Carlo
Levi e la riscoperta del Sud
Dopo la caduta del fascismo e la fine della seconda guerra mondiale in Italia si torna a parlare di questione meridionale. I problemi del Mezzogiorno riaffiorano in tutta la loro gravità, esacerbati da venti anni di regime e dal conflitto. Il divario Nord Sud e l’arretratezza meridionale, emersi sin dall’unità d’Italia,ritornano alla ribalta dopo essere stati volutamente messi tra parentesi dal fascismo, che li aveva dissimulati nel mito di un Sud come arcadia e luogo di valori genuini e tradizione. Il dibattito sulle urgenze del Mezzogiorno, su un piano politico ed economico, si nutre del pensiero dei meridionalisti, incentrato in particolare sulla questione agricola e sulle necessarie riforme per lo sviluppo economico e industriale del Meridione. Ma un contributo fondamentale alla riscoperta del Sud è dato anche dalla letteratura, dal cinema e dalle arti figurative. Centrale in questa prospettiva è il romanzo di Carlo
LeviCristo si è fermato ad Eboli, pubblicato da Einaudi nel 1945, grazie al quale il Paese scopre il mondo contadino attraverso gli occhi dell’intellettuale torinese[1]. Il romanzo, un vero e proprio caso letterario, fu accolto con molti consensi all’uscita. Scritto tra il 1943 e il 1944, racconta dell’esperienza del confino vissuta in Lucania, ad Aliano, da Levi nel 1935 e nel 1936. L’uomo del Nord, colto e proveniente da un ambiente urbano e industriale, si trova improvvisamente calato, con un inevitabile effetto di straniamento, in un mondo a lui totalmente sconosciuto, dominato dalla superstizione, dalla cultura rurale e dalla miseria più nera. Le pagine che nascono da quella esperienza si configurano come una vera e propria «epifania letteraria e antropologica», che fa compiere al mondo contadino meridionale il grande salto «dal silenzio della non-storia alla parola della poesia e della letteratura»[2].Ma non solo. L’opera apre la strada all’analisi sociologica della civiltà contadina, ovvero alla rivelazione e allo studio del mondo rurale e dei suoi valori, grazie ai quali emerge «una dimensione umana della condizione meridionale, che senza alcun dubbio contribuì a rendere più drammatica e urgente la passione meridionalistica»[3].
Il romanzo di Levi si presenta come il prodotto di uno sguardo esterno al mondo contadino. Durante il suo confino, lo scrittore si lega progressivamente a quelli che chiamerà i «miei contadini»[4]. Li frequenta, entra nel loro microcosmo e ben presto inizia a curarli riprendendo la sua professione di medico.Aderisce empaticamente a quel mondo, prova compassione per i contadini poveri sfruttati dai «luigini», i signori parassiti che si servono di loro per mantenere posizioni sociali di potere e ricchezza. Tuttavia,l’adesione empatica non muta la natura di un punto di vista che resta esterno a quel mondo: un’osservazione partecipante, utilizzando una definizione in uso tra gli antropologi. Si tratta, infatti, di uno sguardo meridionalista, ovvero filtrato da una certa cultura politica e da un certo background culturale, e non di uno sguardo meridionale, di chi è invece collocato all’interno del mondo contadino del Sud. È, in altre parole, il punto di vista di un intellettuale progressista (Levi era stato mandato al confino perché militante antifascista nelle file di Giustizia e Libertà), mosso da passione civile e spirito di denuncia, che si serve della sua cultura per decifrare una realtà a lui sconosciuta e che nel romanzo cercherà di spiegare ai lettori. È il guardare di chi rivendica un ingresso nella Storia per quelle masse popolari dimenticate, umiliate e rassegnate, ma nelle quali pure intravede un’aspirazione al cambiamento, che però non si realizza per via dell’assenza degli strumenti culturali adeguati[5]. Nel dibattito sul rapporto tra il Cristo e il realismo anche Alberto Asor Rosa ha sottolineatola soggettività della rappresentazione del mondo contadino da parte di Levi. Una soggettività che tuttavia non offusca l’impianto storico-sociologico del discorso «a favore della bella pagina descrittiva, del colore locale, del puro e semplice folklore», giacché Levi racconta il mondo contadino con una «forza rappresentativa e una serietà culturale» eccezionale nel panorama letterario a lui coevo[6].
