sabato 27 marzo 2021

Tentori modula sommessamente

Quanto a Francesco Tentori, la seconda voce sull’«Albero» 1975/53, da una lettera a Betocchi dell’8 gennaio 1976 sappiamo che Caproni ne aveva già visto prima della pubblicazione il dattiloscritto, ma non si avevano notizie ulteriori. Adesso una preziosa lettera caproniana inedita, la cui conoscenza devo a Lina e ad Antonio Tentori, 36 ci informa che a metà giugno era giunto in via Pio Foà un testo che (messo accanto ad una microserie di altri documenti inediti) ci consente di ricostruire il dialogo Caproni/Tentori, 37 e con quello una serie di contatti cordiali tra i due che si era nutrita non solo di poesia italiana, ma di testi spagnoli, di ritratti, di autoritratti, e di machadiane memorie.
Per procedere con ordine è il caso di iniziare da chi (stando ai documenti fino ad oggi disponibili) risulta essere partito per primo; cioè dalle recensioni, numerose 38 e generose, 39 di Caproni (già dal 1957) ai testi del giovane poeta e traduttore, che, come sua abitudine, 40 gli avrebbero dato l’occasione di riflettere in generale sulla poesia. La mappa indo-spagnola fornita dall’antologia ispano-americana di Tentori gli consentiva infatti di sottolineare la capacità che la poesia ha di far capire meglio di «inchieste e documentazioni» l’«odore delle cose». 41 «Per la prerogativa, che è soprattutto della poesia, di immediatamente ‘denunciarci’ il polso (l’anima, la cultura, la natura) d’un popolo», o per dirla con Leopoldo Panero, 42 ma pensando - sulla scorta di Tentori - a Neruda, a Vallejo: «un’altra lingua per esprimere l’anima». Visto che la poesia (Caproni lo avrebbe ricordato anche parlando, nella stessa omnicomprensiva rassegna, dei Canti gitani e andalusi di Lorca tradotti da Macrí), tra cuerpo ausente e alma presente, restituisce «la persona viva», «il meglio della persona viva» del poeta, «vale a dire d’un’anima che ha avuto la singolare ventura […] di costituirsi parte della nostra medesima anima quotidiana». Anima e poesia, dunque, e a molteplici riprese, vengono associate, tanto da poterne dedurre che raggiungere l’anima (anche per via delle segrete, machadiane galerias tante volte evocate) potesse equivalere, per Caproni, a toccare l’obiettivo ultimo del fare poetico. 43
Come vedremo tutto questo si intreccia con il nostro Vetrone, inserendosi nella corrispondenza tra i due poeti.
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Giorgio Caproni - Fonte: Wikipedia

36. Che ringrazio, ricordando gli amichevoli incontri nel corso dei quali è maturata in loro la decisione di donare le carte del padre all’Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti» del Gabinetto Vieusseux.
37. Che qui dunque si riproduce trascrivendo tutti i documenti inediti, grazie alla disponibilità degli eredi Caproni e Tentori.
38. Con tre interventi sulla poesia, apparsi su La Fiera Letteraria del 2 giugno 1957, del 7 agosto 1960 (come recensioni al Diario. Poesie 1947-1955, Roma: Edizioni della Meridiana, 1956 e di Lettere a Vilna, Firenze: Vallecchi, 1960) e La Nazione del 27 marzo 1964 (su Nulla è reale, Firenze: Vallecchi, 1964) e due sulle curatele e traduzioni, pubblicati su La Fiera Letteraria del 2 marzo 1958 (come recensione a Poesia ispano-americana del ’900, Parma: Guanda, 1957) e su Il Punto, 17-24 dicembre 1960 (sulle Poesie di Juan Ramón Jiménez, Parma: Guanda, 1960). Questi scritti sono adesso tutti raccolti, rispettivamente con i titoli di Dalla cultura alla poesia, Cimatti e Tentori, «Nulla è reale», Poesia ispanoamericana del Novecento, Natale con i poeti, in G. Caproni, Prose critiche 1934-1989. Edizione e introduzione a cura di Raffaella Scarpa. Prefazione di Gian Luigi Beccaria, Torino: Nino Aragno Editore, 2013, vol. 4.
39. Quasi in ognuno dei sui pezzi Caproni riconosce a Tentori (noto ispanista, e «anche uno dei pochi poeti coscienti e non improvvisati nella sua generazione»), oltre al merito di avere fatto conoscere la grande poesia ispano-americana, la serietà e cultura di un dettato individuale degno di attenzione (si veda, rispettivamente a proposito di Lettere a Vilna e di Nulla è reale: «questo giovane poeta […] senza rinnegare nulla del ‘passato’, ma anzi assumendone così dal profondo la lezione sino a riuscire, proprio per tale suo intelligente amore, a superarlo più d’una volta, occupa un posto di prima fila nell’antologia, non ancora compilata, della poesia del dopoguerra. / La sua poesia ha un tono sommesso, quasi discorsivo, povero in apparenza d’invenzioni ritmiche (domina per tutte le pagine un libero endecasillabo: è quasi del tutto assente la rima), ma, modello più vicino l’ultimo Luzi, profonde sono spesso le risonanze musicali (le risoluzioni di poesia raggiunta), che trovano la loro energia proprio nel loro saper conservarsi, nonostante le maggiori conoscenze e tentazioni, nell’ambito della naturale misura (che non viene mai forzata) della voce»; «Tentori modula sommessamente, su uno sfondo di silenziose città popolate d’ombre più che di persone certe e vissute più nel limbo del ricordo labile e intermittente che nella loro concreta realtà […] la sua dolce e perfino un poco coltivata ossessione di solitudine e di impossibilità di penetrare a fondo - di scoprire e di vivere a fondo - la tanto desiderata vita vera: quella vita che per lui sta forse dietro il vetro allettante ma ingannevole delle apparenze sensibili, e che tuttavia proprio i colori e i segni e i moti volubili di tali apparenze sembrano esser sempre lì lì per rivelargli, mentre riescon soltanto a confondere, o a distogliere, l’ansia della mente e del cuore in perpetua attesa d’un messaggio ch’è vano ma dolce, sperare. Un’ansia che soltanto nelle cercate lontananze dal presente oggettivo (memoria o sogno o esilio o sospirata clausura) può trovare a tratti, nella riapparizione d’un gesto o d’una voce o d’un fuggitivo volto, l’illusione d’una risposta al suo ininterrotto e sospeso interrogare»). Già nel primo testo del ’57 d’altronde Caproni aveva lucidamente individuato in Tentori l’«occhio fisso a certi modelli di civiltà poetica facilmente identificabili (l’area tra Bertolucci e Sereni con qualche lieve impennata fiorentina) e l’altro (quello che ci interessa di più) alla sua propria identità di poeta ‘successivo’».
40. Cfr. G. Caproni, Prose critiche 1934-1989, cit.
41. Nella fattispecie l’«odore di quella città mista (conquistadores che, mescolato il sangue diventano libertadores) in continua partita doppia di dare e avere con la vecchia Spagna» di cui parla nella recensione apparsa su La Fiera Letteraria del 2 marzo 1958.
42. Citato con questo rimando nella recensione.
43. A riprova si può vedere l’equivalenza canto/anima (il poeta ridotto «a pura voce (a puro canto: a pura anima)») in un testo (ora raccolto nei volumi delle Prose critiche) su La Fiera Letteraria del 9 febbraio 1958 come recensione a Biagio Marin, Tristessa de la sera (Verona: Riva, 1957).
Anna Dolfi, Giorgio Caproni, una lettera a Tentori e il «cielo dell’anima», Quaderns d’Italià, 22, 2017

Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi fa scoprire agli italiani la Lucania

Carlo Levi ad Aliano - Fonte: Officina della Storia

 Carlo Levi e la riscoperta del Sud

Dopo la caduta del fascismo e la fine della seconda guerra mondiale in Italia si torna a parlare di questione meridionale. I problemi del Mezzogiorno riaffiorano in tutta la loro gravità, esacerbati da venti anni di regime e dal conflitto. Il divario Nord Sud e l’arretratezza meridionale, emersi sin dall’unità d’Italia,ritornano alla ribalta dopo essere stati volutamente messi tra parentesi dal fascismo, che li aveva dissimulati nel mito di un Sud come arcadia e luogo di valori genuini e tradizione. Il dibattito sulle urgenze del Mezzogiorno, su un piano politico ed economico, si nutre del pensiero dei meridionalisti, incentrato in particolare sulla questione agricola e sulle necessarie riforme per lo sviluppo economico e industriale del Meridione. Ma un contributo fondamentale alla riscoperta del Sud è dato anche dalla letteratura, dal cinema e dalle arti figurative. Centrale in questa prospettiva è il romanzo di Carlo LeviCristo si è fermato ad Eboli, pubblicato da Einaudi nel 1945, grazie al quale il Paese scopre il mondo contadino attraverso gli occhi dell’intellettuale torinese[1]. Il romanzo, un vero e proprio caso letterario, fu accolto con molti consensi all’uscita. Scritto tra il 1943 e il 1944, racconta dell’esperienza del confino vissuta in Lucania, ad Aliano, da Levi nel 1935 e nel 1936. L’uomo del Nord, colto e proveniente da un ambiente urbano e industriale, si trova improvvisamente calato, con un inevitabile effetto di straniamento, in un mondo a lui totalmente sconosciuto, dominato dalla superstizione, dalla cultura rurale e dalla miseria più nera. Le pagine che nascono da quella esperienza si configurano come una vera e propria «epifania letteraria e antropologica», che fa compiere al mondo contadino meridionale il grande salto «dal silenzio della non-storia alla parola della poesia e della letteratura»[2].Ma non solo. L’opera apre la strada all’analisi sociologica della civiltà contadina, ovvero alla rivelazione e allo studio del mondo rurale e dei suoi valori, grazie ai quali emerge «una dimensione umana della condizione meridionale, che senza alcun dubbio contribuì a rendere più drammatica e urgente la passione meridionalistica»[3].


