giovedì 28 luglio 2022

Ciò che emergeva dalla politica della Unes era la scelta di rifornire di elettricità zone scarsamente industrializzate


In rapporti molto stretti con la Sme, la Unes, Unione Esercizi Elettrici, riuscì in breve tempo a formare un monopolio anomalo rispetto alle altre holding elettriche del Paese. Infatti, la Unes non basò il proprio ramo produttivo sull’utenza di un’unica zona in continuità territoriale, ma forniva elettricità in aree geografiche a volte confinanti, a volte lontane anche centinaia di chilometri l’una dall’altra. Come rilevato dai documenti a disposizione, la Unes, nata l’11 febbraio 1905 dalla volontà di alcuni tecnici preparati dai corsi dei politecnici di Milano e Torino, distribuiva elettricità soprattutto nella zona dell’Adriatico centrale, tra l’alta Puglia, l’Abruzzo, le Marche, parte del Lazio orientale e del nord-est della Campania, e riuscì anche a ritagliarsi una piccola fetta di mercato in alcuni comuni della Toscana <163 e della Liguria. Ciò che emergeva dalla politica della Unes era la scelta di rifornire di elettricità zone scarsamente industrializzate, dedicandosi soprattutto ai piccoli consumi domestici e poco più. Con tutta probabilità l’Unione scelse quelle zone poiché credeva in un loro potenziale sviluppo, oppure perché il mercato elettrico dei monopoli regionali aveva già occupato i territori che avevano bisogno di energia per fini industriali. Un’ulteriore influenza fu esercitata sulla società quando entrò nell’orbita Comit, la quale probabilmente fu la vera artefice di alcune scelte aziendali. Tuttavia, però, la Unes salì tardi alla ribalta del grande mercato elettrico, quando i grandi gruppi avevano già fatto incetta di concessioni nelle loro zone di competenza, ammazzando un’ipotetica concorrenza.
[...] Con la guida superiore dei Pirelli e degli Orlando, e con la supervisione del Credit, il gruppo La Centrale riuscì ad incrementare le proprie attività produttive e finanziarie per tutti gli anni Venti, sia nel ramo elettrico che telefonico. Prima dell’inizio degli anni Trenta il gruppo era proprietario di importanti pacchetti azionari attraverso la stessa gestione delle due grandi società componenti, la SELT-Valdarno e la SRE, che a loro volta controllavano una miriade di piccole distributrici: la Mineraria, la Littoranea, la Forze Idrauliche A. C., la Maremmana, la Laziale, la Tiberina, la Mediterranea, la Lazio-Sabina, ecc., con un volume di affari di centinaia di milioni di lire. Così, il ramo elettrico si estendeva per un territorio comprendente tutta la Toscana e la maggior parte del Lazio, fino a Formia, mentre il ramo telefonico, grazie alla TETI, si prolungava verso la Liguria e la Sardegna: da San Remo a Fondi, da Terranova a Cagliari <195.
[...] La Storia della Unione Esercizi Elettrici è singolare nel suo genere, perché questa società, sorta a Milano nel 1905 con l’operato di Emilio De Benedetti, assunse subito grande rilievo nel panorama elettrico italiano. Tuttavia la storiografia ha ignorato la ricostruzione di questo importante gruppo, forse perché venne incorporato nella Sme e si spense la sua funzione di monopolio elettrico, forse perché la Unes, dopo la nazionalizzazione del settore elettrico, non riconvertì le sue attività in altri campi, ma venne assorbita dalla Italsider, cessando di fatto la sua esistenza <428. In circa vent’anni la Unes riuscì a ritagliarsi un posto di spicco tra le aziende elettriche italiane, con il sostegno della Banca Commerciale e infiltrandosi in un contratto fornitura tra la Sme e l’Ilva <429: l’Unes poteva sfruttare i piccoli corsi d’acqua non interessanti per la Sme e doveva acquistare dalla Meridionale l’energia elettrica necessaria per poter attivare un’espansione territoriale del suo servizio, soprattutto in Abruzzo <430.
Così, dagli anni venti, con impianti e contratti di fornitura energetica, l’Unes serviva una zona a scarsa vocazione industriale, e legata per di più ad attività agricole; ma, accanto al nucleo centrale di fornitura dell’azienda, la Unes riuscì a strappare piccole fette di mercato ai grandi monopoli elettrici regionali nel nord Italia. In sintesi la Unione serviva: la zona Marche-Umbria-Abruzzo <431, la Val di Susa, la Val Tanaro e Bormida (province di Cuneo, con delle diramazioni in Liguria fino alla riviera di Ponente), zona Lago Maggiore (Val d’Ossola), parte della Toscana (Versilia, parte della provincia di Siena e Grosseto), zona di La Spezia e riviera di Ponente <432.
Nonostante questa dispersione di servizio, gli investimenti della società per il sistema dell’Italia centrale erano il quadruplo rispetto agli altri messi insieme.
[NOTE]
163 ASEN, sez. Firenze, accordi Selt-Unes, Scaff. FI K13/A, carte non inventariate. Nei resoconti degli accordi tra la Selt e la Unes emerge che la zona di influenza di quest’ultima era racchiusa nell’odierna zona di Massa, tra il Monte Altissimo e Migliarino, e comprendeva centri importanti come Viareggio e Pietrasanta.
195 La Centrale. Società per il finanziamento di imprese elettriche, a cura di, Fontana, Milano, 1933. Questa fonte bibliografica è di indiscusso valore per intendere le potenzialità del gruppo La Centrale a solo otto anni dalla sua fondazione. Questa holding risultava tra le più solide negli anni Venti, e riuscì a resistere alla grave crisi bancaria scaturita dal crollo di Wall Street, nonostante il suo volume di affari fosse colpito inesorabilmente, essendo il gruppo interno alle dinamiche finanziarie delle banche miste.
428 Sulla Unes non sono stati pubblicati lavori di sintesi che possano dare una degna ricostruzione della storia di questo importante polo elettrico per l’Italia centrale e meridionale. Tuttavia, si può far riferimento a una tesi di laurea di A. Fanucci, Storia di una grande impresa elettrica dimenticata. La Unione Esercizi Elettrici dalle origini alla seconda guerra mondiale, Tesi di laurea in economia, relatore Luciano Segreto, Università degli Studi di Ancona, a.a. 1991-1992.
429 Cfr. G. Bruno, Capitale straniero e industria elettrica nell’Italia meridionale, in «Studi storici», n.4, 1987, pp. 943-984.
430 Accordo del 1917 tra Sme e Ilva; sul caso, cfr. V. Ferrandino, M.R. Napolitano, a cura di, Storia d’impresa e imprese storiche. Una visione diacronica, Franco Angeli, Milano, 2014.
431 Che rappresentava la zona principale di fornitura della società.
432 ASIRI, rossa, sistemazione Unes, 16/2/1934, busta STO/519.
Gerardo Cringoli, L’integrazione competitiva. L’industria elettrica italiana prima della nazionalizzazione, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, 2017

L’industria elettrica, superata la fase sperimentale, si inserì nello sviluppo industriale nazionale dell’inizio del secolo, fornendo energia alle nascenti industrie meccaniche, chimiche e del cemento. Tra gli elementi di primaria importanza figura quello tecnico-manageriale: le prime applicazioni dell’elettricità risalgono agli inizi del 1880, perciò già all’inizio del Novecento si erano formate competenze tecnico-scientifiche, grazie all’attivazione dei corsi universitari d’ingegneria industriale ed elettrotecnica. Proprio dai politecnici di Milano e Torino uscirono alcuni giovani ingegneri che abbinando competenza scientifica e capacità imprenditoriali, fondarono nel 1905 la Unes. In questo genere di attività quelle virtù non erano, però, condizioni sufficienti, a causa dell’enorme costo degli impianti, specie quelli idroelettrici, i quali necessitavano di colossali opere di sbarramento, di condotte forzate e dell’acquisto di macchinari in continua evoluzione (quasi sempre di provenienza estera). Se la stessa società intendeva anche distribuire l’energia prodotta, ai costi di produzione, si sommavano quelli necessari per la palificazione delle linee, per la costruzione di cabine di trasformazione e smistamento e per la manutenzione ed assistenza agli utenti. Per fronteggiare questa ingente necessità di capitali gli industriali elettrici dovettero far ricorso, spesso fin dalla nascita, a potenti finanziarie straniere, prevalentemente tedesche e svizzere, a causa della scarsa accumulazione realizzata fino ad allora dal nostro sistema capitalistico. Poiché quelle holding erano quasi sempre emanazione di industrie elettromeccaniche, all’attività creditizia abbinarono la vendita di macchinari delle proprie case madri.
Tra le grandi banche “miste” Italiane che per prime investirono copiosamente nel settore elettrico spiccano, anzitutto, la Banca Commerciale Italiana e, in misura minore, il Credito Italiano e la Banca Italiana di Sconto. Per quanto concerne le altre banche, esse non avevano ancora quella larghezza di capitali necessaria per entrare direttamente in un settore tanto impegnativo. La guerra fece la fortuna dei grossi gruppi finanziari ed industriali nazionali che, grazie alle commesse belliche, poterono incrementare le loro disponibilità. Parallelamente crebbe l’influenza che poterono esercitare nei consigli di amministrazione delle società in cui amministratori e consiglieri, di origine o di nazionalità tedesca furono costretti a dimettersi.
Per quanto concerne la UNES, essa trovò conveniente allearsi alla Banca Commerciale per poter realizzare compiutamente le proprie strategie, volte all’integrazione verticale del processo produttivo resa necessaria dalla rigidità del sistema che contemplava una preponderanza assoluta dei costi fissi su quelli variabili. Inoltre il tipo di mercato instauratosi era oligopolistico: pertanto le più grandi imprese, e la UNES era tra queste, si erano ritagliate delle aree geografiche d’influenza, inglobando, man mano, le piccole centrali e facendo incetta di concessioni nelle rispettive zone d’influenza anticipando così i potenziali concorrenti. In tal modo le barriere all’entrata non erano soltanto dovute alle economie di scala (e conseguentemente alle tariffe più basse), bensì anche e soprattutto al gran numero di utenti collegati alla rete distributiva in maniera quasi indissolubile.
Aleandro Fanucci, Storia di una grande impresa elettrica dimenticata. La Unione Esercizi Elettrici dalle origini alla seconda guerra mondiale, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Ancona, Anno Accademico 1991-92