Tra coloro che rimasero profondamente colpiti dal romanzo di Levi e che grazie ad esso iniziarono ad interessarsi alla questione contadina del Sud Italia figura anche l’antropologo Ernesto De Martino. Mentre Levi scriveva il Cristo, De Martino, che a sua volta avrebbe dato un contributo fondamentale alla riscoperta del Mezzogiorno, lavorava a Il mondo magico, il volume, poi pubblicato nel 1948, che proponeva un’interpretazione originale del magismo. I due intellettuali nel 1945 si incontrano nella sede romana dell’editore Einaudi, che avrebbe pubblicato ambo le opere. L’intreccio dei percorsi di Levi e De Martino però va anche oltre. L’antropologo, infatti, inizia a studiare i fenomeni magico-religiosi meridionali proprio dopo aver letto l’opera di Levi, che gli appare come una fondamentale epifania (sebbene avrebbe poi manifestato alcune riserve sul modo in cui l’intellettuale torinese aveva rappresentato il mondo contadino). In precedenza, infatti, De Martino aveva condotto le ricerche sui fenomeni del magismo prevalentemente nelle culture non europee, ma dopo la lettura del romanzo intraprenderà le sue spedizioni in Lucania[7].
De Martino offre una lettura completamente originale del mondo contadino meridionale e della sua cultura. Orientato da un’adesione al marxismo e da una passione civile, egli afferma la necessità di rifondare l’analisi e la comprensione del complesso universo culturale del Mezzogiorno, a partire da un nuovo modo di guardare ad esso. Prima di lui, infatti, la dimensione magico religiosa del mondo rurale meridionale era stata intesa come un residuo di primitivismo, un banale folclore, in breve l’espressione di una non cultura. Secondo De Martino questo tipo di interpretazione era figlia di un certo modo di guardare al Sud,ovvero il considerarlo un’area arretrata rispetto al Nord sviluppato. Questo sguardo per confronto, nato a partire dall’unificazione italiana, che aveva orientato anche il pensiero dei meridionalisti, tendeva a rappresentare il Sud come un’area separata del Paese, definita per sottrazione rispetto alle aree più sviluppate. In tale ottica, il Mezzogiorno rurale non era ritenuto detentore di un sistema culturale autonomo, ma immerso in una dimensione preculturale[8]. Nella lettura di De Martino, invece, i fenomeni magico-religiosi meridionali, per la prima volta elevati al rango di oggetti scientificamente rilevanti, erano espressione di un sistema culturale diverso, ma comunque intrecciato a quello dominante perché strutturatosi in relazione e in opposizione ad esso.
Attraverso le opere di Levi e De Martino nel secondo dopoguerra l’Italia torna a interfacciarsi col Mezzogiorno. I due sguardi sono accomunati dal fatto di essere entrambi esterni, ovvero di due intellettuali che osservano attraverso la loro cultura un mondo da cui non provengono. Se Levi aderisce empaticamente alla realtà contadina lucana, quindi non sempre la sua è un’analisi critica, De Martino pone rispetto ai fenomeni osservati una distanza di tipo scientifico, nel tentativo di offrire una spiegazione razionale dei fenomeni analizzati.Di là dalle posizioni di De Martino, che sosteneva la necessità di non considerare il Mezzogiorno come una lontana realtà esotica[9], la scoperta del Sud nel secondo dopoguerra e il dibattito che ne scaturì definirono il mito della civiltà contadina meridionale, intesa come una realtà a se stante, immobile e astorica, chiusa e impermeabile ai cambiamenti e alle influenze esterne.
Il Mezzogiorno nel cinema del dopoguerra
L’idea di un mondo contadino meridionale isolato nello spazio e nel tempo si cristallizza nell’immaginario collettivo anche attraverso le rappresentazioni veicolate dal cinema. Nel clima di rinascita del dopoguerra, il cinema italiano offre un contributo importante nel processo di riscoperta della realtà attraverso il neorealismo. In netta rottura col cinema di epoca fascista, i film neorealisti raccontano senza censure la difficile situazione italiana dopo la fine del conflitto. La povertà, la resistenza, le macerie fisiche e spirituali del Paese uscito devastato dalla guerra entrano prepotentemente sugli schermi, con pellicole girate per strada e molto spesso con attori non professionisti. Lo sguardo neorealista nella sua sete di rivelare la realtà non incontra il mondo contadino meridionale: il neorealismo, infatti, focalizza la propria attenzione quasi esclusivamente sui contesti urbani del Centro e Nord Italia[10]. È forse questa una delle ragioni per cui il romanzo di Carlo Levi non trova subito una strada per approdare sul grande schermo, nonostante i tentativi che pure furono compiuti in tal senso proprio nell’epoca in cui il cinema italiano dava alla luce i suoi più grandi capolavori neorealisti.