Il romanzo di Levi si presenta come il prodotto di uno sguardo esterno al mondo contadino. Durante il suo confino, lo scrittore si lega progressivamente a quelli che chiamerà i «miei contadini»[4]. Li frequenta, entra nel loro microcosmo e ben presto inizia a curarli riprendendo la sua professione di medico.Aderisce empaticamente a quel mondo, prova compassione per i contadini poveri sfruttati dai «luigini», i signori parassiti che si servono di loro per mantenere posizioni sociali di potere e ricchezza. Tuttavia,l’adesione empatica non muta la natura di un punto di vista che resta esterno a quel mondo: un’osservazione partecipante, utilizzando una definizione in uso tra gli antropologi. Si tratta, infatti, di uno sguardo meridionalista, ovvero filtrato da una certa cultura politica e da un certo background culturale, e non di uno sguardo meridionale, di chi è invece collocato all’interno del mondo contadino del Sud. È, in altre parole, il punto di vista di un intellettuale progressista (Levi era stato mandato al confino perché militante antifascista nelle file di Giustizia e Libertà), mosso da passione civile e spirito di denuncia, che si serve della sua cultura per decifrare una realtà a lui sconosciuta e che nel romanzo cercherà di spiegare ai lettori. È il guardare di chi rivendica un ingresso nella Storia per quelle masse popolari dimenticate, umiliate e rassegnate, ma nelle quali pure intravede un’aspirazione al cambiamento, che però non si realizza per via dell’assenza degli strumenti culturali adeguati[5]. Nel dibattito sul rapporto tra il Cristo e il realismo anche Alberto Asor Rosa ha sottolineatola soggettività della rappresentazione del mondo contadino da parte di Levi. Una soggettività che tuttavia non offusca l’impianto storico-sociologico del discorso «a favore della bella pagina descrittiva, del colore locale, del puro e semplice folklore», giacché Levi racconta il mondo contadino con una «forza rappresentativa e una serietà culturale» eccezionale nel panorama letterario a lui coevo[6].

Tra coloro che rimasero profondamente colpiti dal romanzo di Levi e che grazie ad esso iniziarono ad interessarsi alla questione contadina del Sud Italia figura anche l’antropologo Ernesto De Martino. Mentre Levi scriveva il Cristo, De Martino, che a sua volta avrebbe dato un contributo fondamentale alla riscoperta del Mezzogiorno, lavorava a Il mondo magico, il volume, poi pubblicato nel 1948, che proponeva un’interpretazione originale del magismo. I due intellettuali nel 1945 si incontrano nella sede romana dell’editore Einaudi, che avrebbe pubblicato ambo le opere. L’intreccio dei percorsi di Levi e De Martino però va anche oltre. L’antropologo, infatti, inizia a studiare i fenomeni magico-religiosi meridionali proprio dopo aver letto l’opera di Levi, che gli appare come una fondamentale epifania (sebbene avrebbe poi manifestato alcune riserve sul modo in cui l’intellettuale torinese aveva rappresentato il mondo contadino). In precedenza, infatti, De Martino aveva condotto le ricerche sui fenomeni del magismo prevalentemente nelle culture non europee, ma dopo la lettura del romanzo intraprenderà le sue spedizioni in Lucania[7].

De Martino offre una lettura completamente originale del mondo contadino meridionale e della sua cultura. Orientato da un’adesione al marxismo e da una passione civile, egli afferma la necessità di rifondare l’analisi e la comprensione del complesso universo culturale del Mezzogiorno, a partire da un nuovo modo di guardare ad esso. Prima di lui, infatti, la dimensione magico religiosa del mondo rurale meridionale era stata intesa come un residuo di primitivismo, un banale folclore, in breve l’espressione di una non cultura. Secondo De Martino questo tipo di interpretazione era figlia di un certo modo di guardare al Sud,ovvero il considerarlo un’area arretrata rispetto al Nord sviluppato. Questo sguardo per confronto, nato a partire dall’unificazione italiana, che aveva orientato anche il pensiero dei meridionalisti, tendeva a rappresentare il Sud come un’area separata del Paese, definita per sottrazione rispetto alle aree più sviluppate. In tale ottica, il Mezzogiorno rurale non era ritenuto detentore di un sistema culturale autonomo, ma immerso in una dimensione preculturale[8]. Nella lettura di De Martino, invece, i fenomeni magico-religiosi meridionali, per la prima volta elevati al rango di oggetti scientificamente rilevanti, erano espressione di un sistema culturale diverso, ma comunque intrecciato a quello dominante perché strutturatosi in relazione e in opposizione ad esso.

Attraverso le opere di Levi e De Martino nel secondo dopoguerra l’Italia torna a interfacciarsi col Mezzogiorno. I due sguardi sono accomunati dal fatto di essere entrambi esterni, ovvero di due intellettuali che osservano attraverso la loro cultura un mondo da cui non provengono. Se Levi aderisce empaticamente alla realtà contadina lucana, quindi non sempre la sua è un’analisi critica, De Martino pone rispetto ai fenomeni osservati una distanza di tipo scientifico, nel tentativo di offrire una spiegazione razionale dei fenomeni analizzati.Di là dalle posizioni di De Martino, che sosteneva la necessità di non considerare il Mezzogiorno come una lontana realtà esotica[9], la scoperta del Sud nel secondo dopoguerra e il dibattito che ne scaturì definirono il mito della civiltà contadina meridionale, intesa come una realtà a se stante, immobile e astorica, chiusa e impermeabile ai cambiamenti e alle influenze esterne.

Il Mezzogiorno nel cinema del dopoguerra

L’idea di un mondo contadino meridionale isolato nello spazio e nel tempo si cristallizza nell’immaginario collettivo anche attraverso le rappresentazioni veicolate dal cinema. Nel clima di rinascita del dopoguerra, il cinema italiano offre un contributo importante nel processo di riscoperta della realtà attraverso il neorealismo. In netta rottura col cinema di epoca fascista, i film neorealisti raccontano senza censure la difficile situazione italiana dopo la fine del conflitto. La povertà, la resistenza, le macerie fisiche e spirituali del Paese uscito devastato dalla guerra entrano prepotentemente sugli schermi, con pellicole girate per strada e molto spesso con attori non professionisti. Lo sguardo neorealista nella sua sete di rivelare la realtà non incontra il mondo contadino meridionale: il neorealismo, infatti, focalizza la propria attenzione quasi esclusivamente sui contesti urbani del Centro e Nord Italia[10]. È forse questa una delle ragioni per cui il romanzo di Carlo Levi non trova subito una strada per approdare sul grande schermo, nonostante i tentativi che pure furono compiuti in tal senso proprio nell’epoca in cui il cinema italiano dava alla luce i suoi più grandi capolavori neorealisti.

Una foto sul set di Cristo si è fermato a Eboli (1979) - Fonte: Officina della Storia

Le vicende relative alla trasposizione cinematografica di Cristo si è fermato a Eboli si collocano all’interno di un più ampio rapporto di frequentazione di Carlo Levi col cinema. Sin dagli anni Trenta, infatti, lo scrittore torinese aveva lavorato come scenografo e sceneggiatore per il grande schermo. Dopo l’uscita del romanzo e il grande successo riscosso, Levi tentò in più occasioni di tradurre l’opera in film coinvolgendo diversi registi. Per la sceneggiatura decise di rivolgersi a Rocco Scotellaro, poeta e sindaco socialista di Tricarico, che riteneva la persona più adatta, per cultura e per il loro legame umano, a cogliere lo spirito del romanzo nell’ottica della trasposizione in film. Come registi pensò a grandi nomi del cinema, tra cui Comencini, De Sica, Germi, Rossellini, Lizzani e Chaplin. Tutti i tentativi, protrattasi fino agli anni Sessanta, però, sfumarono[11]. Bisognerà attendere solo la fine dei Settanta, quando Levi sarà ormai scomparso, per vedere l’approdo sul grande schermo del suo Cristo.

Il cinema neorealista e quello successivo degli anni Cinquanta e Sessanta per ragioni diverse non furono in grado di raccogliere la sfida del romanzo leviano, probabilmente per l’incapacità di raccontare autenticamente il mondo contadino meridionale. In questa luce, si spiega la realizzazione del film ad opera di Francesco Rosi nel 1979, in un momento in cui la cultura italiana torna a riflettere sul mondo contadino e sui limiti della modernizzazione, in particolare sull’onda del pensiero di Pier Paolo Pasolini. Fatte rare eccezioni, prima di quell’epoca, infatti, il cinema italiano non si confronta in profondità col Mezzogiorno. Soprattutto negli anni Cinquanta esso riflette l’immagine di un Meridione arcaico e di un mondo contadino chiuso e plasmato da cultura e tradizioni remotissime. Un ritratto che, uniformando tutto il Mezzogiorno a un’idea di società unidimensionale, non rendeva merito alla sua effettiva complessità territoriale e sociale[12]. Ma, soprattutto, a mistificarne il volto erano i tanti cliché e luoghi comuni attraverso i quali, in molti film, era rappresentata la gente del Sud (un fenomeno, questo, che ha riguardato soprattutto la Campania – Napoli in particolare – e la Sicilia). Tipi e personaggi dai caratteri esasperati, stagliati su paesaggi naturali, utilizzati alla stessa stregua di fondali di cartapesta, popolano moltissimi film, appartenenti soprattutto ai generi comico, turistico-sentimentale e musicale. Sono in prevalenza registi non meridionali a realizzare queste pellicole e anche laddove le produzioni si avvalgono quasi per intero di persone del Sud (come attori, registi, sceneggiatori e personale tecnico) la direzione produttiva è collocata fuori dal Mezzogiorno. In altre parole, lo sguardo è esterno. Questa circostanza, associata al fatto che tali film erano prodotti a basso costo, realizzati in poco tempo per un pubblico popolare, spiega le ragioni di una lettura semplicistica e filtrata da stereotipi[13].

Se il neorealismo non si occupa del mondo contadino meridionale e il cinema di finzione troppo spesso lo rappresenta attraverso una lente altamente deformante, negli anni Cinquanta e Sessanta è il cinema documentario che si interessa della realtà rurale del Mezzogiorno, cogliendone aspetti peculiari con uno sguardo non superficiale. In particolare, sono i documentari riconducibili ai generi antropologico e sociale che esplorano il Sud contadino, raccontandone la miseria e le condizioni di vita difficili, la sopravvivenza di riti legati alla sfera magica e a quella religiosa, i mestieri antichi e le tradizioni. Con spirito critico, queste opere, il più delle volte dei cortometraggi, raccontano il Sud dimenticato, mettono sotto i riflettori le ferite aperte di un Paese in corsa sul treno della rinascita e, poco dopo, del miracolo economico. I documentari antropologici, realizzati da registi quali Michele Gandin, Luigi Di Gianni, Gianfranco Mingozzi, Lino Del Fra e Cecilia Mangini, nascono in molti casi proprio sui passi delle ricerche di Ernesto De Martino. L’antropologo, che non disprezzava l’uso del cinema come strumento di conoscenza, farà da consulente ad alcune di queste pellicole suggerendo i luoghi in cui girare e offrendo consigli ai cineasti[14]. Grazie a questi film oggi possediamo importanti documentazioni filmate di riti e fenomeni che di lì a poco sarebbero scomparsi, come il lamento funebre, il tarantismo, i rituali legati all’agricoltura, alla nascita e alla morte. Il documentario sociale punta l’indice sulla povertà e l’arretratezza meridionali, sul senso di abbandono e assenza dello Stato, facendo emergere i paradossi nel confronto con le aree più sviluppate del Paese[15]. Le opere di Giuseppe Ferrara, Lino Miccichè, Carlo Di Carlo, Mario Carbone e molti altri raccontano un Sud dimenticato dalle cronache ufficiali, segnato da miseria, sottosviluppo e ingiustizie intollerabili. Il documentario antropologico e sociale sono un invito alla scoperta di un Mezzogiorno rimosso perché imbarazzante. Ma nel loro cogliere ed evidenziare l’eccezionalità del Sud, riconducibile al suo sottosviluppo o alla persistenza di tradizioni legate a un passato lontano, paradossalmente contribuiscono a rafforzarne l’immagine di una realtà lontana e separata dal resto del Paese, avvolta in un’aura mitica. Ancora un volta, inoltre, questa idea di Mezzogiorno si definisce a partire da uno sguardo ancorato all’esterno: quasi tutti i registi dei documentari sono non meridionali e filmano una realtà che non conoscono, ma di cui colgono aspetti considerati fuori dal comune in rapporto al loro mondo di provenienza[16].

