sabato 26 novembre 2022

La Resistenza umbra risente del significativo contributo degli ex prigionieri

Perugia. Fonte: Mapio.net

La guerra ed i bombardamenti rendono anche Perugia una città surreale. Ugo Baduel, futuro membro dell’entourage di Berlinguer, all’epoca bambino fanaticamente attratto dal fascino marziale del fascismo e, soprattutto, del nazismo, dedito alle imitazioni di Mussolini e al gioco della “tattica”, ammiratore di Rodolfo Graziani, Nicolas Contarini ed Alessandro Oddi Baglioni <55 , ricorda così i mutamenti del capoluogo: «Fin dall’inizio della guerra, le grandi scritte sui muri in via Orazio Antinori, alla svolta di Piazza Grimana: “zona di silenzio. Vietato suonare”. Erano scritte in caratteri “bastoni” di vernice nera su un rettangolo di vernice bianca. Poi le indicazioni “rifugio antiaereo”. In Piazza IV Novembre la fontana del Pisano era stata soffocata da una massa di sabbia poi rivestita di un cono di alluminio argenteo alla cui base stava una massicciata in legno. Sembrava una scultura astratta e io, che prima non avevo mai guardato quella fontana, credetti a lungo che quello fosse il suo normale status» <56.
La città è costretta ad adattarsi alle necessità, alle assurdità e alle ristrettezze imposte dalla guerra. Il tennis club, considerato luogo di imboscati e “traditori della patria”, viene fatto chiudere manu militari; le radio sono fatte bloccare, con decreto prefettizio, tra le frequenze delle stazioni di Monaco e Roma; gli oscuramenti si intensificano fino ad assumere un’angosciante regolarità; la storica Rocca Paolina è adattata a rifugio antiaereo, così come palazzo dei Priori, palazzo Donini e la galleria sotto il parco di Monterone; la scuola del Littorio, vanto del fascismo perugino, viene destinata ad ospedale di riserva; si diffondono gli orti di guerra; le lezioni, quando si tengono, vengono continuamente interrotte dagli allarmi aerei; si propone, senza successo, di introdurre il tedesco come seconda lingua per alcuni servizi pubblici in “omaggio” alle truppe naziste; si ipotizza una improponibile ondata revanchista nella toponomastica cittadina, destinata a culminare nella dedica di “Largo XXVIII ottobre” ad Ettore Muti e nella soppressione della lapide a Felice Cavallotti <57.
La delegittimazione e la debolezza del potere fascista repubblicano sono marcatamente evidenti nella diffusione della renitenza alla leva. Dopo lo sfascio del regio esercito, in molti fanno ritorno alle proprie case, generando un rilevante fenomeno di massa che coinvolge migliaia di persone senza distinzione di gruppi sociali. Per Rocchi «il grave fenomeno della renitenza alla chiamata alle armi e della diserzione trova le sue ragioni, oltre che nell’abbrutimento morale subentrato negli italiani dopo la nefasta data dell’8 settembre, anche nelle condizioni di disagio in cui erano costretti a vivere i giovani chiamati alle armi per le difficoltà in parte superate in cui si dibattono gli enti militari a causa della mancanza di materiali di casermaggio e di equipaggiamento e vestiario» <58.
La grande maggioranza dei giovani chiamati il 9 novembre 1943 non risponde, ed hanno scarsi effetti sia i bandi di reclutamento volontario che prevedono consistenti indennità di guerra, sia le misure coercitive che stabiliscono la pena di morte per i disertori. Hanno poca presa anche gli articoli polemici contro i «giovani restii e impudenti», «tarati moralmente», che compaiono su 'La Riscossa' <59. Solo i rastrellamenti dei familiari ottengono, in qualche caso, i risultati sperati dai fascisti repubblicani <60. Significative, comunque, le eccezioni. La nota dominante tra i membri della Gnr - «uomini fantocci dei tedeschi», secondo un manifesto partigiano <61 - è il fanatismo.
Baduel ricorda, infatti, come tra gli arruolati spontanei figurassero anche fanciulli di appena 14 anni <62, ammaliati da un’immagine eroica e romantica della guerra, considerata alla stregua di un balocco, solo più tardi rivelatosi foriero di distruzioni reali.
I fascisti repubblicani, sempre più lontani dalla società civile, cercano di colmare questo divario con promesse di laute ricompense per la ricattura di prigionieri di guerra anglosassoni o, comunque, di persone evase dalle carceri e dai campi di concentramento, approfittando della confusione istituzionale seguita al 25 luglio. Previsti premi anche per il recupero e la denuncia di armi. Ma nonostante gli “incentivi” non sono pochi coloro, anche nel capoluogo, che contravvengono al perentorio divieto di “alloggio, vitto e assistenza” nei confronti dei fuggitivi emanato da Rocchi. I rari episodi di “collaborazione” vengono ampiamente propagandati ed additati ad esempio <63.
Una parte dei renitenti compie una scelta di campo precisa, andando ad alimentare l’azione partigiana. L’organizzazione di bande armate contro i nazifascisti non è sempre tempestiva, anzi, nella maggior parte dei casi, le forme organizzative sono - come ha scritto Covino - «scarsamente formalizzate, frutto più di scelte sanzionate a posteriori che della realtà concreta maturata nel corso dell’attività combattente» <64.
La Resistenza umbra, soprattutto quando assume la forma della guerriglia, risente del significativo contributo - militare, tattico e logistico - degli ex prigionieri, soprattutto slavi, evasi dai diversi luoghi di reclusione <65. Inizialmente si tratta solo di poche centinaia di uomini che si organizzano faticosamente nascondendosi nelle zone montuose della regione. Le prime azioni sono costituite da sabotaggi alle linee telefoniche o telegrafiche, aggressioni a militi - preferibilmente fascisti <66 perché male armati e facilmente riconoscibili - o carabinieri isolati, e furti (soprattutto di generi alimentari di prima necessità) <67. Il peso militare dell’antifascismo, causa anche la brevità dell’occupazione tedesca, non è particolarmente rilevante: spesso produce solo atti a scopo dimostrativo-intimidatorio. In alcuni casi, tuttavia, violenze e razzie degenerano in delitti di cui sono vittime sia esponenti della Gnr che semplici civili <68.
Le iniziative resistenziali s’intensificano nell’inverno del 1943, beneficiando delle abbondanti nevicate. Le tre maggiori formazioni partigiane, la brigata Gramsci, la brigata Garibaldi e la brigata S. Faustino-Proletaria d’urto, svolgono la loro attività lontano dal capoluogo, nelle zone meno accessibili (monte Subasio, monti Martani, Valnerina, entroterra appenninico, area del Lago Trasimeno) <69.
La Gnr, coadiuvata  dalle forze tedesche, ricorre a frequenti rastrellamenti. In non pochi casi, i “ribelli” catturati vengono trucemente «passati per le armi sul posto» <70. Il 25 aprile 1944, con sadica soddisfazione, il capitano dei carabinieri Francesco Fusco riferisce a Rocchi di una vasta azione antipartigiana condotta dalle truppe tedesche nella zona di Norcia.
«L’iniziativa militare», scrive, «è valsa a disorganizzare le bande partigiane che numerose si aggiravano nella zona montana. Detta azione per la sua violenza e per la distruzione di interi villaggi ha molto influito sullo spirito delle popolazioni tanto da indurre numerose famiglie a far presentare alle armi i propri congiunti in conformità al manifesto di chiamata» <71.
[NOTE]
55 La figura del cugino, Alessandro Oddi Baglioni, era per Baduel la più importante. Campione di sci e di tennis, promotore a soli 13 anni del primo nucleo di balilla perugini, il giovane fascista si era arruolato allo scoppio della guerra come volontario. Caduto in Africa (2 novembre 1942) per errore del fuoco “amico”, Alessandro Baglioni era diventato un’icona del martirio fascista per la patria.
56 U. Baduel, L’elmetto inglese, op. cit., pp. 228-229.
57 La proposta è contenuta in La Riscossa n. 17 del 27 novembre 1943. Alcuni giorni prima il federale Narducci aveva anche annunciato la sistemazione della sfregiata lapide commemorativa della marcia su Roma. Sui ricoveri antiaerei di Perugia si veda R. Sottani, Vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, in R. Rossi (a cura di), Perugia. Storia illustrata delle città dell’Umbria, op. cit., p. 838.
58 ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91. Relazione prefettizia del 5 aprile 1944.
59 Cfr., ad esempio, Questi giovani di Corso Vannucci, in La Riscossa n. 20, 4 dicembre 1943; Giovani in poltrona, in La Riscossa, n. 21, 6 dicembre 1943.
60 Cfr. B. Pilati, La renitenza alla chiamata dell’esercito di Salò in provincia di Perugia, in L. Brunelli e G. Canali (a cura di), L’Umbria dalla guerra alla resistenza, op. cit., pp. 95-103.
61 Così gli esponenti del Pfr vengono definiti in un interessante manifesto comunista rinvenuto a Spoleto nel marzo 1944. Il messaggio è rivolto «ai giovani»: «Il vostro periodo della gioventù nel ventennio del fascismo fu fra i più infausti che la storia ricordi nel prepararvi l’avvenire. Il fascismo fra canti e parate militari vi tenne lontani dalla realtà della vita e della preparazione del vostro domani. Vi allevò nel clima militare senza che nessuno potesse farvi conoscere il baratro dove il fascismo portava la nazione impegnandovi a vostra insaputa ad essere protagonisti della distruzione dell’Italia (…). La conseguenza della politica del fascismo portò la nazione nella guerra che dal 1939 imperversa sul mondo. (…) La nazione attende l’opera dei giovani per risorgere. Un gruppo di uomini fantocci dei tedeschi, veri padroni dell’Italia, vogliono riportarvi alla guerra. (…) Nessuno si arruoli né con i fascisti repubblicani né con i tedeschi (…). Ma ciò non basta. Questa vostra resistenza passiva è buona. Ma occorre che si entri ora nella fase attiva. Occorre scacciare al più presto i tedeschi dall’Italia (…) occorre scacciare il fascismo repubblicano loro servo, che li aiuta nell’opera di distruzione e schiavitù del nostro popolo. (…) I partigiani della montagna vi aspettano. Raggiungeteli. Il vostro posto di combattimento è da quella parte. Arruolatevi. I comunisti» (ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91, dalla relazione del 25 marzo 1944 del comandante della Gnr Emilio Ortolani).
62 U. Baduel, L’elmetto inglese, op. cit., p. 179.
63 Su La Riscossa n. 94 del 29 maggio 1944 compare, ad esempio, un articolo (Un parroco in gamba. Fa catturare due prigionieri inglesi ed ottiene il rientro dalla Germania di due suoi parrocchiani) che esalta la riconsegna di evasi inglesi da parte di un «italianissimo» sacerdote di Colombella. Da rilevare che nello stesso numero del periodico del Pfr compare un ampio servizio su 'I delitti del comunismo'. La documentazione delle “foibe” istriane.
64 Cfr. la premessa di R. Covino a L. Brunelli e G. Canali (a cura di), L’Umbria dalla guerra alla resistenza, op. cit., p. XII.
65 Il 31 gennaio 1944, il questore di Perugia, Scaminaci, si scaglia contro «l’imbelle governo badogliano», reo di aver svuotato le carceri dopo l’8 settembre. «Dopo l’armistizio - scrive - tutti i prigionieri di guerra ed internati comunisti di altre nazioni (in prevalenza sloveni, croati e montenegrini) rimasero liberi per abbandono dei presidi militari posti a guardia»: da questi elementi - sostiene il questore - è partita l’iniziativa di formare bande armate. Si tratta di individui che «hanno molta pratica della guerriglia partigiana» e cercano di «far comprendere alle popolazioni dei piccoli centri rurali, dove si annidano, che nulla hanno da temere dalla loro azione e che essi anzi li
proteggono contro le angherie della milizia fascista, della polizia e dei militari germanici. Con tale sistema si formano alle spalle una muraglia di protezione che rende difficile il controllo delle loro mosse, e l’accertamento preciso dell’entità, armamento e capacità bellica di tali bande» (ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91).
66 Don Luigi Moriconi ricorda, ad esempio, l’aggressione subita dal segretario del Fascio di Fratticiola - un «pessimo soggetto» pluripregiudicato - ad opera di alcuni partigiani: nei primi mesi del 1944 viene colpito in casa dell’amante riportando gravi ferite (cfr. R. Bistoni, Una Chiesa presente, op. cit., pp. 92-93).
67 Nelle relazioni repubblicane il riferimento ai «delitti» dei “ribelli” è continuo. Il 25 marzo 1944, ad esempio, l’ispettore regionale della Gnr, Roberto Gloria, scrive: «Le segnalazioni dei delitti sono ormai continue e numerose. Le estorsioni, rapine, furti, sequestri di persone, violenze private sono l’opera nefasta di questi banditi, composta di esosi politici, evasi dalle carceri, ex prigionieri di guerra di varie nazionalità, giovani datisi alla macchia i quali vivono tutti di brigantaggio. I distaccamenti della Guardia vengono molto frequentemente attaccati con risultati a volte dolorosi per noi. Campello sul Clitunno, Gualdo Tadino, Costacciaro sono i distaccamenti recentemente attaccati». Quindi conclude: «Si spera tanto dalla popolazione delle zone in una rapida ripresa delle nostre azioni di rastrellamento». Ancora il 5 maggio 1944, nella relazione al comando tedesco, Rocchi scrive: «le bande di ribelli più che attuare un piano di azione a carattere politico-militare, si sono date al brigantaggio, compiendo estorsioni, rapine, furti e violenze di ogni genere a danno della inerme popolazione… gli abitanti, per la maggior parte rurali, non sono in condizioni di poter reagire e spesso sono costretti a concedere ospitalità e aiuti ai partigiani, per non subire le loro rappresaglie. Ad evitare errori di valutazione nelle colpe sarebbe opportuno che i comandi dei reparti germanici operanti prendessero contatto con le Autorità locali prima di dare inizio alle azioni di rastrellamento» (ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91).
68 Si vedano, in proposito, i dettagliati episodi narrati nella relazione del 10 maggio 1944 redatta dal capitano dei carabinieri Francesco Fusco. In frazione Pigge di Trevi, ad esempio, una donna viene «freddata con tre colpi di rivoltella» dopo aver riconosciuto due “ribelli” intenti a rapinare il marito (ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91)
69 Sulla Resistenza in Umbria è disponibile un’articolata bibliografia, spesso basata sulle memorie partigiane. Si rinvia, in particolare, ai saggi (di A. Mencarelli, G. Pellegrini e P. Bottaccioli) e alle testimonianze contenuti in A. Monticone (a cura di), Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), op. cit., pp. 343-405, 445-469; al saggio di E. Santarelli e alle comunicazioni (di C. Ghini, R. Cruccu, F. Frascarelli, G. Verni, G. Pellegrini, F. Bracco e G. Della Croce) contenute in G. Nenci (a cura di), Politica e società in Italia dal fascismo alla Resistenza, op. cit., pp. 319-334, 337-469. Si segnalano, inoltre, alcune delle pubblicazioni promosse dall’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea (Isuc): E. Mirri e L. Conti (a cura di), Filosofi nel dissenso. Il “Reale Istituto di Studi Filosofici” a Perugia dal 1941 al 1943, Editoriale Umbra, Foligno, 1986; F. Barroccini (a cura di), Candida (Candiola) Cavalletti, Lettere a un marito in guerra. Dalle campagne di Marsciano 1943-44, Editoriale Umbra, Foligno, 1989; G. Gubitosi, Il diario di Alfredo Filipponi, comandante partigiano, Editoriale Umbra, Foligno, 1991; R. Covino (a cura di), B. Zenoni, La memoria come arma. Scritti sul periodo clandestino e sulla Resistenza, Editoriale Umbra, Foligno, 1996; R. Covino (a cura di), L’Umbria verso la ricostruzione, atti del convegno “Dal conflitto alla libertà” (Perugia, 28-29 marzo 1996), Editoriale Umbra, Foligno, 1999; O. Lucchi, Dall’internamento alla libertà. Il campo di concentramento di Colfiorito, Editoriale Umbra, Foligno, 2004; Dragutin-Drago V. Ivanovic, Memorie di un internato montenegrino. Colfiorito 1943, Editoriale Umbra, Foligno, 2004; L. Brunelli, Quando saltarono i ponti. Bevagna 1943-44, Editoriale Umbra, Foligno, 2004; T. Rossi, Il difficile cammino verso la democrazia. Perugia 1944-48, Editoriale Umbra, Foligno, 2005. Sulle bande partigiane, specificamente, si rinvia ai saggi (di S. Gambuli, A. Bitti e G. Guerrini, G. Granocchia e C. Spogli, M. Hanke, G. Pesca e G. Ruggiero) contenuti in L. Brunelli e G. Canali (a cura di), L’Umbria dalla guerra alla resistenza, op. cit., pp. 263-337.
70 Si veda, ad esempio, quanto riferisce il comandante dei carabinieri Ercole D’Ercole nella relazione del 10 aprile 1944.
71 ASP, Gabinetto della Prefettura, b. 91. Rappresaglie analoghe vengono condotte anche nel ternano: cfr. V. Pirro, La Repubblica sociale, in M. Giorgini (a cura di), Terni. Storia illustrata delle città dell’Umbria, op. cit., pp. 706-707.
Leonardo Varasano, "La prima regione fascista d'Italia". L'Umbria e il fascismo (1919-1944), Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2007