Le vicende relative alla trasposizione cinematografica di Cristo si è fermato a Eboli si collocano all’interno di un più ampio rapporto di frequentazione di Carlo Levi col cinema. Sin dagli anni Trenta, infatti, lo scrittore torinese aveva lavorato come scenografo e sceneggiatore per il grande schermo. Dopo l’uscita del romanzo e il grande successo riscosso, Levi tentò in più occasioni di tradurre l’opera in film coinvolgendo diversi registi. Per la sceneggiatura decise di rivolgersi a Rocco Scotellaro, poeta e sindaco socialista di Tricarico, che riteneva la persona più adatta, per cultura e per il loro legame umano, a cogliere lo spirito del romanzo nell’ottica della trasposizione in film. Come registi pensò a grandi nomi del cinema, tra cui Comencini, De Sica, Germi, Rossellini, Lizzani e Chaplin. Tutti i tentativi, protrattasi fino agli anni Sessanta, però, sfumarono[11]. Bisognerà attendere solo la fine dei Settanta, quando Levi sarà ormai scomparso, per vedere l’approdo sul grande schermo del suo Cristo.
Il cinema neorealista e quello successivo degli anni Cinquanta e Sessanta per ragioni diverse non furono in grado di raccogliere la sfida del romanzo leviano, probabilmente per l’incapacità di raccontare autenticamente il mondo contadino meridionale. In questa luce, si spiega la realizzazione del film ad opera di Francesco Rosi nel 1979, in un momento in cui la cultura italiana torna a riflettere sul mondo contadino e sui limiti della modernizzazione, in particolare sull’onda del pensiero di Pier Paolo Pasolini. Fatte rare eccezioni, prima di quell’epoca, infatti, il cinema italiano non si confronta in profondità col Mezzogiorno. Soprattutto negli anni Cinquanta esso riflette l’immagine di un Meridione arcaico e di un mondo contadino chiuso e plasmato da cultura e tradizioni remotissime. Un ritratto che, uniformando tutto il Mezzogiorno a un’idea di società unidimensionale, non rendeva merito alla sua effettiva complessità territoriale e sociale[12]. Ma, soprattutto, a mistificarne il volto erano i tanti cliché e luoghi comuni attraverso i quali, in molti film, era rappresentata la gente del Sud (un fenomeno, questo, che ha riguardato soprattutto la Campania – Napoli in particolare – e la Sicilia). Tipi e personaggi dai caratteri esasperati, stagliati su paesaggi naturali, utilizzati alla stessa stregua di fondali di cartapesta, popolano moltissimi film, appartenenti soprattutto ai generi comico, turistico-sentimentale e musicale. Sono in prevalenza registi non meridionali a realizzare queste pellicole e anche laddove le produzioni si avvalgono quasi per intero di persone del Sud (come attori, registi, sceneggiatori e personale tecnico) la direzione produttiva è collocata fuori dal Mezzogiorno. In altre parole, lo sguardo è esterno. Questa circostanza, associata al fatto che tali film erano prodotti a basso costo, realizzati in poco tempo per un pubblico popolare, spiega le ragioni di una lettura semplicistica e filtrata da stereotipi[13].