Fonte: Officina della Storia

Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi

Messo nel cassetto per molti anni, Cristo si è fermato a Eboli di Levi arriva sul grande schermo nel 1979, in un momento in cui, da una parte, il Mezzogiorno era profondamente mutato rispetto agli anni Trenta e all’immediato dopoguerra e, dall’altra, il mondo contadino tornava al centro del dibattito culturale italiano[17]. Francesco Rosi, che dirige la pellicola[18], si era già occupato di Sud in diversi film, tutti però riconducibili al genere di impegno civile e di inchiesta. La trasposizione del romanzo di Levi appare, quindi, in quel momento come un’eccezione nella sua filmografia.

Rosi è un uomo del Sud, un intellettuale, che si serve della sua cultura e della conoscenza della sua terra per raccontarne aspetti controversi in una prospettiva politica e sociale. Film come La sfida (1958), Salvatore Giuliano (1962), Le mani sulla città (1963), Lucky Luciano(1973), Cadaveri eccellenti (1976)narrano vicende paradigmatiche e riescono a definire un universo simbolico altamente rappresentativo del Mezzogiorno.«Se Leonardo Sciascia – spiega Gian Piero Brunetta – aveva parlato di «sicilitudine» («forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia»), ossia della riconsiderazione della Sicilia come di una realtà non separata, ma capace di diventare paradigma e spazio topologico con caratteri universali, per Rosi si potrebbe parlare di «meridionalitudine», ossia di un insieme di mentalità e comportamenti propri di una realtà geografica circoscritta che si moltiplicano, sono esportabili, si proiettano nello spazio, attecchiscono facilmente su qualsiasi terreno e agiscono da modificatori dei processi economici, storici, politici e sociali su scala nazionale e internazionale»[19].

Il Cristo di Levi a un primo sguardo sembra lontano dagli interessi di Rosi e, come detto, la realtà meridionale di fine anni Settanta era molto diversa da quella raccontata nel romanzo.Il regista, tuttavia, non ha intenzione di condurre un’immersione nel passato fine a se stessa, ma, come ha diverse volte dichiarato, vuole far emergere il particolare isolamento che ha interessato il Mezzogiorno fino al dopoguerra e che è all’origine di alcuni suoi tratti nel presente.«Girare un film del genere - ha spiegato Francesco Rosi, intervistato da Pasquale Iaccio - significa far capire al grande pubblico, attraverso un mezzo di comunicazione più diffuso di quello che può essere la parola scritta del grande Levi, perché mai, fino a pochissimi decenni fa, in Lucania esistesse un isolamento secolare e forme di cultura arcaica che hanno influenzato fortemente i comportamenti della gente»[20]. Il regista è perfettamente consapevole del fatto che quella Lucania non esiste più, che l’isolamento di un tempo è scomparso. Tuttavia, ad esso si sono sostituite nuove forme di emarginazione che sono il prodotto dell’arrivo di una civiltà dei consumi che convive con alcune forme di arretratezza sociale e culturale. In tal senso, il Cristo di Rosi non è un film sul passato, ma sul presente[21]. Visto da questa prospettiva esso si colloca perfettamente in una filmografia, quella del regista napoletano, che è incentrata sulla narrazione degli aspetti problematici e dei paradossi del Sud.

La vicinanza di Rosi ad una realtà che conosce, il Mezzogiorno, ci riporta a parlare dello sguardo, o meglio della collocazione del punto di vista del regista rispetto all’oggetto della narrazione filmica. Poiché meridionale, saremmo portati a credere che il regista napoletano guardi dall’interno il mondo che racconta nel film. In realtà, anche in questo caso, lo sguardo è contemplativo e resta ancorato all’esterno. Prima di tutto, Rosi si rapporta al mondo contadino degli anni Trenta servendosi della sua cultura meridionalista, che negli anni Settanta era fortemente in crisi. Inoltre, se nel romanzo di Levi è dato molto rilievo alla dimensione antropologica della realtà contadina, nel film di Rosi, al contrario, prevale quella politica e sociale. In altre parole, un’evidente assenza nel film rispetto al romanzo è la magia. Quella magia che nel romanzo si configura come elemento in grado di coinvolgere Levi e far oscillare il suo ponto di vista tra il distacco e l’adesione partecipante al mondo narrato. Rosi,invece, in linea con il suo orientamento, predilige soffermarsi sulla miseria, sulle condizioni di sfruttamento subite dai contadini, sul ruolo del fascismo come amplificatore delle ingiustizie sociali. Questa scelta definisce il suo sguardo come esterno ai fatti narrati, filtrato da una cultura e da un posizione politica definite[22].

Essendo espressione di un guardare dall’esterno la realtà meridionale, il film di Francesco Rosi idealmente chiude un ciclo, quello della storia di una specifica rappresentazione del Mezzogiorno, formatasi alle origini proprio col romanzo di Levi e sedimentatasi mano a mano nell’immaginario collettivo attraverso il contributo di più vettori culturali. Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi fa scoprire agli italiani la Lucania, che nella sua particolare arretratezza diventa l’emblema dell’idea di Mezzogiorno come luogo mitico e lontano. È stato notato che anche il cinema abbia rappresentato e utilizzato la Lucania come raffigurazione di un Sud generico. Per comprendere meglio questo concetto basta fare un confronto con Napoli e la Sicilia, le uniche due realtà meridionali che, al contrario, hanno avuto una rappresentazione cinematografica fortemente caratterizzata e quindi riconoscibile. Una conseguenza, quest’ultima, dell’esistenza di una letteratura e di un sistema icnografico codificato preesistenti su queste due realtà meridionali, che il cinema ha colto e veicolato attraverso le immagini in movimento. Diversamente la Lucania, di cui la letteratura più significativa è probabilmente quella di Ernesto De Martino, dal cinema italiano è stata utilizzata come il luogo simbolico e al contempo vago di un Sud lontano e arcaico, non ottenendo, perciò, una immediata riconoscibilità[23]. Tale rappresentazione cinematografica è legata a doppio filo all’idea di Mezzogiorno come realtà mitica e staccata dal resto del Paese, che si definisce, a partire dal Cristo di Levi, attraverso più racconti e più sguardi, in prevalenza, come visto,espressione di punti di vista collocati all’esterno e filtrati da apparati culturali più complessi. In altre parole, il cinema con le sue rappresentazioni contribuisce alla costruzione del paesaggio lucano e quindi di una certa idea di Sud largamente diffusa. Si parla di costruzione del paesaggio poiché s’intende quest’ultimo non come qualcosa di oggettivo, ma come il prodotto dell’incrocio tra natura e cultura, ovvero la sintesi tra una realtà materiale oggettiva e un orientamento percettivo soggettivo, mediato da un sistema culturale e valoriale[24]. Il principale limite di questa rappresentazione prodotta da osservatori esterni è quella di raccontarci un Mezzogiorno pensato da altri, che «esiste solo nella prospettiva di diventare altro, di fuggire inorridito da sé per imitare il nord venti o cento anni dopo, e quindi probabilmente mai»[25].

Nel 1978, il film di Rosi, portando sullo schermo il Cristo di Levi, in un momento in cui la cultura si confronta col mondo contadino, ripropone per l’ultima volta, come a chiudere un cerchio, la Lucania come immagine simbolica del Sud sottosviluppato e del mondo contadino arcaico, che si era originata anni prima con la diffusione del romanzo.Un’immagine, figlia di un pensiero esterno al Mezzogiorno, destinata ad avere molta fortuna e a resistere fino all’oggi, di là dalle trasformazioni che pure hanno interessato il Sud. Essa è parte della mentalità collettiva, orienta azioni e giudizi. Perciò capirne l’origine e il modo in cui essa si è stratificata consente di valutare più criticamente modi di pensare e idee consolidate attraverso cui guardiamo ancora oggi al Mezzogiorno.

[1] L’opera di Levi si colloca all’interno di una più ampia produzione letteraria e giornalistica che, tra fascismo e dopoguerra, porta alla ribalta il mondo contadino meridionale. Si ricordano, tra gli altri, Gente di Aspromonte (1930) di Corrado Alvaro, Fontamara (1933) di Ignazio Silone, Un popolo di formiche (1952) di Tommaso Fiore, Baroni e contadini (1955) di Giovanni Russo e le inchieste sul Meridione della rivista «Il Mondo» (1949-1966) diretta da Mario Pannunzio. Si discute di Mezzogiorno, poi, sulle riviste «Cronache meridionali», «Nuovi Argomenti» e «Nord e Sud».

[2] S. Martelli, Il crepuscolo dell’identità. Letteratura e dibattito culturale degli anni ’50, Salerno, Pietro Laveglia Editore, 1988, p. 143.

[3] G.Galasso, Il Mezzogiorno. Da “questione” a “problema aperto”, Manduria, Lacaita, 2005, p. 95.

[4] Recita così, infatti, l’incipit del romanzo: «Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla». C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 19903, p. 3.

[5] L. Reina, Scritture. Da Verga a Pomilio, Roma, Lepisma, 2007, pp. 174-179. Sebbene in alcune occasioni il romanzo di Levi sia stato accusato, a sinistra, di dare una rappresentazione statica, e per questo fuorviante, del mondo contadino meridionale, non sono mancate in tempi più recenti riletture del Cristo che evidenziano aspetti contrari. Il romanzo fu infatti scritto a Firenze, durante la resistenza. Levi, antifascista e animato da pensiero libertario, si trovava nuovamente confinato, in quanto clandestino, in una città sotto assedio.In questa circostanza l’immobilismo del Mezzogiorno sperimentato durante il confino degli anni Trenta si trasforma in potenzialità di movimento, che poi diventa possibilità di sviluppo nel clima degli anni Sessanta e delle politiche di intervento straordinario. Cfr. M. Marmo, Civiltà contadina, arretratezza meridionale: il relativismo insicuro di Cristo si è fermato a Eboli, in «Meridiana», n. 95, 2019.

[6] A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Einaudi, 1969, p. 154.

[7] D.Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 158-159.

[8] Ivi, p. 145.