giovedì 24 novembre 2022

A conti fatti, niente come la collaborazione con «Il Contemporaneo» imprime una svolta così decisiva all'esistenza di Luciano Bianciardi


Dieci opere tra romanzi e saggi, una trentina di racconti e un migliaio di scritti giornalistici, oltre a pagine di diari giovanili e corrispondenza varia. Questo è quanto resta di Luciano Bianciardi e della sua visione del mondo, «un  mondo che va dal Dopoguerra al Boom, dalla provincia dei minatori al vetrocemento dei grattacieli, dalla luce della sua radiosa impazienza alla debolezza delle rinunce, al buio della solitudine finale» <1.
La carriera di Bianciardi, durata circa un ventennio, abbraccia un periodo cruciale per la formazione della nuova Italia uscita dalla Seconda Guerra Mondiale. Leggere Bianciardi vuol dire confrontarsi con il mutamento della società, avvenuto negli anni Cinquanta e Sessanta, gli stessi anni in cui il capitalismo passava da un modello produttivo agricolo-industriale ad uno industriale-finanziario. Anni nei quali cambiano definitivamente i modi di  vita,  i  rapporti   umani e la condizione dell’intellettuale. Nasce  la letteratura “industriale”, che assume come tematica privilegiata l’ambiente della fabbrica con i suoi sistemi di lavoro, ad esempio la razionalizzazione del cottimo, la misurazione  “scientifica” dei tempi di produzione e l’introduzione di metodi psicologici di valutazione e controllo del personale, con annesse le ripercussioni sulla vita quotidiana dei lavoratori. L’operaio si trova di fronte un lavoro coercitivo,  solo meglio retribuito di quello del contadino, ma ugualmente subalterno; inoltre deve affrontare la crisi delle lotte sindacali e la distruzione della coscienza di classe. Infatti il maggiore benessere raggiunto si accompagna subito a nuovi modelli  piccolo-borghesi, che cancellano le speranze nell’Unione Sovietica (travolte peraltro dai fatti di Ungheria) generando sfiducia nella politica e abbandono della militanza, cui si contrappongono fuochi di rabbia accesi da nostalgie resistenziali e dall’insofferenza per un sistema produttivo sempre più spersonalizzante.
L’intellettuale vive uno sradicamento continuo: fa parte di un meccanismo che non lo rappresenta, è lontano dal luogo di origine e non può familiarizzare con l’operaio, al  quale è accomunato dalla situazione reale.  
Bianciardi è esattamente in questa condizione come dice lui stesso in una lettera all’amico Galardino Rabiti: «Sempre esilio è questo mio a Milano. Chissà se riuscirò a trovare la strada di Itaca, un giorno? Con Grosseto ho un debito enorme, e prima o poi dovrei pagarlo, non ti pare? [...] Le formiche milanesi continuano a scarpinare, mosse da una furia calvinista per il lavoro e per la grana, e io non riesco proprio a capirle, mi sento infedele e terrone, anche se lavoro più di tutti» <2.
Bianciardi si trova in mezzo a due figure, l’operaio e l’intellettuale, vivendone i drammi più dolorosi: non sente l’adesione morale e psicologica al suo lavoro (come fa l’intellettuale impegnato) e allo stesso tempo non ha la  possibilità di esserne veramente alienato, come l’operaio. Trovandosi di fronte a questa situazione insanabile una volta giunto nella grande città, decide di spostare lo sguardo sul consumatore, nuova categoria di cittadini, operai ma   non solo, non necessariamente. Un nuovo macroinsieme che democraticamente distrugge e rimescola le classi sulla base dei bisogni.
Bianciardi scaglia i suoi strali contro la nuova società, quella società che oggi  definiamo liquida, resa dalla comunicazione pubblicitaria dei consumi, contro la nuova industria culturale e tutte le altre industrie che lavorano  l’acciaio e l’anima.
Nel 1952 su Belfagor aveva scritto: «Ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra, quelli che lavorano nell’acqua  gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto  terra, consumano giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio». <3
Due anni dopo, con l’arrivo a Milano, entra in contatto con un altro tipo di lavoro salariato, quello dell’industria, meno legato alla terra ma non meno duro e spersonalizzante. Per di più la vita in città non ha più quella socialità che la provincia ancora mantiene e della quale lo scrittore sente la mancanza; una mancanza acuita dalla sensazione di tradimento, con tanto di fuga all’alba senza una spiegazione, da lui stesso commesso. In veste di intellettuale,  Bianciardi è spiazzato dalla nuova realtà che si trova ad affrontare: credeva di trovare un terreno fertile per nuove idee, invece deve affrontare la realtà della produzione quale unico ideale. Come traduttore viene pagato un tanto a cartella, lavoro che deve fare per poter pagare i conti della modernità. Solo la domenica può essere dedicata alla stesura dei suoi libri. Di fronte a tutto questo Bianciardi reagisce, non si ritira, da intellettuale, nei salotti a  parlare di cultura ma resta nel suo di salotto a guardare la televisione, a studiare la pubblicità, a cogliere insomma tutti quegli aspetti del degrado moderno che stanno trasformando gli individui in consumatori, in spettatori della vita. Osserva e mette alla berlina anche gli operatori di quella immensa truffa che si rivela essere la “Grande impresa” per la quale era giunto a Milano; mostra per la prima volta ciò che si cela dietro alla produzione (termine non  casuale) di un libro, che non ha niente a che vedere con la cultura.
[NOTE]
1 Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, Milano, I tascabili BCDe, 2008, cit. p.VII.
2 M. C. Angelini, Luciano Bianciardi, Firenze, La Nuova Italia, 1980, cit. p. 10.
3 Nascita di uomini democratici, in «Belfagor», Firenze,VII, 4, 31 luglio 1952; ora in L’antimeridiano, Opere complete, Volume secondo, Milano, Isbn, 2008, cit. p. 37.
Gianluca Ciucci, Luciano Bianciardi: lo sguardo, la malinconia, l'insofferenza, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Perugia, Anno Accademico 2007/2008