mercoledì 27 luglio 2022

Altre visioni della camorra nel cinema degli anni Ottanta


La rappresentazione in chiave di commedia della sempre più penetrante presenza camorristica in città è quella proposta da "Così parlò Bellavista", esordio cinematografico (cosceneggiato assieme allo scrittore e attore Riccardo Pazzaglia) del popolarissimo ingegnere-scrittore Luciano De Crescenzo <193. Nel film, un gradevole mosaico di tipi e “fatterelli” di quotidiana napoletanità, troviamo - tra tanti altri - il personaggio di Core ’ngrato (Lucio Allocca), un ometto dal rassicurante aspetto impiegatizio che invece lavora come “esattore” per conto della camorra. Visto che il suo lavoro lo porta in giro per i negozi, Core ’ngrato arrotonda lo stipendio vendendo qualche prodotto scadente ai suoi “clienti” («accendini americani», orologi, ecc.). Quando si presenterà un camorrista (Nunzio Gallo) di un clan avverso a quello per cui lavora Core ’ngrato per chiedere la tangente legittima (perché quel numero civico spetta al suo gruppo), il protagonista, il professore Bellavista (interpretato dallo stesso De Crescenzo), ne approfitta per una perorazione a difesa del «napoletano d’amore» e all’insegna di un common sense partenopeo: «La notte mettete una bomba sotto una saracinesca, e vi sentite degli eroi! Magari al piano e sopra sta ’nu povero vicchiariello ca c’appizza ’a pelle! Ma a vuje che ve ne ’mporta, siete disoccupati, avete l’alibi morale. Siete napoletani e ammazzate Napoli. Eh già, perché ci sono i commercianti che falliscono, le industrie che chiudono, i ragazzi che sono costretti ad emigrare.., ah già, poi volevo dì un’altra cosa: ma tutto sommato, nun è che fate ’na vita ’e mmerda? Perché penso io: Gesù sì, fate pure i miliardi, guadagnate, però vi ammazzate tra di voi, poi anche quando non vi ammazzate tra di voi, ci sono le vendette trasversali, vi ammazzano le mamme, le sorelle, i figli, ma vi siete fatti bene i conti? Vi conviene?».
Spinge decisamente sul tasto dell’umorismo grottesco, spesso vacuamente sopra le righe, l’esordio alla regia del 1987 di Giancarlo Giannini (già protagonista - lo si ricorderà - del “seminale” "Mi manda Picone"). Il titolo del film è "Ternosecco", e la sceneggiatura è firmata dal giornalista Lino Jannuzzi. Il protagonista Mimì (lo stesso Giannini), esperto di lotto e della Smorfia, si trova alle prese con il superboss della camorra don Salvatore (George Gaynes), che vive in carcere circodato dal lusso e dai suoi tirapiedi (una probabile allusione al “personaggio” Raffaele Cutolo). Ancora nella commistione tra giallo (il film si apre con l’omicidio della fidanzata di Mimì, interpretata da Victoria Abril, un’altra presenza spagnola) e commedia, il film punta a una deformazione estrema della Napoli labirintica e promiscua già protagonista degli altri film citati, senza aggiungere molto all’immagine di una città tentacolare e popolata da un’umanità mostruosa, deformata, se non appunto in termini di esasperazione grottesca (date anche le generose incursioni nella realtà onirica del protagonista, non a caso sedicente interprete dei sogni altrui).
Il decennio si chiude con un’altra rappresentazione della criminalità mediata dal filtro del genere e dell’immancabile repertorio della napoletanità, anche se nel frattempo appare ormai esaurito il filone del giallo partenopeo. Si tratta di "Scugnizzi", la cui sceneggiatura è cofirmata, insieme con il regista, dall’ormai immancabile Elvio Porta <194. Si tratta di una sorta di musical d’impegno civile la cui azione si svolge intorno all’allestimento di uno spettacolo realizzato dall’impresario teatrale squattrinato Fortunato Assante (Leo Gullotta) con un gruppo di ragazzi detenuti del carcere minorile di Nisida. Alle scene delle prove e della rappresentazione al teatro San Carlo davanti alle famiglie dei detenuti, si inframmezzano numerosi flashback che raccontano le storie dei singoli giovani: c’è chi ha rubato per fame, chi è stato irretito dalla malavita organizzata, chi ha commesso uno sgarro alla camorra che pagherà con la propria vita. Assante, all’iniziale interesse puramente economico con cui inizia la sua impresa sostituirà man mano un sentimento di solidarietà e affetto per i ragazzi, essenzialmente vittime di un mondo di violenza, di miseria, e dell’indifferenza di una città la cui «magnifica gente» (come sentiamo in uno dei brani musicali più noti del film, quello che chiude lo spettacolo) sembra più interessata alla finale di coppa Uefa che al destino dei suoi figli più sfortunati. L’opposizione, come molte altre cose del film, appare in fondo forzata. La camorra vi è rappresentata come una sorta di diavolo adescatore (si veda il tentativo di assoldamento di un piccolo e truffaldino venditore ambulante da parte di un boss) per una gioventù che, in fin dei conti, non sembra avere molta scelta: «La camorra è il mestiere del futuro, è roba per i giovani!», grida un poveraccio dalla porta del basso. E quando vi rimangono invischiati, questi giovani finiscono ovviamente per soccombere. Tra femminielli che adottano orfani, il ragù della mamma, disoccupati suicidi e un inno ai topi di fogna, alle «zoccole» che popolano la città e condividono gli angusti e malsani spazi con gli uomini, senza traumi, "Scugnizzi" rinnova l’iconografia della città dolente ma vitale, disperata e però sempre capace di sopravvivere a se stessa <195. Rimane un senso di malinconia, che forse è la nota più originale del film, una malinconia che è anzi, probabilmente, uno dei comuni denominatori di alcuni dei film che abbiamo passato in rassegna.
Quello che pare prevalere è infatti un senso di rassegnazione, un sentimento di impotenza a cui i napoletani rispondono con il loro armamentario di stereotipi, dal culto della maternità al canto liberatorio, atavico e, almeno in parte, catartico.
[NOTE]
193 Su De Crescenzo, abilissimo “fabbricatore” di best sellers, spesso declinati secondo una napoletanità garbata e spiritosa e che si tradurrà anche in qualche sortita cinematografica, cfr. il giudizio di Palermo (1995, p. 18), che accosta questo scrittore al vecchio Marotta: anche in questo caso si tratterebbe di un successo «non effimero eppure inspiegabile».
194 La musica è composta da Claudio Mattone, il quale poi, insieme con Enrico Vaime, scriverà il musical teatrale di grande successo "C’era una volta… Scugnizzi", andato in scena per la prima volta nel 2002 all’Augusteo di Napoli e poi più volte replicato nel corso degli anni.
195 Il prodotto successivo del sodalizio tra Loy e Porta sarà proprio un “carosello” di truffe, raggiri e imbrogli, "Pacco, doppiopacco e contropaccotto" (1993), vero e proprio panegirico di una supposta genialità napoletana votata alla sopravvivenza, e tutta tesa a “fare fesso” il gonzo di turno.
Paolino Nappi, La camorra immaginata. La criminalità napoletana tra letteratura, teatro e cinema dall'Unità agli anni Ottanta del Novecento, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Valencia, 2014

