partiti del centro laico, il Psi, terzo partito italiano con uno scarto sul Pci di 24,7 punti percentuali, e il Pli che era sceso ancora rispetto alle politiche del ’72, raggiungendo un misero 1,3%. Le opzioni confluirono in un’unica soluzione, la formazione del terzo governo Andreotti, un monocolore democristiano passato alla storia come il governo della “non sfiducia”: una formula ambigua dietro la quale si affacciava il compromesso storico con il Pci. L’espressione fu coniata dallo stesso Andreotti quando, il 4 agosto, presentò il governo alle Camere: «Ho pertanto proposto al Capo dello Stato la nomina dei ministri che oggi con me si presentano per ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia del Senato e della Camera dei deputati» <44. La coalizione di solidarietà nazionale fondata sull’astensione di comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani, sarebbe rimasta in piedi per un anno e mezzo durante i quali il governo Andreotti avrebbe operato di concerto con il Pci, nonostante le riserve nutrite da un’ampia frangia della Democrazia cristiana. Per le correnti di destra e di centro, e per lo stesso Andreotti, infatti l’intesa con Berlinguer proposta da Moro aveva una funzione più che altro strumentale: il Pci era l’anello di congiunzione con il centro sindacale della Cgil, indispensabile per l’approvazione di provvedimenti impopolari necessari per porre ordine ai conti pubblici del paese. Per Berlinguer la nuova formula di governo avrebbe dovuto avere un carattere provvisorio: un preludio all’entrata vera e propria del Pci all’interno della maggioranza, con la nomina di esponenti del Partito comunista ad alcune delle cariche ministeriali alla guida del paese. Proprio quando il Pci decise di alzare la posta in gioco, mettendo in crisi il terzo governo Andreotti nel 1977 il paese venne invaso da una nuova ondata di protesta. Questa volta, i moti del Settantasette provenivano da gruppi di studenti che vedevano nelle loro carriere universitarie non una transizione verso il mondo del lavoro, ma una situazione di blocco dovuta all’incertezza del paese in campo di occupazione e lavoro. Le università di Roma, Bologna e Padova diverranno nuovamente scenari di guerriglia e manifestazioni, vasche dove nuotavano i pesci delle Br, di Prima linea, dei Comitati dei comunisti combattenti che negli studenti trovavano appoggi e consensi <45. Questa volta, l’avversione dei cittadini era contro l’intera partitocrazia, nessuna forza esclusa, neanche il Pci che con il compromesso con la Dc aveva segnato la sua condanna a partito omologatosi alle altre forze politiche, ed era per questo stato accusato di tradimento da chi pochi anni prima aveva visto in esso una via alternativa ai centri di potere che dominavano l’Italia da un ventennio.
[NOTE]
35 P. Scoppola, Una crisi politica e istituzionale, in G. De Rosa e G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, sistema politico e istituzioni, Rubbettino, 2003.
36 Ivi, p.26
37 E. Scalfari, “Quel che Moro mi disse il 18 febbraio”. L’ultima intervista del leader Dc, in «la Repubblica», 14 ottobre 1978.
38 P. Scoppola, Una crisi politica e istituzionale, ivi, cit., p.28.
39 Aldo Moro, Scritti e discorsi, VI, p. 3362, in P. Craveri (a cura di), Storia d’Italia, La Repubblica dal 1958 al 1992, Milano, TEA, 1996.
40 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, cit., p. 117.
41 Ivi, p. 118.
42 Ivi, p. 125.
43 Ivi, p. 127.
44 Discorso programmatico pronunciato da Andreotti alla Camera dei deputati (4 agosto 1972) in occasione della presentazione del III° governo, (http://storia.camera.it/res/pdf/discorsi_parlamentari/alessandro_natta.pdf).
45 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, cit., p. 129.
Francesca Lanzillotta, La svolta degli anni Settanta nelle pagine de «L’Unità» e de «Il Popolo», Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2015-2016

mercoledì 21 agosto 2024

Reggio Calabria fu importante crocevia per l’eversione di destra italiana


Con riguardo ai fatti poc’anzi citati, desta interesse la convergenza narrativa espressa nelle deposizioni dei collaboratori di giustizia Carmelo Serpa e Carmine Dominici. Il primo, ascoltato nel processo “’Ndrangheta Stragista” in data 27 giugno 2019421, ha fornito una ricostruzione verosimile di quanto accaduto quella mattina a Serro Juncari. Picciotto di giornata del gruppo Saraceno con un’infanzia trascorsa nel quartiere Archi, ha dichiarato di aver presenziato all’assemblea  <in qualità di vedetta <422. Di per sé questa informazione non collimerebbe con quanto asserito, all'opposto, dal Commissario Sabatino, convinto di un’esclusiva partecipazione all’assemblea riservata a sodali con il grado di capo bastone, capo società, contabile o mastro di sgarro. Tralasciando ciò, è essenziale contestualizzare l’urto interpretativo raccolto nella versione di Serpa e nella possibile verosimiglianza di una duplice assise: “non si trattava di un’unica riunione. In realtà, nello stesso posto e nello stesso momento se ne sono svolte due. Alla prima partecipava il gotha della ‘Ndrangheta dell’epoca e nel corso della discussione dal gruppo ad un certo punto si allontanarono 4 o 5 persone per andare a prendere degli ospiti. […] Quando ebbe l’ok da Zappia, De Stefano fece allontanare quattro-cinque persone che andarono a prendere i politici” <423. I nomi, accostati alle figure introdotte dal leader degli Arcoti, coincidono con i personaggi indicati negli atti delle corrispondenze fra Questure (Cosenza, Reggio, Catanzaro e Roma) e forze dell’ordine citati nei paragrafi precedenti <424. Si sarebbe trattato di Valerio Junio Borghese, la cui presenza è accertata dal comizio convocato per il 25 ottobre a Reggio Calabria; Stefano Delle Chiaie, braccio destro del leader di F.N. e abituè della città calabrese; Pierluigi Concutelli, comandante militare di Ordine Nero e uomo che condividerà con De Stefano un periodo di latitanza <425 presso il covo di via Sartorio a Roma <426; Sandro Saccucci, ex paracadutista e membro dell’ufficio informazioni del corpo dei paracadutisti; e il marchese Genoese Zerbi, luogotenente di F.N. in Calabria. Ad ogni buon conto, in assenza di standard probatori esaustivi ogni oltre ragionevole dubbio, gli imputs racchiusi nelle parole del pentito calabrese convergono con il dettato narrativo di altri protagonisti della stagione rivoluzionaria reggina. Dominici, dal canto suo, ha comprovato indirettamente quanto sostenuto da Serpa e indicato in Delle Chiaie ed altri avanguardisti il gruppo d’ordine al servizio di Borghese nell’ottobre ’69: “Ritornando all'ambiente di Reggio Calabria… vi fu, nel settembre 1969, un comizio del Principe Borghese a Reggio Calabria che fu proibito dalla Polizia. In quell'occasione c'era anche Delle Chiaie e il divieto da parte della Questura provocò scontri a cui tutti partecipammo. Vi fu anche un assalto alla Questura per protesta” <427.
Quindi, in virtù delle considerazioni espresse al punto b) e dei brevi sunti testimoniali qui riportati, appare delineabile l’incidenza rivestita dalla superficialità degli atti di polizia redatti sotto un duplice effetto deterrente nell’accertamento storico dei fatti. Se da un lato l’esiguità dei soggetti individuati può aver sottratto da ogni responsabilità penale pezzi consistenti di substrato criminal-terroristico, di controverso essa ha costruito nell’opinione pubblica un’aura mistificatrice attorno all’intera vicenda. In ogni caso, rimangono comunque lapalissiane le convergenze dichiarative raccolte nei contributi testimoniali di diversi uomini d’onore ed eversori, tutte accomunate dall’univoca constatazione di una assidua frequentazione fra gli ambasciatori di questi due ecosistemi criminali.
3. Il Fronte Nazionale di V.J. Borghese e il progetto golpista. La presenza a Reggio Calabria
Le violenze e gli attentati compiuti nella provincia di Reggio Calabria furono 351 nel periodo compreso fra il 1969 ed il 1980. Il dato tiene conto di 12 morti, 190 attentati a monumenti e sedi istituzionali, oltre a 149 episodi di violenza <428. Il maggior numero di questi eventi coincise con il biennio a ridosso della rivolta di Reggio, e vide la provincia calabrese collezionare un totale di 351 fenomeni di violenza ingiustificata a fronte dei 478 collezionati in tutta la regione nei dodici anni considerati (’69-’80). Ben 199 <429 di essi andarono a dislocarsi a ridosso dei moti, favoriti dall’azione perpetua dei gruppi neofascisti che consacrerà la cittadina quale sesta provincia italiana per numero di violenze dopo Roma, Milano, Torino, Napoli e Bologna. L’individuazione del colorito politico della protesta è ben delineabile anche dalle statistiche inerenti agli attentati compiuti contro sedi sindacali e partitiche: su 41 sedi colpite furono 17 quelle del Partito Comunista Italiano, 7 del Partito Socialista e 5 della Democrazia Cristiana <430.