Se il neorealismo non si occupa del mondo contadino meridionale e il cinema di finzione troppo spesso lo rappresenta attraverso una lente altamente deformante, negli anni Cinquanta e Sessanta è il cinema documentario che si interessa della realtà rurale del Mezzogiorno, cogliendone aspetti peculiari con uno sguardo non superficiale. In particolare, sono i documentari riconducibili ai generi antropologico e sociale che esplorano il Sud contadino, raccontandone la miseria e le condizioni di vita difficili, la sopravvivenza di riti legati alla sfera magica e a quella religiosa, i mestieri antichi e le tradizioni. Con spirito critico, queste opere, il più delle volte dei cortometraggi, raccontano il Sud dimenticato, mettono sotto i riflettori le ferite aperte di un Paese in corsa sul treno della rinascita e, poco dopo, del miracolo economico. I documentari antropologici, realizzati da registi quali Michele Gandin, Luigi Di Gianni, Gianfranco Mingozzi, Lino Del Fra e Cecilia Mangini, nascono in molti casi proprio sui passi delle ricerche di Ernesto De Martino. L’antropologo, che non disprezzava l’uso del cinema come strumento di conoscenza, farà da consulente ad alcune di queste pellicole suggerendo i luoghi in cui girare e offrendo consigli ai cineasti[14]. Grazie a questi film oggi possediamo importanti documentazioni filmate di riti e fenomeni che di lì a poco sarebbero scomparsi, come il lamento funebre, il tarantismo, i rituali legati all’agricoltura, alla nascita e alla morte. Il documentario sociale punta l’indice sulla povertà e l’arretratezza meridionali, sul senso di abbandono e assenza dello Stato, facendo emergere i paradossi nel confronto con le aree più sviluppate del Paese[15]. Le opere di Giuseppe Ferrara, Lino Miccichè, Carlo Di Carlo, Mario Carbone e molti altri raccontano un Sud dimenticato dalle cronache ufficiali, segnato da miseria, sottosviluppo e ingiustizie intollerabili. Il documentario antropologico e sociale sono un invito alla scoperta di un Mezzogiorno rimosso perché imbarazzante. Ma nel loro cogliere ed evidenziare l’eccezionalità del Sud, riconducibile al suo sottosviluppo o alla persistenza di tradizioni legate a un passato lontano, paradossalmente contribuiscono a rafforzarne l’immagine di una realtà lontana e separata dal resto del Paese, avvolta in un’aura mitica. Ancora un volta, inoltre, questa idea di Mezzogiorno si definisce a partire da uno sguardo ancorato all’esterno: quasi tutti i registi dei documentari sono non meridionali e filmano una realtà che non conoscono, ma di cui colgono aspetti considerati fuori dal comune in rapporto al loro mondo di provenienza[16].
Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi
Messo nel cassetto per molti anni, Cristo si è fermato a Eboli di Levi arriva sul grande schermo nel 1979, in un momento in cui, da una parte, il Mezzogiorno era profondamente mutato rispetto agli anni Trenta e all’immediato dopoguerra e, dall’altra, il mondo contadino tornava al centro del dibattito culturale italiano[17]. Francesco Rosi, che dirige la pellicola[18], si era già occupato di Sud in diversi film, tutti però riconducibili al genere di impegno civile e di inchiesta. La trasposizione del romanzo di Levi appare, quindi, in quel momento come un’eccezione nella sua filmografia.
Rosi è un uomo del Sud, un intellettuale, che si serve della sua cultura e della conoscenza della sua terra per raccontarne aspetti controversi in una prospettiva politica e sociale. Film come La sfida (1958), Salvatore Giuliano (1962), Le mani sulla città (1963), Lucky Luciano(1973), Cadaveri eccellenti (1976)narrano vicende paradigmatiche e riescono a definire un universo simbolico altamente rappresentativo del Mezzogiorno.«Se Leonardo Sciascia – spiega Gian Piero Brunetta – aveva parlato di «sicilitudine» («forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia»), ossia della riconsiderazione della Sicilia come di una realtà non separata, ma capace di diventare paradigma e spazio topologico con caratteri universali, per Rosi si potrebbe parlare di «meridionalitudine», ossia di un insieme di mentalità e comportamenti propri di una realtà geografica circoscritta che si moltiplicano, sono esportabili, si proiettano nello spazio, attecchiscono facilmente su qualsiasi terreno e agiscono da modificatori dei processi economici, storici, politici e sociali su scala nazionale e internazionale»[19].