[9] Ad esempio, in un articolo su «Cinema Nuovo», l’antropologo scriveva che «Certa più recente letteratura meridionalistica ha allontanato la Lu­cania nella immaginazione degli italiani quasi che si trattasse della luna o poco meno». Quindi, condannava l’atteggiamento «barbarizzante» che portava a considerare la Lucania, al pari delle Indie per i Gesuiti, una civiltà contadina mitica e sospesa nel tempo, priva di ogni nesso con la realtà. Al contrario, secondo De Martino, la Lucania era il luogo in cui vecchio e nuovo erano profondamente legati tra loro, in un ampio «panorama che appartiene inte­gralmente alla storia nostra […] anche quando sembra accennare a remote lontananze». E. De Martino, Narrare la Lucania, in «Cinema Nuovo», n. 59, 25 Maggio 1955, p. 378.

[10] M. Guerra, Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta, Roma, Bulzoni, 2010, p. 112 e ss.

[11] S. Martelli, Levi, Scotellaro e il cinema, in «Forum Italicum.A Journal of ItalianStudies», Vol. 50(2), 2016, pp. 915-946.

[12] G.Scarfò, Cinema e Mezzogiorno, Cosenza, Periferia, 1999, p. 99.

[13] P. Iaccio, Cinema e Mezzogiorno, in Storia del Mezzogiorno, vol. XIV, Roma, Editalia, 1994, pp. 325-351.

[14] Cfr. C. Gallini, Il documentario etnografico “demartiniano”, in «La ricerca folklorica», n. 3, 1981.

[15] Ivelise Perniola, Oltre il Neorealismo: documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra, Roma, Bulzoni, 2004, p. 83.

[16] M. Palmieri, Profondo Sud. Storia documentario e Mezzogiorno, Napoli, Liguori, 2019, pp. 133-141.

[17] Anche il cinema italiano riflette questo nuovo interesse con un’attenzione verso il mondo contadino che non aveva precedenti. Tra i più celebri film sul tema, Novecento (1976) di Bertolucci, Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Taviani e L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi.

[18] Del Cristo si è fermato a Eboli di Rosi sono realizzate due versioni, una per la Rai Tv in quattro puntate (200 minuti) e una per il cinema più breve (160 minuti).Sulla trasposizione del romanzo in film si veda F. Rosi, Cristo si è fermato a Eboli. Dal libro di Carlo Levi al film, Torino, Testo & immagine, 1996.

[19] G. P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo.Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 248. Su Rosi si vedano anche A. G. Mancino, S.Zambetti,Francesco Rosi, Milano,Il castoro, 1998; N.Pasqualicchio, A. Scandola (a cura di), Francesco Rosi. Il cinema e oltre,Milano-Udine, Mimesis, 2019.

[20] Intervista a Francesco Rosi in P. Iaccio (a cura di), Il Mezzogiorno tra cinema e storia. Ricordi e testimonianze, Napoli, Liguori, 2002, p. 75.

[21] E.Morreale,Il “Cristo” mancato. Note sull’immagine cinematografica della Lucania,in «Meridiana», n. 53, 2005, p. 228. Sui legami del film col presente si veda anche A. Fochi, Oltre Eboli: il viaggio di Rosi nell’universo remoto del “Cristo” di Levi, in«Italianistica: Rivista di letteratura italiana», n. 3, 2009, p. 169 e ss.

[22] E.Morreale, Cristo ‘79: Rosi, laquestione meridionale e il mondo perduto, in «Forum Italicum.A Journal of ItalianStudies», Vol. 50(2), 2016, p. 948.

[23] E.Morreale,Il “Cristo” mancato, cit., pp. 215-216.

[24] Cfr. E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Venezia, Marsilio, 2018.

[25] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. VIII.

Mariangela Palmieri, Da Carlo Levi a Francesco Rosi. Cristo si è fermato a Eboli e la rappresentazione cinematografica del mondo contadino meridionale, Officina della Storia, 2 luglio 2020

La critica si è spinta così oltre nella perlustrazione del Cristo da garantire le spalle a chi volesse tentare una rapida incursione filosofica tra le pagine del celebre capolavoro di Carlo Levi per scoprire, accanto al pittore e al poeta, allo scrittore e all’antropologo, al meridionalista e al politico, il filosofo, nei suoi molteplici intrecci con la cultura europea. È superfluo ribadire che non si tratta però di rinvenire nel Cristo la tematizzazione di idee, anche se qui e lì il tentativo compare, ma come l’autore le vivacizza, come le fa esistere dinanzi a noi al modo stesso delle cose. Del metodo, del “cammino” che egli compie per penetrare nella profondità di un mondo estraneo e
comprenderlo. Il nostro tema, dunque, è il seguente: posto che esiste un Levi filosofo che ha più volte ribadito l’apporto essenziale dato al proprio metodo di conoscenza dall’esperienza del confino, come egli stesso dice a Garosci e ripete in vari luoghi e con diverse formule, noi intendiamo svelare la sua natura, cercare di identificarla questa filosofia.
Ma per entrare nel vivo dell’indagine è opportuno ribadire il fatto che, molto prima dell’esperienza del confino, Levi studia la questione meridionale. Dal ’22, infatti, egli la medita approfonditamente per scrivere un saggio su Salandra, richiestogli da Gobetti. E, sin da allora, nutre per Fortunato una grande ammirazione «non solo per la sua opera di chiarificazione dei problemi storici, o per la sua attività di politico, così coerente e continua», o per la sua evoluzione «dalla statolatria giovanile alle tendenze liberiste» dell’età matura, ma anche per il timbro solenne e malinconico delle sue descrizioni paesaggistiche. È rimasto in ombra questo aspetto “formativo” leviano, nel quale il giovane scrittore avrà il primo incontro con il mondo lucano sotto la forma dell’esperienza rivissuta attraverso la lettura di Fortunato (ma anche di Salvemini, Fiore, Dorso). Esperienza che gli servì, è sensato supporre, per indirizzare meglio la pupilla sulla realtà lucana, avendo avuto dalla triste bellezza e dalla tragica solennità della pagina fortunatiana il primo malinconico sentore dell’arcana solitudine del paesaggio lucano. Nelle pagine di Fortunato e di Croce riecheggiavano quelle hegeliane sulla inserzione dello Spirito nella Natura, sulla Natura; sulla relazione tra un popolo e il suo orizzonte geografico; sull’influenza del clima nella storia, che è sempre storia spirituale; sulla relazione simbolica tra geografia e storia; sull’affinità tra l’anima di un popolo e lo stile del paesaggio.
Mimmo Calbi, Sul metodo di conoscenza elaborato al confino: lo sguardo e il giudizio in Intertestualità leviane, Atti del Convegno Internazionale, Bari 5-6 novembre 2009, Università degli Studi di Bari, Settore Editoriale e Redazionale, 2011

Arminio è ritornato nei paesi in cui Carlo Levi fu mandato al confino: e non poteva essere altrimenti perché egli ha fatto sua quell’atmosfera che circola nelle pagine del Cristo si è fermato ad Eboli, sente come sua quella cultura che sa di antico e che “non ha bisogno della modernità”, come si legge in una didascalia di una foto che ritrae di spalle una signora in una strada deserta di un paese anonimo della Lucania; addirittura ha scelto il paese di Aliano per farne, ogni anno in agosto, la capitale del Festival della Paesologia, intitolato alla Luna e i calanchi. Anche lui, sulla fine dei paesi, sembra concordare con le stesse idee di Teti: «Quella dei paesi in estinzione è una vera e propria bufala mediatica. In Italia non è mai morto nessun paese. Si sono estinte piccole contrade, ma i paesi non sono mai morti, al massimo sono stati spostati a seguito di terremoti e frane».
Dimentica, però, che il trasloco da un luogo ad un altro non è qualcosa di solo fisico e materiale: tutto il senso di comunità costruito in decenni o addirittura in secoli o si affievolisce o si perde del tutto e se rinasce non è più quello di prima. Non propone, dunque, soluzioni Arminio, ma come sottolinea Curti: «Ultimamente il fenomeno della paesologia sta riconquistando i cuori, specialmente quelli degli abitanti delle città (mentre nei paesi la gente dice di aver passato ormai il punto di non ritorno) che si innamorano dei nostri borghi, dei nostri bei paesi (del Bel Paese, quale ironia) per poi il lunedì tornare in città».
Mariano Fresta, Il senso, il sentimento e la ragione dei luoghi, Dialoghi Mediterranei, n° 24, marzo 2017

Agli editori polacchi non sfuggì neanche lʼimportante romanzo-reportage di Carlo Levi, "Cristo si è fermato a Eboli" (1949), un’opera che documenta impietosamente la povertà, il sottosviluppo e lʼapatia di un piccolo paese lucano. Il finale dellʼopera venne però abbreviato dalla censura polacca a causa di alcune riflessioni dellʼautore in riferimento alla risoluzione dei problemi dei contadini meridionali, non gradite al partito governativo polacco. Il frammento tagliato include infatti la seguente frase: “Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può più essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale” (C. Levi 1945: 239). Più tardi, nel 1958, di Levi fu pubblicato anche il romanzo "Le parole sono pietre", dedicato interamente ai problemi sociali della Sicilia.
Aleksandra Piekarnik, La letteratura italiana in Polonia negli anni 1945-1989, Cejsh, 2 - 2015

venerdì 26 marzo 2021

Amici per un giorno (di Antonio Magliulo)


C'è un bel sole stamane
che sta scalando il cielo
e ha una luce intensa, speciale
la stessa che illuminò l'incontro
di qualche tempo fa
su quel lago del Nord
dove la brezza è lieve
e ha il profumo dei larici.
Ci scambiavamo sogni allora
ed eravamo uniti da un fuoco
che sembrava eterno.
Amici, caparbiamente amici,
posti agli antipodi, eppure vicini
capaci d'interpretare le parole mute
e avvertire i sussulti del cuore.
Cosa è rimasto delle cose dette
delle promesse fatte a fil di voce?
L'animo a volte è inquieto,
un mare in tempesta
che ci sospinge qua è là,
come bottiglie alla deriva.
Vorrei tornare indietro
e fermare quell'attimo per sempre.
Ma il destino non concede bis.
Da domani ricomincerò a vivere
e darò un calcio ai ricordi.

