All’indomani del secondo conflitto mondiale, il panorama politico dell’Europa appariva mutato in profondità. Interpreti più accreditati delle istanze di rinnovamento radicale diffuse nella popolazione, i partiti socialisti e comunisti occupavano il centro della scena, partecipando al governo all’interno di coalizioni nazionali nella maggior parte dei paesi del continente <1. La politica di collaborazione antifascista ridefiniva lo spazio politico della sinistra. I comunisti, che avevano fornito il contributo maggiore ai movimenti di Resistenza, godevano di un’inedita legittimazione nazionale e allargavano le fila delle proprie organizzazioni. Testimoni di questo clima, le prime elezioni del dopoguerra registrarono una diffusione del loro consenso nel complesso dei paesi europei destinata a rimanere ineguagliata negli anni successivi <2. La dinamica di recupero ed espansione delle posizioni prebelliche coinvolgeva largamente anche il campo del socialismo democratico. Fu in particolare l’inattesa vittoria del Labour Party alle elezioni del luglio 1945 a segnare un’epoca: dopo l’inaudito sforzo bellico, i cittadini britannici si affidavano al partito che offriva le maggiori garanzie di voler «vincere la pace» sulla base di un programma di riforma sociale <3.
La ridefinizione delle compatibilità politiche legata all’antifascismo e alla guerra implicava anche una verifica delle possibilità di una nuova articolazione delle relazioni fra le due componenti principali della sinistra europea: le alleanze realizzate a livello nazionale nella Resistenza e nella ricostruzione potevano avere un seguito e una proiezione internazionale, dopo le tormentate vicende dei decenni precedenti <4? Non diversamente dalle città del continente ridotte in macerie dal conflitto, anche l’internazionalismo socialista e comunista presentava un panorama da ricostruire.
Sacrificato sull’altare della collaborazione con gli alleati occidentali, il Comintern era stato dissolto ufficialmente nel maggio del 1943; l’Ios, erede della Seconda Internazionale, era «crollata nell’indifferenza» di fronte all’incalzare dei fascismi e della guerra, pur mantenendo una fittizia continuità organizzativa fino al 1946 <5. L’apparente simmetria celava però una situazione affatto differente dei due movimenti: divisi su numerose questioni e comunque in larga misura refrattari ad un collegamento troppo stringente i socialisti <6, organizzati «tramite una rete di rapporti bilaterali tra lo Stato sovietico e i singoli partiti» <7 i comunisti. Il legame organico con il primo Stato rivoluzionario, elemento costitutivo dell’internazionalismo comunista, acquisiva anzi un carattere ancora più decisivo ora che l’Urss aveva affermato il suo status di grande potenza e si apprestava ad estendere la propria influenza sulla parte centro-orientale dell’Europa.
La linea “moderata” adottata dalla leadership sovietica alla fine della guerra - l’opzione, valida per entrambe le “sfere d’influenza” europee, per la democrazia antifascista rispetto alla prospettiva rivoluzionaria <8 - comportava per i comunisti la ricerca dell’unità d’azione con gli altri partiti della sinistra. Presupposto implicito di tale politica unitaria era tuttavia il riconoscimento della superiorità dell’esperienza sovietica, che si voleva dimostrata dalla vittoria sul fascismo: sulle stesse basi, l’eredità della socialdemocrazia era identificata con la divisione e la sconfitta del movimento operaio. In un intervento del marzo 1945, Palmiro Togliatti denunciava la Seconda Internazionale come «una di quelle organizzazioni che per l’indirizzo antiunitario e quindi reazionario della maggior parte dei suoi dirigenti, portano una grave responsabilità per le vittorie del fascismo». La prospettiva della ricostituzione di un’organizzazione internazionale dei socialdemocratici era perciò respinta, mentre si indicava l’obiettivo di «convocare in una grande conferenza europea tutti i partiti operai allo scopo di gettare le basi di una solida unità d’azione tra di loro» <9. Un anno più tardi, in un articolo ripreso dalla nuova rivista del Pci, il comunista inglese Rajani Palme Dutt additava come «Borboni del movimento operaio» quanti fra i dirigenti socialdemocratici insistevano sull’inconciliabile antagonismo ideologico con il comunismo, ribadendo che «i vecchi punti controversi tra socialdemocrazia e comunismo […] sono stati in gran parte storicamente regolati dall’esperienza del fascismo» <10.