Il Cristo di Levi a un primo sguardo sembra lontano dagli interessi di Rosi e, come detto, la realtà meridionale di fine anni Settanta era molto diversa da quella raccontata nel romanzo.Il regista, tuttavia, non ha intenzione di condurre un’immersione nel passato fine a se stessa, ma, come ha diverse volte dichiarato, vuole far emergere il particolare isolamento che ha interessato il Mezzogiorno fino al dopoguerra e che è all’origine di alcuni suoi tratti nel presente.«Girare un film del genere - ha spiegato Francesco Rosi, intervistato da Pasquale Iaccio - significa far capire al grande pubblico, attraverso un mezzo di comunicazione più diffuso di quello che può essere la parola scritta del grande Levi, perché mai, fino a pochissimi decenni fa, in Lucania esistesse un isolamento secolare e forme di cultura arcaica che hanno influenzato fortemente i comportamenti della gente»[20]. Il regista è perfettamente consapevole del fatto che quella Lucania non esiste più, che l’isolamento di un tempo è scomparso. Tuttavia, ad esso si sono sostituite nuove forme di emarginazione che sono il prodotto dell’arrivo di una civiltà dei consumi che convive con alcune forme di arretratezza sociale e culturale. In tal senso, il Cristo di Rosi non è un film sul passato, ma sul presente[21]. Visto da questa prospettiva esso si colloca perfettamente in una filmografia, quella del regista napoletano, che è incentrata sulla narrazione degli aspetti problematici e dei paradossi del Sud.
La vicinanza di Rosi ad una realtà che conosce, il Mezzogiorno, ci riporta a parlare dello sguardo, o meglio della collocazione del punto di vista del regista rispetto all’oggetto della narrazione filmica. Poiché meridionale, saremmo portati a credere che il regista napoletano guardi dall’interno il mondo che racconta nel film. In realtà, anche in questo caso, lo sguardo è contemplativo e resta ancorato all’esterno. Prima di tutto, Rosi si rapporta al mondo contadino degli anni Trenta servendosi della sua cultura meridionalista, che negli anni Settanta era fortemente in crisi. Inoltre, se nel romanzo di Levi è dato molto rilievo alla dimensione antropologica della realtà contadina, nel film di Rosi, al contrario, prevale quella politica e sociale. In altre parole, un’evidente assenza nel film rispetto al romanzo è la magia. Quella magia che nel romanzo si configura come elemento in grado di coinvolgere Levi e far oscillare il suo ponto di vista tra il distacco e l’adesione partecipante al mondo narrato. Rosi,invece, in linea con il suo orientamento, predilige soffermarsi sulla miseria, sulle condizioni di sfruttamento subite dai contadini, sul ruolo del fascismo come amplificatore delle ingiustizie sociali. Questa scelta definisce il suo sguardo come esterno ai fatti narrati, filtrato da una cultura e da un posizione politica definite[22].
Essendo espressione di un guardare dall’esterno la realtà meridionale, il film di Francesco Rosi idealmente chiude un ciclo, quello della storia di una specifica rappresentazione del Mezzogiorno, formatasi alle origini proprio col romanzo di Levi e sedimentatasi mano a mano nell’immaginario collettivo attraverso il contributo di più vettori culturali. Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi fa scoprire agli italiani la Lucania, che nella sua particolare arretratezza diventa l’emblema dell’idea di Mezzogiorno come luogo mitico e lontano. È stato notato che anche il cinema abbia rappresentato e utilizzato la Lucania come raffigurazione di un Sud generico. Per comprendere meglio questo concetto basta fare un confronto con Napoli e la Sicilia, le uniche due realtà meridionali che, al contrario, hanno avuto una rappresentazione cinematografica fortemente caratterizzata e quindi riconoscibile. Una conseguenza, quest’ultima, dell’esistenza di una letteratura e di un sistema icnografico codificato preesistenti su queste due realtà meridionali, che il cinema ha colto e veicolato attraverso le immagini in movimento. Diversamente la Lucania, di cui la letteratura più significativa è probabilmente quella di Ernesto De Martino, dal cinema italiano è stata utilizzata come il luogo simbolico e al contempo vago di un Sud lontano e arcaico, non ottenendo, perciò, una immediata riconoscibilità[23]. Tale rappresentazione cinematografica è legata a doppio filo all’idea di Mezzogiorno come realtà mitica e staccata dal resto del Paese, che si definisce, a partire dal Cristo di Levi, attraverso più racconti e più sguardi, in prevalenza, come visto,espressione di punti di vista collocati all’esterno e filtrati da apparati culturali più complessi. In altre parole, il cinema con le sue rappresentazioni contribuisce alla costruzione del paesaggio lucano e quindi di una certa idea di Sud largamente diffusa. Si parla di costruzione del paesaggio poiché s’intende quest’ultimo non come qualcosa di oggettivo, ma come il prodotto dell’incrocio tra natura e cultura, ovvero la sintesi tra una realtà materiale oggettiva e un orientamento percettivo soggettivo, mediato da un sistema culturale e valoriale[24]. Il principale limite di questa rappresentazione prodotta da osservatori esterni è quella di raccontarci un Mezzogiorno pensato da altri, che «esiste solo nella prospettiva di diventare altro, di fuggire inorridito da sé per imitare il nord venti o cento anni dopo, e quindi probabilmente mai»[25].