domenica 24 luglio 2022

I Bucaneve

Acis nicaeensis (Ardoino) Lledó, A.P. Davis & M.B. Crespo. Fonte: Acta Plantarum

In passato, la fioritura del Galanthus nivalis e del Leucojum vernum  segnava l'inizio precoce della primavera, in anticipo rispetto all’equinozio del 21 marzo: oggi, le mutazioni climatiche inducono, il ‘fiore di febbraio’ ad anticipare lo sboccio a gennaio e, di conseguenza, vale anche per i nati in questo mese la presunta copertura simbolica di speranza e di consolazione, di passaggio dal dolore a un nuovo inizio.
Nella tradizione celtica, il bucaneve era dedicato alla festa di Imbolc, una delle quattro “Cerimonie del fuoco” perché interamente incentrate sull’accensione rituale di falò. Nello specifico la ricorrenza celebrava la fiamma come dispensatrice di luce, perché il sole  inizia ad ampliare la sua presenza quotidiana.
Tutti i popoli antichi, molto attenti ai mutamenti di stagione, salutavano, in particolare l'atteso risveglio della Natura. Gli abitanti dei villaggi si radunavano per onorare, tutti assieme, la loro Dea della Luce; nell’Europa celtica si pregava Brigit (alias Brighid o Brigantia come nella vicina Briga Marittima), considerata la dea del triplice fuoco; infatti era la patrona dei fabbri, dell’ispirazione artistica e dell’energia guaritrice.  Anche nella tradizione cristiana dove convivono tuttora diversi soprannomi popolari per i Bucaneve (Campana della Candelora, Fiore della purificazione o Stella del mattino) il 2 febbraio gli altari delle Chiese venivano addobbati con i Bucaneve; coincide con il quarantesimo giorno dopo la Natività, dedicato alla celebrazione della Candelora (si benedicono delle candele come simbolo della luce della speranza per il mondo rappresentata da Gesù bambino).
Il 2 febbraio, è anche giorno della Presentazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme come neonato primogenito e la Festa della purificazione di Maria rivestendo, anche per la tradizione popolare, il valore simbolico della speranza perché  con la sua rinascita annuale rassicura l’umanità sull’imminente risveglio della natura e sul ritorno della bella stagione.
Infatti, per questi motivi, e per il suo candore, il Bucaneve è elevato a simbolo della purezza. Portarne uno fra le vesti indurrebbe a comportarsi onestamente, mentre per il linguaggio dei fiori, comunicherebbe simpatia, ottimismo, virtù; soprattutto se lo esibisce una sposa o decora una cerimonia nuziale. Per contro, il Bucaneve fu anche  gravato di  presagio di morte perché sbocciava diffusamente in molti cimiteri.
E’ leggendario anche il racconto tedesco su Dio che, completando la Creazione della Terra, chiese alla neve di scendere sui fiori per tingere le corolle, ma opposero un secco rifiuto: tutti, ad eccezione del Bucaneve. Da allora, per  ricompensarlo, la neve lo lascia fiorire solitario, ogni anno in anteprima, anticipando lo spettacolo primaverile. Secondo un’antica narrazione moldava, la Primavera, allora si trattava di una bellissima donna, litigava ogni anno con la Strega dell'inverno che non voleva mai cederle il posto. La bella stagione risolse la disputa pungendosi un dito; nei punti in cui erano cadute le gocce di sangue si sciolse la neve e spuntarono i prototipi dei Bucaneve.  
Una popolare leggenda attribuisce la nascita dei diversi Bucaneve all’intervento di un ignoto angelo disceso sulla terra a consolare Eva, ancora affranta dopo la cacciata dal Paradiso, piangente e disperata per tutti i fiori abbandonati nei giardini dell’Eden.
Con lo scopo di alleviare in qualche modo il cocente dolore della prima donna il sacro volatile pensò di trasformare i fiocchi di neve in altrettanti Galanthus nivalis, o Leucojum vernum, a seconda delle preferenze del lettore.
Molte specie di Bucaneve vivono anche in zone dove la bianca coltre invernale non è mai di casa, come nei monti dell'Egeo; tuttavia in Grecia è nata un'altra leggenda secondo la quale la tomba del primo sfortunato aviatore sarebbe nell’isola di Nikaria, patria di Dedalo. Secondo gli indigeni il vento mattutino, a primavera, continua a piangere la morte di Icaro con lacrime che sull’erba mutano forma e sostanza, assumendo le delicate sembianze di un Leucojum.
Infatti, quasi inaspettatamente, nel mese di febbraio, fra gli steli d’erba rigidi ed annientati dai gelidi mesi invernali, spuntano le campanelle bianche dopo aver vinto la resistenza del terreno ancora indurito con la punta acuta e consistente delle due foglioline congiunte.
Per questo motivo, nel linguaggio dei fiori, i Bucaneve si uniscono alle altre specie precoci quale simbolo di Speranza e di Sollievo per la fine della stagione più ingrata dell’anno; non si dicono d'accordo solo gli sciatori.  
Per incatenare a se la persona amata, secondo rituali per fortuna ormai in disuso, ci si dovrebbe recare all’alba sulla riva di un fosso per cercare Bucaneve appena nati ed ancora intirizziti per la brina; farne un bel mazzetto e gettarli in acqua ad occhi chiusi sussurrando il nome dell’oggetto del desiderio.
Quindi, riaprire lo sguardo ed attendere con trepidazione gli scherzi del destino: se la corrente porta i fiori lontano, è fatta; il partner desiderato non riuscirà più a sganciarsi. Se restano a riva è bene rivolgersi ad altro soggetto.
Favole e fantasie a parte, fra le diverse specie riportate alla luce dallo sciogliersi delle nevi, queste Amaryllidacee si dimostrano sicuramente fra le più impazienti e frettolose nel loro ciclo vegetativo. Dopo poche settimane di manifesta attività vitale passano dal precocissimo risveglio postinvernale ad un altrettanto precoce nuovo sonno; necessario, del resto, a preservarli dalle forti calure estive che non gradiscono.
E’ quasi d’obbligo per il profano confondere l’una con l’altra queste bulbose nane, sovente localizzate gomito a gomito negli stessi areali. La più evidente differenza morfologica consiste nella forma dei tepali candidi: tutti eguali nei Leucojum, mentre appaiono manifestamente diversi (i tre esterni più lunghi) nell’unico Galanthus nazionale.
Quest’ultima denominazione, nata in epoca relativamente recente, significa letteralmente "fiore di latte" e serve per descrivere il candido colore delle corolle, condiviso anche dai Leucojum, un termine nato invece nella lontana epoca classica. Furono i naturalisti greci ad usare il battesimo di "Viola bianca" per paragonarli alla Mammola, altra abituale staffetta della primavera.
Il Galanthus nivalis sovente fa coincidere la sua comparsa annuale con il periodo della Candelora (2 febbraio, Festa della purificazione di Maria) ed è per questo chiamato "Fiore della Purificazione", rivestendo, anche per la tradizione popolare, il valore simbolico della speranza.
Infatti, con la sua periodica rinascita rassicura l’umanità sull’imminente risveglio della natura e sul ritorno della bella stagione.  Leucojum vernum e Galanthus nivalis sono così apparentemente sovrapponibili nelle loro caratteristiche morfologiche che anche i giardinieri li mescolano appaiati nelle aiuole di piante precoci.  