Una proposta unitaria così formulata aveva evidentemente basi troppo fragili e controverse per sopravvivere al montare delle tensioni fra i paesi che erano stati alleati nella guerra. Così come l’antifascismo non rappresentò mai, nelle relazioni internazionali, un’ispirazione culturale effettivamente radicata ed autonoma, tale da poter costituire il fondamento del nuovo ordine mondiale postbellico <11, il suo utilizzo da parte del movimento comunista come collante per la rifondazione della sinistra europea - sganciato com’era da una revisione della cultura politica cominternista <12 - poteva difficilmente sfuggire ad un’impressione di tatticismo.
Vista l’adesione di Mosca al principio della ripartizione dell’Europa in sfere d’influenza, l’obiettivo di una ridefinizione dei rapporti a sinistra non poteva del resto avere orizzonti che andassero oltre la funzione di ostacolo alla formazione di un compatto fronte antisovietico nei paesi occidentali. La progressiva chiusura degli spazi di autonomia delle “democrazie popolari”, con la liquidazione o l’assimilazione forzata dei partiti alleati dei comunisti e la trasformazione dell’antifascismo in “ideologia di Stato”, rappresentò un segnale inequivocabile in tal senso <13.
Nel volgere di breve tempo, l’unità d’azione delle sinistre così come concepita nel dopoguerra sarebbe sopravvissuta nell’Europa occidentale solo come una peculiarità della situazione italiana. Ai partiti comunisti che operavano al di fuori della sfera d’influenza sovietica restava il difficile compito di coniugare efficacemente la legittimazione nazionale antifascista con quella derivante dal legame con l’Urss <14. La questione della sinistra europea, dunque, non era separata per loro da un più vasto insieme di contraddizioni aperte dall’esperienza antifascista, sintetizzato da Franco De Felice nella nota formula della «divaricazione crescente tra un'esperienza e pratica democratiche e strutture culturali adeguate a sostenerle» <15.
Il campo socialdemocratico non seppe dal canto suo proporre alternative per la salvaguardia dell’autonomia della sinistra europea dall’incipiente contrapposizione fra i blocchi. Pesava in questo caso - oltre, evidentemente, ad una diversa memoria delle relazioni con i comunisti - l’assenza di una prospettiva politica socialista capace di superare i confini dello Stato-nazione. Prima dell’affermazione definitiva della guerra fredda - ha osservato Donald Sassoon - i partiti socialisti avrebbero forse potuto provare a costruire una nuova cornice per condurre la politica internazionale, proponendo una logica differente da quella di potenza, ma non avevano un’organizzazione internazionale, una politica estera comune, strumenti di coordinamento. Erano partiti nazionali che lottavano per lasciare il segno nella politica nazionale. Quando si volgevano agli affari esteri, abbracciavano le idee prevalenti sull’interesse nazionale <16.
Il Labour Party, forza egemone del socialismo europeo, si dimostrò sin dalla fine del conflitto poco interessato alle sorti di ciò che restava dell’Internazionale, temendo la costituzione di un organismo dotato di poteri prescrittivi come un limite per la propria libertà d’azione <17. La formazione del governo di Clement Attlee - con Ernest Bevin alla guida del Foreign Office - più che dare un orientamento socialista alla politica estera di uno dei due “grandi” del mondo occidentale, obbligò i laburisti all’improba impresa di conciliare la costruzione del Welfare State con la tutela del ruolo internazionale della declinante potenza inglese (impegno, quest’ultimo, che comportava peraltro il conflitto con gli interessi sovietici in diversi teatri, a partire da Mediterraneo e Medio Oriente). Tradizionalmente ostile ai piani d’integrazione politica europea, il governo britannico si trovò presto a dipendere doppiamente dal sostegno degli Stati Uniti: a Washington si chiedevano prestiti, necessari per superare una situazione finanziaria insostenibile, e la condivisione dell’impegno militare. L’ipotesi terzaforzista di un’Europa autonoma a guida socialista - vagheggiata in particolare dai francesi della Sfio, oltre che dai critici della sinistra laburista che avrebbero dato vita nel 1947 al gruppo «Keep Left» - si trovava così priva di una base materiale prima ancora che se ne potesse verificare la consistenza politica <18.