Nel 1978, il film di Rosi, portando sullo schermo il Cristo di Levi, in un momento in cui la cultura si confronta col mondo contadino, ripropone per l’ultima volta, come a chiudere un cerchio, la Lucania come immagine simbolica del Sud sottosviluppato e del mondo contadino arcaico, che si era originata anni prima con la diffusione del romanzo.Un’immagine, figlia di un pensiero esterno al Mezzogiorno, destinata ad avere molta fortuna e a resistere fino all’oggi, di là dalle trasformazioni che pure hanno interessato il Sud. Essa è parte della mentalità collettiva, orienta azioni e giudizi. Perciò capirne l’origine e il modo in cui essa si è stratificata consente di valutare più criticamente modi di pensare e idee consolidate attraverso cui guardiamo ancora oggi al Mezzogiorno.
[1] L’opera di Levi si colloca all’interno di una più ampia produzione letteraria e giornalistica che, tra fascismo e dopoguerra, porta alla ribalta il mondo contadino meridionale. Si ricordano, tra gli altri, Gente di Aspromonte (1930) di Corrado Alvaro, Fontamara (1933) di Ignazio Silone, Un popolo di formiche (1952) di Tommaso Fiore, Baroni e contadini (1955) di Giovanni Russo e le inchieste sul Meridione della rivista «Il Mondo» (1949-1966) diretta da Mario Pannunzio. Si discute di Mezzogiorno, poi, sulle riviste «Cronache meridionali», «Nuovi Argomenti» e «Nord e Sud».
[2] S. Martelli, Il crepuscolo dell’identità. Letteratura e dibattito culturale degli anni ’50, Salerno, Pietro Laveglia Editore, 1988, p. 143.
[3] G.Galasso, Il Mezzogiorno. Da “questione” a “problema aperto”, Manduria, Lacaita, 2005, p. 95.
[4] Recita così, infatti, l’incipit del romanzo: «Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla». C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 19903, p. 3.
[5] L. Reina, Scritture. Da Verga a Pomilio, Roma, Lepisma, 2007, pp. 174-179. Sebbene in alcune occasioni il romanzo di Levi sia stato accusato, a sinistra, di dare una rappresentazione statica, e per questo fuorviante, del mondo contadino meridionale, non sono mancate in tempi più recenti riletture del Cristo che evidenziano aspetti contrari. Il romanzo fu infatti scritto a Firenze, durante la resistenza. Levi, antifascista e animato da pensiero libertario, si trovava nuovamente confinato, in quanto clandestino, in una città sotto assedio.In questa circostanza l’immobilismo del Mezzogiorno sperimentato durante il confino degli anni Trenta si trasforma in potenzialità di movimento, che poi diventa possibilità di sviluppo nel clima degli anni Sessanta e delle politiche di intervento straordinario. Cfr. M. Marmo, Civiltà contadina, arretratezza meridionale: il relativismo insicuro di Cristo si è fermato a Eboli, in «Meridiana», n. 95, 2019.
[6] A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Einaudi, 1969, p. 154.
[7] D.Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 158-159.
[8] Ivi, p. 145.
[9] Ad esempio, in un articolo su «Cinema Nuovo», l’antropologo scriveva che «Certa più recente letteratura meridionalistica ha allontanato la Lucania nella immaginazione degli italiani quasi che si trattasse della luna o poco meno». Quindi, condannava l’atteggiamento «barbarizzante» che portava a considerare la Lucania, al pari delle Indie per i Gesuiti, una civiltà contadina mitica e sospesa nel tempo, priva di ogni nesso con la realtà. Al contrario, secondo De Martino, la Lucania era il luogo in cui vecchio e nuovo erano profondamente legati tra loro, in un ampio «panorama che appartiene integralmente alla storia nostra […] anche quando sembra accennare a remote lontananze». E. De Martino, Narrare la Lucania, in «Cinema Nuovo», n. 59, 25 Maggio 1955, p. 378.