Il genere Galanthus comprende una ventina specie spontanee su tutti i rilievi dell’Europa centrale e meridionale, dai Pirenei al Caucaso, comprese Alpi ed Appennino ligure, anche se in Italia ne nasce una soltanto: il Galanthus nivalis.
La sue minuscola campana attira gli insetti per l’abbondante nettare contenuto nelle scanalature.
Il visitatore, all'ingresso del fiore, ha un primo contatto con lo stimma sul quale depositerà il polline raccolto altrove, ma movendosi alla ricerca del cibo, riuscirà a raggiungere e sollecitare il piccolo gancio alla sommità degli stami, provocando la fuoriuscita del polline dalle piccole aperture. E’ comunque accertato che la fecondazione può avvenire egualmente per le oscillazioni del fiore provocate dal vento.  Alcune specie di Leucojum viventi nei paesi dell'Europa occidentale producono raramente seme, forse perché fioriscono prima che gli insetti siano pronti a visitarli, ma la vera causa del fenomeno non è stata accertata.
 Questo Genere contava 11 specie, dislocate nell'Europa centrale e meridionale, nelle regioni mediterranee, in Crimea e Armenia, sino a quando (nel 2004) non è stata accettata la suddivisione proposta oltre un secolo prima; alcuni suoi membri, nove per la precisione, sono stati inseriti nella nuova compagine sistematica chiamata Acis. Cinque di essi sono presenti anche nella flora italiana spontanea, tre dei quali in Liguria.
Merita una particolare menzione uno di questi il cui areale lambisce la parte estrema del ponente ligure, le alture sopra la frazione di Latte ed è indicato presente, per quanto riguarda la Francia, nel dipartimento delle Alpi Marittime e sul monte Ventoux nel Vaucluse.
Si tratta dell'Acis nicaeensis (già Leucojum nicaeense e Leucojum hyemale) del quale sono state individuate alcune stazioni anche nella parte italiana del confine, al passo del Cornà.  Recentemente è rimbalzato alle cronache locali perchè il Comune di Ventimiglia e le vicine amministrazioni francesi hanno deciso di mettere questa rara bulbosa sotto protezione dotando le stazioni in cui nasce di apposita segnaletica per evitare che venga danneggiata; inoltre si è convenuto di contenere periodicamente la vegetazione concorrente per impedire che soffochi, distruggendola, la "Campanellina di Ventimiglia".
Per la verità, la sua indiscussa rarità si limita al versante italiano delle montagne costiere perchè già oltre un secolo fa, nel suo Riviera nature notes George Comeford Casey contraddiceva in parte chi affermava la precarietà del "Bucaneve nizzardo" con queste parole: "E' distinguibile immediatamente per avere la spata divisa. Questa pianta ha una distribuzione geografica molto più limitata che qualsiasi altra, ciononostante, ma a mio parere non sembra assolutamente circoscritta, come dice Ardoino, al distretto di costa tra Nizza e Mentone, perché l'ho trovata ad occidente del Var dove  è abbondante sul Mont Vinaigrier, il Mont Alban, ed il Mont Boron; infatti dappertutto ad est di Nizza scende sino alle rocce marine. L'elegante "Bucaneve nizzardo" è molto perseguita, ma penso non sia in pericolo di estinzione, perché cresce in luoghi poco frequentati e non è menzionato da tutti i testi".
Fra tutte queste Amaryllidacee, il più famoso è il Leucojum vernum, dal delizioso profumo, dotato di un involucro esterno che protegge il seme e di un elaiosoma, minuscola appendice rugosa e bianco giallastra, provvista di cellule contenenti zucchero. Le formiche ghiotte di tutte le sostanze dolci se ne impadroniscono concorrendo alla sua propagazione perché trasportano il seme sottoterra mettendolo nelle migliori condizioni per germinare.  
Da alcuni secoli sono in gran parte coltivate nei giardini rocciosi e per infiorare le zone ombrose dei parchi oppure servono egregiamente per fornire cibo alle api in un periodo di scarse fioriture.
Anche di queste piante si è servita la medicina popolare casalinga ed ufficiale usando il bulbo come cataplasma e come vomitativo.
Le sostanze contenute nel Galanthus nivalis sono: lycorina, tazzettina, flexinina, diidrocinidina e la galantamina tutti alcaloidi ancora usati per la preparazione di farmaci ad azione colinergica.
Le stesse sostanze sono state isolate anche nei Leucojum nei quali è stata constatata anche la presenza di leucoina e leucoitina, ma c’è subito da dire che sono princìpi altamente attivi, e quindi tossici, da lasciar trattare ad esperti titolati.
-  Leucojum aestivum  L. (III-IV. Proprio dei prati umidi e torbosi sino ai 300 m. ma in rarefazione) Ha bulbo con tuniche  bruno chiare, fusto spugnoso e trigono con angoli evidenti, alto sino a 50cm. Le foglie sono tutte basali ed inguainanti quasi lunghe come lo scapo, lineari e piane. Le ombrelle di 2\8 fiori penduli sono avvolte da una spata. I tepali  sono bianchi e macchiati di verde in punta; gli stami hanno antere aranciate, lo stilo è cilindrico ed il frutto è una capsula a forma di pera.
-   Leucojum vernum  L. (II-IV. Nasce nei prati umidi e torbosi sino ai 1200 m. ma in rarefazione) Ha bulbo con tuniche  bruno chiare, fusto spugnoso e cilindrico, alto sino a 30cm. Le foglie sono tutte basali ed inguainanti più corte dello scapo, lineari ed ottuse. Le ombrelle sono composte da 1\2 fiori penduli. I tepali  sono bianchi e macchiati di verde in punta; gli stami hanno antere aranciate, lo stilo è cilindrico ed il frutto è una capsula subsferica.
-    Acis nicaeensis (Ardoino) Lledó. (Sin. Leucojum hyemale, Leucojum nicaeensis  Ard.  DC.III-IV. Nasce sulle rupi e nelle garighe dell'estremo ponente sino ai 1000m. ma in rarefazione) Ha bulbo ovoide con tuniche avvolgenti il fusto esile alto sino a 15cm. Le foglie sono tutte basali lineari più lunghe dello scapo. Il fiore unico (raram. 2\3) è pendulo avvolto da una spata a 2 lacinie lineari. I tepali sono bianchi, ovati e leggermente appuntiti; gli stami sono inseriti sopra l’ovario. Il frutto è una capsula subsferica.
-    Galanthus nivalis  L. (III-IV. Nasce nelle foreste umide sino ai 1200 m. ma in via di rarefazione). Ha bulbo ad uovo tunicato di scuro. Ha 2 foglie piane e lineari glauche, carenate ed ottuse poco più corte dello scapo alto sino a 30cm. Il fiore, solitario, pendente, ha il perigonio formato da 6 tepali esterni completamente bianchi ed oblungo spatolati, i 3 interni più brevi con una macchia verde. Il frutto è una capsula ovoide e carnosa.
 I bulbi dei Bucaneve devono essere piantati nelle zone fresche del giardino, anche in mezz’ombra in terreno sciolto e moderatamente umido.
Si possono lasciare liberi di crescere spontaneamente per parecchi anni e se si desidera dividerne i bulbi l’operazione è da effettuarsi a fine estate ripiantandoli immediatamente. Per la diffusione da semina c’è da attendere almeno per tre anni prima di vederli fioriti.
Questa seconda forma di moltiplicazione è da consigliare a chi voglia rendersi conto personalmente delle variazioni che caratterizzano le specie spontanee italiane e cercare di fissarle nel proprio giardino; anche per non depauperare ulteriormente la presenza della specie che in molte zone è veramente a rischio di scomparsa.
Le foglie in alcune specie compaiono dopo il fiore; sarà bene reciderle solo dopo che siano maturate bene e ingiallite.