Antonio Magliulo 

 

martedì 23 marzo 2021

La scomparsa dei riti


L'odierna ossessione per un'autenticità fondata sul narcisismo dell'Io, la costante ricerca del nuovo e dell'inedito, la bulimia consumistica dell'usa e getta che pervade ogni ambito determinano, nei rapporti e nelle pratiche che caratterizzano la società contemporanea, una sempre più evidente e sintomatica scomparsa delle forme rituali.
Tuttavia, la struttura immutabile e ripetitiva, così come la teatralità dei gesti e l'attenzione riservata alla "bella apparenza", conferiscono ai riti un potere simbolico profondamente unificante.
Il silenzio, il raccoglimento, il senso di sacralità necessari allo svolgimento del rito fondano un legame tra il sé e l'Esterno, tra il sé e l'Altro.
I riti "oggettivano il mondo, strutturano un rapporto con il mondo", creando una comunità anche senza comunicazione.
"Dinanzi all’illusione del ‘vivere intenso’ bisogna riflettere su un’altra modalità di vita, più intensa dell’incessante consumare e comunicare.
I riti creano una comunità della risonanza capace di armonia, di un ritmo comune: I riti creano assi di risonanza consolidati in chiave socioculturale, lungo i quali sono esperibili relazioni di risonanza verticale (verso gli dei, il cosmo, il tempo, l’eternità), orizzontale (nella società civile), e diagonale (in rapporto alle cose).
Senza risonanza si viene ributtati in se stessi, si viene isolati.
Il crescente narcisismo si oppone all’esperienza risonante".
Per infrangere questo cortocircuito, e all'interno di una più ampia critica delle patologie del contemporaneo, Byung-Chul Han propone un recupero del simbolismo dei riti come pratica "potenzialmente in grado di liberare la società dal suo narcisismo collettivo", riaprendola al senso di una vera connessione con l'Altro - e reincantando il mondo.
La necessità dei riti venne acutamente avvertita - nell'Era contemporanea - dalla Rivoluzione Francese, i cui promotori si resero presto conto che, abolite le festività religiose, risultava necessaria la individuazione di momenti di partecipazione collettiva i quali permettessero una crescita del sentimento di attaccamento alle nuove istituzioni, né scontato, né generalizzato, unitamente ad una presa di coscienza individuale.
Da cui seguirono l'instaurazione delle varie festività civili, successivamente riprese dai vari Stati, ed ancor oggi praticate - sebbene, specialmente in Italia, non si riesca tutt'ora a costruire un consenso generalizzato su di esse, espressione di una più generale incapacità ad elaborare una storia condivisa del nostro Paese, quanto meno con riferimento al XX Secolo.
Byung-Chul Han, nato a Seul nel 1959, già docente di Filosofia e Teoria dei Media presso la Staatliche Hochschule für Gastaltung di Karlsruhe, insegna ora Filosofia e Cultural Studies alla Universität der Künste di Berlino.


Eraldo Bigi


domenica 21 marzo 2021

Non sono una collezionista

Antonio Canova, Juliette Récamier, 1818-1822, (gesso) - Possagno, Fondazione Canova, Gypsotheca e Museo Antonio Canova - Fonte: Wikipedia

Girando fra le cose più disparate nei mercatini dei brocantes, sento a volte il richiamo di oggetti che mi chiamano per essere salvati da un naufragio.

Manufatti che hanno una bellezza particolare, che sono stati creati con amore.

Sovente sono  stati staccati da un insieme e si sentono perduti.

Hanno perso chi li aveva scelti, gettati da eredi superficiali sulla strada.

Oggetti così perfetti e fragili che non sono mai stati utilizzati per timore di una rottura.

Quindi non goduti, rimasti dietro una vetrina a guardare una stanza vuota.

Tazze e bicchieri mai portate alle labbra di nessuno.

Mai goduto una festa conviviale piena di allegria.

Vasi trasparenti che non hanno mai ospitato un fiore.

François Gérard, Juliette Récamier - Fonte: Wikipedia

Incontravo un giorno una dama, avvolta in peripli metallici, languidamente appoggiata su una sedia Récamier, stesso atteggiamento che aveva assunto nel famoso quadro di Francois Gérard la famosa Juliette.

Una salottiera famosa per la sua bellezza e per aver riportato in auge il culto per la classicità dando il via alla moda Impero.

Rimasta nella memoria fino ad oggi per aver trasmesso alla poltrona il suo nome.

Non credo sarebbe stata felice di sapere che avremmo chiamato con il suo nome una sedia.

Jacques-Louis David, Madame Récamier - Fonte: Wikipedia

Aveva commissionato all’autore un altro ritratto, essendo insoddisfatta di quello precedente di Jean Louis David.

Il David si trova ora nelle sale del Louvre e certamente consolerà Juliette e la farà riflettere sull’erroneo giudizio. 

La mia piccola scultura che forse ha ispirato l’autore è un riflesso dell’opera di Gérard.

Ma, ahimè, la Signora doveva troneggiare sopra un vecchio orologio ormai defunto e pertanto inutile a cui veniva strappata.

Ha per fortuna conservato il tappeto su cui mollemente appoggia i suoi piedi.           

Rene Magritte, Perspective: Madame Recamier by David, 1949 - Fonte: WikiArt

Sono orfani che desiderano ancora essere adottati per poter donare gioia a nuovi proprietari.

Rene Magritte, Perspective: Madame Récamier de David, 1950 - Fonte: WikiArt

A volte inaspettatamente certi oggetti presi per affetto regalano sorprese e storie.


In un mercato sulla Costa Azzurra tra brutte cianfrusaglie, che nulla avevano da spartire con la giovane donna raffigurata in una stampa, portavo a casa una vecchia cornice rabberciata che la conteneva.

Un nudo di donna che aveva il sapore dell’alba di primo mattino.

Questo agli occhi di una vecchia signora del giorno d’oggi.

Altra storia aveva da raccontare quella riproduzione di un quadro dalle vicissitudini sconcertanti.

Il pittore era divenuto famoso per lo scandalo suscitato dal quadro fra gli americani puritani nella prima decade del ‘900.

Un Paese, gli Stati Uniti, che aveva un Presidente che per la soppressione del vizio non poteva che far assurgere  al successo l’opera con il clamore suscitato.

Paul Émile Chabas il nome dell’esecutore.

Nato a Nantes, allievo dello Bouguereau, pittore che seguiva la sua vecchia strada di pittore realista.

In Francia il suo quadro fu tra quelli premiati al Salon del 1912.

Paul Émile Chabas, Matinée de september, 1910-1911 - Fonte: Wikipedia

La giovane donna nuda immersa nelle acque del lago di Annecy nell’Alta Savoia era una modella che in effetti erano due.

Il corpo di una ragazza del luogo e il viso di un’americana, amica della madre dello Chabas.

Questo ci hanno raccontato: forse vien da pensare che viso e corpo fossero dell’americana che, scoperta,  non sarebbe più potuta tornare a casa.

Questa è una mia personale illazione.

Gli oggetti se li ascoltiamo ci parlano.

Se li interroghiamo diventano quasi logorroici.

Dimenticavo: anche le due modelle in una nel lago di Annecy sono approdate al Metropolitan di NY.


Gris de lin

venerdì 19 marzo 2021

In nome del Papa re


Vi sono film imperdibili, direi irrinunciabili, che aiutano a capire meglio la storia e il mondo nel quale viviamo. Uno di essi è certamente: “In nome del Papa re”, riproposto l'altro ieri, in occasione dei 160 anni dall’Unità d’Italia, opera caposaldo della cinematografia italiana, realizzata da Luigi Magni nel 1977, che fa parte della cosiddetta Trilogia papalina, appartenente allo stesso autore.
Trattasi di un affresco storico-politico-religioso di grande spessore drammaturgico, che tratteggia fedelmente un’epoca ed evidenzia con  grande corrosività le contraddizioni e le ipocrisie della Chiesa e della società borghese del tempo.
La vicenda, ambientata nel 1867, trae spunto da un episodio realmente accaduto, ossia  l'ultima condanna a morte comminata dallo Stato pontificio a Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, ritenuti responsabili di un attentato perpetrato ai danni di un drappello di gendarmi pontifici.
Domina l’intera vicenda la figura di Monsignor Colombo da Priverno, giudice del Tribunale Pontificio, che durante il processo, avendo compreso le iniquità commesse dal potere temporale, si adopera per salvare la vita degli accusati, sfidando così la volontà di papa Pio IX e pagando poi di persona la propria scelta. E’, Monsignor Colombo, un personaggio acuto, illuminato e progressista,  che Magni affida a Manfredi, che lo interpreta con la sua solita e inimitabile ironia, in maniera veramente magistrale!
Fa da contraltare al suddetto prelato l’ambigua e inquietante figura del Padre generale dei Gesuiti, il cosiddetto Papa nero, interpretato da Salvo Randone, attore d’incomparabile talento, che nell’occasione conferma la propria gigantesca statura d’interprete. E proprio nei serrati dialoghi tra questi due personaggi, nel confronto dialettico pregno di meta-significati, che il film tocca i suoi vertici più alti.
“In nome del Papa re” può considerarsi il miglior film di Magni, autore impegnato e pensoso, sempre attento a stigmatizzare le anomalie della nostra società.

Antonio Magliulo

martedì 16 marzo 2021

Salvatore Morelli, ideatore dei diritti delle donne

Salvatore Morelli - Fonte: Wikipedia

Salvatore Morelli
Avvocato e letterato
Nacque a Carovigno nell'anno 1824. Liberale a tutta prova, soffrì più volte, nel 1849, nel 1851 e nel 1854, per opera dei Borboni, l'esilio e le carceri; ma nel 1860 suonò anche per lui l'ora del riscatto, e lo vediamo quindi eletto deputato al Parlamento, ove fu uno dei più eloquenti oratori, e propugnò l'emancipazione della donna.
Scrisse "Sulla successione testamentaria "; "Un quadro storico sulla città di Brindisi"; "Sul sistema della riflessione"; "La donna e la scienza"; "Sul Romitorio di Belvedere"; "Pio IX dal 1792 al 1848"; "I tre disegni di legge sull'emancipazione della donna"; "Riforma della pubblica istruzione e circoscrizione legale del culto cattolico nella chiesa"; " Riforme legislative proposte al Parlamento Italiano dal deputato Salvatore Morelli il 26 maggio 1875 per assicurare con nuove guarentigie giuridiche la sorte dei fanciulli e delle donne"; "Proposta di legge sul divorzio del deputato S. Morelli svolta nella tornata dell'8 marzo 1880...".
Morì a Pozzuoli per ostinata bronchite, all'età di soli cinquantasei anni, il 2 Ottobre 1880. Fa menzione di lui Nicola Bernardini nelle sue "Note bio-bibliografiche sugli scrittori salentini". La sera del 5 gennaio 1903 la signorina Irma M. Scodnik, nelle sale del Circolo Calabrese di Napoli, volle parlare del Morelli, e tenne quindi una conferenza applauditissima, dal titolo "Un precursore". Disse della vita travagliata ch'egli menò sotto la tirannide borbonica, del suo esilio forzato a Maglie, e finalmente della sua elezione a deputato. Parlò dell'apostolato costante di lui in favore della donna per reintegrarla nel diritto suo sociale e civile, e concluse augurandosi di assistere ben presto all'inaugurazione di un monumento da erigersi in Napoli con l'obolo di tanti cuori gentili.
A proposito di questa conferenza il giornale "il Mattino" (anno XII, n. 27, Napoli, 27 gennaio 1903) scrisse: "La conferenza che tenne l'altra sera Irma Melany Scodnik rievocò una figura di patriota e di pensatore dai più dimenticata, da moltissimi mai conosciuta: Salvatore Morelli, il nobile e generoso iniziatore di un largo ma arrischiato movimento per l'emancipazione per la donna e la piena eguaglianza dei diritti fra i due sessi, fatto in tempi ancora troppo rapidamente attaccati alla tradizione, riapparve, dipinto con tocchi larghi e coloriti, nelle parole della signorina Scodnik, che ne ricordò la giovinezza ardente e sognatrice, la virilità operosa e combattuta della tirannide del governo borbonico, il tramonto, silenzioso ed oscuro, nello scetticismo delle masse, nell'irrisione di quelli che avevano saputo comprenderlo".