Sulla base della ricostruzione che si è sommariamente proposta, il tornante del 1947-48 - con il definitivo collasso dell’alleanza internazionale del tempo di guerra e la transizione verso il nuovo contesto di guerra fredda - assume per le vicende della sinistra europea un carattere di rivelazione, ma non di rottura improvvisa e inaspettata. La catena di eventi che va dall’enunciazione della dottrina Truman nel marzo del 1947 fino al colpo di Stato comunista a Praga nel febbraio dell’anno successivo - passando per la fine dei governi di coalizione nazionale in Belgio, Francia e Italia, il lancio del Piano Marshall e la fondazione del Cominform - mise le forze politiche europee di fronte all’obbligo di
scelte qualificanti, che insieme mostrarono e approfondirono la divaricazione in atto fra le prospettive politiche di socialisti e comunisti.
Per i partiti occidentali fu paradigmatico l’atteggiamento verso il piano di aiuti americani. Denunciandolo come strumento aggressivo volto all’imposizione di una supremazia del capitale statunitense sull’Europa, i comunisti si uniformavano alla politica di arroccamento del blocco sovietico, a dispetto della diversa collocazione geopolitica, assumendo una posizione difficile da giustificare davanti alle opinioni pubbliche nazionali che rischiava di mettere in dubbio il loro profilo di forze di governo. Con la bandiera dello sviluppo economico e dell’integrazione del mondo occidentale saldamente nelle mani degli Stati Uniti, per i partiti comunisti si materializzava la prospettiva di un’opposizione di durata indefinita, da sostenere facendo ricorso al supporto simbolico e materiale derivante dall’esistenza di un gruppo di stati a regime socialista guidato dall’Unione Sovietica <19. Con poche eccezioni, i partiti socialdemocratici trovarono invece il loro posto sotto l’ampio ombrello della coalizione euroamericana. In particolar modo laddove i socialisti rappresentavano la forza egemone della sinistra, i fondi Marshall sostennero una visione riformista basata sull’utilizzo dell’intervento statale per correggere le disfunzioni dei mercati e promuovere politiche sociali, tutelando tuttavia la struttura capitalistica e l’apertura internazionale dell’economia: degli Usa, in questo caso, si promuoveva un’immagine democratico-newdealista <20.
La guerra fredda non giunse insomma ad interrompere un processo di ricomposizione del contrasto fra comunisti e socialdemocratici, per il quale mancavano basi condivise. Il nuovo clima, tuttavia, influì in maniera decisiva su quel contrasto, stabilizzandolo, mutandone il contesto, e conferendogli caratteri nuovi che ne riconducevano la dinamica a quella del conflitto ideologico e strategico bipolare. Gli spazi di dialogo che l’antifascismo aveva reso immaginabili si chiudevano irrevocabilmente, divisioni e incompatibilità venivano cristallizzate nell’adesione ad organizzazioni separate e non comunicanti: le opzioni politiche si configuravano come scelte di civiltà. Nell’efficace sintesi di Alain Bergonioux e Gerard Grunberg: «la divisione del mondo si è sovrapposta alla divisione del movimento operaio, l’ha inasprita e fissata per lunghi anni» <21.
La prima conferenza del Cominform (settembre 1947) canonizzava per il movimento comunista la visione dicotomica della politica internazionale propria della dirigenza sovietica. Nel rapporto presentato all’assemblea, l’ideologo sovietico Andrej Ždanov trattava le socialdemocrazie europee come appendici del “campo imperialista” guidato dagli Stati Uniti: passato il tempo degli appelli unitari, si invitava ora il movimento comunista a «serrare i ranghi […] contro l’imperialismo americano, contro i suoi alleati francesi e britannici, e contro i socialisti di destra» <22.