L’elemento numerico, affiancato alla ricostruzione storica dei fatti di Montalto e alla costante attività di monitoraggio avviata dalle Questure sui flussi terroristici, consacra la città di Reggio quale importante crocevia per l’eversione di destra italiana. Del resto, l’egemonizzazione del palcoscenico reggino attrasse i due volti bifronte della destra nazionale. Avanguardia Nazionale, e successivamente il Fronte Nazionale di Borghese, furono presenti nell’hinterland reggino già da metà anni Sessanta. La rappresentanza istituzionale di queste due sigle, apparentemente autonome fra loro, fu impersonificata nel perimetro regionale dalla figura del Marchese Felice Genoese Zerbi, latifondista della Piana di Gioia Tauro e trait d’union fra la vecchia borghesia agraria, la galassia eversiva e le cosche emergenti nella zona. La venerazione dell’aristocratico reggino nei riguardi dell’ex comandante della X Flottiglia Mas è testimoniata anche dalla duplice appartenenza dello stesso al Fronte Nazionale e alla federata organizzazione di Avanguardia Nazionale, vero crogiolo di politiche violente al servizio del disegno golpista. In un colloquio investigativo <431 svolto dal Cap. del ROS Massimo Giraudo con il - già noto - collaboratore Dominici, detenuto al tempo presso la casa circondariale di Carinola (CE), emerse la disponibilità in seno ad A.N. di campi paramilitari di addestramento istituiti proprio sui fondi agricoli di proprietà della famiglia Zerbi. Questi, sarebbero serviti alla riproduzione delle strutture di addestramento precedentemente frequentate dagli avanguardisti nei loro viaggi ellenici, in ottemperanza alla previsione di un papabile colpo di stato. Così, ancor prima che insorgesse contro la revoca di capoluogo di regione, Reggio Calabria fu indicata quale terra di approdo di un nuovo laboratorio politico.
Parimenti, l’altro volto della destra del tempo, l’M.S.I. del neosegretario Almirante, dopo un iniziale momento di scetticismo abusò della singolarità di un movimento di piazza capitanato dalla destra nazionale per riaggregare le componenti dell’arcipelago nero in vista delle amministrative del 1971 e dell’imminente congresso missino. Riferendo alla Commissione Stragi <432, nel 1997 Delle Chiaie raccontò al Pres. Pellegrino di aver preso contatti con Almirante per la preparazione di un comizio a Reggio rivendicando, quale contropartita per la concessione di uno spazio politico in un circondario assoggettato al controllo delle sigle eversive, due scranni parlamentari: uno al Senato (nel collegio di Reggio Calabria) per il principe Borghese; e uno alla Camera in beneficio del leader del Comitato di Azione Ciccio Franco. La trattativa venne comunque meno a seguito dei dinieghi espressi da Romualdi e Servello, allarmati dalla deriva estremista celata dietro una possibile elezione dei due.
La cooperazione interna alla rete eversiva durante i moti di Reggio fu comunque condita anche da conclamati episodi di tensione. La relazione di servizio <433 del Cap. Giraudo del 7 aprile 1993 parla senza mezze misure di un clima di esplicita conflittualità fra gli uomini di A.N (Zerbi, Barletta, Ligato e Cristiano), il Movimento Sociale Italiano e il gruppo dei “Boia Chi Molla”. Nel farlo, il documento si spinge però ben oltre ad una minuziosa descrizione dei singoli episodi di litigiosità, ponendo in rilievo l’attività intermediatoria e di brokeraggio informativo assunta da una nutrita cerchia di uomini del mondo delle professioni. Emerge così, in linea con una tendenza costante negli studi sulla criminalità mafiosa, l’incidenza di uno spazio opaco dispiegato tra il legale e l’illegale, in cui presero vita forme di relazioni collusive e complici <434. La peculiarità di questa esperienza, rispetto alle manifestazioni più tipizzate nella storiografia mafiosa, va indicata nella sua funzionalità e nella pervasività dell’impatto sociale. Nella maggioranza dei casi, l’estrinsecazione operativa di una “borghesia mafiosizzata” al servizio dei sodalizi trova giustificazione nel tentativo di porre rimedio all’indebolimento subito dall’area militare dei gruppi e, dunque, della loro struttura formale <435.
Nell’esperienza reggina, invece, essa ripresenta i caratteri di un coté professionale simbiotico, impregnato da elementi ideologici e di puro opportunismo che ne delineano l’accavallamento fra l’essenza “mafiosizzata” e quella “fascistizzata”. In tal senso, il contributo svolto da esponenti come Zerbi determinò l’implementazione del peso militare degli agglomerati eversivi, cucendo al contempo una filiera di rapporti strategici atti ad implementarne l’appeal sociale all’interno dei movimenti di massa riottosi. Il tema, la cui risoluzione oscilla negli studi moderni lungo la linea della dicotomia tra “zona grigia” e “criminalità dei colletti bianchi”, riceverà ampia trattazione nel capitolo seguente, cercando di differenziare il grado di incidenza delle contiguità compiacenti.
Un’ulteriore affinità con l’universo criminale perviene dai metodi di risoluzione delle controversie interne alle sigle. Conclamata l’applicabilità della risorsa violenta per sedare conflittualismi endogeni ai cartelli, perfino il terrorismo diffusosi in Calabria tendette a mutuare l’uso di rapporti di parentela (o di sangue) per appianare dissidi e tensioni. Ne fu emblematico il vincolo di comparaggio sedimentatosi tra Ciccio Franco e lo stesso Zerbi, divenuti compari di anello a pochi mesi dallo scoppio dei moti e abili, proprio in virtù di questo legame parentale, a gestire le avversioni sorte dopo l’omicidio dell’avanguardista Benvenuto Dominici, ucciso dopo una lite dal missino Romeo di Gallico <436.
Le informative del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, incaricato dal giudice istruttore di Milano Dott. Salvini di far luce sulle stragi continentali, forniscono implicitamente una giustificazione all’elevato grado di tolleranza dimostrato dai sodalizi calabri verso le solari - e manifeste - attività del terrorismo nero in loco. Per mezzo delle parole del collaboratore Paolo Pecoriello <437, avallate in seconda istanza da Dominici, fu possibile ripercorrere le attività di provocazione e detenzione di materiale esplosivo promosse da Avanguardia Nazionale proprio negli anni immediatamente successivi alla strage di Piazza Fontana <438. Con particolare riferimento alla seconda attività, densa di significato proprio al cospetto dell’interrogativo poc’anzi esposto e coordinata nel mandamento “centro” dallo stesso Dominici, fu ricostruita la filiera di un traffico di armi, esplosivi e timers istituito dagli avanguardisti fra la Calabria e Roma. È indubbio che Avanguardia Nazionale a Reggio Calabria disponesse di molto materiale esplosivo, avendone nella sua disponibilità addirittura tre tipologie differenti. La gelignite, estratta dalla cava di Bagnara di cui era proprietario l’Ing. Musella sotto la supervisione degli uomini della cosca De Stefano; tritolo, micce, bombe a mano SRCM e detonatori provenienti dai depositi militari da cui attinsero i militanti di A.N. impegnati nel servizio militare in qualità di paracadutisti; e dell’esplosivo al plastico del tipo color rosso mattone proveniente dalla filiale romana dell’organizzazione <439. Così, se originariamente questo traffico di materiali bellici fu teorizzato quale fonte di autosostentamento dell’azione neofascista, ben presto divenne la tassa di ingresso e soggiorno delle sigle terroristiche sul territorio. La stipulazione di un patto di non belligeranza con i clan di ‘ndrangheta non va inquadrata solo nella sua funzione indennizzatrice verso i sodali (o i loro familiari) danneggiati -materialmente o moralmente- dagli attentati di matrice eversiva <440. Essa assunse con il protrarsi dei moti una connotazione proselitica, quasi identitaria, contribuendo a spostare l’asse delle simpatie politiche verso il polo destroide in chiave di un pieno appoggio logistico.
In realtà, qualcosa di analogo era già avvenuto nei primi mesi del 1969, quando il leader del F.N. aveva avvicinato, tramite il massone Carlo Morana <441, gli epigoni di Cosa Nostra (Di Cristina e Calderone) promettendo, in cambio di un eventuale appoggio logistico al disegno golpista, l’alleggerimento della posizione processuale di alcuni importanti esponenti mafiosi detenuti <442 nonché la concessione, da parte del nuovo Governo, di un’amnistia ad hoc <443. Il primo a riferire sulla stipula di tale patto fu nel dicembre 1984 il neo estradato Tommaso Buscetta <444, comprovato a posteriori dai contributi testimoniali di Luciano Liggio <445, Antonino Calderone <446 e da quelli dei capibastone calabresi raccolti nella relazione sullo stato della lotta alla criminalità organizzata in Calabria del luglio 2000 <447.
[NOTE]
421 Deposizione di Carmelo Serpa, Proc. Penale ‘Ndrangheta Stragista, OCCC n. 3798/15 RGNR DDA 5/17 RG GIP/GUP/DIB Tribunale di Reggio Calabria.
422 N. GRATTERI, A. NICASO, Storia segreta della ‘Ndrangheta, Mondadori, Milano 2020, pag.128.
423 Deposizione di Carmelo Serpa, Proc. Penale ‘Ndrangheta Stragista, OCCC n. 3798/15 RGNR DDA 5/17 RG GIP/GUP/DIB Tribunale di Reggio Calabria.
424 Nota della Questura di Roma, Div. Gab. N.050163, riferita a Nota della Questura di Cosenza, Div. Gab. N.03285 del 5 settembre 1960, tramessa alla III Sezione dell’Ufficio Affari Riservati ed alle Questure di Cosenza, Napoli, Salerno, Catanzaro e Reggio Calabria, Categoria G 242/150 tratta da ACS, Dipartimento Pubblica Sicurezza (Dal 1981), Divisione Affari Generali, Categoria G 242/150 (associazioni) codice Id 0001937, n. inventario 13/224 (Ordine Nuovo), busta n.289. Nota della Questura di Cosenza, Div. Gab. N.03285, 5 settembre 1960, tramessa alla III Sezione dell’Ufficio Affari Riservati ed alle Questure di Roma, Salerno, Catanzaro e Reggio Calabria, Categoria G 242/150 tratta da ACS, Dipartimento Pubblica Sicurezza (Dal 1981), Divisione Affari Generali, Categoria G 242/150 (associazioni) codice Id 0001937, n. inventario 13/224 (Ordine Nuovo), busta n.289.