[...] Salvatore Morelli nacque a Carovigno, in provincia di Brindisi, il 1 ° maggio 1824, studiò giurisprudenza e si laureò all’Università di Napoli. Mazziniano di ferro, si affiliò alla Giovine Italia. Scontò alcuni anni in carcere per aver bruciato un’immagine di Ferdinando II nella piazza di Carovigno nel 1848 e nel 1851, dopo essere stato accusato di tradimento, venne tradotto dapprima ad Ischia e poi a Ventotene. Nel 1861, a Napoli, pubblicò la sua più importante opera "La Donna e la scienza o la soluzione del problema sociale”, testo anticipatore del femminismo, sette anni prima del saggio "Asservimento delle donne” di Stuart Mill.
Nel 1867 fu eletto deputato al Parlamento e come tale presentò progetti di legge in sicuro anticipo sui tempi come la cremazione, il divieto di insegnamento religioso nelle scuole, l’istruzione pubblica, la parità di diritti tra figli legittimi e naturali, tra moglie e marito e la possibilità del divorzio. Il 18 giugno del 1867 Morelli presentava alla Camera tre disegni di legge, il secondo dei quali, per la reintegrazione giuridica della donna, proponeva di riconoscere alle donne parità di diritti civili e politici; proponeva il riconoscimento del valore nazionale della maternità, con il conferimento di onori, diritto di voto, accesso alle cariche pubbliche e pensioni.
Morelli fu deputato per quattro legislature e sedeva in Parlamento nei banchi dell’opposizione della Sinistra storica radicale dell’epoca. L'otto marzo del 1880, per l’ennesima volta, presenta ed illustra in Parlamento la sua proposta di legge sul divorzio. Politicamente ormai emarginato e deriso per le sue idee considerate "folli", ai suoi tempi, sia dal potere civile che da quello religioso, come anche dai benpensanti dell’epoca, la sua esistenza fu definita sognatrice, come tutte le esistenze legate al trionfo di un principio morale, ma egli rimase saldamente legato ai suoi convincimenti ed ai suoi principi.
L'aver posto la centralità della questione della donna, dei diritti e quella della laicità e della scuola, gli procurò l’apprezzamento e l’incoraggiamento di grandi uomini politici e di cultura del suo tempo: Mazzini, Garibaldi, Mozzoni, Stuart Mill, Victor Hugo. Morelli malato e ridotto alla fame (all’epoca non esisteva l’indennità per i Parlamentari come oggi) per i suoi principi morì a Pozzuoli (Na) in una camera d’albergo il 22 ottobre del 1880 [...]
Redazione, Carovigno ricorda Salvatore Morelli, ideatore dei diritti delle donne, BrindisiReport, 22 ottobre 2020
 
[...] [Salvatore Morelli] Nel 1840 si trasferì a Napoli per seguire gli studi della facoltà di giurisprudenza all’Università di Napoli. Nella città partenopea frequentò ambienti liberali come il salotto di Maria Giuseppa Guacci e Antonio Nobile. Divenne giornalista e si affiliò alla «Giovine Italia» fondata da Mazzini. Di idee libertarie e mazziniane, nel 1848 a Brindisi entrò nella Guardia Nazionale. Scontò dieci anni di carcere per aver bruciato l’immagine di Ferdinando II nella piazza della città natale. Nel 1851, accusato di cospirazione, venne tradotto nel castello di Ischia, prigione per i detenuti politici, dove subì una falsa fucilazione, venne torturato e vide i suoi libri bruciati. Terminò il primo lungo periodo di prigionia sull’isola di Ventotene. Qui esaltò la sfortunata spedizione di Carlo Pisacane a Sapri. Cadde, quindi, ancora una volta nelle maglie della giustizia borbonica. A Ventotene salvò tre bambini dall’annegamento e per questo ricevette la grazia, che però rifiutò passandola ad un altro detenuto, padre di numerosi figli. Inviato a Lecce nel 1858 a soggiorno obbligato, si guadagnò da vivere come istitutore dei figli di un farmacista della città. Nel gennaio 1860 fu di nuovo imprigionato per alcuni mesi, avendo rifiutato un incontro con Francesco II. Uscito dal carcere al crollo del regime borbonico, fondò a Lecce, alla fine del 1860, la rivista mazziniana, ispirata alla figura di Garibaldi, Il Dittatore. Sul giornale, Morelli evidenziava le colpevoli negligenze del nuovo governo nazionale e illustrava le riforme, a suo avviso, più urgenti: decentramento, snellezza burocratica e istruzione del popolo. Nel 1861 fu pubblicata la sua opera più importante, seconda edizione nel 1862, terza edizione nel 1869, dal titolo definitivo La donna e la scienza o la soluzione del problema sociale, anticipatrice dell’emancipazione femminile, otto anni prima del libro di John Stuart Mill La servitù delle donne. Il libro di Salvatore Morelli venne tradotto in francese a Bruxelles e in inglese a Londra. Trasferitosi a Napoli, scrisse sul giornale dei razionalisti Il libero pensiero. Massone, fu con Federico Campanella, Domenico Angherà ed altri esponenti della corrente massonica democratica, tra i rappresentanti maschili nelle logge di adozione. Fu deputato nel collegio di Sessa Aurunca per quattro legislature, dal 1867 al 1880. Nel 1867 presentò, primo in Europa, un progetto di legge dal titolo “Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici” per la parità della donna con l’uomo, forte risposta al Codice civile italiano del 1865, che sottometteva la donna all’autorizzazione maritale, facendone una minorenne a vita. Negli anni 1874-1875 propose un nuovo diritto di famiglia, con cento anni di anticipo rispetto a quello approvato solo nel 1975, che prevedeva l’eguaglianza dei coniugi nel matrimonio, ma anche il doppio cognome, i diritti dei figli illegittimi e il divorzio. Nel 1875 presentò, con un apposito disegno di legge, la richiesta del diritto di voto per le donne. Fra le sue proposte, anche l’istituzione della cremazione, l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche e l’istituzione di una Società delle Nazioni, per preservare la pace nel mondo. Nessuna di queste leggi venne presa in considerazione, però, nel 1877 il Parlamento italiano approvò il suo progetto di legge, “legge Morelli n. 4176 del 9 dicembre 1877”, per riconoscere alle donne il diritto di essere testimoni negli atti normati dal Codice civile, come i testamenti, importante progresso per i risvolti economici e per l’affermazione del principio di capacità giuridica delle donne. Grazie al suo impegno, le ragazze furono ammesse a frequentare i primi due anni del Ginnasio. Propose un’istruzione moderna, gratuita e obbligatoria per tutti, tutelò i deboli, lottò contro la pena di morte. Si batté, inoltre, contro la Legge delle Guarentigie (garanzie concesse al papa pari a quelle previste per un Capo di Stato straniero, con la differenza che il primo è a totale carico del contribuente italiano) [...]
Redazione, Salvatore Morelli, il primo deputato in difesa delle donne: se ne parla domenica a Carovigno, Brundisium.net, 18 ottobre 2017

La storiografia relativa a S. Morelli, eletto deputato qualche anno dopo l'Unità d'Italia, non è molto abbondante, e solo in questi ultimi anni la sua figura e le sue attività sono venute poco alla volta chiarendosi nel loro insieme. Poiché, inoltre, non esistono ricerche scritte in giapponese su questo singolare personaggio, vorrei descriverne qui brevemente la vita. Morelli nacque il primo maggio 1824 a Carovigno (prov. di Brindisi) e si laureò in giurisprudenza a Napoli, dove entrò nella Giovine Italia di Mazzini. Arrestato per attività anti-borboniche, nel corso della Rivoluzione del 1848, trascorse otto anni nelle prigioni di varie isole del Sud Italia. Nel 1861, dopo l'Unità d'Italia, Morelli pubblicò a Napoli La donna e la scienza, la sua opera più conosciuta, nella quale sostiene l'emancipazione della donna. Morelli vedeva la donna come promotrice dell'educazione degli esseri umani, un'educazione basata sulla scienza "concreta" e "intuitiva" di una nuova era. Nello stesso anno venne eletto consigliere al comune di Napoli, ma su questo argomento le ricerche sono ancora molto scarse. Nel 1867, in occasione della visita a Napoli di Bakunin, Morelli si staccò dal movimento di Mazzini, ed aderì a "Libertà e Giustizia", una delle prime associazioni socialiste in Italia. Ma più che un socialista, Morelli era piuttosto un autentico democratico, nel senso che perseguiva la realizzazione della libertà e dell'uguaglianza di tutti, donne comprese. Nel 1867 Morelli fu eletto per la prima volta deputato al Parlamento per il collegio di Sessa Aurunca (Campania). Egli subito propose al Parlamento tre disegni di legge, uno sull'educazione laica, uno sul miglioramento della condizione giuridica delle donne, ed uno sulla limitazione del potere della Chiesa. Questi progetti, però, sebbene altamente lodati da Mazzini, Garibaldi, Hugo, J.S. Mill, ed altri, nel Parlamento furono completamente trascurati. Ciononostante, Morelli continuò con ancora più vigore la sua attività parlamentare. Propose l'abolizione del sistema della prostituzione legalizzata, la parità dei diritti dei coniugi nel codice civile, l'introduzione del divorzio, il suffragio femminile, l'abolizione del dovere del giuramento al re da parte dei deputati, il disarmo dell'esercito, ed altro ancora. Oltre alle riforme democratiche sopra citate, Morelli propose anche delle riforme "meridionaliste", intese cioè a migliorare le condizioni socio-economiche dell'Italia meridionale. Fra queste si possono citare la costruzione di linee ferroviarie nel Sud, l'istituzione di scuole pubbliche, l'irrigazione della terra e l'abolizione delle tasse nel porto di Brindisi. Per Brindisi, Morelli intendeva fare di questo porto il centro commerciale di tutta l'Europa per i commerci con l'Asia. Nelle elezioni del 1880 Morelli non venne rieletto, e morì qualche mese dopo, in indigenza, vicino a Napoli. Dopo la morte, fu per molti anni quasi "dimenticato" dalla storia, per le sue proposte troppo progressiste. Ma per avere un'idea più chiara e completa della democrazia del Risorgimento italiano, è necessario anche prendere in considerazione aspetti finora trascurati, ed in questo senso, ulteriori ricerche sulla vita di questo personaggio possono rivelarsi assai interessanti.
Yumi Katsuta, Salvatore Morelli (1824-1880): la vita di un deputato di sinistra, Abstract, 1995 Volume 45 Pages 158-176, J-STAGE
 

venerdì 12 marzo 2021

Ricordo di Marie A. (di Bertolt Brecht)

Bertolt Brecht

Un giorno di settembre, il mese azzurro,

tranquillo sotto un giovane susino

io tenni l’amor mio pallido e quieto

tra le mie braccia come un dolce sogno.