Tra il 1953 e il 1954 una serie di circostanze della vita di Luciano Bianciardi, in origine del tutto slegate tra loro, convergono e ne segnano il destino, tanto personale quanto artistico e lavorativo.
Il suo matrimonio con Adria Belardi si rivela presto un fallimento, e ciò contribuisce a rendergli soffocante l'aria della provincia; l'incontro con Maria Jatosti nel 1953, a margine della riunione annuale della Federazione dei circoli del cinema, pare dar luogo solo a una passione estemporanea, e i due non si sentiranno di nuovo finché l'esplosione nella miniera della Montecatini la farà tornare in mente, senza apparente motivo, a Bianciardi. La Jatosti rappresenta a quel punto la via di fuga ideale da quella quotidianità che gli è insopportabile, segnata da una famiglia che non vuole più e dal sangue di Ribolla; è per vedere lei che nella primavera del 1954 viaggia spesso verso Roma dove la donna, organica al Pci, lavora prima nella segreteria dei Circoli del cinema e poi nell'ufficio stampa della CGIL, ed è tramite lei e il suo ambiente di riferimento che spunta l'occasione di scrivere su «Il Contemporaneo» fin dal primo numero della rivista. Sono quindi due dei tre direttori del settimanale, Carlo Salinari e Antonello Trombadori, a segnalarlo al partito, al quale si è rivolto il giovane Giangiacomo Feltrinelli che, a Milano, vuole aprire una casa editrice dandole una più che marcata identità politica che ne rifletta il proprio orientamento. Un colloquio a Roma, e poi la chiamata nel capoluogo lombardo, destinazione via Fatebenefratelli, sede della «grande iniziativa» del ricchissimo milanese. Parrebbe, piovuta dal cielo, la soluzione a tutti i mali: un'occasione "ufficiale" e irrinunciabile per lasciare a Grosseto moglie e due figli e per vivere con meno ansie la relazione con la Jatosti; in aggiunta, sembrerebbe una nuova possibilità di combattere il nemico, la Montecatini, lì dove ha il suo vero centro, dopo che il lavoro da intellettuale, sul campo, non è servito a evitare il disastro in Toscana.
A conti fatti, niente come la collaborazione con «Il Contemporaneo» imprime una svolta così decisiva all'esistenza di Luciano Bianciardi: a uno sguardo distratto sono solo undici articoli, ma si rivelano per lui invece un secondo inizio e, al contempo, l'inizio della fine.
È proprio su questa testata che viene pubblicato "Lettera da Milano", il 5 febbraio del 1955 <51. È uno dei bilanci che Bianciardi affronta periodicamente, uno di quei bilanci cui di volta in volta (almeno nelle intenzioni) dà l'impressione di aggrapparsi per mettere un punto fermo, chiudere un vecchio capitolo di vita e aprire il seguente: è successo con l'esperienza della guerra ("Ancora un bilancio", che inaugura i Diari di guerra), poi con l'adesione al Partito d'azione ("Bilancio provvisorio", apparso il 22 novembre del 1952 su «La Gazzetta»), succede ora con l'arrivo a Milano. E succederà ancora, ai tempi delle critica televisiva, e poi molto più avanti, nel 1970, con un pezzo dedicato ai figli, leggero in superficie quanto profondamente doloroso a rileggerlo oggi che se ne conoscono i retroscena.
"Lettera da Milano" comincia così:
"Carissimi,
dovevo proprio raccontarvi una volta o l'altra, quel che ho visto e quel che ho capito, in questi primi sei mesi milanesi, soprattutto sentivo e sento il bisogno di esporvi, di questo bilancio, la parte negativa, la più grossa, di dirvi insomma quel che non ho capito, o addirittura non visto". <52
Appena metà anno, e il saldo è già infelice: «In questi sei mesi la parola problema è quella che più di tutte ho sentita dire. Mi è capitato, dopo ore di discussione collettiva, di sentire un collega intervenire osservando: "Io penso che il problema sia un altro". Esiste insomma persino il problema del problema. Cioè esiste, soprattutto, una notevole confusione.»
Nel passo che segue, c'è già in nuce La vita agra: lo stare naturaliter dalla parte dei badilanti e dei minatori contro i latifondisti, e la scelta di trasferirsi al Nord pensando che «la lotta», lassù, si possa «condurre con mezzi migliori, più affinati, e a contatto diretto con il nemico.»
"Mi pareva anzi che quassù il nemico dovesse presentarsi più scoperto e visibile. A Niccioleta la Montecatini non ha altra faccia se non quella delle guardie giurate, povera vera gente che cerca di campare, o quella del direttore, un ragazzo della mia età, che potrebbe aver fatto con me il liceo, o giocato a pallone. A Milano invece la Montecatini è una realtà tangibile, ovvia, cioè si incontra per strada, la Montecatini è quei due palazzoni di marmo, vetro e alluminio, dieci, dodici piani, all'angolo fra via Turati e via della Moscova. A Milano la Montecatini ha il cervello, quindi dobbiamo anche noi spostare il nostro cervello quassù, e cercare di migliorarlo, di farlo funzionare nella maniera e nella direzione giusta. Così ragionavo, e per questo mi decisi".
Non c'è traccia di operai, nella grande città: solo di quei ragionieri che ne fanno «il tono umano», con la borsa di pelle sotto il braccio e il bicchiere di grappa alle 9 del mattino. «[…] nessuno di loro, fra l'altro, è milanese»: tutti lì dalla provincia più o meno lontana alla ricerca di «grana», o «pan» che dir si voglia. Non ci sono neanche i preti, continua Bianciardi, ma soprattutto non ci sono "gli intellettuali. Li ho visti, s'intende, e li vedo ogni mattina, come singoli, ma mai come gruppo. Non riescono a formarlo, e ad influire come tale sulla vita cittadina. L'unico gruppo in qualche modo compatto è quello che forma la desolata «scapigliatura» di via Brera. Gli altri fanno i funzionari d'industria, chiaramente. Basta vedere come funziona una casa editrice: c'è una redazione di funzionari, che organizza: alla produzione lavorano gli altri, quelli di via Brera, che leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta, come braccianti per le «faccende» stagionali. Vi ho detto che persino quel che mi pareva chiaro, la posizione del nemico nei palazzoni di dieci piani, fra via Turati e via della Moscova, a Milano non mi è parso più tanto chiaro. Perché qui le acque si mischiano e si confondono. L'intellettuale diventa un pezzo dell'apparato burocratico commerciale, diventa un ragioniere".
È per evitare di trasformarsi anche lui in un intellettuale ragioniere che tre anni dopo Bianciardi si fa licenziare dalla Feltrinelli (per scarso rendimento) e diventa un traduttore free-lance. Ancora non può saperlo, ma nelle ultime due righe della precedente citazione c'è già scritto il suo futuro: pagine e pagine in inglese di narrativa, manuali e testi scientifici da tradurre in italiano, lo stesso numero ogni giorno per far tornare i conti e poter pagare bollette, sigarette e alcol. Un ragioniere a tutti gli effetti, lo si potrebbe definire. Nel 1962, da ultimo, con la pubblicazione da parte di Rizzoli del suo romanzo più venduto e famoso, l'anarchico arrabbiato si mischia e si confonde definitivamente nelle acque dell'industria, il nemico che in origine avrebbe dovuto contrastare. In quel febbraio del 1955 però gli ideali non risultano ancora del tutto sconfitti: compito degli intellettuali, sostiene Bianciardi in chiusura, è tentare la composizione tra chi ha il capitale, e comanda, e la piccola borghesia e la classe operaia, ovvero le parti che i comandi li prendono. Altrimenti, «se le cose continuano così, là dalle mie parti i badilanti continueranno a vivere di pane e cipolla, i minatori a morire di silicosi o di grisou»:
"Io vorrei proprio che voi, amici romani, mi spiegaste, più semplicemente che potete, come si deve fare. Vorrei che me lo spiegassero gli amici milanesi, soprattutto. E che non mi rispondessero, per carità, cominciando a dire che il «problema è un altro». No, il problema è proprio questo. Ogni volta che torno a Niccioleta mi convinco che è proprio così".
[NOTE]
51 L'articolo era già uscito, con delle varianti, su «La Frusta».
52 Questa e le quattro citazioni che seguono sono tratte da: Luciano Bianciardi, L'antimeridiano. Opere complete. Volume secondo, pp. 700-705.
Alessandro Salvatore Marongiu, La produzione giornalistica di Luciano Bianciardi e di Anthony Burgess: motivi, occasioni, stile, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Sassari, Anno accademico 2009/2010

giovedì 17 novembre 2022

Ipotesi che i transatlantici siano effettivamente stati il secondo strumento di ricostruzione identitaria e culturale del Paese