425 La circostanza è più volte confermata da Vincenzo Vinciguerra, ex eversore nero transitato tra le fila di Ordine Nuovo Friuli e poi Avanguardia Nazionale. Esame del teste Vincenzo Vinciguerra, processo per la strage di Bologna, imputato Gilberto Cavallini, Bologna 16 ottobre 2019.
426 Deposizione di Pierluigi Concutelli nell’udienza del 13 maggio 1999 nel Proc. Penale n.72/94 R.G./P/ DDA a carico di Romeo Paolo. Tratto da F. CUZZOLA, Reggio 1970. Storie e memorie della rivolta, Donzelli editore, Roma, 2007, pag.151.
427 Tribunale di Milano, Ufficio Istruzione, n.2643/84. Proc. Penale contro Nico Azzi + 23. 19 marzo 1995, pag. 255.
428 M. GALLENI, Rapporto sul terrorismo. Le stragi, gli agguati, i sequestri e le sigle dal 1969 al 1980, Rizzoli editore, Milano 1981, pag.146.
429 199 su un totale di 351 eventi avvenuti a Reggio Calabria.
430 Ivi cit., pag.147.
431 Relazione di servizio n. 13308/3, prot. “P”, colloquio investigativo con il detenuto Dominici Carmine, casa circondariale di Carinola (CE), 5 marzo 1993, Cap. Massimo Giraudo. Informazioni inerenti a Proc. Penale contro Delle Chiaie Stefano + 3. Tratto da ACS, Raccolte speciali, Direttiva Renzi, Ministero della Difesa, Arma dei Carabinieri, Piazza della Loggia (1994), Raggruppamento Operativo Speciale ROS, Reparto anti-eversione (1992-2013), attività di supporto nelle indagini del giudice istruttore Salvini nell’ambito delle inchieste sull’eversione di destra (proc. Pen. 721/88F, poi 2/92F), Dominici Carmine (1993-1999), Proc Pen. Contro Delle Chiaie Stefano (1993 marzo 08).
432 Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, XIII Legislatura, venticinquesima seduta 16 luglio 1997. Deposizione di Stefano Delle Chiaie.
433 Relazione di servizio n. 13308/7-2, prot. “P”, colloquio investigativo con il detenuto Dominici Carmine, casa circondariale di Lecce (LE), 4 aprile 1993, Cap. Massimo Giraudo. Informazioni inerenti a Proc. Penale contro Delle Chiaie Stefano + 3. Tratto da ACS, Raccolte speciali, Direttiva Renzi, Ministero della Difesa, Arma dei Carabinieri, Piazza Fontana (1969), Raggruppamento Operativo Speciale (ROS), attività di supporto alle indagini del giudice istruttore Salvini nell’ambito delle inchieste sull’eversione di destra (proc. Pen. 721/88F, poi 2/92F), Dominici Carmine (1993-1999), Appunto Alternativa Nazional (1993, 24 maggio).
434 R. SCIARRONE, Mafie, relazioni e affari nell’area grigia. Articolo tratto da Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Donzelli editore, Roma, 2011, pag.11.
435 Supra cit., pag.14.
436 Informativa DDA di Reggio Calabria, Centro operativo di Reggio, Procedimento Penale Olimpia Nr. 46/93 R.G.N.R. D.D.A. Nr. 72/94 R. G.I.P. D.D.A N. 3/99, Parte V, pag. 6634.
437 Pecoriello è l'unico dissociato "storico" di Avanguardia Nazionale, organizzazione che egli ha abbandonato dopo una lunga militanza a Roma, in Emilia e in Toscana in ragione di un ripudio personale dell'uso della violenza e un rifiuto della disponibilità a farsi strumentalizzare che A.N. aveva mostrato. Sentito più volte nel corso dell'istruttoria, egli ha accettato di ripercorrere, aggiungendo numerosi dettagli, gli episodi cui egli aveva personalmente partecipato nella seconda metà degli anni '60 o di cui aveva avuto precise notizie nell'ambiente di A.N. Fra di essi ancora l'operazione "manifesti cinesi", il corso sull'uso degli esplosivi tenuto a Roma in una sede di A.N. da un francese di nome “Jean” e l'importazione, nel 1968, di due ingenti carichi di armi dalla Grecia all'Italia.
438 Tribunale di Milano, Ufficio Istruzione, n.2643/84. Proc. Penale contro Nico Azzi + 23. 19 marzo 1995, cap. XL, pp. 385 e seguenti.
439 Informativa DDA di Reggio Calabria, Centro operativo di Reggio, Procedimento Penale Olimpia Nr. 46/93 R.G.N.R. D.D.A. Nr. 72/94 R. G.I.P. D.D.A N. 3/99, Parte V, pag. 6908-6909.
440 Relazione di servizio n. 13308/3, prot. “P”, colloquio investigativo con il detenuto Dominici Carmine, casa circondariale di Carinola (CE), 5 marzo 1993, Cap. Massimo Giraudo. Informazioni inerenti a Proc. Penale contro Delle Chiaie Stefano + 3. Tratto da ACS, Raccolte speciali, Direttiva Renzi, Ministero della Difesa, Arma dei Carabinieri, Piazza della Loggia (1994), Raggruppamento Operativo Speciale ROS, Reparto anti-eversione (1992-2013), attività di supporto nelle indagini del giudice istruttore Salvini nell’ambito delle inchieste sull’eversione di destra (proc. Pen. 721/88F, poi 2/92F), Dominici Carmine (1993-1999), Proc Pen. Contro Delle Chiaie Stefano (1993 marzo 08).
441 M. BIANCO, Il legame tra piazza Fontana e il "Golpe Borghese" nelle recenti indagini giudiziarie, Studi Storici, Anno 41, No. 1, Jan. - Mar., 2000, p. 16.
442 Processo Rimi e Processo Liggio.
443 N. TONIETTO, Un colpo di stato mancato? Il golpe Borghese e l’eversione nera in Italia, Diaconie, studi di storia contemporanea, n.27 marzo 2016, pag.2.
444 Deposizione di Tommaso Buscetta del dicembre 1984 ripresa dalla Commissione Parlamentare Antimafia, 16 novembre 1992, Relazione della Commissione Stragi, Doc. XXIII n. 64, Volume I, tomo II, p 356.
445 Deposizione di Luciano Liggio al Maxiprocesso, Palermo 1986. Tratto da A. BECCARIA, G. TURONE, Il boss. Luciano Liggio da Corleone a Milano, una storia di mafia e complicità, Castelvecchi editore, Roma, 2018.
446 Audizione di Antonino Calderone alla Commissione Parlamentare Antimafia, 11 novembre 1992, cit. in BERTONI, Raffale, CIONI, Graziano, PARDINI, Alessandro, STANISCIA, Angelo, ATTILI, Antonio, BIELLI, Valter, CAPPELLA, Michele, GRIMALDI, Tullio, RUZZANTE, Piero, Stragi e terrorismo in Italia dal dopoguerra al 1974, Relazione della Commissione Stragi, Doc. XXIII n. 64, Volume I, tomo II, p. 300.
447 Senato della Repubblica-Camera dei Deputati, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, Relazione sullo stato della lotta alla criminalità organizzata in Calabria, Sen. Figurelli, XIII Legislatura, Doc. XXIII, n. 42, 26 luglio 2000.
Giuliano Benincasa, Criminalità Organizzata. Sviluppo, metamorfosi e contaminazione dei rapporti fra criminalità organizzata ed eversione neofascista: ibridazione del metodo del metodo mafioso o semplice convergenza oggettiva?, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2020-2021

domenica 11 agosto 2024

Questa liberazione Lanza del Vasto l’ha compiuta in India


Non è possibile separare un’icona da colui che la incide, né un libro dall’umana vicenda di chi lo scrive. Questa prima parte della tesi si prefigge l’obiettivo di evidenziare i nessi tra il percorso di un uomo e l’emersione di una filosofia, solo in parte politica. Un ‘habitus’ intellettuale si imprime gradualmente, dapprima circondati dalla famiglia ereditata alla nascita, poi nella famiglia di pensiero che si sceglie, infine in quella spirituale di cui si riceve per grazia la chiamata: poco a poco si delinea una traiettoria unica e irripetibile, al crocevia della quale possono affondare e innalzarsi i pilastri di un pensiero. Caratteristica fondante della personalità di Lanza del Vasto è stata, secondo l’opinione di Antonino Drago, suo attento discepolo da molti decenni, il compimento di una conversione totale <43. Citando Erich Fromm, lo storico della fisica ha osservato: “l’essenza della religione è un processo di crescita verso l’indipendenza da tutti quei legami ai quali ci ha vincolato la nascita (il luogo materiale [...], i bisogni essenziali, la famiglia, la nazione e ogni altro legame), in modo da giungere a vederli dall’alto della raggiunta liberazione. Questo processo inizia sin dai primi anni ed ha per termine massimo la liberazione dai legami con la propria civiltà. Questa liberazione Lanza del Vasto l’ha compiuta in India” <44. Il suo anelito di liberazione non si è arenato, tuttavia, sul piano individuale, ma si è esteso all’ambito sociale e istituzionale. “Pur trovandosi nella società dei padroni del mondo e davanti alla struttura religiosa più gerarchica e potente del pianeta, il cristianesimo cattolico” <45, Lanza del Vasto ha innescato, attraverso la fondazione delle prime comunità gandhiane in Occidente, un mutamento spirituale e politico di estrema rilevanza, nei termini in primis di una non-violenza integrale come fulcro di una ‘nuova inter-religiosità’: aver dosato “saggezza, tenacia, rigore e tenerezza per unire delle famiglie nel lavoro in comune” <46 non è stato affatto un merito trascurabile. Egli, inoltre, figura tra i primi intellettuali europei ad aver mostrato con il proprio esempio una via concreta e accessibile di emancipazione dalla “massima violenza ideologica” <47 della ‘piovra’ scientista e bio-tecnocratica, dell’oppressione burocratica, della distrazione mediatica di massa. “Le statistiche - come è stato altrove commentato in modo calzante per l’odierna congiuntura - di fronte alle quali spesso capitoliamo come davanti a un argomento irrefutabile, non sono il mezzo di una scienza oggettiva, ma uno strumento retorico che serve a intimorire sulla base di una pretesa forza della maggioranza a cui la minoranza dovrebbe piegarsi, o di un’abitudine che si vorrebbe fosse considerata norma” <48.