Alfredo Moreschi

sabato 23 luglio 2022

La guerra fredda non giunse insomma ad interrompere un processo di ricomposizione del contrasto fra comunisti e socialdemocratici


All’indomani del secondo conflitto mondiale, il panorama politico dell’Europa appariva mutato in profondità. Interpreti più accreditati delle istanze di rinnovamento radicale diffuse nella popolazione, i partiti socialisti e comunisti occupavano il centro della scena, partecipando al governo all’interno di coalizioni nazionali nella maggior parte dei paesi del continente <1. La politica di collaborazione antifascista ridefiniva lo spazio politico della sinistra. I comunisti, che avevano fornito il contributo maggiore ai movimenti di Resistenza, godevano di un’inedita legittimazione nazionale e allargavano le fila delle proprie organizzazioni. Testimoni di questo clima, le prime elezioni del dopoguerra registrarono una diffusione del loro consenso nel complesso dei paesi europei destinata a rimanere ineguagliata negli anni successivi <2. La dinamica di recupero ed espansione delle posizioni prebelliche coinvolgeva largamente anche il campo del socialismo democratico. Fu in particolare l’inattesa vittoria del Labour Party alle elezioni del luglio 1945 a segnare un’epoca: dopo l’inaudito sforzo bellico, i cittadini britannici si affidavano al partito che offriva le maggiori garanzie di voler «vincere la pace» sulla base di un programma di riforma sociale <3.
La ridefinizione delle compatibilità politiche legata all’antifascismo e alla guerra implicava anche una verifica delle possibilità di una nuova articolazione delle relazioni fra le due componenti principali della sinistra europea: le alleanze realizzate a livello nazionale nella Resistenza e nella ricostruzione potevano avere un seguito e una proiezione internazionale, dopo le tormentate vicende dei decenni precedenti <4? Non diversamente dalle città del continente ridotte in macerie dal conflitto, anche l’internazionalismo socialista e comunista presentava un panorama da ricostruire.
Sacrificato sull’altare della collaborazione con gli alleati occidentali, il Comintern era stato dissolto ufficialmente nel maggio del 1943; l’Ios, erede della Seconda Internazionale, era «crollata nell’indifferenza» di fronte all’incalzare dei fascismi e della guerra, pur mantenendo una fittizia continuità organizzativa fino al 1946 <5. L’apparente simmetria celava però una situazione affatto differente dei due movimenti: divisi su numerose questioni e comunque in larga misura refrattari ad un collegamento troppo stringente i socialisti <6, organizzati «tramite una rete di rapporti bilaterali tra lo Stato sovietico e i singoli partiti» <7 i comunisti. Il legame organico con il primo Stato rivoluzionario, elemento costitutivo dell’internazionalismo comunista, acquisiva anzi un carattere ancora più decisivo ora che l’Urss aveva affermato il suo status di grande potenza e si apprestava ad estendere la propria influenza sulla parte centro-orientale dell’Europa.
La linea “moderata” adottata dalla leadership sovietica alla fine della guerra - l’opzione, valida per entrambe le “sfere d’influenza” europee, per la democrazia antifascista rispetto alla prospettiva rivoluzionaria <8 - comportava per i comunisti la ricerca dell’unità d’azione con gli altri partiti della sinistra. Presupposto implicito di tale politica unitaria era tuttavia il riconoscimento della superiorità dell’esperienza sovietica, che si voleva dimostrata dalla vittoria sul fascismo: sulle stesse basi, l’eredità della socialdemocrazia era identificata con la divisione e la sconfitta del movimento operaio. In un intervento del marzo 1945, Palmiro Togliatti denunciava la Seconda Internazionale come «una di quelle organizzazioni che per l’indirizzo antiunitario e quindi reazionario della maggior parte dei suoi dirigenti, portano una grave responsabilità per le vittorie del fascismo». La prospettiva della ricostituzione di un’organizzazione internazionale dei socialdemocratici era perciò respinta, mentre si indicava l’obiettivo di «convocare in una grande conferenza europea tutti i partiti operai allo scopo di gettare le basi di una solida unità d’azione tra di loro» <9. Un anno più tardi, in un articolo ripreso dalla nuova rivista del Pci, il comunista inglese Rajani Palme Dutt additava come «Borboni del movimento operaio» quanti fra i dirigenti socialdemocratici insistevano sull’inconciliabile antagonismo ideologico con il comunismo, ribadendo che «i vecchi punti controversi tra socialdemocrazia e comunismo […] sono stati in gran parte storicamente regolati dall’esperienza del fascismo» <10.
Una proposta unitaria così formulata aveva evidentemente basi troppo fragili e controverse per sopravvivere al montare delle tensioni fra i paesi che erano stati alleati nella guerra. Così come l’antifascismo non rappresentò mai, nelle relazioni internazionali, un’ispirazione culturale effettivamente radicata ed autonoma, tale da poter costituire il fondamento del nuovo ordine mondiale postbellico <11, il suo utilizzo da parte del movimento comunista come collante per la rifondazione della sinistra europea - sganciato com’era da una revisione della cultura politica cominternista <12 - poteva difficilmente sfuggire ad un’impressione di tatticismo.
Vista l’adesione di Mosca al principio della ripartizione dell’Europa in sfere d’influenza, l’obiettivo di una ridefinizione dei rapporti a sinistra non poteva del resto avere orizzonti che andassero oltre la funzione di ostacolo alla formazione di un compatto fronte antisovietico nei paesi occidentali. La progressiva chiusura degli spazi di autonomia delle “democrazie popolari”, con la liquidazione o l’assimilazione forzata dei partiti alleati dei comunisti e la trasformazione dell’antifascismo in “ideologia di Stato”, rappresentò un segnale inequivocabile in tal senso <13.
Nel volgere di breve tempo, l’unità d’azione delle sinistre così come concepita nel dopoguerra sarebbe sopravvissuta nell’Europa occidentale solo come una peculiarità della situazione italiana. Ai partiti comunisti che operavano al di fuori della sfera d’influenza sovietica restava il difficile compito di coniugare efficacemente la legittimazione nazionale antifascista con quella derivante dal legame con l’Urss <14. La questione della sinistra europea, dunque, non era separata per loro da un più vasto insieme di contraddizioni aperte dall’esperienza antifascista, sintetizzato da Franco De Felice nella nota formula della «divaricazione crescente tra un'esperienza e pratica democratiche e strutture culturali adeguate a sostenerle» <15.
Il campo socialdemocratico non seppe dal canto suo proporre alternative per la salvaguardia dell’autonomia della sinistra europea dall’incipiente contrapposizione fra i blocchi. Pesava in questo caso - oltre, evidentemente, ad una diversa memoria delle relazioni con i comunisti - l’assenza di una prospettiva politica socialista capace di superare i confini dello Stato-nazione. Prima dell’affermazione definitiva della guerra fredda - ha osservato Donald Sassoon - i partiti socialisti avrebbero forse potuto provare a costruire una nuova cornice per condurre la politica internazionale, proponendo una logica differente da quella di potenza, ma non avevano un’organizzazione internazionale, una politica estera comune, strumenti di coordinamento. Erano partiti nazionali che lottavano per lasciare il segno nella politica nazionale. Quando si volgevano agli affari esteri, abbracciavano le idee prevalenti sull’interesse nazionale <16.
Il Labour Party, forza egemone del socialismo europeo, si dimostrò sin dalla fine del conflitto poco interessato alle sorti di ciò che restava dell’Internazionale, temendo la costituzione di un organismo dotato di poteri prescrittivi come un limite per la propria libertà d’azione <17. La formazione del governo di Clement Attlee - con Ernest Bevin alla guida del Foreign Office - più che dare un orientamento socialista alla politica estera di uno dei due “grandi” del mondo occidentale, obbligò i laburisti all’improba impresa di conciliare la costruzione del Welfare State con la tutela del ruolo internazionale della declinante potenza inglese (impegno, quest’ultimo, che comportava peraltro il conflitto con gli interessi sovietici in diversi teatri, a partire da Mediterraneo e Medio Oriente). Tradizionalmente ostile ai piani d’integrazione politica europea, il governo britannico si trovò presto a dipendere doppiamente dal sostegno degli Stati Uniti: a Washington si chiedevano prestiti, necessari per superare una situazione finanziaria insostenibile, e la condivisione dell’impegno militare. L’ipotesi terzaforzista di un’Europa autonoma a guida socialista - vagheggiata in particolare dai francesi della Sfio, oltre che dai critici della sinistra laburista che avrebbero dato vita nel 1947 al gruppo «Keep Left» - si trovava così priva di una base materiale prima ancora che se ne potesse verificare la consistenza politica <18.
Sulla base della ricostruzione che si è sommariamente proposta, il tornante del 1947-48 - con il definitivo collasso dell’alleanza internazionale del tempo di guerra e la transizione verso il nuovo contesto di guerra fredda - assume per le vicende della sinistra europea un carattere di rivelazione, ma non di rottura improvvisa e inaspettata. La catena di eventi che va dall’enunciazione della dottrina Truman nel marzo del 1947 fino al colpo di Stato comunista a Praga nel febbraio dell’anno successivo - passando per la fine dei governi di coalizione nazionale in Belgio, Francia e Italia, il lancio del Piano Marshall e la fondazione del Cominform - mise le forze politiche europee di fronte all’obbligo di
scelte qualificanti, che insieme mostrarono e approfondirono la divaricazione in atto fra le prospettive politiche di socialisti e comunisti.