Il Conte Biancamano

Proseguendo l’analisi dei fattori che nel secondo dopoguerra hanno contribuito all’affermazione del “Made in Italy”, non ci si può esimere dal considerare il peso propagandistico dei transatlantici italiani. Le navi adibite al trasporto passeggeri sono infatti movente determinante e chiara testimonianza del successo dell’Italia, anzitutto in America e quindi nel mondo. L’argomento è a tratti citato nelle pubblicazioni che negli anni più recenti hanno raccontato la fortunata epopea e la triste scomparsa dei transatlantici, ma non è mai stato affrontato e sondato. Non è mai esistito come “questione” da contestualizzare ed esaminare, come “quesito” da interrogare. La bibliografia lo ha sfiorato (soprattutto in merito alla vicenda degli arredi interni), senza però confrontarsi con premesse e dibattiti che hanno suggerito di avvalersi della forza promozionale e dell’autorevolezza politica e culturale della nave quale strumento di propaganda del Paese di cui batte bandiera <268.
La prima parte dell’elaborato ha permesso di ricostruire le operazioni e le esposizioni italo-americane che sono state in grado di avviare la ricostruzione del Paese, anticipando le ufficiali istituzioni governative e ripartendo dall’unica cosa che l’Italia potesse offrire in quei fragili anni di fine guerra: la propria creatività (o il proprio “ingegno”, come aveva suggerito Max Ascoli). Mostre museali ed eventi espositivi che sono stati individuati quali input della rinascita italiana e dunque genesi dell’attenzione americana verso il prodotto italiano (nella fattispecie, l’artigianato artistico), e l’Italia in generale.
È in questo solco che è possibile collocare il proseguo della ricerca: lo studio inedito di un importante evento di moda italiano organizzato e allestito nel febbraio del 1956 a bordo di un transatlantico postbellico sbarcato a New York (già oggetto di ricerca in quanto la risonanza e l’impatto americani dell’iniziativa sono stati tali da poterlo annoverare tra gli episodi responsabili della consacrazione dell’Italia), è sfociato in un’analisi a più ampio raggio del fenomeno dei transatlantici italiani nel secondo dopoguerra: il successo di quell’evento di moda non poteva non essere legato anche alla più generale reputazione dei transatlantici italiani in quella fase storica di ricostruzione.
L’analisi dei contenuti di “House and Garden”, a conclusione del capitolo precedente, aveva già anticipato alcuni indizi a riguardo: a partire dal 1951 gli annunci completavano infatti il messaggio promozionale con riferimenti estranei alla dimensione artigiana, quali il clima e il paesaggio italiano. Quelle allusioni “turistiche” sono state le prime avvisaglie di una nuova narrazione italiana in atto; il primo segnale che un nuovo racconto italiano stesse circolando in America. Un racconto, però, non molto dissimile da quello artigiano.
Un parallelo studio sulle fotografie e sulle poche e rare pubblicazioni originali dedicate agli allestimenti e agli arredi delle nuove unità navali, ha infatti svelato come nei cantieri di decoro degli interni fossero presenti molte delle maestranze artistico-artigiane già patrocinate dalla Handicraft Development Inc. e dalla C.A.D.M.A., e quindi esibite presso la House of Italian Handicraft e nelle successive mostre.
Individuare un collegamento tra l’iniziativa artigiana dei secondi anni Quaranta e il nuovo panorama dei transatlantici - già evidente in quegli annunci dell’Italian State Tourist Office - è stato inevitabile.
L’indagine circa la questione delle “arti a bordo” (che, come si vedrà, sarà causa di dibattito tra gli architetti), il successo dei servizi alberghieri di linea “all’italiana” e l’analisi delle conseguenze mediatiche che essi hanno generato, convalideranno l’ipotesi che i transatlantici siano effettivamente stati il secondo strumento di ricostruzione identitaria e culturale del Paese.
Il racconto del singolo evento cosiddetto “Transatlantico della moda”, scaturito dal preliminare e iniziale lavoro condotto sulle carte del “Fondo Giorgini” presso l’Archivio di Stato di Firenze e che avrebbe dovuto inaugurare il capitolo in corso, è quindi stato posto in apertura al capitolo successivo, preferendo proporre una premessa che illustri i motivi dell’importanza e della fortuna dei transatlantici. Motivi precedenti e senza dubbio risolutivi della scelta di organizzare una sfilata di moda a bordo di una nave diretta a New York.
La ragguardevole considerazione riservata alla marina nel corso delle trattative presidenziali italo-americane del gennaio 1947 è stata indice primo d’ipotesi della sua rilevanza nel processo di ricostruzione del Paese <269.
Alla fine del secondo conflitto mondiale il settore navale è tra i più colpiti e devastati comparti industriali italiani. Solo quindici navi, delle duecentosedici di cui si componeva la flotta pubblica anteguerra, sono sopravvissute alle ostilità. La maggior parte è stata distrutta dai bombardamenti, smarrita sul fondo degli oceani o requisita dalle potenze vincitrici. In una fase storica che spinge i paesi europei a proiettare oltreoceano le proprie esigenze di sviluppo e ripresa economica, appare chiaro che una Nazione priva di navi non abbia alcuna possibilità di rilancio commerciale.
Si rammenti che nel dicembre del 1945, stilando il suo Report on Conditions in Italy, Frank M. Tamagna già annotava l’urgenza di un immediato ripristino dei sistemi di comunicazione quale “number one problem” <270: 7.000 km di binari, pari al 25% della rete ferroviaria, sono stati distrutti; i ponti crollati ammontano a 4.750 e l’85% della marina non esiste più <271. Quest’ultimo è il dato più urgente: senza una flotta mercantile capace di traghettare grano e carbone, materie prime e vettovaglie, esuli e fuggiaschi, soldati ed ex prigionieri di guerra, ma soprattutto - e in un secondo momento - turisti, l’Italia non avrebbe mai potuto ricostruirsi.
La marina italiana è dunque posta ai vertici dei negoziati ed è motivo di dibattito tra i Presidenti Harry Truman e Alcide De Gasperi nello storico e già menzionato incontro del gennaio del 1947. L’intervento americano a sostegno e riavvio della navigazione italiana è tanto preminente a causa della delicata natura del comparto: il settore è quasi totalmente a controllo pubblico e non può dunque contare sulle remunerative iniziative private.
Il diretto e invasivo controllo dello Stato - in quei settori considerati strategici quali il siderurgico, il minerario, l’elettrico, le telecomunicazioni e il navale/cantieristico - è ancora un vecchio retaggio fascista, e al termine delle ostilità circa il 20% del patrimonio industriale del Paese è quindi ancora di afferenza statale <272.
In particolar modo, il fallimento del business armatoriale privato è di oltre un decennio antecedente <273: nel 1936 l’IRI (Istituto fascista di Ricostruzione Industriale) inseriva il settore navale nella lista delle industrie di “Primario Interesse Nazionale” (PIN), chiedendone la completa statalizzazione di controllo e proprietà. A dicembre veniva quindi istituita la “FINMARE - Società Marittima Finanziaria”, una holding a partecipazione pubblica nella quale sarebbe confluita la proprietà delle quattro principali compagnie di navigazione del Paese: l’“Italia di Navigazione” di Genova, il “Lloyd Triestino” del capoluogo giuliano, l’“Adriatica di Navigazione” di Venezia e la “Tirrenia di Navigazione” di Napoli¸ i cui nomi storici scomparirono per sempre nella nuova “Italia Società Anonima di Navigazione”, che con un capitale sociale di 500 milioni di lire era posseduta all’82% dalla FINMARE e dunque dallo Stato. È il coronamento della statalizzazione economica e della politica interna di regime <274.
L’ingombrante provvedimento fascista del 1936 - pensato per un’Italia diversa, autarchica e centralizzata, economicamente isolata e autosufficiente, ma soprattutto sottratta agli investimenti privati - nel dopoguerra rischia di isolare il Paese dalle più recenti e filoamericane aspirazioni di liberalizzazione commerciale <275.
Nel luglio del 1946 è quindi istituito il primo “Ministero della Marina Mercantile” della storia italiana, preposto al coordinamento delle più urgenti problematiche del settore nautico; e il 15 ottobre del 1946 è convocato il primo consiglio direttivo postbellico dell’ufficiosamente ricostruita “Italia - Società di Navigazione”, che perde l’appellativo fascista “Anonima” e diviene il solo referente di settore <276.
Ristabilite parti e gerarchie, immediatamente si prende atto delle richieste da presentare in sede di colloquio con gli americani.
Al termine delle trattative, lo si è visto, l’Export Import Bank ha concesso all’Italia un assegno iniziale di 97.300.000 dollari destinato ai grandi gruppi industriali “which are important to the export trade of Italy”. Nella nota ufficiale di ripartizione delle spese, un pacchetto finanziario di 5.800.000 dollari è registrato alla voce “shipyards” (cantieristica navale) <277.
L’Ansaldo è risultato il principale benefattore del prestito statunitense e questo è il primo indicatore che giustificherà alcune importanti scelte, decisive durante le fasi di ricostruzione della flotta: investire sull’Ansaldo significa infatti investire su Genova <278.
La strategia americana sceglie il capoluogo ligure quale principale asse marittimo nazionale, perché le circostanze del dopoguerra proiettano un cono d’ombra su Trieste: la perdita degli “esotici” insediamenti coloniali raggiungibili dai soli porti triestini e l’incertezza riguardo la sua stessa sorte geo-politica (affidata ora al “Governo Militare Alleato”), fanno virare l’oscillografo americano verso “la più italiana” Genova. Il nuovo scenario economico richiede meno viaggi verso l’Africa (ma anche l’India e l’Australia) e di contrappunto esige più attenzione verso l’oltre Atlantico, e Genova è da sempre la più atlantica delle città portuali italiane.
In un mondo così profondamente trasformato dal conflitto, Trieste e i suoi storici cantieri riusciranno a fatica a ricollocarsi, perdendo presto idee e uomini “di mare” che ritroveremo proprio a Genova <279.
Ai fini della ricerca, il secondo e rilevante punto delle negoziazioni presidenziali di fine guerra è rappresentato dalla restituzione dei soli quattro transatlantici italiani sopravvissuti al conflitto: i Conti Biancamano e Grande e le motonavi Saturnia e Vulcania <280. L’intensa opera di riallestimento cui saranno sottoposti i rimpatriati “Conti” sarà infatti il primo, vero atto italiano di “italianità” del dopoguerra. Il gioco di parole rivela subito la cesura con quanto raccontato nel secondo capitolo.