Arnaud de Mareuil, compagno dell’Arca per un quarto di secolo, ha esordito nella corposa ricostruzione biografica dedicata al suo mentore con un elogio della ‘bella vita’ da questi trascorsa. Ha rievocato, a tal proposito, un aneddoto del tutto personale: in occasione dell’ottantesimo compleanno di Shantidas e dopo gli auguri levati dai presenti esultanti, l’anziano Patriarca Pellegrino gli poggiò la mano sulla spalla e, guardandolo con la coda dell’occhio, disse: “Bisogna augurarsi una vita […] piena: pienezza di vita!” <49. Amante della ‘Grande Vita’, avversario implacabile e risoluto d’ogni forza di morte, servitore del Divino sotto ogni forma e nome, Shantidas si definiva con sincera modestia ‘amico della saggezza’ e ‘ricercatore di santità’: “sono un amore felice, felice di vivere, accontentandomi di ciò che la natura mi dona” <50.
La sua vicenda esistenziale dischiude l’appassionante e corale epopea delle riflessioni e delle azioni non-violente intuite, pianificate e condotte nell’imperversare del ‘secolo breve’ dalla prospettiva di un testimone di eccezione. Si potrebbe sinteticamente dire che i primi quattro decenni di vita gli permisero di sviluppare e consolidare una certa prospettiva e linea di pensiero, per mezzo di studi, incontri e viaggi; i secondi quarant’anni, d’altro canto, sono stati la mirabile concretizzazione dei suoi ideali. La storia che ci apprestiamo a ripercorrere con l’ausilio di vari studiosi, puó essere, quindi, paragonata ad un triangolo con un vertice rivolto verso il basso e la base in alto: dalla nascita del fondatore, l’Ordine e il Movimento dell’Arca, “grande creazione dell’anima” <51, “geometria di pensiero incarnata” <52, hanno svettato per oltre settant’anni nei corpi e nei cuori di una sterminata galassia di persone e famiglie che, a varie intensità, su più generazioni e in diverse regioni del mondo, hanno accolto per sempre o in periodi circoscritti la sua inconfondibile chiamata. “‘Dio scrive dritto su linee curve’. Il proverbio non è mai stato più vero che per i Compagni dell’Arca” <53. Molti di quanti hanno ricevuto la grazia e l’onore di incontrarlo e ascoltarlo dal vivo, celebrando, faticando e lottando al suo fianco, hanno potuto scoprire “in quest’uomo vestito di lana bruna, […] in questa sorta di monaco laico, di Templare contadino, di re senza terra, eretto, itinerante da un luogo all’altro, seminatore di retta parola, predicatore di testimonianza, dalla vita esemplare, un maestro, un padre spirituale, un poeta” <54.
Ribadiamo, comunque, correndo il rischio di sembrare banali, che la storia dell’Arca non si esaurisce nella vita della persona che ne ha veicolato l’apparizione, che ne ha impersonificato la missione, per quanto carismatico o visionario fosse. Ovunque il messaggio e il modello dell’Arca è penetrato e si é radicato, esso si è declinato con maggiore o minore fedeltà sino ai giorni nostri. Una narrazione onnicomprensiva dell’Arca, se sarà mai possibile ricostruirla, è ancora tutta da scrivere. Il sottoscritto, purtroppo, non è stato in grado di realizzarla per mancanza di mezzi e tempo. Al cospetto di tale incommensurabile impresa, scegliamo perciò di restare ‘principianti’, risalendo con cautela e gratitudine la corrente dell’ispirazione, volgendo sempre la prua a quel “Purusha primigenio da cui è sorto il primo impulso all'azione” <55.
Genealogia di una nobile nascita
“Competizione e obbedienza all’autorità si scontrano con qualsiasi arte del vagabondare, con l’erranza dello spirito e con l’avventura fuori dai sentieri. Praticare queste arti é forse oggi tra gli atti piú rivoluzionari e sovversivi.” <56
Giuseppe Giovanni Luigi Maria Enrico Lanza di Trabia nacque a mezzodì il 29 settembre 1901, epoca di vendemmia <57, in un giorno consacrato agli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, sotto il segno della Bilancia, a ‘Specchia di Mare’, tenuta nobiliare donata dal principe Dentice, nella campagna circostante San Vito dei Normanni, in Puglia. Era il primogenito di don Luigi Lanza di Trabia, avvocato al foro di Parigi, a sua volta figlio illegittimo del principe Giuseppe Lanza di Trabia, già residente al palazzo Butera di Palermo. La madre di Luigi, Louise Alexandre, parigina, aveva sposato da giovane il conte Antonio Dentice, figlio minore di Gerardo Dentice di Frasso, principe di San Vito dei Normanni, molto più anziano di lei, che avrebbe tradito a Firenze con il principe Giuseppe Lanza. Nato in segreto a Ginevra, Luigi era stato inizialmente nascosto e fatto crescere, senza conoscere l’identità dei veri genitori, nel castello di Escoville in Normandia, presso amici della famiglia materna. Suo padre Giuseppe, intanto risposatosi con una nobildonna fiorentina, morì quando Luigi aveva undici anni, senza averlo potuto mai più rivedere dalla nascita. Conclusi gli studi, Luigi si era recato a Palermo per ritrovare la madre e tentare di riconciliarsi con il casato nobiliare d’appartenenza. Sulla quarantina, il giorno esatto dell’inaugurazione dell’Esposizione Universale a Parigi nel 1900, ai piedi della torre Eiffel, aveva incontrato Anne-Marie NautsÖdenkoven <58, donna fiamminga dell’alta borghesia liberale di Anversa. Si sposarono quello stesso anno, tre giorni prima di Natale. Costei, di lì a poco, sarebbe diventata madre di Giuseppe Giovanni, poi di Lorenzo Ercole (nel 1903) e, infine, di Angelo Carlo (nel 1907). Il padre dei tre fratelli, molto sensibile alle sofferenze dei lavoratori e ispirato da un forte sentimento di giustizia sociale, si era laureato in economia con una tesi incentrata sui ‘magazzini generali’, quale servizio pubblico di distribuzione teso ad attenuare i rischi del libero mercato: “le sue proposte si fondavano su un concetto di economia cooperativa, cosicché i lavoratori, riscattati dal semplice ‘lavoro delle braccia’, avrebbero partecipato alla direzione degli affari stessi” <59.
Traiettoria intellettuale di un giovane pensatore
L’infanzia dei tre fratelli, poliglotti già in tenera età, trascorse in viaggio fra Italia, Francia, Belgio ed Inghilterra. Come il nostro autore avrebbe raccontato: “non ho passato un solo anno della mia vita nello stesso paese e ho ricordi d’infanzia in tutta Europa” <60. Giuseppe, tra le quattro mura scolastiche, non fu uno studente brillante, benché sin da fanciullo dimostrasse un’indole tanto vivace e appassionata, quanto solitaria e riflessiva. L’instabilità affettiva del padre Luigi, afflitto dal controverso blasone e da una cronica infedeltà coniugale, gravò da subito sulle gracili spalle del primogenito: iniziò la scuola elementare con due anni di ritardo e manifestò ben presto difficoltà
nell’apprendimento della lettura. Da allora la madre Anne-Marie decise di prendersi cura dei tre figli da sola. All’età di dodici anni, in piena separazione coniugale, i quattro si trasferirono a Parigi e Giuseppe fu ammesso nel prestigioso Liceo Condorcet <61. Da subito in classe “ciò che mi sbalordì e mi colpì era l’estremo disordine nel quale ci gettavano dinnanzi le nozioni. […] Alle nostre domande sulla vita, la morte, gli animali, la luce, Dio… non v’erano risposte, mentre imponevano al nostro povero intelletto mille risposte che non ci interessavano” <62. Nel corso degli studi ‘Peppino-Fagiolo’, come lo motteggiavano i compagni, si appassionò alla poesia (soprattutto Heredia e Dante), al greco, all’arte oratoria e alla filosofia, interrogandosi, senza ricevere risposte soddisfacenti dal clero interpellato, anche sulla religione: “con una pietà bruciante [...] si alzava di notte, si inginocchiava e pregava il Buon Dio: per gli animali perseguitati dal carrettiere, dal macellaio, dal cacciatore e persino dal commensale d’ogni giorno; per le anime dell’inferno: mio Dio, fa’ che non vi siano dannati in eterno...” <63.