L’adeguamento dell’internazionalismo socialista al nuovo quadro seguì un percorso più complesso. Posti di fronte al rischio di vedere il proprio spazio internazionale schiacciato dalla contrapposizione fra i blocchi, i partiti socialisti si trovavano nella necessità di marcare la distanza dai comunisti, tutelando allo stesso tempo la specificità della propria proposta politica nel campo delle forze occidentali. La soluzione del primo aspetto della questione fu accelerata, più ancora che dalla fondazione del Cominform, dal “colpo di Praga” del febbraio 1948, che consumò ogni residua fiducia nell’Urss e nella possibilità di una politica autonoma dei socialisti dell’Europa orientale, presentando la divisione del continente come una brutale realtà. Il mese successivo, nella riunione di Londra del nuovo «Comitato internazionale delle conferenze socialiste» (Comisco), fu ufficializzata la rottura con le organizzazioni esteuropee, ormai assorbite nell’orbita comunista e giudicate non più rappresentative di un socialismo democratico per il quale non c’era più spazio nei paesi di “democrazia popolare” <23. La sorte dei partiti socialisti dell’Est fu assunta a paradigma e monito (la collaborazione con i comunisti che si traduce nell'annientamento del partner) e nel giro di un anno furono regolati anche i rapporti con il Partito socialista italiano, espulso nel maggio del 1949 dopo aver rifiutato di abbandonare il Patto di unità d’azione con il Pci <24.
Stabilito con nettezza il cleavage anticomunista, il movimento socialista restava lontano dalla realizzazione di un efficace coordinamento operativo. La sua area d’azione era limitata al campo occidentale, dove i network sovranazionali di gran lunga più rilevanti erano quelli della cooperazione euroamericana legata al Piano Marshall e poi all’Alleanza atlantica - ambiente nel quale si stava affermando l’influenza di leader centristi o conservatori come De Gasperi, Schuman, Adenauer <25. Continuava poi a mancare un discorso comune su numerose questioni internazionali, a cominciare da quella europea: i partiti dell’Europa continentale - con l’eccezione di quello tedesco - rimanevano tendenzialmente favorevoli alle politiche di integrazione, britannici e scandinavi scettici e concentrati sulla propria “via nazionale”.
L’Internazionale socialista - fondata infine a Francoforte, con la Conferenza del giugno-luglio 1951 - nasceva dunque come centro di coordinamento fra partiti che mantenevano una piena autonomia, privo di poteri sostanziali e dotato di mezzi finanziari modesti <26: la sua funzione principale sarebbe rimasta a lungo, meramente, quella di affermare l’esistenza del socialismo democratico come movimento internazionale, e di definirne i confini attraverso i meccanismi di inclusione ed esclusione. Il denominatore comune a livello ideologico era individuato nel tema della democrazia: quella economica, contro il capitalismo non regolato; quella politica, contro il comunismo. La priorità assegnata alla questione democratica - è stato osservato - implicava la possibilità di raggiungere l’auspicato «sistema di giustizia sociale, di vita migliore, di libertà e di pace» muovendo dal quadro del liberalismo occidentale, all’interno del quale poteva esplicarsi l’azione riformatrice dei socialisti. La transizione era invece impossibile nel sistema sovietico, impermeabile alle logiche della democrazia. Ogni comunanza di obiettivi con il comunismo - annoverato fra le forze ostili che minacciavano e ritardavano lo sviluppo socialista - era dunque respinta, fino alla rinnegazione di una comune ascendenza politica: «a torto il comunismo si richiama alle tradizioni socialiste, in realtà le ha sfigurate al punto di renderle irriconoscibili», si leggeva nella «Dichiarazione» conclusiva della conferenza <27.
Con la riunione di Francoforte - sbeffeggiata sull’organo ufficiale del Cominform come «un incontro fra incalliti agenti di Wall Street» <28 - si completava la formalizzazione della nuova frattura fra comunismo e socialdemocrazia. Per l’intero periodo della guerra fredda, i rapporti fra i due movimenti avrebbero avuto come punto di partenza questo stato di reciproca estraneità. Si trattava, in buona misura, di una condizione che ricalcava quella generale delle relazioni Est-Ovest, e che di queste seguiva gli sviluppi: la sua gestione politica, tuttavia, fu differente nei due raggruppamenti.
La scelta isolazionista del blocco orientale, sebbene mai rivista nei suoi dati di fondo, lasciava infatti spazio ad occasionali aperture tattiche verso i socialdemocratici europei. In particolar modo dopo la morte di Stalin, le loro tradizioni pacifiste li facevano individuare come possibili interlocutori per le iniziative distensive della leadership sovietica, periodicamente alla ricerca di un allentamento della pressione del confronto mondiale. La stessa articolazione del movimento comunista - paradossalmente, l’unica rete politica transnazionale paneuropea - poneva poi la questione di un rapporto con il complesso della sinistra europea occidentale.