Per i partiti occidentali fu paradigmatico l’atteggiamento verso il piano di aiuti americani. Denunciandolo come strumento aggressivo volto all’imposizione di una supremazia del capitale statunitense sull’Europa, i comunisti si uniformavano alla politica di arroccamento del blocco sovietico, a dispetto della diversa collocazione geopolitica, assumendo una posizione difficile da giustificare davanti alle opinioni pubbliche nazionali che rischiava di mettere in dubbio il loro profilo di forze di governo. Con la bandiera dello sviluppo economico e dell’integrazione del mondo occidentale saldamente nelle mani degli Stati Uniti, per i partiti comunisti si materializzava la prospettiva di un’opposizione di durata indefinita, da sostenere facendo ricorso al supporto simbolico e materiale derivante dall’esistenza di un gruppo di stati a regime socialista guidato dall’Unione Sovietica <19. Con poche eccezioni, i partiti socialdemocratici trovarono invece il loro posto sotto l’ampio ombrello della coalizione euroamericana. In particolar modo laddove i socialisti rappresentavano la forza egemone della sinistra, i fondi Marshall sostennero una visione riformista basata sull’utilizzo dell’intervento statale per correggere le disfunzioni dei mercati e promuovere politiche sociali, tutelando tuttavia la struttura capitalistica e l’apertura internazionale dell’economia: degli Usa, in questo caso, si promuoveva un’immagine democratico-newdealista <20.
La guerra fredda non giunse insomma ad interrompere un processo di ricomposizione del contrasto fra comunisti e socialdemocratici, per il quale mancavano basi condivise. Il nuovo clima, tuttavia, influì in maniera decisiva su quel contrasto, stabilizzandolo, mutandone il contesto, e conferendogli caratteri nuovi che ne riconducevano la dinamica a quella del conflitto ideologico e strategico bipolare. Gli spazi di dialogo che l’antifascismo aveva reso immaginabili si chiudevano irrevocabilmente, divisioni e incompatibilità venivano cristallizzate nell’adesione ad organizzazioni separate e non comunicanti: le opzioni politiche si configuravano come scelte di civiltà. Nell’efficace sintesi di Alain Bergonioux e Gerard Grunberg: «la divisione del mondo si è sovrapposta alla divisione del movimento operaio, l’ha inasprita e fissata per lunghi anni» <21.
La prima conferenza del Cominform (settembre 1947) canonizzava per il movimento comunista la visione dicotomica della politica internazionale propria della dirigenza sovietica. Nel rapporto presentato all’assemblea, l’ideologo sovietico Andrej Ždanov trattava le socialdemocrazie europee come appendici del “campo imperialista” guidato dagli Stati Uniti: passato il tempo degli appelli unitari, si invitava ora il movimento comunista a «serrare i ranghi […] contro l’imperialismo americano, contro i suoi alleati francesi e britannici, e contro i socialisti di destra» <22.
L’adeguamento dell’internazionalismo socialista al nuovo quadro seguì un percorso più complesso. Posti di fronte al rischio di vedere il proprio spazio internazionale schiacciato dalla contrapposizione fra i blocchi, i partiti socialisti si trovavano nella necessità di marcare la distanza dai comunisti, tutelando allo stesso tempo la specificità della propria proposta politica nel campo delle forze occidentali. La soluzione del primo aspetto della questione fu accelerata, più ancora che dalla fondazione del Cominform, dal “colpo di Praga” del febbraio 1948, che consumò ogni residua fiducia nell’Urss e nella possibilità di una politica autonoma dei socialisti dell’Europa orientale, presentando la divisione del continente come una brutale realtà. Il mese successivo, nella riunione di Londra del nuovo «Comitato internazionale delle conferenze socialiste» (Comisco), fu ufficializzata la rottura con le organizzazioni esteuropee, ormai assorbite nell’orbita comunista e giudicate non più rappresentative di un socialismo democratico per il quale non c’era più spazio nei paesi di “democrazia popolare” <23. La sorte dei partiti socialisti dell’Est fu assunta a paradigma e monito (la collaborazione con i comunisti che si traduce nell'annientamento del partner) e nel giro di un anno furono regolati anche i rapporti con il Partito socialista italiano, espulso nel maggio del 1949 dopo aver rifiutato di abbandonare il Patto di unità d’azione con il Pci <24.
Stabilito con nettezza il cleavage anticomunista, il movimento socialista restava lontano dalla realizzazione di un efficace coordinamento operativo. La sua area d’azione era limitata al campo occidentale, dove i network sovranazionali di gran lunga più rilevanti erano quelli della cooperazione euroamericana legata al Piano Marshall e poi all’Alleanza atlantica - ambiente nel quale si stava affermando l’influenza di leader centristi o conservatori come De Gasperi, Schuman, Adenauer <25. Continuava poi a mancare un discorso comune su numerose questioni internazionali, a cominciare da quella europea: i partiti dell’Europa continentale - con l’eccezione di quello tedesco - rimanevano tendenzialmente favorevoli alle politiche di integrazione, britannici e scandinavi scettici e concentrati sulla propria “via nazionale”.
L’Internazionale socialista - fondata infine a Francoforte, con la Conferenza del giugno-luglio 1951 - nasceva dunque come centro di coordinamento fra partiti che mantenevano una piena autonomia, privo di poteri sostanziali e dotato di mezzi finanziari modesti <26: la sua funzione principale sarebbe rimasta a lungo, meramente, quella di affermare l’esistenza del socialismo democratico come movimento internazionale, e di definirne i confini attraverso i meccanismi di inclusione ed esclusione. Il denominatore comune a livello ideologico era individuato nel tema della democrazia: quella economica, contro il capitalismo non regolato; quella politica, contro il comunismo. La priorità assegnata alla questione democratica - è stato osservato - implicava la possibilità di raggiungere l’auspicato «sistema di giustizia sociale, di vita migliore, di libertà e di pace» muovendo dal quadro del liberalismo occidentale, all’interno del quale poteva esplicarsi l’azione riformatrice dei socialisti. La transizione era invece impossibile nel sistema sovietico, impermeabile alle logiche della democrazia. Ogni comunanza di obiettivi con il comunismo - annoverato fra le forze ostili che minacciavano e ritardavano lo sviluppo socialista - era dunque respinta, fino alla rinnegazione di una comune ascendenza politica: «a torto il comunismo si richiama alle tradizioni socialiste, in realtà le ha sfigurate al punto di renderle irriconoscibili», si leggeva nella «Dichiarazione» conclusiva della conferenza <27.
Con la riunione di Francoforte - sbeffeggiata sull’organo ufficiale del Cominform come «un incontro fra incalliti agenti di Wall Street» <28 - si completava la formalizzazione della nuova frattura fra comunismo e socialdemocrazia. Per l’intero periodo della guerra fredda, i rapporti fra i due movimenti avrebbero avuto come punto di partenza questo stato di reciproca estraneità. Si trattava, in buona misura, di una condizione che ricalcava quella generale delle relazioni Est-Ovest, e che di queste seguiva gli sviluppi: la sua gestione politica, tuttavia, fu differente nei due raggruppamenti.
La scelta isolazionista del blocco orientale, sebbene mai rivista nei suoi dati di fondo, lasciava infatti spazio ad occasionali aperture tattiche verso i socialdemocratici europei. In particolar modo dopo la morte di Stalin, le loro tradizioni pacifiste li facevano individuare come possibili interlocutori per le iniziative distensive della leadership sovietica, periodicamente alla ricerca di un allentamento della pressione del confronto mondiale. La stessa articolazione del movimento comunista - paradossalmente, l’unica rete politica transnazionale paneuropea - poneva poi la questione di un rapporto con il complesso della sinistra europea occidentale.
Il campo socialdemocratico, con minime eccezioni e sfumature, si mostrò invece indisponibile a deflettere dalla rigida presa di distanza dal comunismo. In parte, influivano su questa scelta i riflessi della guerra fredda sulla politica nazionale: moderati e conservatori avevano gioco facile a fare un uso estensivo della retorica che opponeva socialismo e libertà, mettendo in discussione le credenziali ideologiche dei socialdemocratici e obbligandoli ad aumentare la prudenza nelle iniziative internazionali e il controllo sulle tendenze eterodosse presenti in seno ai partiti <29.
Al di là di questi condizionamenti esterni, l’elemento decisivo era tuttavia costituito dalla profonda sfiducia accumulata verso l’Unione Sovietica e dalla ferita della liquidazione dei partiti socialisti dell’Europa orientale, rinnovata nel decennio successivo dagli interventi militari a Berlino e Budapest <30.
Ormai ridotta la portata del richiamo che l’esperimento sovietico aveva esercitato su ampi settori del socialismo democratico <31, restava il confronto con la realtà rappresentata dalla presenza comunista, sul continente europeo e altrove. Da un lato, dunque, la sua dimensione statuale: l’Urss, quale grande potenza, e un gruppo di Paesi che annoverava fra gli altri, oltre alle democrazie popolari, il colosso cinese. La peculiare compenetrazione fra Stato e partito tipica dei regimi comunisti giustificò, nell’ambito delle relazioni diplomatiche, scambi di visite con delegazioni dei partiti socialisti europei: esperienze per la verità poco significative, realizzate a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta in corrispondenza con i primi segnali di un allentamento della tensione fra Est e Ovest. Si possono ricordare, ad esempio, i colloqui sovietici con britannici e francesi, del 1956: i socialisti, all’imbarazzata ricerca di un atteggiamento sufficientemente severo anche nel momento del dialogo, tentavano in queste occasioni di definire un profilo che li distinguesse dagli oltranzisti del confronto bipolare <32. Le iniziative restavano in ogni caso limitate ai singoli partiti, ferma restando l’opposizione dell’Internazionale a tutto ciò che fosse interpretabile come cedimento alle avances sovietiche. La funzione politica dei socialdemocratici era di fatto concepita sul terreno nazionale (integrato, generalmente, con la partecipazione alla collaborazione europea e atlantica); il rapporto con il campo orientale sembrava fonte di rischi più che di opportunità <33. Solo in seguito, con la piena affermazione della distensione internazionale, questa situazione avrebbe conosciuto un parziale mutamento, corrispondente all’assunzione da parte del socialismo europeo di un profilo internazionale più autonomo e ambizioso.