Le mostre pocanzi descritte, pur esponendo prodotti e manufatti italiani, hanno infatti un imprinting americano: proposte e iniziative hanno preso il via da filantropi italo-americani o da curatori museali statunitensi e in America hanno avuto luogo. Il transatlantico è invece prima e originale testimonianza di un tentativo nazionale di proporre un’immagine “italiana” all’estero. Un’immagine veicolata da una nave che sappia “parlar d’Italia” attraverso componenti d’arredo e opere decorative, proseguendo dunque lungo quel binario promozionale già inaugurato.
Per comprendere l’entità, la portata e il valore dei lavori di riallestimento iniziati nel 1948, è però quanto mai necessario un confronto con la cultura navale precedente.
[NOTE]
268 La bibliografia di riferimento, descrivendo ambienti e allestimenti di bordo, non si è mai soffermata sugli antefatti e sul significato sotteso alla scelta di affidare ad artisti e artigiani la decorazione di un transatlantico del secondo dopoguerra. In particolare, due pubblicazioni hanno solo velatamente suggerito il concetto di nave quale “materializzazione di propaganda”: dopo una lunga e dettagliata presentazione dedicata alle navi d’anteguerra, brevi paragrafi sono purtroppo dedicati alla flotta del dopoguerra, L’arte in viaggio. Architettura e arredamento dei transatlantici italiani, in M. Eliseo, P. Piccione, Transatlantici. Storia delle grandi navi passeggeri italiane, Tormena Editore, Genova 2001, pp. 176-209. Qualche riflessione, ma solo un lungo e decontestualizzato elenco di artisti sono invece proposti nel capitolo Sulle rotte dell’arte. Dalla decorazione totale alla galleria d’arte galleggiante, in P. Campodonico, M. Fochessati, P. Piccione (a cura di), Transatlantici. Scenari e sogni di mare, Skira, Ginevra-Milano, 2004, pp. 239-305.
269 Negli anni della ricostruzione europea la nave diviene oggetto della più accesa competizione, perché testimonianza concreta della rivalsa e della potenza in crescita di una Nazione. La proprietà di una flotta compatta, funzionante e tecnologicamente all’avanguardia sarebbe stato sintomo di un’economia altrettanto forte e ben strutturata. In Italia, in particolar modo, la marina di Stato ha potuto contare sui finanziamenti americani erogati dall’ExImBank prima e dal Piano Marshall poi, sussidi pubblici quali la “Legge Saragat” e consistenti mutui concessi dall’Istituto Mobiliare Italiano. La pluralità degli investimenti destinati al settore nautico testimonia la sua importanza strategica. Un’indagine completa è tracciata in G. Mellinato, Lo stato navigatore. Finmare tra servizio pubblico e business, 1944 – 1999, in F. Russolini (a cura di), Storia dell’IRI 5. Un gruppo singolare. Settori, bilanci, presenze nell’economia italiana, Editori Laterza, Bari 2014, pp. 430-460; nel capitolo Rovine, rinascita, in P. Ciocca, Storia dell’IRI 6. L’IRI nella economia italiana, Editori Laterza, Bari 2014, pp. 115-117; e nel saggio R. Giulianelli, Ship financing in Italy in the first half of the twentieth century, in “The International Journal of Maritime History”, vol. 28(2), 2016, pp. 335-355, in particolare Credit and the rebuilding of the merchant fleet after 1945, pp. 351 e segg.
270 Economista e consulente della Federal Reserve Bank of New York, si ricorda che Max Ascoli si fosse rivolto a Tamagna affinché potesse investigare le condizioni delle imprese artigiane italiane alla fine del conflitto mondiale e chiedendo lui di redigere un “report” finale che notificasse lo stato di giacenza e sopravvivenza italiano. Registrandone le gravi condizioni post-belliche, Tamagna annota l’importanza di “riparare” e “riaprire” le vie di comunicazioni quale condizione prima della ricostruzione. Cfr. p. 20 del Report on Conditions in Italy, cit.
271 Molte navi italiane sono cadute sin dalle primissime fasi della guerra e la débâcle è soprattutto imputabile al ritardo con il quale sono state avvisate dell’inizio delle ostilità. Sorprese in mare aperto, le unità della marina sono state precoci vittime del conflitto, La situazione dell’industria italiana all’indomani del conflitto. I danni di guerra, in F. Fauri, Il Piano Marshall e l’Italia, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 85-87. Per una bibliografia ulteriore: M.A. Bragadin, Il dramma della marina italiana 1940-1945, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1968; G. Giorgerini, La guerra italiana sul mare. La marina tra vittoria e sconfitta. 1940-1943, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001; J. J. Sadkovich, La marina italiana nella seconda guerra mondiale, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2006.
272 Sull’argomento, G. Mori (a cura di), Storia dell’Ansaldo. 7: Dal dopoguerra al miracolo economico, 1942-1962, Editori Laterza, Roma-Bari 2000, p. 6.
273 Per un prima panoramica sull’evoluzione societaria della navigazione italiana - dalla fortuna dei primi armatori privati quali i Florio e i Rubattino sino all’intromissione del governo fascista - si consigliano i capitoli introduttivi delle seguenti pubblicazioni: M. Eliseo, P. Piccione, Transatlantici: storia delle grandi navi passeggeri italiane, Tormena Editore, Genova 2001; AA.VV, Transatlantici. Scenari e sogni di mare, Skira, Ginevra-Milano 2004; M. Eliseo, W. H. Miller, Transatlantici tra le due guerre. L’epoca d’oro delle navi di linea, Ulrico Hoepli Editore, Milano 2004; C. Donzel, Transatlantici. L’età doro, Istituto Grafico De Agostino, Novara 2006; F. Magazzù, L’epopea dei transatlantici. Evoluzione e declino delle navi passeggeri italiane dal 1860 al 1980, Youcanprint Self-Publishing, Lecco 2015.
274 Nel 1932 la “Società Anonima” era stata anticipata dall’“Italia Flotte Riunite”, una società pubblica di navigazione cui facevano capo le tre più importanti società ammiraglie italiane: la “Navigazione Generale Italiana” di Genova, il “Lloyd Sabaudo” di Torino e la “Cosulich Line” di Trieste, che concorrendo rispettivamente con 9, 8 e 18 unità, avevano creato la più grande flotta passeggeri che mai avrebbe navigato sotto il tricolore. Posto in liquidazione dopo soli quattro anni, l’esperimento pubblico delle “Flotte Riunite” servì da banco di prova per la successiva “Società Anonima” che, istituita con i R. D. L. 2081 e 2082 il 7 dicembre 1936, segna l’esclusione definitiva del ceto privato dal settore navale. All’estero sarà conosciuta con l’inconfondibile nomenclatura di Italian Line.
275 Si noti come le operazioni di ricostruzione abbiano dovuto e continuino a rimedire agli strascichi della politica di regime: Max Ascoli ha tentato, con successo, di ricostruire un’identità nazionale attraverso l’iniziativa artigiana; e la navigazione deve ora essere epurata dalle gravose scelte fasciste.
276 Istituito con “Decreto del Capo Provvisorio dello Stato” il 13 luglio 1946 e inserito nella “Gazzetta Ufficiale” n°167 del 27 luglio 1946, il “Ministero della Marina Mercantile” sancisce il controllo statale sull’immenso patrimonio produttivo e umano della cantieristica italiana, La situazione dell’industria italiana all’indomani del conflitto. L’Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI), in F. Fauri, Il Piano Marshall e l’Italia, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 92-93.
277 Il pacchetto di 5.8 milioni di dollari è così suddiviso: 3 milioni sono investiti sull’“Ansaldo”, seguono i “Cantieri Riuniti dell’Adriatico” con 1.5 milioni, l’“Odero-Terni-Orlando S.p.a.” che si aggiudica un investimento di 800.000 dollari e la “Navalmeccanica S.p.a.” 500.000 dollari. I capitoli di spesa sono pubblicati nel documento relativo agli investimenti della ExImBank per il secondo semestre del 1947, Fith Semiannual Report to Congress for the period July - December 1947, in “Annual Reports Collection”, Export-Import Bank Digital Archives Collection, Washington D.C, 1947, pp. 8-10.
L’ingegnere Cesare Sacerdoti - direttore della già citata “Delegazione Tecnica Italiana” (DELTEC) - è stato consulente e responsabile anche della questione navale per il Governo italiano presso l’ambasciata di Washington garantendo i primi finanziamenti dell’ExImBank, e sarà promotore e garante dei successivi fondi del Piano Marshall: nel primo biennio il Piano investirà 8.5 miliardi di lire (dei quali 1.5 assicurati al solo Ansaldo), garantendo il 63% del tonnellaggio di nuova costruzione alla risorta “Italia - Società di Navigazione” (in E. Ortona, Anni d’America. La ricostruzione 1945/1951, Società editrice il Mulino, Bologna 1984, p. 105). Prosegue dunque la mediazione della DELTEC: coinvolta personalmente e privatamente da Ascoli affinché l’ExImBank concedesse il prestito di 4.625.000 dollari; e invece ufficialmente in prima linea nelle trattive governative riguardanti il settore della navigazione.
278 Si vedano, M. Doria, Ansaldo: l’impresa e lo Stato, Franco Angeli, Milano 1990; F. Degli Esposti, L’Ansaldo industria bellica, in “Italia Contemporanea”, n. 190, marzo 1993, pp. 149-167, in particolar modo pp. 161 e segg. sul conversione della produzione cantieristica a scopi bellici.
279 La difficile situazione triestina nel dopoguerra è ben definita nel saggio, G. Mellinato Tra mercato e propaganda. La ricostruzione del settore marittimo nella Trieste del secondo dopoguerra, in “Acta Histriae”, n. 13, Annales Publishing House, 2005 (II), pp. 447-458; e nel libro A. Cova (a cura di), Il dilemma dell’integrazione. L’inserimento dell’economia italiana nel sistema occidentale. 1945-1957, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 377-381.
280 Nonostante siano transatlantici italiani, è l’America a deciderne le sorti: al termine delle ostilità la proprietà sequestrata dei “Conti” era ancora sotto la giurisdizione statunitense; e le due motonavi Saturnia e Vulcania, che secondo il “Trattato di Parigi” avrebbero dovuto essere cedute dall’Italia alla Grecia a compensazione dei danni di guerra, vengono invece concesse all’Italia. L’accordo americano prevede anche la vendita all’Italia a un prezzo di favore di cinquanta navi di tipo “Liberty” (residuate di guerra, relativamente lente e quindi economiche, perfette per una fase storica tanto instabile e precaria); e la costruzione di una nuova unità per la rotta atlantica verso New York di stazza non superiore alle 30.000 tonnellate lorde, in E. Ortona, Anni d’America. La ricostruzione 1945/1951, cit., p. 172. Sull’argomento anche, I mercantili Liberty, in F. Fauri, Il Piano Marshall e l’Italia, cit., pp. 153-156.
Clara Pellegris, Homo Faber. La ricostruzione identitaria italiana e la nascita del “Made in Italy”, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Bergamo, Anno Accademico 2019/2020