Il campo socialdemocratico, con minime eccezioni e sfumature, si mostrò invece indisponibile a deflettere dalla rigida presa di distanza dal comunismo. In parte, influivano su questa scelta i riflessi della guerra fredda sulla politica nazionale: moderati e conservatori avevano gioco facile a fare un uso estensivo della retorica che opponeva socialismo e libertà, mettendo in discussione le credenziali ideologiche dei socialdemocratici e obbligandoli ad aumentare la prudenza nelle iniziative internazionali e il controllo sulle tendenze eterodosse presenti in seno ai partiti <29.
Al di là di questi condizionamenti esterni, l’elemento decisivo era tuttavia costituito dalla profonda sfiducia accumulata verso l’Unione Sovietica e dalla ferita della liquidazione dei partiti socialisti dell’Europa orientale, rinnovata nel decennio successivo dagli interventi militari a Berlino e Budapest <30.
Ormai ridotta la portata del richiamo che l’esperimento sovietico aveva esercitato su ampi settori del socialismo democratico <31, restava il confronto con la realtà rappresentata dalla presenza comunista, sul continente europeo e altrove. Da un lato, dunque, la sua dimensione statuale: l’Urss, quale grande potenza, e un gruppo di Paesi che annoverava fra gli altri, oltre alle democrazie popolari, il colosso cinese. La peculiare compenetrazione fra Stato e partito tipica dei regimi comunisti giustificò, nell’ambito delle relazioni diplomatiche, scambi di visite con delegazioni dei partiti socialisti europei: esperienze per la verità poco significative, realizzate a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta in corrispondenza con i primi segnali di un allentamento della tensione fra Est e Ovest. Si possono ricordare, ad esempio, i colloqui sovietici con britannici e francesi, del 1956: i socialisti, all’imbarazzata ricerca di un atteggiamento sufficientemente severo anche nel momento del dialogo, tentavano in queste occasioni di definire un profilo che li distinguesse dagli oltranzisti del confronto bipolare <32. Le iniziative restavano in ogni caso limitate ai singoli partiti, ferma restando l’opposizione dell’Internazionale a tutto ciò che fosse interpretabile come cedimento alle avances sovietiche. La funzione politica dei socialdemocratici era di fatto concepita sul terreno nazionale (integrato, generalmente, con la partecipazione alla collaborazione europea e atlantica); il rapporto con il campo orientale sembrava fonte di rischi più che di opportunità <33. Solo in seguito, con la piena affermazione della distensione internazionale, questa situazione avrebbe conosciuto un parziale mutamento, corrispondente all’assunzione da parte del socialismo europeo di un profilo internazionale più autonomo e ambizioso.
L’altra realtà comunista con la quale confrontarsi, per il momento, era quella dei partiti operanti nel campo occidentale. Vista la loro diffusione disomogenea, il rapporto con i partiti comunisti era una questione che interessava quasi esclusivamente gli Stati all’interno dei quali la loro presenza era significativa - Finlandia, Francia, Italia -, mentre la politica dell’Internazionale si limitava all’affermazione del criterio di demarcazione.
[NOTE]
1 Cfr. T. Judt, Postwar. A History of Europe Since 1945, Penguin Press, New York 2004, p. 66; D. Sassoon, One Hundred Years of Socialism. The West European Left in the Twentieth Century, I.B. Tauris, New York London 20103, pp. 83-84.
2 Cfr. G. Eley, Forging Democracy. The History of the Left in Europe, 1850-2000, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 288-291; A. Agosti, Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi europei, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 145-158.
3 Cfr. W.I. Hitchcock, Il continente diviso. Storia dell’Europa dal 1945 ad oggi, Carocci, Roma 2003, pp. 55-64; C.A. Stazzi, “And Now – Win the Peace!”. I laburisti inglesi e il Welfare State (1945-1950), in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 1/2012.
4 Per le quali cfr. ad esempio G-R. Horn, I rapporti tra la Seconda e la Terza Internazionale (1932-1935), in «Passato e Presente», n. 28, 1993, pp. 79-106, e più in generale L. Rapone, La socialdemocrazia europea tra le due guerre. Dall’organizzazione della pace alla resistenza al fascismo, 1923-1936, Carocci, Roma 1999.