E su di noi nel bel cielo d’estate

c’era una nube ch’io mirai a lungo:

bianchissima nell’alto si perdeva

e quando riguardai era sparita.


E da quel giorno molte molte lune

trascorsero nuotando per il cielo.

Forse i susini ormai sono abbattuti:

Tu chiedi che ne è di quell’amore?

Questo ti dico: più non lo ricordo.

E pure certo, so cosa intendi.

Pure il suo volto più non lo rammento,

questo rammento: l’ho baciato un giorno.


Ed anche il bacio avrei dimenticato

senza la nube apparsa su nel cielo.

Questa ricordo e non potrò scordare:

era molto bianca e veniva giù dall’alto.

Forse i susini fioriscono ancora

e quella donna ha forse sette figli,

ma quella nuvola fiorì solo un istante

e quando riguardai sparì nel vento.


Bertolt Brecht, Libro di devozioni domestiche, in Poesie 1918-1933, traduzioni di Emilio Castellani e Roberto Fertonani, Torino, Einaudi, 1968, da Redazione, Ricordo di Marie A. di Bertolt Brecht, il rimpianto della giovinezza perduta, Berlino Magazine, 1 Aprile 2014

 

martedì 9 marzo 2021

Cantare per me è la vita

Edith Piaf - Fonte: Wikipedia

Edith Piaf muore l’11 ottobre 1963, a 48 anni. Tre giorni dopo viene sepolta, per suo espresso desiderio, al Père-Lachaise, insieme alla figlia e al padre. Il cimitero parigino viene invaso da migliaia di persone che, quasi morbosamente, sembra vogliano trattenere le sue spoglie mortali. Poi finalmente la pace. Per chi la ama resta quella voce unica, indimenticabile. Prima di morire anche lui il giorno dopo, Jean Cocteau le rende omaggio: “Non ho mai conosciuto un essere umano così poco avaro della sua anima. Non la dispensava, la prodigava, ne buttava l’oro dalla finestra”.
La voce di Parigi
Piaf è il passerotto cittadino, quello che a Parigi come in ogni altra città danza da una finestra all’altra, da un marciapiede all’altro. Edith è la voce di Parigi. Le sue note richiamano le atmosfere di una città meravigliosa, gaia, ma anche piena di contraddizioni, di chiaroscuri, dove ci si può amare da morire, ma anche morire per amore. Edith Giovanna Gassion vi nasce il 15 dicembre 1915 da un acrobata e una cantante lirica. Adolescenza ingrata, povertà, la scoperta precoce degli uomini e della propria voce straordinaria, la voglia di prendersi una rivincita e di ritagliarsi un posto nella vita, il disperato bisogno d’amore: Edith non è una donna qualunque, ha talento, passionalità, pulsioni forti e un’estrema fragilità. Diventa cantante, una cantante grande, la più grande. Debutta nel 1935: pochi anni ed è una celebrità. Parigi l’adora: i suoi spettacoli sono sempre esauriti, i dischi un successo garantito. “La vie en rose” diventa una canzone di culto. Dopo tanto uomini, nel ’49 il “passerotto” conosce il grande amore, Marcel Cerdan, campione del mondo di pugilato. Ma Edith non ha fortuna. Marcel muore in un incidente aereo e le resta solo il lavoro, a cui si aggrappa per non impazzire: cantare è vivere, non c’è più altro nella sua vita.
Il declino
La sua esistenza dopo il lutto è un violento declino anche se apparentemente ricco di successi personali, nuovi incontri, nuovi amanti, due mariti. Ma anche medicine, droghe, alcol, vita disordinata, incidenti d’auto, ricoveri in ospedale per disintossicarsi e operazioni chirurgiche per rimediare ai danni fisici. Accanto a lei ci sono amici affezionati e gente priva di scrupoli che sfrutta il suo scarso attaccamento al denaro e la sua fragilità. Piena di debiti nonostante guadagni milioni, sempre sull’orlo della bancarotta, spreme se stessa in lunghe, estenuanti tournées per il mondo.
Il crollo
L’ospedale diventa la sua seconda casa. E’ curva, con i capelli radi, le mani deformate dall’artrite. Fatica a cantare e si spegne. Dimostra molti più anni di quelli anagrafici. La sua è una vita bruciata, donata al pubblico facendo vibrare le corde del suo essere fino allo spasimo, per trasmettere la passione di un cuore troppo solo. Non si è mai amata, si crede brutta da sempre, una cosa piccolina che solo attraverso la voce diventa grande, immensa. “Cantare per me è la vita”. Ma la vita se ne va per sempre. Restano le canzoni e quella voce che faceva sentire le persone più belle, più innamorate e anche, forse, un po’ più malinconiche.
Marco Innocenti, 11 ottobre 1963: muore Edit Piaf, «il passerotto», neldeliriononeromaisola, 11 ottobre 2016, testo già edito in data 10 ottobre 2009 [Marco Innocenti collabora a IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM), ed è autore di diverse opere, tra le quali: Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010]

sabato 6 marzo 2021

La Rosa di Bagdad. Un tesoro ritrovato

Locandina ufficiale (Zizibè) de La rosa di Bagdad - Fonte: Urania cit. infra

[...] In quel teatro di orrore e violenza che fu l’Europa dal 1939 al 1945, quanto poteva essere anacronistica la dolce favola de La rosa di Bagdad, produzione IMA Film per la regia di Anton Gino Domeneghini?
La storia del piccolo maestro di musica di un regno medio-orientale nasceva da un sogno del regista il quale, proprio grazie alla sua tenacia e alla sua ferma convinzione nel progetto, riuscì a resistere alle intemperie della guerra attraversando il caos che porterà l’Italia dalla dittatura fascista alla nascita della Repubblica e al clima della guerra fredda.
Ma chi era Domeneghini?
Nato nel 1897 a Darfo Boario Terme in provincia di Brescia, dopo l’esperienza come volontario durante la Grande Guerra e avere partecipato all’impresa di Fiume a fianco di D’Annunzio, diresse una società di pubblicità, la IMA (Immagine Metodo Arte), con sede a Milano. Convinto fascista proseguì la sua carriera di pubblicitario finché la Storia non si frappose per la prima volta tra lui e il suo lavoro: durante la guerra, il regime di Mussolini vietò la pubblicità a scopo commerciale. Per mantenere coeso il suo gruppo creativo con l’incedere della guerra e attiva la sua società, nel 1942 Domeneghini decise di trasformare la IMA in IMA Film e cominciò a elaborare un progetto ambizioso: un lungometraggio animato ispirato a una raccolta di novelle dal titolo Il libro della primavera.
I capitali per questo progetto vennero raccolti dal regista sia tra finanziatori privati sia grazie alle sue conoscenze all’interno del “fascistissimo” Ministero della Cultura Popolare.
La produzione cominciò a Milano che allora era la sede privilegiata dell’animazione italiana sia cinematografica che pubblicitaria mentre Roma, soprattutto dopo il neonato interesse del regime per questo mezzo di comunicazione di massa, era la capitale incontrastata delle produzioni “dal vero.”
Un saggio di Walter Alberti del 1957 sul cinema d’animazione motivava questa divisione geografica dell’industria cinematografica utilizzando categorie antropologiche (sic!): “La causa va ricercata nel tipo di tecnica di realizzazione dei disegni che vogliono soprattutto pazienza e costanza, qualità più milanesi che romane.”
I talenti coinvolti dal regista erano di prim’ordine: Libico Maraja e Gildo Gusmaroli alle scenografie, Riccardo Pick Mangiagalli alle musiche originali e l’autore delle figurine Perugina Angelo Bioletto come character designer.
Nell’ottobre del 1942 ancora una volta la Storia si mise in mezzo tra Domeneghini e i suoi sogni: a seguito dei bombardamenti anglo-americani nel capoluogo lombardo, la troupe si spostò in cerca di tranquillità e sicurezza in due ville (Villa dei conti Secco d’Aragona e Villa Fé) presso Bornato in Franciacorta. La guerra però continuò a funestare la produzione in quanto i nuovi locali erano nei pressi di una stazione ferroviaria, obiettivo militare degli alleati che volevano ostacolare trasporti e comunicazioni dei nazifascisti: gli animatori erano costretti a interrompere il loro lavoro per cercare riparo dagli attacchi aerei.
Mentre il mondo fantastico de La rosa di Bagdad prendeva forma, a Villa Fé transitavano personaggi appartenenti ad ambedue le fazioni in guerra: da esponenti della Repubblica Sociale a figure come Lucio De Caro, ricercato dai tedeschi e assunto da Domeneghini come montatore. Lo stesso regista a guerra finita venne preso in consegna dai partigiani in quanto convinto fascista ma in seguito liberato; a salvarlo forse fu proprio il suo impegno per La rosa di Bagdad che venne interpretato come un segno di “apoliticità”. Nell’immediato dopoguerra Domeneghini si recò a Londra presso gli Stratford Abbey Studios di Stroud per colorare il film che venne terminato nel 1949 quando venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e infine distribuito l’anno seguente sul mercato nazionale. La rosa di Bagdad ottenne un discreto successo di pubblico e permise di rientrare dagli elevati costi di produzione; molto interessante fu l’innovativa campagna adottata per il marketing del film - si ricordi che non a caso Domeneghini era un pubblicitario - realizzata attraverso il lancio di una linea di cioccolatini, quaderni per la scuola a tema e una serie a fumetti (realizzata da Guido Zamperoni). Il trailer presentava - erroneamente - la produzione come il primo lungometraggio animato realizzato in Europa.
Cosa rimane oggi di quel folle progetto che fu La rosa di Bagdad? Come giudicare una produzione di questo tipo all’interno del suo contesto storico? Che ruolo ha avuto nella storia del cinema italiano?
[..] Il sogno fantastico di Domeneghini infatti, nonostante sia stato concepito durante la dittatura, non ha nulla di propagandistico, eccezion fatta per qualche piccolo segnale dello spirito dei tempi (tra i tre savi del Califfo vi è un ministro della propaganda e i marchi razziali dei personaggi di colore, malvagi per natura) ma era molto più affine all’intrattenimento favolistico di matrice disneyana piuttosto che alle allusioni mussoliniane di Scipione l’Africano (1937, regia di Carmine Gallone, produzione ENIC). Infatti, nonostante il fascismo usasse sporadicamente l’animazione per celebrare la cultura e la tradizione italiana al fine di sottolineare la continuità tra le glorie italiche e il regime, La rosa di Bagdad preferisce rifugiarsi nelle languide atmosfere sognanti delle Mille e una notte.
Per quanto riguarda la storia del cinema rimane un progetto ambizioso, seppur destinato a non avere alcun seguito, che segna almeno due traguardi nella produzione nostrana: il primo lungometraggio animato (insieme a I Fratelli Dinamite di Nino Pagot, presentato alla medesima Mostra del Cinema di Venezia insieme a La Rosa di Bagdad) e il primo film italiano a colori, anticipando sia Mater dei (1950, regia di Emilio Cordero, produzione Incar e Parva Film) sia il più noto Totò a colori (1952, regia di Steno, produzione Dino De Laurentiis e Carlo Ponti).
Domeneghini sfruttò la chiusura del mercato nazionale rispetto alle produzioni estere operata durante la guerra dal fascismo per aprire la strada a una tradizione di cinema di animazione nazionale, fino allora assente per ragioni industriali e culturali, nonostante numerose incursioni di alcuni professionisti del settore nel cortometraggio. Per le difficoltà di produzione e il dilatarsi dei tempi di realizzazione, La rosa di Bagdad venne distribuito fuori tempo massimo quando la Disney stava per lanciare film tecnicamente all’avanguardia come Cenerentola e Alice nel paese delle meraviglie e l’animazione italiana aveva addirittura tentato la commistione con il neorealismo [...] ma, come ha detto Marco Bellano, “I Fratelli Dinamite e La rosa di Bagdad vanno interpretati come esiti eroici di attività rimaste a livello pionieristico per oltre tre decenni.”
Domenighini, dopo l’avventurosa storia della produzione della Rosa, tornò al mondo della pubblicità e con lui anche l’animazione italiana che raggiunse i suoi vertici televisivi con Carosello ma rimase confinata nel piccolo schermo mentre nelle sale di tutta Italia spadroneggiavano i film Disney; almeno fino all’arrivo di un grande del disegno animato che proprio dal folle e dolce sogno di Domeneghini era stato ispirato: Bruno Bozzetto.
Carlo Ugolotti, La rosa di Bagdad: il folle sogno di Anton Gino Domeneghini, Catalogo Asta La Rosa di Bagdad. Un tesoro ritrovato, Urania Casa d'Aste, Parma, 19 maggio 2018