venerdì 11 novembre 2022

Nella primavera del 1944 Lexert preparò i piani di sabotaggio della collettrice della Cogne

Fonte: Wikipedia

Le acciaierie Cogne furono fondamentali per l’industria bellica italiana: tutta la produzione era finalizzata a supportare lo sforzo bellico. La sua importanza emerge dal fatto che dall’estate del 1943 il comandante degli Alpini, il colonnello Borrione, venne incaricato di assicurare la vigilanza presso la Cogne dove erano stati segnalati degli operai antifascisti e alla direzione degli stabilimenti era stato nominato un colonnello del Genio, Alberto Bettica che, in realtà, poi, non avrebbe arginato i movimenti antifascisti <81.
Il lavoro in fabbrica era equiparato al servizio militare, quindi gli operai erano esonerati dal servizio di leva. Vigeva una disciplina militare e gli operai inquadrati nel “Battaglione lavoratori”, a turno, dovevano provvedere al rifornimento dei soldati sul confine italo-francese <82.
Nello stabilimento era presente sia la guardia nazionale sia il servizio di sorveglianza ispettiva disciplinare. Nell’ottobre del 1943 i tedeschi assunsero il controllo della fabbrica.
Inoltre la Cogne fu molto importante anche per il contributo dato alla Resistenza, se si considera che il 46% del partigianato valdostano era costituito da operai e il 35% da contadini (vista la realtà valdostana) e che quindi il contributo maggiore alla Resistenza è stato dato dal mondo operaio <83.
Non si può parlare di mondo operaio antifascista senza ricordare in particolare Émile Lexert (Miló), Giovanni Chabloz (Carlo) e Claudio Manganoni (Tell).
Partiamo da Lexert che entrò a lavorare alla Cogne nel 1940 dopo essere rientrato dalla Svizzera, dove era già attivista comunista. Nello stabilimento si impegnò subito politicamente e organizzò, con alcuni antifascisti, gruppi di studio sul marxismo; a questo affiancò l’organizzazione di un gruppo di propaganda antifascista finalizzata al sabotaggio della produzione.
Faceva parte di questo gruppo anche Claudio Manganoni che era rientrato in Valle d’Aosta alla fine del 1936, era iscritto al PCF, ed era il punto di riferimento per il recapito della stampa clandestina. Entrò in contatto con alcuni comunisti operai alla Cogne e qui venne assunto (era regolarmente iscritto alla Gioventù italiana del Littorio) <84.
Nel 1941 rientrò dalla Francia anche Giovanni Chabloz, che a Parigi era segretario di un’organizzazione degli antifascisti emigrati ed era stato reclutatore di volontari per la Spagna. Venne assunto alla Cogne dove prese contatto con gli altri ed era incaricato dal PCI clandestino di tenere i collegamenti con il Canavese e Torino.
In questo periodo venne assunto anche Sergio Graziola che era in contatto con il Comitato federale del PCI di Biella. Oltre a questi appena citati bisogna aggiungere: Silvio Gracchini, Romano Biasiol, Giuseppe Chappellu e Nazzareno Chiucchiurlotto.
Tramite Lino Binel e Antonio Caveri, Lexert e Manganoni allacciarono contatti con Émile Chanoux e con la Jeune Vallée d’Aoste di cui entrarono a far parte come rappresentanti del PCI. Insieme portarono avanti azioni dimostrative che attirarono l’attenzione delle autorità fasciste.
Alla vigilia del 25 luglio l’organizzazione comunista era già ben strutturata ed aveva collegamenti, oltre che nella Valle, anche con Ivrea, soprattutto operai e tecnici dell’Olivetti. <85
Dopo l’8 settembre, a casa di Lexert si tenne la prima riunione per l’organizzazione del movimento partigiano in Valle d’Aosta.
I partecipanti erano quasi tutti operai della Cogne: Angelo Fontan, Amedeo Pepellin, Giovanni Chabloz. Verso metà settembre venne costituito il primo gruppo partigiano della Valle d’Aosta, comandato da Lexert. Anche questo primo nucleo era composto prevalentemente da operai della Cogne. Oltre a quelli sopra ricordati c’erano anche: Italo Cortivo, Gastone Ferrère, Mario Grange, Giulio Ourlaz e Pierino Diémoz <86.
Fin dall’autunno del ’43 la banda di Lexert, in accordo con Franz Elter, direttore delle miniere di Cogne, portò avanti azioni di boicottaggio della produzione bellica, rendendo difficile l’esportazione di manufatti, macchinari e maestranze, senza interrompere però completamente la produzione, perché questo avrebbe comportato la deportazione degli operai e il trasferimento dei macchinari in Germania <87.
Nella primavera del 1944 - è necessario ricordare che il 1° marzo c’era stato il primo sciopero generale italiano dopo 20 anni di fascismo - Lexert preparò i piani di sabotaggio della collettrice della Cogne, azione poi bloccata da Franz Elter, che preferiva sabotaggi finalizzati all’interruzione della linea ferroviaria. Continuarono, tuttavia, i sabotaggi sulla linea elettrica e alle varie centrali idroelettriche e fu proprio durante un sopralluogo ad una di questa che Lexert venne individuato e ucciso nell’aprile del 1944. Fu un duro colpo per la prima banda partigiana, considerando che anche Chabloz era stato arrestato.
Con l’estate vi fu una ripresa del movimento e dopo l’occupazione di Cogne da parte dei partigiani, allo stabilimento Cogne continuarono i movimenti antifascisti ad opera di un Comitato segreto di agitazione che era stato formato già nel 1943 da Pepellin, Chabloz e Graziola e, in particolare, il 12 luglio la fabbrica venne occupata per un’ora da uno sciopero compatto e vennero portate avanti alcune richieste: 40 lire al giorno di carovita, uno spaccio aziendale gestito dalla fabbrica a prezzi di calmiere oppure 5 lire al giorno di aumento e la cessazione dell’invio in Germania della produzione.
Questo sciopero segnò la ripresa della lotta politica e sindacale alla Cogne e fu anche il momento in cui il PCI vide lo sviluppo della sua organizzazione all’interno della fabbrica indicando, come metodo di lotta, il sabotaggio <88. In particolare veniva consigliato agli operai di “lavorare poco e male. Sabotate le macchine che lavorano per i tedeschi, guastate il prodotto del vostro lavoro destinato ai tedeschi” <89.
All’interno dello stabilimento si formò tra l’autunno del ‘44 e l’inverno del ‘45 la SAP (Squadra di Azione Patriottica) ben organizzata (prenderà poi il nome di Brigata “G. Elter”), che contava numerosi effettivi. Questo sviluppo portò al successo dello sciopero generale del 1° febbraio 1945 indetto per rivendicazioni economiche e per protestare contro il servizio obbligatorio in alta montagna (il 26 gennaio 33 operai inviati al Col du Mont erano stati travolti e uccisi da una valanga).
Gli operai, nonostante le intimidazioni, non ripresero il lavoro e furono arrestati in massa dai fascisti e rilasciati in seguito, per l’intervento dei tedeschi che non volevano l’interruzione della produzione <90.
Gli ultimi giorni della guerra furono momenti molto delicati per la Cogne, in quanto vi era il pericolo di distruzione da parte dei tedeschi in ritirata ed è per questo motivo che compito fondamentale della SAP “Elter” fu la difesa degli impianti industriali della Cogne.
Arrivò la Liberazione e nell’immediato vi fu lo smantellamento delle forze partigiane. Ad agosto il Cln della Cogne è oggetto di un attacco da parte del Governatore Alleato che vuole impedire l’epurazione che il Cln aveva iniziato nei confronti dei dirigenti Cogne. Il Cln è obbligato a sciogliersi e i suoi componenti dovettero riprendere il posto di lavoro occupato prima della Liberazione, altrimenti sarebbero stati arrestati e processati da una corte militare Alleata <91.
Qui si concluse il contributo delle maestranze della Cogne alla lotta di Liberazione, una conclusione che non avrebbero desiderato, come sottolinea Ariano, vice comandante della II zona Valle d’Aosta, in una lettera a Manganoni: “Abbiamo commesso degli errori (…), spesso ci ha giocato la buona fede e l’inesperienza. Noi della montagna eravamo rudi ma buoni, inesorabilmente giusti ma semplici (…) scesi a valle abbiamo trattato con della gente che sarebbe stato assai meglio rinviare con qualche raffica al creatore. Il fascismo si è salvato allora, quando abbiamo abboccato alle “sagge parole” degli imboscati spettatori che, al grido di legalità, hanno disperso le nostre formazioni, le hanno minate, demoralizzandole, nella compattezza e nella disciplina, ci hanno quasi “cacciato” a casa senza lavoro ed assistenza, con un miserabile acconto in pagamento dei vantaggi conseguiti alla “Patria”, intanto boicottando ed impedendo ad ogni modo l’epurazione, il funzionamento spiccio dei nostri tribunali” <92.
Queste parole amare riflettono una realtà storica e personale: storica, perché, effettivamente, per volontà Alleata, venne meno quell’epurazione sperata dai partigiani, personale perché riflette lo stato d’animo di quei tanti giovani che avevano combattuto sì per liberare l’Italia dal nazifascismo, ma anche per creare una società diversa e migliore. Tuttavia, nonostante la delusione iniziale, uomini come Ariano e Manganoni non persero quella volontà di rimanere vicino a quella classe operaia per la quale avevano combattuto affinché si emancipasse socialmente e politicamente e dalla quale, è il caso di Manganoni, proveniva. Lo dimostra in particolare una lettera di Ariano all’amico Tell in cui manifesta il suo desiderio di lavorare vicino agli operai: “E alla Cogne nulla da fare? Mi affascinerebbe la professione di medico sociale, medico dei minatori, come ispettore igienista alle miniere” <93 e come dimostra l’attività politica di Manganoni nelle fila del PCI.
[NOTE]
81 P. Momigliano Levi, “Franz Elter”, Cantagalli, Siena 2009, pp. 59-60.
82 Ibidem.
83 A. Quarello-E. Viberti, “Indagine sociale sul partigianato in Valle d’Aosta”, Aosta 2009, p. 7.
84 R. Nicco, “Elementi per una storia dei comunisti in Valle d’Aosta”, Nuova società, Ivrea 1977, pp. 65-67.
85 R. Nicco, “Elementi” cit., pp. 67-68.
86 E. Riccarand, “Il partigiano Miló. Diario di una banda”, Musumeci, Aosta 1980, pp. 11-58.
87 P. Momigliano Levi, “Franz Elter” cit., p. 70.
88 R. Nicco, “Elementi” cit, pp. 78-80.
89 Ibidem.
90 Ivi, pp. 106-107.
91 Ivi, p. 124.
92 S. D’Agostino, “Barbaro. Un partigiano garibaldino in Valle d’Aosta”, Le Château, Aosta 2012, p. 95.
93 Ivi, p. 114.
Simona D’Agostino, Il ruolo degli operai della Cogne nella Resistenza, Atti del Convegno "Due giornate per non dimenticare" (26 agosto/6 settembre 2014), Associazione dei musei di Cogne - ANPI Valle d'Aosta, 2014