5 G. Devin, L’Internationale socialiste. Histoire et sociologie du socialisme international (1945-1990), Presses de la Fondation nationale des Sciences Politiques, Paris 1993, pp. 15-16.
6 Ivi, pp. 19-25.
7 S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale (1917-1991), Einaudi, Torino 2012, p. 152.
8 Ivi, pp. 177-185.
9 P. Togliatti, La ricostituzione della Seconda Internazionale?, in «l’Unità», 11 marzo 1945.
10 Palme Dutt, Socialdemocrazia e comunismo, in «Rinascita», luglio 1946, pp. 165-166.
11 Cfr. C. Spagnolo, Tra antifascismo e anticomunismo. Aspetti della stabilizzazione dell'Europa occidentale nella formulazione della politica estera americana (1944-47), in F. De Felice (a cura di), Antifascismi e Resistenze, cit., pp. 491-515; F. Romero, Antifascismo e ordine internazionale, in A. De Bernardi, P. Ferrari, Antifascismo e identità europea, Carocci, Roma 2004, pp. 235-241.
12 Particolarmente critico, naturalmente, era il punto dell’attribuzione alla sola socialdemocrazia della rottura dell’unità operaia. Sulla continuità di questa lettura con l’epoca del Comintern cfr. P. Togliatti, Corso sugli avversari. Due lezioni inedite sulla socialdemocrazia, a cura di F. Biscione, in «Studi Storici», 2/2005, pp. 296-97.
13 Cfr. M. Flores, L’antifascismo come ideologia di Stato nell’Europa orientale, in A. De Bernardi, P. Ferrari, Antifascismo e identità europea, cit., pp. 235-241. Per un inquadramento generale del processo, cfr. N. Naimark, The Sovietization of Eastern Europe, in M.P. Leffler, O.A. Westad (a cura di), The Cambridge History of the Cold War, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 2010, pp. 175-97.
14 Cfr. S. Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della guerra fredda, Carocci, Roma 1999. Sulla politica di unità della sinistra in Italia cfr. S. Sechi, S. Merli, Dimenticare Livorno. Sul partito unico dei lavoratori (1944-1947), SugarCo, Milano 1985.
15 F. De Felice, Introduzione, in Id. (a cura di), Antifascismi e Resistenze, Carocci, Roma 1997, p. 35. Cfr. anche S. Pons, Comunismo, antifascismo e “doppia lealtà”, in Id. (a cura di), Novecento Italiano. Studi in ricordo di Franco De Felice, Carocci, Roma 2000, pp. 283-98.
16 D. Sassoon, One Hundred Years of Socialism, cit., p. 167. Si vedano anche le osservazioni di E. Pugliese, Nazionale e globale nella rinascita dell’Internazionale socialista (1945-1951), in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 1/2012, pp. 2-7.
17 Cfr. W. Loth, Socialist parties between East and West, in A. Varsori, E. Calandri (a cura di), The Failure of Peace in Europe, 1943-48, Palgrave, Basingstoke 2002, pp. 140-142.
18 Cfr. R. Vickers, The Labour Party and the World, vol. I, The Evolution of Labour’s Foreign Policy, 1900-1951, Manchester University Press, Manchester 2004, pp. 159-181; J. Callaghan, The Labour Party and Foreign Policy: A History, Routledge, New York-London 2007, pp. 161-190. Sulla questione dell’autonomia europea si vedano le osservazioni di C. Spagnolo, La sinistra europea e la sfida della cittadinanza (1944-1960), in R. Gualtieri (a cura di) Il Pci nell’Italia
Repubblicana 1943-1991, Carocci, Roma 2001, pp. 195-97.
19 S. Pons, L’impossibile egemonia, cit., pp. 189 e ss.; Id, La rivoluzione globale, cit., pp. 255 e ss.
20 G. Eley, Forging Democracy, cit., pp. 314-316. Cfr. anche W.I. Hitchcock, The Marshall Plan and the Creation of the West, in M.P. Leffler, O.A. Westad (a cura di), The Cambridge History of the Cold War, vol. I, cit, pp. 154-74.
21 A. Bergonioux, G. Grunberg, L’utopie à l’épreuve. Le socialisme européen au Vingtième siècle, Editions de Fallois, Paris 1996, p. 176.