[10] M. Guerra, Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta, Roma, Bulzoni, 2010, p. 112 e ss.
[11] S. Martelli, Levi, Scotellaro e il cinema, in «Forum Italicum.A Journal of ItalianStudies», Vol. 50(2), 2016, pp. 915-946.
[12] G.Scarfò, Cinema e Mezzogiorno, Cosenza, Periferia, 1999, p. 99.
[13] P. Iaccio, Cinema e Mezzogiorno, in Storia del Mezzogiorno, vol. XIV, Roma, Editalia, 1994, pp. 325-351.
[14] Cfr. C. Gallini, Il documentario etnografico “demartiniano”, in «La ricerca folklorica», n. 3, 1981.
[15] Ivelise Perniola, Oltre il Neorealismo: documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra, Roma, Bulzoni, 2004, p. 83.
[16] M. Palmieri, Profondo Sud. Storia documentario e Mezzogiorno, Napoli, Liguori, 2019, pp. 133-141.
[17] Anche il cinema italiano riflette questo nuovo interesse con un’attenzione verso il mondo contadino che non aveva precedenti. Tra i più celebri film sul tema, Novecento (1976) di Bertolucci, Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Taviani e L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi.
[18] Del Cristo si è fermato a Eboli di Rosi sono realizzate due versioni, una per la Rai Tv in quattro puntate (200 minuti) e una per il cinema più breve (160 minuti).Sulla trasposizione del romanzo in film si veda F. Rosi, Cristo si è fermato a Eboli. Dal libro di Carlo Levi al film, Torino, Testo & immagine, 1996.
[19] G. P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo.Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 248. Su Rosi si vedano anche A. G. Mancino, S.Zambetti,Francesco Rosi, Milano,Il castoro, 1998; N.Pasqualicchio, A. Scandola (a cura di), Francesco Rosi. Il cinema e oltre,Milano-Udine, Mimesis, 2019.[20] Intervista a Francesco Rosi in P. Iaccio (a cura di), Il Mezzogiorno tra cinema e storia. Ricordi e testimonianze, Napoli, Liguori, 2002, p. 75.[21] E.Morreale,Il “Cristo” mancato. Note sull’immagine cinematografica della Lucania,in «Meridiana», n. 53, 2005, p. 228. Sui legami del film col presente si veda anche A. Fochi, Oltre Eboli: il viaggio di Rosi nell’universo remoto del “Cristo” di Levi, in«Italianistica: Rivista di letteratura italiana», n. 3, 2009, p. 169 e ss.[22] E.Morreale, Cristo ‘79: Rosi, laquestione meridionale e il mondo perduto, in «Forum Italicum.A Journal of ItalianStudies», Vol. 50(2), 2016, p. 948.[23] E.Morreale,Il “Cristo” mancato, cit., pp. 215-216.[24] Cfr. E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Venezia, Marsilio, 2018.[25] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. VIII.Mariangela Palmieri,
Da Carlo Levi a Francesco Rosi. Cristo si è fermato a Eboli e la rappresentazione cinematografica del mondo contadino meridionale,
Officina della Storia, 2 luglio 2020
La critica si è spinta così oltre nella perlustrazione del Cristo da garantire le spalle a chi volesse tentare una rapida incursione filosofica tra le pagine del celebre capolavoro di Carlo Levi per scoprire, accanto al pittore e al poeta, allo scrittore e all’antropologo, al meridionalista e al politico, il filosofo, nei suoi molteplici intrecci con la cultura europea. È superfluo ribadire che non si tratta però di rinvenire nel Cristo la tematizzazione di idee, anche se qui e lì il tentativo compare, ma come l’autore le vivacizza, come le fa esistere dinanzi a noi al modo stesso delle cose. Del metodo, del “cammino” che egli compie per penetrare nella profondità di un mondo estraneo e
comprenderlo. Il nostro tema, dunque, è il seguente: posto che esiste un Levi filosofo che ha più volte ribadito l’apporto essenziale dato al proprio metodo di conoscenza dall’esperienza del confino, come egli stesso dice a Garosci e ripete in vari luoghi e con diverse formule, noi intendiamo svelare la sua natura, cercare di identificarla questa filosofia.