domenica 6 novembre 2022

Ilhan Selçuk, tu stai di fronte alla Kontergerilla


In conseguenza della sconfitta subita alla fine della prima guerra mondiale, si ebbe la fondazione nel 1923 della "Repubblica Democratica di Turchia", come risultato materiale dello sgretolamento dell'Impero Ottomano.
La nascita della nuova repubblica fu il frutto dell’impegno di una squadra di ufficiali capeggiata da Mustafa Kemal; Atatürk ne sarà il primo presidente e portavoce del Partito Repubblicano del Popolo (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP) che rimarrà partito di maggioranza sino al '45. Al momento della sua morte, nel ’38, il presidente Atatürk fu rimpiazzato dal suo fedele primo ministro, Ismet Inönü (CHP) (1923-1938). Nonostante il tentativo di voler guidare il Paese, con saggezza e coerenza, con una politica di neutralità, si trovava ad avere a che fare con una Turchia, quella degli anni ’50, che tardava a raggiungere una situazione economica e militare stabile e indipendente. Fu allora che, anche se in disaccordo con i suoi stessi principi politici, alla fine del secondo conflitto mondiale si trovò costretto a negoziare con gli Stati Uniti ed entrare a far parte al grande blocco anti-sovietico.
Da lì a poco la Turchia sarebbe divenuta, ufficialmente, un Paese membro della NATO, prendendo persino parte alla guerra di Corea, inviando truppe a sostegno degli alleati Stati Uniti.
Nel 1950, a causa degli insuccessi della politica economica, a Inönü successe l’opposizione rappresentata dal binomio Menderes e Bayar; quest’ultimo era già stato destituito, all’epoca, dal ruolo primo ministro, per conflitti d’idee.
Il partito democratico (DP) di Bayar rimase al governo, affiancato dal primo ministro Menderes durante i dieci anni successivi, che saranno ribattezzati l’«era multipartitica». Ad una rapida crescita economica iniziale seguì un’altrettanto rapida fase di decrescita economica che portò, a partir dalla seconda metà degli anni ’50, ad un periodo di instabilità politica e di scontento generale; un vero e proprio collasso. Questa fase si risolse con la presa del governo da parte del generale Cemal Gürsel e delle sue truppe armate: era il 27 maggio 1960 e si trattò del primo Coup d’Etat dalla fondazione delle Repubblica di Turchia.
1.3. Il Golpe del 60 e la figura di Türkeş.
Il comunicato dell'avvenuto Colpo di Stato fu trasmesso alla radio la mattina del 27 maggio del 1960 per conto del Colonnello Alparslan Türkeş; rivendicava la presa del governo da parte dei militari, con la scusa di proteggere il Paese dal pericolo della guerra civile.
Il DP di Menderes ormai da anni aveva disilluso il suo elettorato e gli scontri, negli ultimissimi mesi, dovuti al malcontento generale, avevano messo a nudo non solo le insicurezze del governo, ma anche il suo atteggiamento repressivo nei confronti dei cittadini.
Non c'era occasione in cui non si manifestassero tensioni tra i partiti, e gli attacchi si intensificavano sempre di più sia da una parte che dall'altra.
Una commissione investigativa, composta di soli membri democratici, fu istituita dal DP per un’indagine, da concludersi nel termine di tre mesi, sull'operato dell'opposizione. Quando un gruppo di giuristi e docenti universitari, si permise di giudicarla incostituzionale, furono accusati di “impegno politico” e dunque allontanati dalla carica; la notizia scatenò una rivolta popolare.
Menderes, intimorito, accelerò i lavori della commissione e quando annunciò la pubblicazione dei risultati cui erano pervenuti, la reazione fu la più prevedibile: il governo fu destituito, mentre il Presidente Bayar e il Primo Ministro Menderes furono arrestati e condannati a morte (la pena di Bayar venne poi sospesa per questioni d'età e salute).
Il Golpe fu accolto con favore dal popolo e dagli studenti nelle due principali città; i militari dichiararono che un “Comitato di unità Nazionale” (Milli Birlik Komitesi), guidato da Gürsel, avrebbe amministrato il governo.
Da subito fu nominato Presidente della Repubblica il Generale Gürsel il quale inizialmente ricoprì anche la carica di Primo Ministro, come successore di Menderes, e Ministro della Difesa: un potere assoluto superiore anche a quello detenuto da Atatürk.
Il golpe sembrava portare il Paese verso la costituzione di un regime totalitario, ma dopo l'allontanamento del Colonnello Türkeş che non celava la sua anima estremista pan-turchista1, fu approvata il 9 luglio '61, una nuova costituzione dalle vedute più liberali con la concessione anche di nuove elezioni, a patto che la presidenza restasse in capo a Gürsel.
Inönü fu rieletto, e il DP, ricostituitosi nel “Partito della Giustizia” (Doğru Yol Partisi), non vinse le elezioni del ’61 solo per pochi voti: ciò avvenne però quattro anni dopo, nel ’65, riconfermandosi poi nel ’69.
Negli stessi anni si formarono partiti d'estrema destra, ispirati al pensiero di Türkeş, come del resto prendeva corpo una rete studentesca d'estrema sinistra, alimentata dalle dottrine repubblicane Kemaliste.
In seguito si scoprirà che Türkeş <3, oltre ad esser stato uno dei primissimi cadetti militari addestrati dagli Stati Uniti per formare il gruppo di Stay-Behind turco, detta Kontergerilla, militava tra le fila del movimento neo-fascista nominato Lupi Grigi <4 (Bozkurt o Ülkü Ocakları).
Egli tesseva relazioni con importanti figure politiche, di aperte tendenze anti-sovietiche, quali il Presidente della Repubblica dell’Azeirbajan, Elçibay, nazionalista pro-occidentale e convinto sostenitore degli ideali pan-turchi, e con il Presidente della Repubblica Armena, Ter-Petrosyan, rappresentante del Movimento Nazionale Pan-Armeno.
Fu allora, dalla adesione della Turchia all’alleanza NATO e dalla ristrutturazione degli apparati del governo che cominciò a delinearsi il Derin Devlet, figlio del tentativo americano di creare in ogni Stato membro un corpo paramilitare clandestino, con il medesimo obiettivo: creare le basi per un movimento di resistenza in caso di invasione e occupazione da parte delle forze del Patto di Varsavia.
Questi apparati para-militari furono spesso definiti come organizzazioni "Gladio", in conseguenza della scoperta della Gladio Italiana <5, primo riconoscimento pubblico dell’esistenza di strutture paramilitari Stay-Behynd; gran parte di queste organizzazioni fu creata durante la prima metà degli anni ‘50 ed è rimasta, per lungo tempo, uno dei segreti più gelosamente custoditi della NATO fino alla fine della Guerra Fredda.
Nel frattempo, il pensiero idealista (Atatürklkücü) di Türkeş <6, (mano e mente del colpo di stato del ’60), che in un primo momento fece da base ed ispirazione del movimento dei Bozkurt (movimento nato per essere usato come truppa d'assalto contro i gruppi di sinistra), nel 1965 divenne la base ideologica di un vero e proprio partito politico, dichiaratamente fascista, dal programma sorprendentemente nazionalista e reazionario: il Partito d'azione nazionalista o MHP.
1.4. 12 Marzo 1971
Le crescenti tensioni politiche, le difficoltà economiche del tardo decennio ’60 e il crescente anti-americanismo che si faceva largo tra gli intellettuali di sinistra, costituirono la ragione per la quale i leader militari presentarono un ultimatum al governo, il 12 Marzo 1971, affinché il Paese venisse riformato secondo lo spirito della ideologia di Mustafa Kemal Atatürk.
Fu imposta la legge marziale, che avrebbe dovuto durare per due anni e mezzo. Furono banditi l’associazionismo giovanile, le riunioni pubbliche, gli scioperi; il movimento di sinistra fu decimato e molti dei suoi militanti costretti in clandestinità, giacché a loro non era riconosciuto alcun tipo protezione dai vari regimi di destra del Fronte Nazionale, di cui il Partito d'azione nazionalista faceva parte.
Il servizio di sicurezza e le forze di polizia, strettamente vincolati al MHP, diedero di conseguenza sempre più libertà d’azione all’ordine dei Bozkurt.
Dal 1970 lo Stato, per mano dei Bozkurt che, come si vedrà in seguito, lavoreranno in parallelo e talvolta persino assieme alla Kontergerilla, cominciò ad attuare una vera e propria strategia del terrore: furono pianificati ed attuati attacchi violenti, terrorismo politico e, molti cittadini che pure non avevano nulla a che fare con la parte ribelle della sinistra d’opposizione, furono assassinati: studenti, insegnanti, dirigenti sindacali, librai e politici vennero perseguitati.
Si è trattato di uno scontro assolutamente impari, nel quale l'ala fascista di ultra-destra godeva, ovviamente, del supporto e della protezione dello Stato. Attraverso provocazioni deliberatamente progettate e poi attuate, il MHP provocò scontri tra i vari gruppi della popolazione, inculcando l'odio, nei cittadini, per le minoranze intellettuali.
Il decennio successivo al 1970 fu anche scenario di pesanti contraccolpi economici, che contribuirono alla destabilizzazione del Paese spingendolo sull'orlo di una guerra civile.
Iniziò un periodo di scontri violenti fra i gruppi estremisti di destra e di sinistra; esistono teorie, che trovano anche qualche fondamento nella realtà delle cose, sulla possibilità che i disordini abbiano avuto origine da un complotto ordito dai militari per gettare le basi di un nuovo colpo di stato <7.
Ricordare e capire il significato della Strategia della Tensione risulta dunque imprescindibile:
"É una tattica che consiste nel commettere degli attentati criminali e attribuirli a qualcun altro. Con il termine tensione ci si riferisce alla “tensione emozionale”, a ciò che crea una sensazione di timore, di paura. Con la parola “strategia”, ci si riferisce a chi fomenta i timori e le paure della gente verso un determinato gruppo dalle determinate caratteristiche. Queste strutture segrete della NATO erano state equipaggiate, finanziate e addestrate dalla CIA, in coordinamento con il MI6 (i servizi segreti britannici), a combattere le forze armate dell'Unione sovietica in caso di guerra, ma anche, secondo le informazioni di cui disponiamo oggi, per commettere attentati terroristici in diversi paesi". <8
Ne è riprova anche quanto accaduto al giornalista investigativo Ugur Mumcu, arrestato e incarcerato immediatamente dopo il Golpe del ’71, torturato e infine assassinato, nel ’93, per aver riportato quanto dichiaratogli dai torturatori:
"Siamo la Kontergerilla. Neanche il presidente della Repubblica può toccarci". <9 <10 o dall'autore Ilhan Selçuk a cui veniva affermato: "Ilhan Selçuk, tu stai di fronte alla Kontergerilla, affiliata dello Stato maggiore, sei nostro detenuto. Non c'è Costituzione o quant'altro qui. L'organizzazione ti ha sentenziato a morte, siamo autorizzati a far qualsiasi cosa vogliamo". >11
[NOTE]
3 Encyclopoædia Universalis, Türkes Alparslan (1917-1997), 7 maggio 2013, http://www.universalis.fr/encyclopedie/alparslan-turkes/
4 Hürriyet Newspaper, 11 aprile 1995, Turkes Jr. Faces Hard Times Ahea, 8 maggio 2013, http://arama.hurriyet.com.tr/arsivnewsmobile.aspx?id=-503120
5 Commissione Parlamentare d’Inchiesta Sul Terrorismo in Italia e Sulle Cause della Mancata Individuazione dei Responsabili delle Stragi 17 maggio 1998, Relazione sull'inchiesta condotta sulle vicende connesse all'operazione Gladio, 5 giugno 2013, http://www.senato.it/documenti/repository/relazioni/archiviostorico/commissioni/X%20LEG_TERRORISMO_DOC_RELAZ/X_%20LEG_TERRORISMO_DOC%20XXIII_51_22.4.92.pdf
6 9 Işık Doktrini, febbraio 2013, http://ulkuculukengellenemez.tr.gg/Dokuz-I%26%23351%3B%26%23305%3Bk.htm
7 Anche su questo è stringente l’analogia con i fatti storico-politici italiani: è degli stessi anni la Strategia della Tensione che culminò con le ricordate stragi di P.zza Fontana, dell’Italicus, della Stazione di Bologna, gli scontri fra terroristi di matrice fascista e gruppi dell’estrema sinistra che provocarono morti e feriti, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, il maldestro tentativo di colpo di stato organizzato dal militare Junio Valerio Borghese; è da inserire in questa strategia anche la collusione fra stato e mafia, per ottenere un cospicuo supporto politico a favore della Democrazia Cristiana contro i "pericolosi" comunisti.
8 Silvia Cattori, 29 dicembre 2006, Le terrorisme non revendiqué de l’OTAN, 3 maggio 2013, http://www.voltairenet.org/article144415.html
9 Lucy Komisar, Turkey’s Terrorists: A CIA Legacy Lives On. In: The Progressive, April 1997
10 Analogia con “noi siamo la Mafia” ALMA SHALABAYEVA STATEMENT, 22 giugno 2013, (pp 4) 01 luglio 2013, http://www.linkiesta.it/sites/default/files/uploads/articolo/memoriale_shalabayeva.pdf
11 Ertuĝrul mavioĝlu, Counter-guerilla becoming the State, the State becoming th Counter-guerilla. PERSPECTIVE political analysis and commentary from Turkey, Istanbul, 9 giugno 2012


Giulia Fiordelli, Dalla Konterguerilla ad Ergenekon. Evoluzioni del Derin Devlet, tra mito e realtà nella Turchia contemporanea: analogia con la stay-behind italiana, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2012/2013 


Durante la Guerra Fredda, la Turchia era già il più grande esercito della NATO in Europa e il secondo dell’Alleanza dopo gli Stati Uniti. Possedeva inoltre un terzo del confine NATO a contatto diretto con i paesi membri del Patto di Varsavia. La Turchia quindi era strategicamente fondamentale per l’Alleanza Atlantica e così, già anni prima che il paese entrasse a far parte del Patto Atlantico, vi era presente un’organizzazione stay-behind denominata “Counter-Guerrilla”.
L’organizzazione è stata attiva per tutto il periodo della Guerra Fredda, conducendo alcune delle missioni più importanti delle forze armate turche [11]. Dopo la divulgazione dell’operazione Gladio in Italia, il Generale Kemal Yilmaz, capo delle forze speciali turche, nel 1990 confermò l’esistenza della rete NATO in Turchia. Yilmaz spiegò che l’organizzazione era sotto il comando delle forze speciali turche e aveva come obiettivo l’organizzazione di una resistenza in caso di occupazione comunista.
L’ex Primo Ministro turco Bulent Ecevit confermò alla stampa di aver appreso dell’esistenza di “Counter-Guerrilla” e del collegamento con le forze speciali nel 1974. All’epoca, il Generale Semih Sancar lo informò del finanziamento all’organizzazione da parte degli Stati Uniti sin dai primi anni del post-guerra mondiale. L’ex Primo Ministro dichiarò inoltre di sospettare dell’organizzazione e del suo coinvolgimento nel massacro di Piazza Taksim ad Istanbul nel 1977, dove 36 manifestanti vennero assassinati da un estremista di destra durante la Festa dei Lavoratori del 1 maggio [12].
[NOTE]
[11] Selahattin Celik, Türkische Konterguerilla. Die Todesmaschinerie, Mesopotamien Verlag, 1999 p.44.
[12] Celik, Türkische Konterguerilla, p.41;  Lucy Komisar, Turkey’s Terrorists: A CIA Legacy Lives On, The Progressive, 1997.
Francesco Generoso, Le operazioni Stay-Behind della Nato. Gladio e le altre organizzazioni, Opinio Juris, 5 novembre 2019