22 G. Procacci (a cura di), The Cominform. Minutes of the Three Conferences, 1947/1948/1949, Annali della fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Feltrinelli, Milano 1994, p. 381.
23 Cfr. G. Devin, L’Internationale socialiste, cit., pp. 29-33. Sulla portata dello shock di Praga si veda anche J. Braunthal, History of the International, vol. III, 1943-1968, Westview Press, Boulder (CO) 1980, pp. 181-194.
24 Cfr. S. Colarizi, I socialisti italiani e l’Internazionale socialista: 1947-1958, in «Mondo Contemporaneo» 2/2005, pp. 17-23. Sui tentativi del Labour Party di mantenere aperto il dialogo con il Psi cfr. A Varsori, Il Labour Party e la crisi del socialismo italiano (1947-1948), in I socialisti e l’Europa, Annali della Fondazione Giacomo Brodolini, Franco Angeli, Milano 1989.
25 Cfr. D. Sassoon, One Hundred Years of Socialism, cit., pp. 170-171.
26 Sulle finanze dell’Internazionale cfr. G. Devin, L’Internationale socialiste, cit., pp.178-184.
27 Cfr. ivi, pp. 41-47. Le citazioni sono tratte dalla «Dichiarazione sugli obiettivi e i compiti del socialismo democratico» approvata a Francoforte, riportata in appendice al volume, pp. 363-370.
28 Cit. in J. Braunthal, History of the International, vol. III, cit., p. 206.
29 Cfr., per il caso inglese, D.G. Lilleker, Against the Cold War. The History and Political Traditions of Pro-Sovietism in the British Labour Party, 1945-1989, I.B. Tauris, London-New York 2004, pp. 68-136; P. Deery, ‘The secret battalion’: Communism in Britain during the Cold War, in «Contemporary British History», 4/1999, pp. 1-28.
30 Un memorandum redatto nel 1972 dall’International Department del Labour Party, riguardante i rapporti del partito con l’Unione Sovietica, riassumeva ad esempio in questi termini le ragioni della ferma opposizione degli anni Cinquanta: «È facile trovare la spiegazione di questa posizione. I partiti socialisti operavano in paesi dell’Europa occidentale profondamente sospettosi verso l’Unione Sovietica, e l’ostilità legata alla guerra fredda era ulteriormente intensificata dalla memoria del trattamento dei socialdemocratici nei paesi dell’Europa orientale dove i comunisti avevano conquistato il potere negli anni ‘40». Labour History Archive and Study Center, Manchester (d’ora in poi LHASC), Labour Party (LP), box 45, file 17: «The Labour Party and the Soviet Union», Tom McNally, 28th July 1972.
31 Restando al contesto inglese, essa si riduceva all’interesse della sinistra laburista per l’esperienza della pianificazione economica sovietica. Cfr. J. Callaghan, ‘The Unfinished Revolution’: Bevanites and Soviet Russia in the 1950s, in «Contemporary British History», 3/2001, pp. 63-82.
32 Cfr. M. Van Oudenaren, Détente in Europe, Duke University Press, Durham-London 1991, pp. 132-136; M.B. Smith, Peaceful coexistence at all costs: Cold War exchanges between Britain and the Soviet Union in 1956, in «Cold War History», 3/2012, pp. 537-558.
33 Da un altro punto di vista, l’atteggiamento socialdemocratico verso il campo sovietico può essere letto, attraverso le lenti proposte da Tony Judt, come un aspetto della generale «indifferenza alla scomparsa dell’Europa orientale» tipica degli europei dell’Ovest, abituatisi presto alla divisione del continente e comunque «così preoccupati dei notevoli cambiamenti in atto nei loro paesi, che sembrava quasi naturale che ci dovesse essere un’impermeabile barriera
armata che correva dal Baltico all’Adriatico». Cfr. T. Judt, Postwar, cit., p. 196. Faceva in ogni caso eccezione in questo quadro la socialdemocrazia tedesca, per la quale il rapporto con l’Europa orientale era questione nazionale di primaria importanza.
Michele Di Donato, PCI e socialdemocrazie europee. Da Longo a Berlinguer, Tesi di dottorato, Università degli Studi "Roma Tre", Anno Accademico 2012-2013