Allo scoppio della prima guerra mondiale la madre ritornò in Italia, mentre il quindicenne Giuseppe, ormai noto a scuola per i versi improvvisati, viveva tra la capitale e le isolate lande normanne. Gli ultimi due anni di studi secondari furono particolarmente importanti per la formazione del futuro scrittore e pensatore. Scoprì il nichilismo, l’ateismo, l’evoluzionismo e il positivismo, studiando, fra gli altri, Nietzsche, Darwin e Comte. Fu a quel tempo che Lanza cominciò “a scrivere i [...] primi testi pieni di furori filosofici e di sarcasmi, scandalizzando così i cristiani più tiepidi del mio ambiente. Scrissi anche un poema dal titolo ‘La storia del buon Dio’ (che il buon Dio mi perdoni!), dove predicavo la ‘religione nuova’, la religione senza Dio, in cui la Scienza era il Dogma e l’Arte il Culto” <64. A diciannove anni conseguì finalmente il diploma; alla prova orale, su invito del docente estrasse a sorte il tema ‘giustizia’, su cui si cimentò in un episodio memorabile riportato nei Viatici <65: “strano calcolo degli uomini che pretendono di fermare il male facendo del male a coloro che hanno fatto del male”. Il professore si destò dal torpore, commentando “Non è così falso! […] É una citazione? Di chi? Dove avete letto questa cosa?”, al che l’esaminando rispose: “Dico quel che penso”. “Ed ora - continuava l’annotazione - più ci penso più ci credo, essi continuano a fare il male per arrestare il male. Si susseguono guerre e rivoluzioni a catena. Così sono forgiate le catene della Storia”. A quel 1920 risalgono anche le prime pagine del diario personale, testimonianza di un acuto slancio contemplativo, incline allo stupore e affascinato dalla luminosità di un mondo percepito come “un grande cristallo nelle cui sfaccettature si rifrange la luce” <66.
Il diploma ottenuto a Parigi lo abilitò formalmente all’insegnamento di latino, greco e filosofia. Desideroso di approfondire gli studi in questa sfera dell’umano sapere, Giuseppe Lanza del Vasto decise di iscriversi nel 1920 dapprima all’Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento, quindi alla facoltà di Filosofia dell’Università di Firenze. Degni di menzione sono i tre principali insegnanti di quel breve periodo fiorentino, grazie ai quali, ipotizza de Mareuil, il giovane studente sarebbe riuscito a non scivolare dall’agnosticismo laico in una prospettiva ciecamente materialista: il lucano Francesco de Sarlo (1864-1937), spiritualista <67, co-redattore tra il 1912 ed il 1915 della rivista fiorentina ‘Psiche’ insieme a Roberto Assaggioli, antifascista, critico dello scientismo e del neoidealismo allora imperanti; il conterraneo Eustachio Lamanna (1885-1967), allievo e genero di De Sarlo, teorico <68 dell’esperienza morale e religiosa, giuridica e politica, sostenitore del regime fascista; Giovanni Calò, (1882-1970), pedagogista pugliese, accademico dei Lincei e sottosegretario alla pubblica istruzione nella prima metà del ‘22. Lanza si trasferì nel 1921, sotto il rettorato di Giovanni Gentile, all’Università di Pisa, la città ‘cogitabunda’ dove avrebbe vissuto per quattro anni. Qui respirò l’atmosfera bollente di rivendicazioni operaie e ardori fascisti in ascesa. Frequentava poco i corsi, impregnati di utilitarismo inglese, studiando alacremente <69 in autonomia e dedicandosi a brevi viaggi lungo la penisola, alle prime avventure romantiche, a nuove intense amicizie. Fra queste, spiccarono l’incontro con Giovanni Acquaviva, studente di giurisprudenza e pittore futurista in erba, e con Antonino da Empoli, fervente cattolico. Cominciò proprio allora ad abbozzare un sistema filosofico dialettico che superasse Cartesio, Kant ed Hegel, imperniato sulla ‘trinità spirituale’: un pensiero “ritmato da opposizioni senza contraddizioni, da complementarietà dinamiche, da triadi che riassorbono la dualità nell’unità” <70. Leggeva, fra i numerosi pensatori, Einstein, von Ruysbroek, santa Caterina da Siena, approcciava per la prima volta gli insegnamenti del Buddha, di Lao Tse e Śaṅkarācārya; curava i cronici reumatismi, eliminati negli anni a venire grazie al regime vegetariano e ai protratti cammini, con le cauterizzazioni. Riuscì ad evitare l’arruolamento nell’esercito per la clemente complicità dell’ufficiale preposto, il quale in ossequio alla sua ascendenza nobiliare addusse l’altezza eccessiva come pretesto d’esonero. La poesia ‘Parole sulla Montagna’ <71 del giugno 1923 rivelava per la prima volta un sincero amore per Dio, volto a trasmutare i tormentati attaccamenti alla logica razionale, all’orgoglio e alla sensualità in occasioni altrettanto appassionate di adorazione e devozione. Ispirato dal pacifismo internazionalista liberale che circolava negli anni ‘20 tra le élites erudite europee <72, il giovane Giuseppe fu invitato agli incontri periodici organizzati dal suo vecchio professore di greco, il signor Desjardins, presso il circolo ospitato nell’ex-abbazia cistercense di Pontigny <73, denominato la ‘Casa degli Amici’ e animato da intellettuali e artisti provenienti da tutto il continente. In quegli stessi anni il fratello Lorenzo, studente di agraria, lo introdusse a ‘Il Capitale’ di Karl Marx <74, rispetto al quale la sua postura critica, solidale verso la condizione proletaria, avrebbe conosciuto una pluridecennale evoluzione. L’amico Giovanni Acquaviva, nel frattempo, gli proponeva audacemente di redigere al suo posto la tesi di laurea in filosofia del diritto, in cambio di opere pittoriche. Fu così che Lanza del Vasto scrisse <75 la celebre ‘Tesi di Acquaviva’, intitolata ‘Una concezione dell’etica e del diritto’, nella prima metà del 1925. Dattiloscritta e con correzioni autografe dell’autore (di cui non figura, comunque, il nome), la tesi, che consentì all’amico giurista di conseguire il titolo e di intraprendere una lunga carriera da magistrato indulgente, è ancora oggi reperibile presso gli archivi dell’ateneo pisano.
[NOTE]
43 Lanza del Vasto visse, a suo avviso, “un momento folgorante che ribalta i rapporti stabili della sua gioventù, e che lo fa giungere da miscredente a religioso aperto a tutte le religioni, da razionalista a profondamente rispettoso della vita altrui, da individualista a fondatore di comunità, da aristocratico a nascosto in mezzo alla gente semplice e sperduta del mondo, da ricco a possessore dei suoi soli abiti”. [Fonte: Antonino Drago, La Comunità dell’Arca, Azione Nonviolenta, anno IX, novembre-dicembre 1972; p. 11]
44 Antonino Drago (a cura di), Il pensiero di Lanza del Vasto: una risposta al XX secolo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2010; p. 16.
45 Ibidem, p. 19. É interessante, a tal proposito, leggere il commento di un docente cattolico di teologia morale, in riferimento implicito ai ranghi di ‘Comunione e Liberazione’: “I suoi libri venivano letti dai militanti di un movimento molto vitale, interno al cattolicesimo italiano (la casa editrice Jaca Book era in quegli anni ad esso collegata), per i quali forse era l’unico contatto […] ‘non immediatamente missionario’ con l’Oriente”. [Fonte: Leonardo Lenzi, Lanza del Vasto e altre esperienze ‘disoccidentanti’, in: Antonino Drago (a cura di), Il pensiero di Lanza del Vasto: una risposta al XX secolo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2010; p. 83]
46 René Doumerc, Dialogues avec Lanza del Vasto, Les Éditions du Cerf, Parigi, 1980; p. 10.
47 Antonino Drago (a cura di), Il pensiero di Lanza del Vasto: una risposta al XX secolo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2010; p. 24.
48 Andrea Cozzo, Scienza, conoscenza e istruzione in Lanza del Vasto, in: Antonino Drago (a cura di), Il pensiero di Lanza del Vasto: una risposta al XX secolo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2010; p. 114.
49 Arnaud De Mareuil, Lanza del Vasto: Sa vie, son oeuvre, son message, Dangles, Saint-Jean-de-Braye, 1998; p. 15.
50 Roberto Pagni, Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, Edizioni Paoline, Roma, 1981; p. 26.
51 Fernando Vittorino Joannes, Premessa a: Ibidem, p. 7.
52 Leonardo Lenzi, Lanza del Vasto e altre esperienze ‘disoccidentanti’, in: Antonino Drago (a cura di), Il pensiero di Lanza del Vasto: una risposta al XX secolo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2010; p. 87.
53 Jean Toulat, Combattenti della nonviolenza, E.M.I., Bologna, 1984; p. 57.
54 Anne Fougère e Claude-Henri Rocquet, Lanza del Vasto: Pèlerin, Patriarche, Poète, Desclée de Brouwer, Parigi, 2003; p. 22.
55 Srīmad Bhagavad Gītā, Canto XV, v. 4.
56 Gabriella Falcicchio, Profeti scomodi, cattivi maestri: Imparare a educare con e per la nonviolenza, Edizioni La Meridiana, Molfetta, 2018; p. 32.