L’altra realtà comunista con la quale confrontarsi, per il momento, era quella dei partiti operanti nel campo occidentale. Vista la loro diffusione disomogenea, il rapporto con i partiti comunisti era una questione che interessava quasi esclusivamente gli Stati all’interno dei quali la loro presenza era significativa - Finlandia, Francia, Italia -, mentre la politica dell’Internazionale si limitava all’affermazione del criterio di demarcazione.
[NOTE]
1 Cfr. T. Judt, Postwar. A History of Europe Since 1945, Penguin Press, New York 2004, p. 66; D. Sassoon, One Hundred Years of Socialism. The West European Left in the Twentieth Century, I.B. Tauris, New York London 20103, pp. 83-84.
2 Cfr. G. Eley, Forging Democracy. The History of the Left in Europe, 1850-2000, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 288-291; A. Agosti, Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi europei, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 145-158.
3 Cfr. W.I. Hitchcock, Il continente diviso. Storia dell’Europa dal 1945 ad oggi, Carocci, Roma 2003, pp. 55-64; C.A. Stazzi, “And Now – Win the Peace!”. I laburisti inglesi e il Welfare State (1945-1950), in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 1/2012.
4 Per le quali cfr. ad esempio G-R. Horn, I rapporti tra la Seconda e la Terza Internazionale (1932-1935), in «Passato e Presente», n. 28, 1993, pp. 79-106, e più in generale L. Rapone, La socialdemocrazia europea tra le due guerre. Dall’organizzazione della pace alla resistenza al fascismo, 1923-1936, Carocci, Roma 1999.
5 G. Devin, L’Internationale socialiste. Histoire et sociologie du socialisme international (1945-1990), Presses de la Fondation nationale des Sciences Politiques, Paris 1993, pp. 15-16.
6 Ivi, pp. 19-25.
7 S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale (1917-1991), Einaudi, Torino 2012, p. 152.
8 Ivi, pp. 177-185.
9 P. Togliatti, La ricostituzione della Seconda Internazionale?, in «l’Unità», 11 marzo 1945.
10 Palme Dutt, Socialdemocrazia e comunismo, in «Rinascita», luglio 1946, pp. 165-166.
11 Cfr. C. Spagnolo, Tra antifascismo e anticomunismo. Aspetti della stabilizzazione dell'Europa occidentale nella formulazione della politica estera americana (1944-47), in F. De Felice (a cura di), Antifascismi e Resistenze, cit., pp. 491-515; F. Romero, Antifascismo e ordine internazionale, in A. De Bernardi, P. Ferrari, Antifascismo e identità europea, Carocci, Roma 2004, pp. 235-241.
12 Particolarmente critico, naturalmente, era il punto dell’attribuzione alla sola socialdemocrazia della rottura dell’unità operaia. Sulla continuità di questa lettura con l’epoca del Comintern cfr. P. Togliatti, Corso sugli avversari. Due lezioni inedite sulla socialdemocrazia, a cura di F. Biscione, in «Studi Storici», 2/2005, pp. 296-97.
13 Cfr. M. Flores, L’antifascismo come ideologia di Stato nell’Europa orientale, in A. De Bernardi, P. Ferrari, Antifascismo e identità europea, cit., pp. 235-241. Per un inquadramento generale del processo, cfr. N. Naimark, The Sovietization of Eastern Europe, in M.P. Leffler, O.A. Westad (a cura di), The Cambridge History of the Cold War, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 2010, pp. 175-97.
14 Cfr. S. Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della guerra fredda, Carocci, Roma 1999. Sulla politica di unità della sinistra in Italia cfr. S. Sechi, S. Merli, Dimenticare Livorno. Sul partito unico dei lavoratori (1944-1947), SugarCo, Milano 1985.
15 F. De Felice, Introduzione, in Id. (a cura di), Antifascismi e Resistenze, Carocci, Roma 1997, p. 35. Cfr. anche S. Pons, Comunismo, antifascismo e “doppia lealtà”, in Id. (a cura di), Novecento Italiano. Studi in ricordo di Franco De Felice, Carocci, Roma 2000, pp. 283-98.
16 D. Sassoon, One Hundred Years of Socialism, cit., p. 167. Si vedano anche le osservazioni di E. Pugliese, Nazionale e globale nella rinascita dell’Internazionale socialista (1945-1951), in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 1/2012, pp. 2-7.
17 Cfr. W. Loth, Socialist parties between East and West, in A. Varsori, E. Calandri (a cura di), The Failure of Peace in Europe, 1943-48, Palgrave, Basingstoke 2002, pp. 140-142.
18 Cfr. R. Vickers, The Labour Party and the World, vol. I, The Evolution of Labour’s Foreign Policy, 1900-1951, Manchester University Press, Manchester 2004, pp. 159-181; J. Callaghan, The Labour Party and Foreign Policy: A History, Routledge, New York-London 2007, pp. 161-190. Sulla questione dell’autonomia europea si vedano le osservazioni di C. Spagnolo, La sinistra europea e la sfida della cittadinanza (1944-1960), in R. Gualtieri (a cura di) Il Pci nell’Italia
Repubblicana 1943-1991, Carocci, Roma 2001, pp. 195-97.
19 S. Pons, L’impossibile egemonia, cit., pp. 189 e ss.; Id, La rivoluzione globale, cit., pp. 255 e ss.
20 G. Eley, Forging Democracy, cit., pp. 314-316. Cfr. anche W.I. Hitchcock, The Marshall Plan and the Creation of the West, in M.P. Leffler, O.A. Westad (a cura di), The Cambridge History of the Cold War, vol. I, cit, pp. 154-74.
21 A. Bergonioux, G. Grunberg, L’utopie à l’épreuve. Le socialisme européen au Vingtième siècle, Editions de Fallois, Paris 1996, p. 176.
22 G. Procacci (a cura di), The Cominform. Minutes of the Three Conferences, 1947/1948/1949, Annali della fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Feltrinelli, Milano 1994, p. 381.
23 Cfr. G. Devin, L’Internationale socialiste, cit., pp. 29-33. Sulla portata dello shock di Praga si veda anche J. Braunthal, History of the International, vol. III, 1943-1968, Westview Press, Boulder (CO) 1980, pp. 181-194.
24 Cfr. S. Colarizi, I socialisti italiani e l’Internazionale socialista: 1947-1958, in «Mondo Contemporaneo» 2/2005, pp. 17-23. Sui tentativi del Labour Party di mantenere aperto il dialogo con il Psi cfr. A Varsori, Il Labour Party e la crisi del socialismo italiano (1947-1948), in I socialisti e l’Europa, Annali della Fondazione Giacomo Brodolini, Franco Angeli, Milano 1989.
25 Cfr. D. Sassoon, One Hundred Years of Socialism, cit., pp. 170-171.
26 Sulle finanze dell’Internazionale cfr. G. Devin, L’Internationale socialiste, cit., pp.178-184.
27 Cfr. ivi, pp. 41-47. Le citazioni sono tratte dalla «Dichiarazione sugli obiettivi e i compiti del socialismo democratico» approvata a Francoforte, riportata in appendice al volume, pp. 363-370.
28 Cit. in J. Braunthal, History of the International, vol. III, cit., p. 206.
29 Cfr., per il caso inglese, D.G. Lilleker, Against the Cold War. The History and Political Traditions of Pro-Sovietism in the British Labour Party, 1945-1989, I.B. Tauris, London-New York 2004, pp. 68-136; P. Deery, ‘The secret battalion’: Communism in Britain during the Cold War, in «Contemporary British History», 4/1999, pp. 1-28.
30 Un memorandum redatto nel 1972 dall’International Department del Labour Party, riguardante i rapporti del partito con l’Unione Sovietica, riassumeva ad esempio in questi termini le ragioni della ferma opposizione degli anni Cinquanta: «È facile trovare la spiegazione di questa posizione. I partiti socialisti operavano in paesi dell’Europa occidentale profondamente sospettosi verso l’Unione Sovietica, e l’ostilità legata alla guerra fredda era ulteriormente intensificata dalla memoria del trattamento dei socialdemocratici nei paesi dell’Europa orientale dove i comunisti avevano conquistato il potere negli anni ‘40». Labour History Archive and Study Center, Manchester (d’ora in poi LHASC), Labour Party (LP), box 45, file 17: «The Labour Party and the Soviet Union», Tom McNally, 28th July 1972.
31 Restando al contesto inglese, essa si riduceva all’interesse della sinistra laburista per l’esperienza della pianificazione economica sovietica. Cfr. J. Callaghan, ‘The Unfinished Revolution’: Bevanites and Soviet Russia in the 1950s, in «Contemporary British History», 3/2001, pp. 63-82.
32 Cfr. M. Van Oudenaren, Détente in Europe, Duke University Press, Durham-London 1991, pp. 132-136; M.B. Smith, Peaceful coexistence at all costs: Cold War exchanges between Britain and the Soviet Union in 1956, in «Cold War History», 3/2012, pp. 537-558.
33 Da un altro punto di vista, l’atteggiamento socialdemocratico verso il campo sovietico può essere letto, attraverso le lenti proposte da Tony Judt, come un aspetto della generale «indifferenza alla scomparsa dell’Europa orientale» tipica degli europei dell’Ovest, abituatisi presto alla divisione del continente e comunque «così preoccupati dei notevoli cambiamenti in atto nei loro paesi, che sembrava quasi naturale che ci dovesse essere un’impermeabile barriera
armata che correva dal Baltico all’Adriatico». Cfr. T. Judt, Postwar, cit., p. 196. Faceva in ogni caso eccezione in questo quadro la socialdemocrazia tedesca, per la quale il rapporto con l’Europa orientale era questione nazionale di primaria importanza.
Michele Di Donato, PCI e socialdemocrazie europee. Da Longo a Berlinguer, Tesi di dottorato, Università degli Studi "Roma Tre", Anno Accademico 2012-2013