martedì 1 novembre 2022

Quando Montale fu polemico con Alvaro


Tra il 1945 ed il 1946 sul quindicinale «Il Mondo» <186, diretto in questo biennio da Alessandro Bonsanti, Arturo Loria, Eugenio Scaravelli ed Eugenio Montale, intercorse una polemica che ebbe per protagonisti il condirettore Montale, Carlo Emilio Gadda e Mario La Cava, entrambi collaboratori della rivista.
La controversia ebbe inizio con una lettera <187 aperta di La Cava a Montale, nella quale lo scrittore calabrese rispondeva ad alcune considerazioni sulla questione meridionale della quale Montale si era indirettamente interessato nel recensire il pamphlet di Corrado Alvaro 'L’Italia rinunzia?' (apparso nel 1944 a puntate su «Il popolo di Roma» e pubblicato in volume da Bompiani nel 1945 e nel 1986 da Sellerio <188) ed il volume di Sebastiano Aglianò intitolato 'Che cos’è questa Sicilia?' <189.
Nei loro rispettivi interventi apparsi nel 1945, nel drammatico contesto della guerra civile, Alvaro e Aglianò indicavano tempestivamente, attraverso argomentazioni diverse ma convergenti, i rischi del conservatorismo incombenti sul futuro politico dell’Italia liberata. In particolare Corrado Alvaro, denunciando il trasformismo della vecchia classe dirigente collusa con il regime fascista appena decaduto, metteva in guardia dai pericoli di una eventuale «restaurazione», di una «misera commedia degli accomodamenti» <190 che avrebbe inficiato ogni opera di rinnovamento sociale e culturale della nazione; mentre Sebastiano Aglianò, nell’evidenziare la fragilità del senso di unità nazionale continuamente logorato dalle vanità locali, definiva le spinte separatiste della Sicilia un goffo tentativo di frenare la modernizzazione di quella regione e ne prevedeva come conseguenza diretta l’isolamento, l’estromissione dalla cultura moderna europea e il ripiegamento entro i confini di un provincialismo esasperato, simile a quello che precedentemente il fascismo aveva imposto su scala nazionale.
La polemica sarebbe stata, dunque, indirettamente innescata dai suddetti testi, eppure gli interventi di Montale, Gadda e La Cava sono privi di riferimenti alle argomentazioni di Alvaro o a quelle di Aglianò e, sotto certi aspetti, ne disattendono anche l’appello alla coesione e alla solidarietà civile. Tale polemica costituisce anzi un riflesso della forte contrapposizione ideologica tra italiani del nord e italiani del sud che i disastri della guerra e della dittatura avevano inasprito. All’indomani del secondo conflitto mondiale erano sorti infatti nuovi motivi di contrasto fra gli italiani, dovuti alla diversità delle valutazioni inerenti il contributo militare profferto dalle singole regioni alla lotta armata, e proprio su questo punto le opinioni dei tre interlocutori furono particolarmente discordanti.
Nell’articolo-recensione al pamphlet di Alvaro, Montale mette in rilievo l’irregolarità espositiva del testo, considerandola, più che un difetto, una prova dell’autenticità di quell’intervento, non lineare, stilisticamente imperfetto, ma proprio per questo incalzante e vivo: "Del colore e della serietà morale del suo discorso non si meraviglierà chi conosceva da tempo in lui uno scrittore per cui il mondo storico e la polis esistono, per cui anzi, essi costituiscono addirittura le premesse di ogni possibile attività di un artista che sia italiano e non un calmucco o abitatore della luna, come certi manichini dipinti dai pittori contemporanei. Ciò non toglie che sia difficile riassumere il suo pensiero e risolverlo in una formula: il suo libretto è in un certo senso un monologo dello scontento, l’intimo sconforto di chi teme sfugga agli italiani l’occasione unica, irripetibile, ad essi offerta dalla loro recente storia. E come avviene a chi parla a se stesso in solitudine, affidandosi al filo delle proprie incertezze e adombrandosi ad ogni luce e ad ogni figura sospetta, il discorso non segue una linea rigorosa, ma si versa nelle pagine come un fiotto, si tinge di umori diversi, si addentra in apparenti contraddizioni, non rifiuta le sottolineature dell’enfasi; vuol essere prima di tutto lo sfogo di un animo esacerbato e poi l’opera di un giudice, di un cauterizzatore delle nostre vecchie piaghe nazionali". <191
Se Montale dimostra di condividere le preoccupazioni di Alvaro sul pericolo di una nuova deriva politica dell’Italia <192, le sue posizioni divergono invece da quelle dello scrittore calabrese nei punti in cui quest’ultimo passa a considerare le cause del dislivello economico fra nord e sud Italia: "Leggendo 'L’Italia rinunzia?' si ha tuttavia l’impressione che Alvaro faccia troppo carico al nord dello stato in cui si trova il nostro mezzogiorno, che secondo lui sarebbe stato tenuto deliberatamente in condizioni coloniali per servire da mercato alle eccedenze dei prodotti industriali del nord. È cosi? Io non posso escluderlo né ho modo oggi di rifarmi alla questione del mezzogiorno quale essa fu impostata da Salvemini; ma voglio pregare Alvaro di dirmi a quali deleteri influssi settentrionali è possibile ascrivere quello spirito di omertà e di «comparizio» che rende quasi impossibile al sud un sano sviluppo della vita politica. Il caso del meridionale che non paga le tasse o ne paga meno del giusto perché l’agente delle tasse è un «paesano» è tanto noto che non occorre indugiarvisi. È ben vero che la Sicilia da sola potrebbe avere un florido bilancio con la sola esportazione dello zolfo e degli agrumi e che il «continente» se n’è servito per arrotondare i suoi bilanci lasciandola in quelle condizioni che tutti sanno; ma difficilmente si potrà ascrivere a congiure nordiste la tipica atmosfera balcanica, levantina, che si è sempre respirata a Roma, col fascismo o senza fascismo". <193
Pur preferendo non addentrarsi nel dibattito meridionalistico, né respingere in toto l’ipotesi di lettura della crisi economico-sociale del sud proposta da Alvaro <194, Montale conclude il proprio intervento invitando a una valutazione più obbiettiva delle responsabilità del settentrione riguardo al sottosviluppo del Mezzogiorno: nel clientelismo e nella cronica incapacità di agire secondo regole di convivenza civile che non siano espressione diretta di interessi privati egli individua alcune problematiche intrinseche alla società meridionale, impossibili da imputare all’azione di governi ostili o a impensabili «congiure nordiste».
[NOTE]
186 Per l’analisi della rivista nel periodo fiorentino, si veda: C. Ceccuti, «Il Mondo». Lettere, scienze, arti, musica 1945-1946. Antologia di una rivista della terza forza, Firenze, Edizioni Polistampa, 2004.
Gli articoli di La Cava apparsi sulla rivista nel biennio 1945-1946 sono: M. La Cava, Osservatore calabrese, I, n. 2, 21 aprile 1945, p. 16; Id., Non mandate imprecazioni, I, n. 7, 7 luglio 1945, pp. 14-15; Id., Favole, I, n. 9, 4 agosto 1945, p. 14; Id., A proposito della questione meridionale, I, n. 11, 1 settembre 1945, p. 2; Id., Osservatore calabro, I, n. 16, 17 novembre 1945, p. 2; Id., Calamandrei scrittore, II, n. 19, 5 gennaio 1946, p. 7.
187 M. La Cava, A proposito della questione meridionale cit.
188 In questa sede si farà riferimento all’edizione Donzelli del 2011: C. Alvaro, L’Italia rinunzia?, introduzione di M. Isnenghi, Roma, Donzelli, 2011.
189 S. Aglianò, Che cos’è questa Sicilia, introduzione di M. Mazzara, Palermo, Sellerio, 1996. Le recensioni di Montale cui si fa riferimento sono: E. Montale, L’Italia rinunzia?, in «Il Mondo», I, n. 4, 19 maggio 1945, p. 6; Id., Sicilia, in «Il Mondo», I, n. 7, 7 luglio 1945, p. 6, ora in Id., Auto da fé, in Id., Il secondo mestiere. II. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, pp. 38-42 e pp. 49-52. Esse si inseriscono all’interno di una terna di recensioni di interesse meridionalistico di cui fa parte anche quella intitolata Un pittore in esilio, dedicata al Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, ora in E. Montale, Auto da fé, in Id., Il secondo mestiere. II. Arte, musica, società cit., pp. 32-37.
190 C. Alvaro, L’Italia rinunzia? cit., p. 80.
191 E. Montale, L’Italia rinunzia? cit.
192 «Chi ricorda la solidarietà, l’aiuto, il patriottismo, la giustizia che il popolo italiano aveva saputo manifestare nei mesi dell’abbandono, rimane stupito che oggi, a liberazione avvenuta, in questa parte d’Italia, l’ambiente si sia nuovamente avvelenato, e l’odore di cadavere che ammorbò l’Italia per tanti anni, salga da tutta la vecchia classe dirigente morta e non rimossa dal Comitato di Liberazione, e che marcisce sulle sue poltrone, nei suoi palazzi, marcisce in piedi mentre parla, briga, discute, scrive. [...] Sì, all’intorno si parlava di libertà, di democrazia; ma al centro si era costituita nuovamente quella fortezza in cui la reazione degli alti gradi di ogni categoria dello Stato trovava il suo rifugio. La vita tornò, quella di prima; ma più scopertamente. Quella parte del paese che sembrava avesse dato la massima prova della sua avidità negli anni del fascismo, aveva ancora da fare. Alla fine lo stesso popolo finì col corrompersi. La storia dell’avvenire dirà fino a che punto la restaurazione dei fuggiaschi abbia impedito la ripresa dello spirito italiano, dell’economia e della vita italiana, e dello stesso sforzo di guerra italiano, frapponendosi, con le sue classi rimbaldanzite, in ogni seria opera di rinnovamento del paese». C. Alvaro, L’Italia rinunzia cit., p. 51, pp. 55-56.
Alvaro si dimostra scarsamente fiducioso anche nei confronti dei partiti politici italiani e nell’intervento degli Alleati, poiché vede i primi persistere «nell’atteggiamento di chi abbia qualcosa da salvare dal passato», al punto da accettare la presenza politica «degli uomini che condussero alla catastrofe», ed i secondi esprimere un atteggiamento ambivalente nei confronti del fascismo, del quale essi sembravano contrastare unicamente le mire espansionistiche ed accettare la politica interna: «Ma dunque, antifascisti e fascisti, sarebbero tutti della medesima pasta? Ma dunque anche i liberatori, i rappresentanti delle libere democrazie, i paladini della libertà, possono tollerare che il nostro paese si accomodi con questa rassegnazione sulla catastrofe [...]. Infine, sotto il nome di libertà e di democrazia, il fascismo non fu battuto in quanto tirannia dell’uomo ma in quanto pericolo imperialista? Insomma, i liberatori accetterebbero del fascismo la pratica politica interna e i suoi uomini, ciò che ripugnava agl’italiani, e ne rifiuterebbero quell’espansionismo che era il solo aspetto che gl’italiani accettavano come una soluzione al loro lavoro e al loro numero? Questi sono i quesiti che ogni coscienza onesta oggi si pone. E i dubbi che domani, dopo una tale pratica di vita, si abbia a creare nuovamente il mito dell’imperialismo italiano che in qualche modo riscatti perfino la fama di quella dittatura». Ivi, pp. 62-64.
193 E. Montale, L’Italia rinunzia? cit.
194 In realtà, la riflessione di Alvaro sui reflussi dell’economia nazionale non si risolve nella mera attribuzione di responsabilità del degrado del meridione a fattori esterni. Lo scrittore tenta una definizione della natura della crisi, individuandone l’origine anzitutto nel progressivo depauperamento della vitalità produttiva della provincia, definita il vero motore propulsore dell’economia italiana. L’assalto alle città e la ricerca affannosa dei titoli di studio finalizzata esclusivamente all’ottenimento di un impiego di tipo burocratico avevano logorato il sistema economico delle province meridionali, senza però creare le condizioni di un nuovo sviluppo, e anzi fomentando l’assalto parassitario al bene pubblico, ovvero quella degenere tendenza popolare che Alvaro definisce «funzionarismo». C. Alvaro, L’Italia rinunzia? cit., p. 40. L’analisi di Alvaro supera, in sostanza, l’antitesi nord-sud basata sulla reciproca attribuzione di colpe e di responsabilità. Le sterili diatribe interne alla comunità nazionale italiana perdono consistenza dinnanzi alla gravità di una piaga sociale contro cui lo scrittore prospetta come unica soluzione una riforma culturale ancor prima che economica: «ci vorrà, a lavorare sul serio, almeno un ventennio per estirpare il fascismo dall’Italia, cioè la somma di tutti i difetti e mancanze e deviazioni del carattere italiano. Occorre una riforma che restituisca alla cultura il suo carattere disinteressato, la sua abnegazione che fa uomini e cittadini, e non postulanti, una riforma che alle troppo numerose scuole classiche sostituisca in determinate regioni, specie in quelle più arretrate, scuole di avviamento, tecniche, industriali, agricole, le quali forniscano alla nazione, povera di risorse ma con capacità d’ingegno, di applicazione ingegnosa, di tecnica, piccole e grandi élites le quali abbiano la fierezza del lavoro [...]. Con una radicale riforma dell’economia italiana, e dell’assetto italiano, si frenerà la fuga dalla provincia verso gl’impieghi e il parassitismo e il perpetuo turbamento della vita pubblica, quando ogni provincia avrà in sé il suo nucleo e focolare di vita, con le sue industrie naturali, e tornerà ad essere quella ricca riserva di uomini e di spiritualità che già fu. L’Italia meridionale, che è il più grave problema della vita italiana, finito il suo patriarcalismo, tramontata la veneranda età dell’oro dei nostri padri, riacquisterà il senso civile e il senso dell’uomo, al contatto col lavoro moderno. Al mito del diploma bisogna sostituire la virtù della tecnica». Ivi, pp. 18-19.
Eleonora Sposato, Oltre le cose, la sostanza che non muta. Mario La Cava. La figura e l'opera, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Calabria, 2013