Quando nel 2009 La Rosa di Bagdad per il suo 60° anniversario riemerse dalle nebbie del tempo nell’edizione restaurata da Cinecittà-Istituto Luce, primo film d’animazione italiano a venire riproposto in alta definizione bluray, fu evidente che quel recupero della creazione dell’opera di Anton Gino Domeneghini restituiva al godimento e a una consapevole analisi cinematografica ed estetica un manufatto di grande interesse storico e artistico. Grazie a questa operazione si rivelavano nitidi ai nostri occhi i processi creativi che avevano reso possibile il primo lungometraggio in Technicolor del cinema italiano, opera temeraria di un gruppo di artisti a cui guardò con ammirazione tutta la generazione di animatori italiani che dagli anni ’50 in poi avrebbe scritto la storia della settima arte bis del nostro Paese fra grande schermo, cinema d’autore e televisione.
Alle spalle dell’impresa della Rosa, si stagliano due capisaldi del lungometraggio animato realizzati in terra d’America: Biancaneve e i Sette Nani (1937) e I Viaggi di Gulliver (1939). L’estetica di Biancaneve e i Sette Nani è fondata su una quantità di influenze pittoriche e illustrative con radici profonde nel Vecchio Continente.
Gli artisti Disney vennero alimentati anche dal carico di volumi di favolistica classica, d’arte e illustrazione, oltre 350, che Walt Disney aveva rastrellato per librerie e bancarelle durante il fatidico viaggio europeo dell’estate del 1935 attraverso Inghilterra, Francia, Germania e Italia: così si riversarono a Los Angeles migliaia di pagine illustrate da Doré, Dulac, Rackham, De Brunhoff, Kley e tanti altri maestri europei. Sono almeno 15 i titoli italiani di cui la contabilità dello Studio registra l’arrivo nel settembre del ’35. Il raccolto del Grand Tour avrebbe alimentato di ispirazione e spunti, sia nei soggetti sia nelle visualizzazioni, la fantasia degli artisti che operavano nella factory californiana. “Alcuni di quei libri che ho portato a casa dall’Europa contengono illustrazioni affascinanti di piccoli esseri, api, insetti che vivono fra funghi e zucche… questa atmosfera pittoresca mi affascina”: queste le parole espresse da Walt Disney in una nota del dicembre del 1935, a identificare il bagaglio visivo che avrebbe alimentato gran parte dei progetti dello Studio Disney per gli anni a venire. Una storia ben narrata dall’esperto Didier Ghez nell’imperdibile volume Disney’s Grand Tour (2013, Theme Park Press).
Di questo imprinting beneficiò in prima battuta proprio il primo lungometraggio Disney, Biancaneve e i Sette Nani.
Erano europei i membri-chiave del team Disney che fornirono i principali apporti creativi al disegno generale del film: fra i 10 artisti addetti alla ricerca creativa e ai layout spiccano l’ungherese Ferdinand Horvath, capace di tratteggiare ambientazioni e personaggi in un profluvio di disegni finissimi, e lo svizzero Albert Hurter con i suoi bozzetti evocativi delle atmosfere del Vecchio Continente [...]
Federico Fiecconi, L’arte preziosa della Rosa, Op. cit. Urania

[...] Nato a Torino il 23 giugno del 1910, Giovanni Camusso non è sopravvissuto a lungo alla pubblicazione del suo eroe della Resistenza, spegnendosi a Milano l’11 marzo del 1947, come ci informa la signora Grazia, a causa di una gravissima malattia vascolare.
Torinese di nascita, appena diplomato, Camusso, come testimonia la tessera di riconoscimento sotto riportata, viene assunto dalla FIAT, per la quale lavora alcuni anni nell’ufficio tecnico della sezione automobili-aviazione.
Contemporaneamente porta avanti la sua carriera di vignettista per riviste satiriche quali il Bertoldo, il Marc’Aurelio, Candido, Becco Giallo, il Travaso.
Per tutti gli anni Trenta e i primi anni Quaranta del secolo scorso, sue vignette e raccontini illustrati appaiono anche su la Domenica del Corriere e Tribuna Illustrata, come raccontano le ricevute di pagamento che corredano queste righe, singolare memento della vivace attività di Camusso in campo vignettistico.
Come ci informa sempre la signora Grazia, Camusso si trasferisce quindi a Milano nel 1939 (foto sotto), chiamato a collaborare a quel capolavoro del cartone animato italiano, recentemente restaurato, che è La rosa di Bagdad.

 

Fonte: nòva

Purtroppo, del suo intervento nella realizzazione della pellicola animata al momento non ci è dato conoscere di più.
Del giovane e sfortunato disegnatore sappiamo solo che durante gli anni della guerra lavora a Milano nelle industrie aeronautiche Caproni in qualità di progettista e disegnatore. Poi, al termine del conflitto, la breve vicenda editoriale di Pam il partigiano e l’improvvisa scomparsa all’età di neanche 37 anni.
Facile a dirsi, oggi, ma mi sento comunque di affermare che se la malattia non lo avesse portato via così presto, alla luce del suo tratto elegante e dinamico e della sua modernità nell’affrontare le storie disegnate, Giovanni Camusso avrebbe senz’altro potuto dare un contributo notevolissimo allo sviluppo del fumetto italiano.
Per concludere queste brevi righe, mi preme ringraziare sentitamente la signora Grazia per il materiale e le notizie che ci ha gentilmente fornito [...]
Luca Boschi, Giovanni Camusso. Una rosa (di Bagdad) per il partigiano Pam..., nòva Il Sole 24ORE, 25 aprile 2011

Un altro aspetto della multiforme personalità artistica di Nino Camus [Giovanni Camusso] è il suo particolare approccio di DISEGNATORE alle immagini dal vago sapore dysneiano. Questo tipo di immagini fu usato durante la collaborazione di Camus alla realizzazione del primo film di animazione italiano: “La Rosa di Bagdad”. L’impegno doveva essergli congeniale perché esiste una forte correlazione fra le semplificazioni artistiche della figura umana utilizzate nella satira ed i personaggi pseudo-disneyani del film. Erano inoltre propri dello stile di Camus  lo studio veloce ed accattivante dei personaggi e la poetica del paesaggio. Inoltre l’interesse di Camus per i fumetti datava dagli anni ’30 [...]
Nino Camus aveva sicuramente studiato con estremo interesse le strips disneyane pubblicate sull’ “Illustrazione del Popolo” fino dal 30 marzo 1930 e, rispettivamente nel 1935 e nel 1938,  aveva collaborato sia con la "Casa Editrice Nerbini" di Firenze, che con la "Editoriale Universo" di Milano, entrambe impegnate nella pubblicazione di fumetti. Nel 1932 la Nerbini aveva pubblicato il primo numero del giornale illustrato “Topolino”, e successivamente i fumetti  di “Flash Gordon” e “Mandrake”, mentre l’Editrice Universo pubblicava sino dal 1937 gli "Albi dell’Intrepido", ed anche “Il Monello”.  L’interesse di Camus per i cartoons era perciò di vecchia data quando, nel dicembre del 1938,  Anton Gino Domeneghini rimase profondamente colpito dalla visione di “Biancaneve ed i sette nani” di Walt Disney e decise di preparare il primo film di animazione italiano: “La rosa di Bagdad”, ispirato alle “Mille ed una notte”. Domenighini, in qualità di responsabile della IMA, iniziò a raccogliere intorno a se i migliori artisti del momento, tanto che nel periodo di massimo sviluppo si contavano 47 animatori ed assistenti, 25 intercalatori, 44 inchiostratori e pittori, 5 artisti dedicati agli sfondi, tecnici, lavoratori ed assistenti amministrativi.  La preparazione del film  fu fatta coralmente da tanti artisti rappresentativi del  mondo del fumetto e dell’illustrazione italiana (tra cui l’autore delle figurine Perugina Angelo Bioletto, Libico Maraja, Guido Zamperoni e molti altri) che eseguirono circa 200 mila  eleganti disegni per “La rosa di Bagdad”. Un posto di rilievo lo ebbe anche Carla Ruffinelli, cugina di Nino Camus, figlia della "Zia Maddalena" [...]
Nino Camus e La Rosa di Bagdad in Nino Camus