Ma per entrare nel vivo dell’indagine è opportuno ribadire il fatto che, molto prima dell’esperienza del confino, Levi studia la questione meridionale. Dal ’22, infatti, egli la medita approfonditamente per scrivere un saggio su Salandra, richiestogli da Gobetti. E, sin da allora, nutre per Fortunato una grande ammirazione «non solo per la sua opera di chiarificazione dei problemi storici, o per la sua attività di politico, così coerente e continua», o per la sua evoluzione «dalla statolatria giovanile alle tendenze liberiste» dell’età matura, ma anche per il timbro solenne e malinconico delle sue descrizioni paesaggistiche. È rimasto in ombra questo aspetto “formativo” leviano, nel quale il giovane scrittore avrà il primo incontro con il mondo lucano sotto la forma dell’esperienza rivissuta attraverso la lettura di Fortunato (ma anche di Salvemini, Fiore, Dorso). Esperienza che gli servì, è sensato supporre, per indirizzare meglio la pupilla sulla realtà lucana, avendo avuto dalla triste bellezza e dalla tragica solennità della pagina fortunatiana il primo malinconico sentore dell’arcana solitudine del paesaggio lucano. Nelle pagine di Fortunato e di Croce riecheggiavano quelle hegeliane sulla inserzione dello Spirito nella Natura, sulla Natura; sulla relazione tra un popolo e il suo orizzonte geografico; sull’influenza del clima nella storia, che è sempre storia spirituale; sulla relazione simbolica tra geografia e storia; sull’affinità tra l’anima di un popolo e lo stile del paesaggio.
Mimmo Calbi, Sul metodo di conoscenza elaborato al confino: lo sguardo e il giudizio in Intertestualità leviane, Atti del Convegno Internazionale, Bari 5-6 novembre 2009, Università degli Studi di Bari, Settore Editoriale e Redazionale, 2011
Arminio è ritornato nei paesi in cui Carlo Levi fu mandato al confino: e non poteva essere altrimenti perché egli ha fatto sua quell’atmosfera che circola nelle pagine del Cristo si è fermato ad Eboli, sente come sua quella cultura che sa di antico e che “non ha bisogno della modernità”, come si legge in una didascalia di una foto che ritrae di spalle una signora in una strada deserta di un paese anonimo della Lucania; addirittura ha scelto il paese di Aliano per farne, ogni anno in agosto, la capitale del Festival della Paesologia, intitolato alla Luna e i calanchi. Anche lui, sulla fine dei paesi, sembra concordare con le stesse idee di Teti: «Quella dei paesi in estinzione è una vera e propria bufala mediatica. In Italia non è mai morto nessun paese. Si sono estinte piccole contrade, ma i paesi non sono mai morti, al massimo sono stati spostati a seguito di terremoti e frane».
Dimentica, però, che il trasloco da un luogo ad un altro non è qualcosa di solo fisico e materiale: tutto il senso di comunità costruito in decenni o addirittura in secoli o si affievolisce o si perde del tutto e se rinasce non è più quello di prima. Non propone, dunque, soluzioni Arminio, ma come sottolinea Curti: «Ultimamente il fenomeno della paesologia sta riconquistando i cuori, specialmente quelli degli abitanti delle città (mentre nei paesi la gente dice di aver passato ormai il punto di non ritorno) che si innamorano dei nostri borghi, dei nostri bei paesi (del Bel Paese, quale ironia) per poi il lunedì tornare in città».
Mariano Fresta, Il senso, il sentimento e la ragione dei luoghi, Dialoghi Mediterranei, n° 24, marzo 2017
Agli editori polacchi non sfuggì neanche lʼimportante romanzo-reportage di Carlo Levi, "Cristo si è fermato a Eboli" (1949), un’opera che documenta impietosamente la povertà, il sottosviluppo e lʼapatia di un piccolo paese lucano. Il finale dellʼopera venne però abbreviato dalla censura polacca a causa di alcune riflessioni dellʼautore in riferimento alla risoluzione dei problemi dei contadini meridionali, non gradite al partito governativo polacco. Il frammento tagliato include infatti la seguente frase: “Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può più essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale” (C. Levi 1945: 239). Più tardi, nel 1958, di Levi fu pubblicato anche il romanzo "Le parole sono pietre", dedicato interamente ai problemi sociali della Sicilia.
Aleksandra Piekarnik,
La letteratura italiana in Polonia negli anni 1945-1989,
Cejsh, 2 - 2015