57 “Secondo le usanze, il neonato fu bagnato in un tino di vino nuovo, che si crede porti grande forza al futuro uomo, il quale, in seguito, non berrà vino. Il giorno dopo lo battezzarono e lo festeggiarono con petardi, piogge di fiori, chitarre e mandolini”. [Fonte: Jean Toulat, Combattenti della nonviolenza, E.M.I., Bologna, 1984; p. 22]
58 La madre di Lanza del Vasto era cugina, dal lato materno, di Henry Ödenkoven, figura di rilievo nella storia del pacifismo europeo agli inizi del XX secolo. Nato ad Anversa nel 1875, figlio di Louis Ödenkoven, facoltoso magnate e industriale (produzione di candele) di Anversa, e dell’inglese Elise Adderley, conobbe durante un soggiorno presso uno stabilimento di cura in Slovenia nel 1899 la pianista sassone, di adozione montenegrina, Ida Hoffmann, la quale sarebbe diventata col tempo la sua compagna di vita. Insieme a lei, a sua sorella Jenny, ai fratelli rumeni Karl e Gustav Gräser e alla giovane Lotte, Henry fondò nel 1900 il Monte Verità ad Ascona, in Svizzera, acquistando il terreno su cui era stata in precedenza progettata la costruzione di un convento teosofico. Grazie al cospicuo patrimonio familiare, la comunità, agricola, artigianale e non confessionale, fu progressivamente ampliata e trasformata in un centro vegano e naturista, improntato anche alla pratica delle arti e, in particolare, della musica e dell’architettura. Interessato alla spiritualità e attento all’emancipazione femminile, Henry si dedicò soprattutto alla conduzione del sanatorio, dove proponeva, fra l’altro, euritmia e bagni di sole integrali. La fama del Monte Verità si diffuse in tutta Europa e oltre oceano, al punto da essere ben presto frequentato da teosofi, riformatori, anarchici, comunisti, socialdemocratici, psicoanalisti, personalità letterarie, scrittori, poeti, artisti, esuli e persone di ogni risma. Fra le sue svariate centinaia di ospiti è possibile citare: Raphael Friedeberg, il principe Peter Kropotkin, Erich Mühsam (il quale definì Ascona ‘la repubblica dei senza patria’), Otto Gross (il quale vi progettò una ‘scuola per la liberazione dell’umanità’), August Bebel, Karl Kautsky, Otto Braun, Hermann Hesse, la contessa Franziska zu Reventlow, Else Lasker-Schüler, D. H. Lawrence, Rudolf von Laban, Mary Wigman, Isadora Duncan, Hugo Ball, Hans Arp, Hans Richter, Marianne von Werefkin, Alexej von Jawlensky, Arthur Segal, El Lissitzky. A partire dal 1914 Henry partecipò alle sedute dell'ordine del Tempio d'Oriente. Dopo aver lasciato il Monte Verità nel 1920, tentò di creare nuove colonie vegetariane in Spagna, poi in Brasile (‘Monte Sol’), che però fallirono in poco tempo. Morì a São Paulo nel 1935. [Fonti: OltreconfiniTI; Dizionario Storico della Svizzera; Stefan Bollmann, Monte Veritá, EDT, Torino, 2019 (2017).]
59 Giacomo Zaccaria, Lanza del Vasto: Note bio-bibliografiche, Città di San Vito dei Normanni, Settore Affari Generali, Ufficio Relazioni con il Pubblico, 2008.
60 Roberto Pagni, Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, Edizioni Paoline, Roma, 1981; p. 23.
61 Jean Toulat racconta con umorismo come il giovane Lanza dovesse qui “aggiungere allo studio delle declinazioni latine quello della musica, danza, scherma e dell’equitazione. […] Impara a fare l’inchino, a fare il baciamano alle signore, a mangiare la crema al cioccolato senza sporcarsi il colletto di pizzo”. [Fonte: Jean Toulat, Combattenti della nonviolenza, E.M.I., Bologna, 1984; p. 22]
62 Jean Toulat, Combattenti della nonviolenza, E.M.I., Bologna, 1984; p. 24.
63 Arnaud De Mareuil, Lanza del Vasto: Sa Vie, Son Oeuvre, Son Message, Éditions Dangles, Saint-Jean-de-Braye, 1998; p. 19.
64 Roberto Pagni, Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, Edizioni Paoline, Roma, 1981; p. 30.
65 Le Viatique I, Libro II, Firenze 1921, n° 12-13.
66 Ibidem, p. 20.
67 La novità centrale introdotta da De Sarlo, dal 1900 al 1933 cattedratico di filosofia teoretica presso il Regio Istituto di Studi Superiori di Firenze e influenzato dalle lezioni del concittadino Franz Brentano (1838-1917; celebre pensatore e autore de ‘La psicologia come esperienza empirica’, ex-sacerdote tedesco, contrario al dogma dell’infallibilità papale, poi professore all’Università di Vienna, ebbe tra i suoi allievi anche Sigmund Freud, Rudolf Steiner ed Edmund Husserl) è l’idea per cui qualsiasi fenomeno fisico esiste in quanto contemporaneamente psichico, contenuto cioè della coscienza umana. A suo parere, dunque, l'oggetto di studio della psicologia avrebbe dovuto concentrarsi sull'esperienza intenzionale del soggetto. L'unica vera esperienza diretta era, a suo avviso, quella psichica. Esperienza interna ed esterna andavano così a configurarsi come due aspetti interdipendenti e inscindibili del medesimo fenomeno.
68 Le prime pubblicazioni a Firenze fra il 1914 e il 1919, fra cui ‘La religione nella vita dello spirito’ (1914), ‘Il sentimento del valore e la morale criticistica’ (1915), ‘L'amoralismo politico’ (1916), ‘Il fondamento morale della politica secondo Kant’ (1916), ‘Il bene per il bene’ (1919), ‘Il diritto correlativo al dovere nell'idea di bene morale’ (1919), ‘L'eticità del diritto: l'esperienza giuridica’ (1919) permisero a Lamanna di conseguire la libera docenza, quindi di ottenere nel 1921 la cattedra di Filosofia Morale presso l'Università di Messina. Tre anni dopo assunse la direzione della cattedra di Storia della Filosofia all'Università di Firenze, dove si sarebbe poi svolta tutta la sua carriera accademica, anche da Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1947 al 1953, fino alla quiescenza raggiunta nel 1961.
69 Dai taccuini si evince che gli anni di studio a Pisa furono per Lanza del Vasto particolarmente fecondi ed entusiasmanti. Si leggono, infatti, righe come queste: “Io cambio, e cambio, e cambio, sono inesauribilmente il contrario di me stesso!” (Viatique X, inedito, 2615), “Per portare a termine i miei progetti e le mie opere, non mi basterebbero tre vite, né quattro” (Le Viatique I, VI, 10, p. 226) e “Voglio vedere tutto, gustare tutto, soffrire tutto, conoscere tutto, fare tutto” (Le Viatique I, IV, 31, p. 150).
70 Daniel Vigne, La Relation Infinie: La Philosophie de Lanza del Vasto, vol. II: L’etre et l’esprit, éd. du Cerf, Parigi, 2010; p. 23.
71 Arnaud De Mareuil, Lanza del Vasto: Sa Vie, Son Oeuvre, Son Message, Éditions Dangles, Saint-Jean-de-Braye, 1998; p. 34.
72 Ci riferiamo, in particolare, insieme al MIR, a Pierre Cerésole e al ‘Service Civile Internationale’ da lui fondato nel 1920 in Svizzera.
73 A Pontigny Lanza del Vasto realizzò, in particolare, come “la pratica assidua e continua dell’intelligenza possa trasformare il carattere dell’uomo e della sua natura, raffinandola. L’uomo colto non merita questo titolo né per la massa del suo sapere, né per la potenza della sua originalità, ma per una certa trasformazione che il lavoro dell’intelligenza opera in lui. Può non essere sapiente, né artista, né filosofo, e ciò nonostante, nello scambio delle idee e nella discussione, tenere testa ai più grandi geni”. [Fonte: Roberto Pagni, Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, Edizioni Paoline, Roma, 1981; p. 32]
74 Frédéric Richaud, tra i più recenti biografi di Lanza del Vasto, non esita a definirlo in più occasioni un politologo ‘honoris causa’: “sebbene condividesse le critiche di Marx contro il salariato e le frontiere, il fatto che il teorico tedesco considerasse gli uomini come delle ‘macchine economiche’ e, soprattutto, che avesse escluso Dio e i propri valori dal suo sistema, inficiava in anticipo, a suo parere, il successo della sua impresa”. [Fonte: Frédéric Richaud, Voir Gandhi: l’extraordinaire périple de Lanza del Vasto, Editions Grasset & Fasquelle, Parigi, 2018; p. 34]
75 Cfr.: Arnaud De Mareuil, Lanza del Vasto: Sa Vie, Son Oeuvre, Son Message, Éditions Dangles, Saint-Jean-de-Braye, 1998; p. 37. Il biografo sottolinea come il giovane Lanza del Vasto si fosse ‘appassionato’ alla filosofia del diritto.
Alessandro Paolo, La Non-violenza di Lanza del Vasto e dell’Arca. Spunti filosofici, socio-politici e giuridici per percorsi di pedagogia interculturale, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2021-2022

mercoledì 31 luglio 2024

Hic sunt Antilopes


"La caccia all’Antilope di Stato è appena agli inizi, ma l’Inquirente marcia già spedita verso una ben determinata direzione. Agisce insomma, come se le fosse già noto il traguardo da raggiungere (il nome del principe della corruzione da smascherare); e le mancassero invece solo le prove probanti, atte a dar seguito alle sue rivelazioni. Ha pertanto dato mandato alla Guardia di Finanza di procedere alla perquisizione di alcuni istituti di credito della capitale" <176.
«Osservatore politico» descrisse in maniera positiva, con l’articolo "Safari di Stato" del 28 aprile 1976, la ricerca svolta dalla Commissione Inquirente per scoprire l’identità del destinatario delle tangenti Lockheed. Entusiasmo destinato a spegnersi pochi mesi dopo.
La nuova Commissione, presieduta dal senatore democristiano Mino Martinazzoli, dichiarò ufficialmente aperta l'inchiesta nei confronti dei deputati Rumor, Gui e Tanassi.
Nel numero di «Osservatore politico» "Lockheed: la traccia c’è, solo che Martinazzoli volesse scavare" del novembre 1976, Pecorelli continuò a sostenere la sua linea accusatoria contro Antonio Lefebvre. "Piuttosto che menar tanto il can per l’aia, l’Inquirente farebbe meglio a porre l’attenzione sulle verità palpabili che ha a portata di mano. Per esempio i prelievi effettuati sui conti della First National Bank e trasmessi a vari istituti di credito su conti utilizzati da uomini di Antonio Lefebvre - la medaglia d’oro della Pubblica Istruzione italiana - per provare operazioni di carattere speculativo […]. Va inoltre considerato che all’epoca della corruzione, Antonio Lefebvre aveva estremo bisogno d’enormi quantità di denaro" <177.
Per tutta la durata del processo della Corte Costituzionale, che si svolse tra il 1977 e il 1979, Pecorelli mantenne l’idea dell’esistenza d’altri personaggi all’interno dello scandalo; il giornalista li definì come gli innominati. Secondo «Osservatore politico», inoltre, non vi sarebbe stata la reale intenzione di scoprire l’identità del maggior beneficiario delle tangenti dell’azienda americana. "L’hanno chiamato il processo del secolo, per la prima volta nella storia della Repubblica la Corte Costituzionale s’è trasformata in alta corte di giustizia, ma dopo due anni di istruttoria e sei mesi di processo, nonostante costosissime trasferte di deputati, magistrati ed esperti in America e in Svizzera, dopo due anni di aspre polemiche, di tribolatissime dimissioni, pattuizioni e ricatti, il paese riuscirà a sapere tutta la verità su Lockheed? Leone è stato costretto a lasciare il Quirinale anzitempo, ma si saprà mai chi è l’Antilope? I commissari d’accusa della Consulta stanno concludendo le requisitorie, ma sul banco degli imputati siedono solo Antonio e Ovidio Lefebvre; Gui, Tanassi, Olivi ed altri minori. Dove sono l’Innominato n. 1, il n. 2 e il terzo, dov’è l’Antilope Cobbler che dell’imbroglio è il vero artefice e il maggior beneficiario?" <178
Lamentando la lentezza delle indagini italiane in contrasto con l’efficienza dei tribunali esteri, in particolar modo i tribunali olandesi e giapponesi nella vicenda delle tangenti aeree, descrisse il processo come viziato dalle origini.
"A seguire i lavori della Consulta, sembra quasi che la maggiore preoccupazione sia quella di non trovarsi all’improvviso tutta la verità in aula. Quasi che il vero processo o la sentenza fossero già stati pronunciati nella famosa seduta congiunta del Parlamento, e che ormai non si trattasse più che di espletare la formalità di condannare Gui e Tanassi" <179.
Nell’articolo "Hic sunt Antilopes", del 3 ottobre 1978, Carmine Pecorelli dichiarò d’avere utili informazioni per sviluppare le indagini. Si tratta di tre assegni versati dalla società Lockheed in conti svizzeri protetti dai controlli fiscali italiani. Il giornalista li pubblicò su «Osservatore politico», chiedendosi per quale motivo, vista la disponibilità della polizia di Berna, la Corte Costituzionale non avesse ancora vagliato tali documenti.
"Che dire infatti dei due documenti che pubblichiamo qui affianco? Nel primo, il 21 marzo di quest’anno il dipartimento di polizia di Berna faceva sapere alle nostre autorità di non poter rivelare i nomi del beneficiario di tre assegni Lockheed finiti in banche svizzere […]. A questo punto il lettore imprecherà contro le autorità elvetiche: al solito, pur di lucrare sui depositi bancari, impediscono il corso della giustizia, pur di guadagnare un franco, preferiscono ingannare un intero popolo. Purtroppo le cose sono andate diversamente. Perché nello stesso documento la polizia di Berna aggiungeva cortesemente: «se la Corte Costituzionale giudica che la conoscenza dell’identità di questa persona è indispensabile per poter giudicare i fatti sui quali si basa la commissione rogatoria, le è consentito di rivolgere una seconda richiesta a questa divisione». Non ci risulta che dal 21 marzo ad oggi la Corte Costituzionale abbia osato tanto. Forse perché, escluso che potesse essere l’imputato Gui o l’imputato Tanassi, esclusi persino i due fratellini di Napoli, si trattava di ricercare il titolare di quel conto troppo scottante nel ristrettissimo novero di quelle persone da sempre sospette che si è avuto gran cura di non tirare in ballo" <180.
Gli sviluppi dell’indagine vennero narrati nel numero del 14 novembre 1978, "Gli assegni della vergogna". «Osservatore politico» si attribuì una parte del merito, riguardante la scoperta degli assegni svizzeri e la rivelazione dei beneficiari di tali conti. Carmine Pecorelli dimostrò il suo ottimismo e si auspicò una rapida e risolutiva fine della vicenda.
"I difensori degli imputati minori stavano concludendo le loro arringhe ma il processo non riusciva a scrollarsi dal triste cammino segnato dai giudici parlamentari dell’Inquirente, quando la settimana scorsa è giunto dalla Svizzera il colpo della grande svolta: le autorità elvetiche hanno comunicato ai giudici della Consulta il nominativo dei titolari e i movimenti dei conti cifrati sui quali sono confluite le tangenti Lookheed. Ovidio ed Antonio Lefebvre non possono più farsi beffa della nostra giustizia, il processo dismette i panni e toni della sceneggiata napoletana per assumere quelli asciutti e nordici delle cifre. Era ora: Op aveva rivelato che la Svizzera era disposta a fare i nomi dei corrotti fin dal 21 marzo scorso, purché qualcuno in forma ufficiale glielo avesse chiesto. A quel punto diventava impossibile impedire che tutte le verità elvetiche giungessero sui tavoli dei giudici ed avvocati della consulta. Così è stato infatti e ora, anche grazie al nostro intervento, si può parlare di cose serie, smetterla di ciurlare nel manico con Innominati e piuttosto passare a fare i conti in tasca ai Lefebvre e agli altri corrotti. A ripercorrere il cammino delle tangenti: fino all’Antilope, con un po’ di fortuna e molto coraggio" <181.
[NOTE]
176 Safari di Stato, Ivi, 28 aprile 1976.
177 Lockheed: la traccia c’è, solo che Martinazzoli volesse scavare, «Osservatore politico», 26 novembre 1976.
178 Hic sunt Antilopes, Ivi, 3 ottobre 1978.
179 Hic sunt Antilopes, Osservatore politico, 3 ottobre 1978.
180 Ibidem.
181 Gli assegni della vergogna: Lockheed, «Osservatore politico», 14 novembre 1978.
Giacomo Fiorini, Penne di piombo: il giornalismo d’assalto di Carmine Pecorelli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012-2013

giovedì 18 luglio 2024

Dal 30 dicembre 1943 al 14 gennaio 1944 in provincia di Cuneo vengono assassinati dai tedeschi 200 persone tra civili e partigiani


Il 12 settembre i tedeschi entrano a Cuneo. Le SS prendono in consegna l’intera città, rastrellano centinaia di soldati sbandati destinandoli ai campi di concentramento in Germania, insieme agli ebrei in fuga in cui si imbattono. Nel frattempo i ribelli sono alla macchia e si organizzano per la guerriglia. Le bande che iniziano a formarsi raggruppano uomini diversi tra loro, spesso lontani per origine politica e sociale, e con intrinseche peculiarità motivazionali; i loro atteggiamenti e le loro ispirazioni influenzano le impostazioni della guerra partigiana che assume in prima battuta i caratteri di una protesta di pionieri.
Il territorio cuneese, collocato tra la Liguria e la Francia sud-orientale, occupa una posizione strategica che favorisce la precoce formazione delle bande partigiane, ma determinante è l’iniziativa personale degli uomini che fin da subito si impegnano per organizzare e condurre la lotta partigiana. È il caso di Duccio Galimberti. Nel suo studio di avvocato fin dal 26 luglio convergono elementi antifascisti cuneesi e, tramite Dante Livio Bianco <1, anche torinesi, che organizzano un piccolo gruppo e un formale arruolamento. Galimberti e Bianco, con altro dieci compagni, salgono in Valle Gesso, a Madonna del Colletto, dove danno vita alla banda “Italia Libera”, una settimana più tardi si spostano a Paraloup in bassa Valle Stura, dove si unisce a loro Nuto Revelli: si definisce così uno dei primi nuclei partigiani della provincia e del Nord Italia.
Tuttavia questo caso non è l’unico degno di nota, nelle valli vicine altri si stanno preparando alla guerriglia. Due carradori di fede comunista, Giovanni e il figlio Spartaco Barale <2, lasciano la bottega, diventata sede del comando della formazione, e la residenza di Borgo San Dalmazzo per gettare le basi di un nucleo partigiano in Valle Vermenagna, mentre sulle pendici della Bisalta Ignazio Vian <3, un giovane tenente della GaF, raduna un contingente di soldati dispersi.
Ciascuna iniziativa è rappresentativa delle componenti da cui si origina la lotta armata. Ci sono i gruppi spontanei di origine militare, fedeli alle tradizioni dell’esercito e alla monarchia, dalle posizioni generalmente attendiste, o più reazionarie e attive come nel caso della banda di Vian; in quasi tutte le vallate, dalle Alpi Marittime al Monviso, ci sono militari sbandati, molti si sciolgono rapidamente, altri crescono di numero creando le Formazioni Autonome che richiamano l’esercito e il giuramento al re, nonostante mostrino talvolta al loro interno ispirazioni eterogenee, repubblicane o cattoliche come nel caso del nucleo partigiano della Valle Pesio. La seconda componente è costituita dai comunisti, come Giovanni Barale e suo figlio, e dai militanti del PCI di Torino che, guidati da Pompeo Colajanni “Barbato”, <4 riuniscono gli sbandati in Valle Po, dando vita al nucleo fondante delle brigate Garibaldi del basso Piemonte. La terza componente è rappresentata dai militanti del Partito d’Azione cui è legata la banda “Italia libera”, da cui nascono le brigate Giustizia e Libertà.
Una settimana dopo l’arrivo dei tedeschi, il 19 settembre, ecco il primo grande avvenimento che sconvolge la popolazione insieme alla fragile e neonata organizzazione partigiana. Un battaglione di SS, al comando del maggiore Joachim Peiper, muove all'attacco nella zona di Boves. L'azione si propone un duplice scopo: stroncare sul nascere l'organizzazione degli ex militari dislocati nella Valle Colla; punire la popolazione di Boves con una strage esemplare che diventi un monito. Il bilancio della giornata è tragico: ventisette i civili morti, donne e uomini, quasi tutti vecchi; trecentocinquanta le case incendiate, distrutte.
Nei giorni febbrili che succedono l’armistizio si avviano lentamente accordi tra i vari gruppi e partiti politici, non senza difficoltà e diversi obiettivi. <5
L’unico scontro a fuoco in Piemonte tra le truppe naziste e i resti dell’esercito italiano, e l’eccidio che segue a Boves segnano l’inizio della guerra, è per tutti la fine delle illusioni e delle speranze di una pace imminente.
Il movimento partigiano del Cuneese nell’autunno del ’43 ha una natura mutevole. Nelle prime settimane tra i gruppi attivi si contano la Banda di Boves, la “Compagnia Rivendicazione Caduti” nei dintorni del capoluogo, gli elementi della famiglia Barale in Valle Vermenagna, la Banda “Prato” a Roaschia, la Banda di Frise, la Banda di Paraloup, la formazione del capitano Carbone all’imbocco della Valle Maira, dei raggruppamenti in Val Varaita, il gruppo di Geymonat-Barbato in Valle Infernotto e infine reparti di ispirazione militare nelle valli Casotto e Pesio. Mancano ancora i Roeri e le Langhe, dove la Resistenza prende il via nella primavera dell’anno successivo. Si assiste tuttavia a una progressione continua per cui alcune bande spariscono quasi subito, si trasferiscono, entrano in rapporti con altri gruppi o si aprono ad altre ispirazioni politiche e sociali. È in questo periodo che l’intero Cuneese viene suddiviso per volontà del CLNRP <6 in settori: il I settore comprende l’area tra il Monregalese e la Valle Vermenagna, il II settore quella tra quest’ultima e la Valle Grana e il III settore tra le Valli Maria e Po. <7
Dopo l’assestamento dei mesi di settembre e ottobre, a dicembre il partigianato è una realtà consolidata che i nazifascisti fronteggiano con violenze per ripulire il territorio dalle bande. Il comando inviato dalla Germania ha messo in atto le disposizioni di occupazione in termini amministrativi per controllare la vita economica e produttiva del territorio; l’apparato militare della Rsi si mette all’opera e inizia a pubblicare i bandi di chiamata alle armi per i giovani delle classi 1923, 1924 e 1925. A impensierire i nemici è anche l’interessamento del popolo nei confronti dell’attività dei partigiani, questi infatti non sono combattenti isolati, c’è una corrispondenza tra loro e le masse popolari che si manifesta nei modi più vari, dal supporto entusiastico ad atti concreti come la fornitura di viveri, il ricovero dei feriti, il trasporto e l’occultamento di armi. È la gente di montagna, più di altra, a sodalizzare con le bande, prima dando da mangiare o da dormire agli sbandati dell’8 settembre poi aiutando i partigiani, nonostante il terrore delle rappresaglie, degli eccidi e delle vendette.
Questo atteggiamento è l’espressione di uno stato d’animo diffuso che rivela le aspettative della popolazione.
Le iniziative partigiane nei primi mesi di lotta contano molti episodi significativi sia dal punto morale sia militare. Come il “territorio liberato” da parte di elementi bovesani insediatisi in Valle Stura che, cacciate le milizie fasciste, proclamano Vinadio “città libera”; pur trattandosi di un’esperienza breve, perché in soli tre giorni una colonna di tedeschi e di SS italiane riconquista il territorio, essa contribuisce a diffondere entusiasmo per la “liberazione”. Si citano poi il sabotaggio del viadotto ferroviario di Vernante, sulla linea Cuneo-Ventimiglia, che viene fatto saltare paralizzando il traffico per un anno o l’attacco all’aeroporto di Mondovì contro i tedeschi per prelevare un carico di benzina. Sono colpi di questo genere e i sempre più frequenti scontri armati a dare la spinta al grande periodo di rastrellamenti con cui le forze germaniche si impegnano a ripulire il territorio dalle formazioni partigiane. Dal 30 dicembre 1943 al 14 gennaio 1944 vengono assassinati dai tedeschi 200 persone tra civili e partigiani. Si comincia “il 30 dicembre con Bagnolo Piemonte e Paesana, il giorno dopo tocca a Boves, dove l'eccidio, secondo dopo quello di settembre, si prolunga per quattro giorni; il 2 gennaio a Dronero viene compiuta un'esecuzione; il 5 gennaio alla frazione Ceretto, fra Busca e Costigliole Saluzzo, è commesso un eccidio di civili; il giorno successivo si torna in val Po, con le uccisioni a Barge; il 10 gennaio la strage di piazza Paschetta a Peveragno; il 12–13 gennaio rastrellamento in valle Grana e il giorno successivo la morte di numerosi partigiani al Pellone di Miroglio”. <8
A questa prima fase di sopravvivenza e incertezze segue unperiodo di crisi, non solo per i rovesci subiti dalle bande, ma anche per altre ragioni: non ci sono segni di un immediato sbarco alleato, il terrore nazifascista pesa sugli animi della popolazione che teme di appoggiare apertamente il movimento ribelle, si è in pieno inverno con scarse possibilità di rifornimento e un certo pessimismo si diffonde tra i combattenti. In retrospettiva, questo periodo costituisce per molti una risorsa, più che una difficoltà; infatti, a fronte delle perdite e delle difficoltà quanti sono scarsamente motivati ritornano in pianura o in città, e si allontanano dalle formazioni dove restano i più convinti, la cui esperienza torna utile a inquadrare il gran numero di reclute che raggiunge le vallate nelle settimane successive.
[NOTE]
1 Dante Livio Bianco (1909-1953) è stato un avvocato, alpinista e comandante partigiano. Nato a Cannes in Francia da genitori originari della Valle Gesso, nei primi anni del fascismo, durante gli studi universitari a Torino incontra e frequenta importanti figure antifasciste come Piero Gobetti e Alessandro Galante Garrone. Militante del Partito d'Azione, all’indomani dell’armistizio raggiunge Cuneo per organizzare le prime bande partigiane. Viene decorato di due medaglie d'argento al valor militare.
2 Giovanni Barale (1887-1944), primo segretario della Federazione comunista di Cuneo, con l’avvento del Fascismo svolge clandestinamente l’attività antifascista fino al luglio 1943, quando riorganizza nel Cuneese il partito, diventando figura di riferimento del movimento antifascista. È ucciso dai nazisti insieme al figlio Spartaco (1922-1944) nel tentativo di avvisare i comandi partigiani di un rastrellamento imminente.
3 Ignazio Vian (1917-1944) è una delle figure più rappresentative del partigianato cuneese. Chiamato alle armi quando l’Italia entra nel secondo conflitto mondiale, viene destinato alla Guardia di Frontiera di Boves dove dirige la lotta armata. Dalla Valle Colla si sposta in Valle Corsaglia e nelle Langhe dove è nominato vicecomandante del Gruppo divisioni Autonome. Recatosi a Torino per prendere contatti con i dirigenti del CNL del Piemonte, viene arrestato il 19 aprile e tenuto in carcere per mesi prima di essere ucciso dai tedeschi il 22 luglio 1944.
4 Pompeo Colajanni Barbato (1906-1987) fonda il distaccamento Pisacane, uno dei primi nuclei delle brigate Garibaldi di cui diventa comandante. Nell’aprile 1945 organizza la marcia delle formazioni su Torino di cui diventa vicequestore dopo la sua liberazione.
5 Nuto Revelli, introduzione a Guerra partigiana, Bianco, XX.
6 Sigla del Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Piemontese, organizzazione costituita nell’ottobre 1943 per organizzare e coordinare le bande partigiane che si stanno formando; è una cellula regionale del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) formatosi a Roma l’indomani dell’armistizio. Il CLN provinciale cuneese si formalizza in dicembre.
7 Marco Ruzzi, “La guerra partigiana e la guerra di Salò”, in Con la guerra in casa. La provincia di Cuneo nella Resistenza 1943-1945, a cura di Michele Calandri e Marco Ruzzi (Cuneo: Ass. Primalpe Costanzo Martini, 2016), 113.
8 Ruzzi, “La guerra partigiana e la guerra di Salò”, in Con la guerra in casa, 117.
Gaia Viglione, W la Libertà. Storia di due ribelli, Tesi di laurea, Politecnico di Torino, Anno Accademico 2023-2024