mercoledì 20 luglio 2022

Tensioni sociali nell'Italia occupata dagli Alleati


A partire dall'estate del '44, la relazione fra Alleati ed Italiani entra in una delle sua fasi più critiche. I progressi della campagna militare, simbolicamente rappresentati dall'ingresso a Roma delle truppe alleate il 4 giugno, e dal successivo trasferimento del quartier generale dell'Acc e del Governo italiano nella capitale, contrastano con condizioni di vita terribili. La popolazione è stremata e affamata, e la fiducia negli anglo-americani è scesa forse al punto più basso dallo sbarco in Sicilia. Non c'è rapporto degli ufficiali alleati che non faccia menzione delle gravi condizioni della situazione alimentare, del “morale” basso della popolazione, sottolineando sempre che l'interesse primario, per occupati ed occupanti, è adesso solo e soltanto l'uscita dalla crisi[893]. Le preoccupazioni “alimentari” si uniscono però a una sempre maggiore vitalità del quadro politico italiano. Accanto ad una popolazione spesso definita “apatica”, i partiti si stanno attivamente riorganizzando e cercano uno spazio di intervento sempre più ampio, incontrando però il muro delle condizioni imposte dagli Alleati. A livello locale, le opzioni possibili sono per un verso l'inserimento nelle nascenti amministrazioni locali, per altro il tentativo di porsi alla guida di agitazioni e proteste correlate alla contingenza bellica, che si intrecciano con più complesse questioni legate al processo di democratizzazione e modernizzazione già iniziato in età liberale, e passato attraverso il fascismo[894]. In qualche caso però, chi si mette alla guida di queste agitazioni più o meno spontanee, e che spesso sfociano in vere e proprie manifestazioni violente, finisce per rappresentare se stesso più che il partito. La ricostruzione dei partiti che avviene a livello locale infatti spesso non è esente da personalismi. Per esempio a Cosenza, l'ufficiale Acc agli approvvigionamenti attacca duramente l'attività del socialista Giacomo Mancini, nominato sindaco dagli Alleati[895]. Secondo il funzionario della Commissione, Mancini usa la sua carica per controllare ogni attività della città, avendo costituito nella città calabrese, insieme alla propria famiglia, un vero e proprio “racket organizzato”; godendo fra l'altro della possibilità di attribuire ogni responsabilità per i risultati negativi dell'amministrazione alla Commissione stessa. É vero che Mancini apparteneva a una famiglia di antica tradizione politica, sicuramente antifascista, e non è dato verificare la fondatezza delle accuse alleate. Tuttavia è plausibile pensare al ricostruirsi di dinamiche politiche nell'ambito di reti locali preesistenti, o che si stanno formando durante l'occupazione alleata. Similmente, ma da un altro versante, il Pci si scontra spesso con la necessità di contenere, se non espellere, agitatori che nel contesto delle lotte per la terra si ritagliano uno spazio ponendosi alla guida di azioni violente, in “un'atmosfera da guerra civile”, come dichiara per esempio lo stesso Di Vittorio a proposito dei fatti di Minervino Murge[896]. Più in generale, come nota Rosario Mangiameli, nel '44 la dialettica fra aggregazione notabilare e organizzazione nazionale è ancora aperta[897]. E se la politica nazionale incide su quella locale, per esempio facendo cadere la Giunta Tasca a Palermo, d'altro canto lo stesso Tasca può dar vita in Sicilia a un suo Partito agrario. In questo quadro complesso e spesso confuso, l'emergenza alimentare, cui gli Alleati tentano di rispondere rivitalizzando il sistema degli ammassi, finisce per intrecciarsi strettamente alla questione della riforma agraria. Ma è il Governo italiano a cercare una risposta politica, recuperando però enti e istituti già del regime fascista, in un'emblematica coesistenza di vecchio e nuovo che caratterizza profondamente questa fase[898]. Per altro verso, il peso delle responsabilità alleate nella situazione creatasi in Italia trascorso poco più di un anno dallo sbarco in Sicilia, non può essere ignorato. E certamente non lo ignora la stampa coeva. Nemmeno quella dei paesi alleati, assumendo un atteggiamento molto critico nei confronti della nebulosa politica anglo-americana in Italia[899]. A far esplodere la situazione è la crisi alimentare del '44, posta al centro di una campagna stampa italiana[900], ma anche americana, che i rappresentanti della Commissione, infastiditi, non esitano a definire “quasi isterica […] con l'insistente ritornello: Dateci il diritto di vivere”[901]. A luglio “Italia Liberata” pubblica un articolo dai toni fortemente critici[902], in cui gli Alleati vengono definiti “burocratici e inefficienti dietro le linee, troppo facilmente inclini alla distruzione nelle operazioni, troppo pieni di sè in un paese straniero, troppo dediti al bere e alla continua ricerca di piaceri”[903]. Ma l'accusa più pesante circa le reali intenzioni dei governi alleati viene da “La Voce Repubblicana”, e riguarda la mancata applicazione della Carta Atlantica in Italia[904]. La polemica sulla stampa era però conseguenza di una più esplicita e diretta polemica che il Governo italiano aveva avviato contro gli Alleati. Il 22 luglio Bonomi aveva infatti scritto ad Hull, Segretario di Stato americano, e al Commissario capo della Commissione Stone, chiedendo che l'Italia venisse liberata dalla “quarantena” e dall'isolamento in cui il controllo anglo-americano continuava a tenerla[905]. Nella sua lettera, Bonomi presentava alla Commissione un vero e proprio elenco di richieste disattese, che mostrava lo scarto fra i fatti e le promesse di “liberazione” alleate. Non erano state accolte infatti né la richiesta italiana di adesione alla Carta Atlantica, né la richiesta di partecipare alla conferenza di Bretton Woods. Il peso economico dell'occupazione, poi, continuava a ricadere interamente sulla disastrata economia italiana, mentre non veniva intrapresa alcuna azione concreta per risollevarne le sorti.
Allo stesso tempo, la Commissione non accennava a diminuire la sua oppressiva funzione di controllo, agendo di fatto come un governo parallelo a quello italiano. L'Italia avrebbe dovuto invece essere inserita nel programma “Affitti e Prestiti”, sosteneva Bonomi, mostrando la chiara intenzione di voler uscire da una restrittiva interpretazione della cobelligeranza. Peraltro, il problema dell'ambigua identità italiana (ex-nemici? neo-alleati?), imponeva anche la ricerca di una formula atta all'invio di eventuali aiuti Unrra in Italia - che sarebbero giunti comunque di lì a poco -, visto che l'Unrra non avrebbe potuto in teoria operare in paesi nemici, o ex-nemici[906]. Ma al di là dei temi sollevati dalla lettera di Bonomi, all'inizio dell'estate la questione era stata anche politica, perchè la costituzione del governo Bonomi, formatosi a giugno dopo la liberazione di Roma e il passaggio dei poteri al Principe di Piemonte[907], aveva dato inizio ad una nuova fase delle relazioni fra Italia e Alleati. Anche se il nuovo governo, espressione delle forze antifasciste riunite nel CLN, non era per niente gradito al Primo Ministro britannico, che solo in conseguenza dell'accoglienza americana e della posizione del Consiglio Consultivo, si decideva a prendere atto del passaggio della presidenza del consiglio da Badoglio a Bonomi. Tuttavia, l'assenso al nuovo quadro politico delineatosi in Italia rimaneva subordinato all'imposizione al nuovo governo di tutte le clausole armistiziali (ancora segrete) siglate da Badoglio, e all'impegno da parte del gabinetto Bonomi a rimandare la questione istituzionale[908].
Guadagnata dunque una certa autonomia politica, l'Italia tenta di modificare le dure condizioni cui la sconfitta l'ha costretta ormai da un anno. L'intento è quello di qualificarsi come interlocutore politico delle forze d'occupazione, e non solo come nazione sconfitta in passiva attesa delle decisioni dei vincitori. In questo senso iniziava allora una forte sollecitazione rivolta ai governi britannico e statunitense, e diretta ad ottenere l'allargamento delle prerogative del Governo italiano. Contemporaneamente gli Alleati e il ruolo della Commissione divengono pietra di paragone obbligatoria per il discorso politico di ogni partito. E proprio gli osservatori della Commissione si accorgono di come la Commissione stessa sia divenuta uno degli elementi utili a costruirsi uno spazio politico, all'interno e all'esterno. L'Acc è insomma, nelle parole della Divisione Pubbliche Relazioni, una sorta di jolly per rafforzare la propria proposta politica, laddove “i reazionari” fanno appello a “tendenze conservatrici”[909] degli Alleati, mentre la Democrazia Cristiana a Napoli, nel corso del Congresso interregionale tenutosi alla fine di luglio, parla di “rivoluzione in atto, benvenuta per il partito”, da compiersi però senza ledere alcuna libertà individuale. E in questo senso ovviamente il Pci tiene il passo, riconoscendole il merito di aver usato per prima in maniera aperta, e caricandola di contenuti positivi, “la parola rivoluzione”[910]. A queste dichiarazioni di concordia e unità nel segno dei valori democratici, non fa però riscontro l'opportunità di far e esperienza concreta della democrazia tanto propagandata dalle forze anglo-americane. Le elezioni, anche quelle amministrative, sono ancora lontane e mentre “i vari partiti politici rimangono attivi e continuano nel loro tentativo di controllare gli uffici pubblici, [anche se] nessun partito ha un programma definito o una politica […], la gente comune continua ad essere più interessata al cibo che alla politica”[911], preferendo scioperare per l'aumento delle razioni, piuttosto che per i diritti non riconosciuti[912]. La possibilità di permettere all'Italia di tenere le sue prime elezioni, almeno quelle amministrative, divide i membri della Commissione ancora a dicembre. Nel corso di una riunione dei presidenti di sezioni e sottocommissioni che si svolge il 10 dicembre[913] i toni della discussione sonoanimosi: Antolini e la sezione Economica “all'unanimità” insistono sulla necessità di tenere le elezioni in quel “New Brave World” che è in procinto di “sorgere oggi”[914] davanti ai loro occhi. Dello stesso avviso Spicer, a capo della sottocommissione Interni. A esitare è invece il britannico Lush, il commissario esecutivo dell'Acc, che blocca ogni azione della Commissione in tal senso, preferendo raccogliere i pareri dei commissari regionali. Prevarrà comunque questo indirizzo, anche perchè alla fine di dicembre la posizione del Gabinetto di guerra britannico è nettamente opposta a quella americana. Se il Dipartimento di Stato infatti non dubita dell'opportunità di tenere le elezioni, i britannici temono che “nelle attuali circostanze potremmo probabilmente incoraggiare la formazione di Soviet locali e provinciali”[915]. Motivazione analoga sarà addotta, sempre dalla Gran Bretagna, a luglio del '45[916], ma in senso opposto, ossia per incoraggiare il Governo italiano a tenere entro la fine dell'anno le elezioni per la Costituente, “prima che le difficoltà dell'inverno abbiano avuto il tempo di esercitare un'influenza negativa sugli elettori”.[917]
Nell'estate del '44 dunque le elezioni sono ancora lontane, sebbene sia in atto un progressivo mutamento della politica alleata verso l'Italia. Insieme alla Commissione, come visto impegnata in progressive ristrutturazioni interne, è l'indirizzo politico alleato a ridefinirsi. A partire da luglio inizia infatti a prospettarsi la concreta possibilità che Stati Uniti e Gran Bretagna sostengano con aiuti economici la ripresa dell'Italia, dopo la liberazione di Roma entrata anche agli occhi degli Alleati (soprattutto americani) all'inizio di una fase già più compiutamente postbellica. È in questo momento che in America si inizia a riflettere su quella che potrebbe essere la politica postbellica nei confronti dell'Italia. Uno dei primi documenti in cui è rintracciabile questo mutamento di posizione è un memorandum del Dipartimento di Stato, redatto ai primi di luglio[918]. Il memorandum individua nella formazione del governo Bonomi, “antifascista, pro-Nazioni Unite e democratico”, il delinearsi di un'Italia riconoscibile come interlocutore politico, e dell'inizio del “periodo post-bellico nella nostra relazione con l'Italia”. L'argomento comunque sarà concretamente affrontato dai due governi alleati solo a partire dalla fine del '44, e soprattutto dopo che a gennaio verranno emanate le nuove direttive circa compiti e competenze della Commissione[919]. Saranno allora più evidenti i contrasti fra le due linee, britannica e americana, verso l'Italia.
[NOTE]
[893] La notazione è presente praticamente in ogni rapporto. A mò di esempio si citano il Rapporto mensile per il mese di luglio 1944, quartier generale Acc, 30 agosto 1944, p.2, box 955 cit, Acc files 10000/132/7; Ufficio del commissario provinciale Bari, a Spicer, sottocommissione Interni, quartier generale Acc, 20 marzo 1944, in Acs, Acc
scatola 38/197A.
[894] Cfr. S. Finocchiaro, Il partito comunista nella Sicilia del dopoguerra (1943-1948), Salvatore Sciascia Editore, 2009, pp. 32-55; P. Amato, Calabria tra occupazione e riforma (1943-1960), in Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d'Italia dal dopoguerra ad oggi, DeDonato, 1979, pp. 483-556, e in particolare pp. 483-98 e F. Renda, Il movimento contadino in Sicilia, ivi, pp. 559-717, e in particolare pp. 577-91. Comunque, più in generale, i reports alleati riferiscono di tentativi di “politicizzazione” delle agitazioni che a partire soprattutto dal '44 infiammano il Mezzogiorno. È il caso per esempio dei moti del “non si parte” in Sicilia, in cui gli Alleati riferiscono dei
tentativi separatisti o fascisti di guadagnare una leadership.
[895] Cfr. Rapporto su certe questioni concernenti l'approvvigionamento, s.d, ma primavera 1944, cit.. Il padre di Giacomo Mancini, Pietro, era stato uno dei fondatori del Psi e Giacomo, avvocato antifascista, aveva seguito le orme del padre. Nel '48 sarà eletto alla Camera nelle liste del Fronte Democratico Popolare. Negli anni '60, sarà poi ministro per tre volte, nominato per la prima volta ministro della Sanità nel primo governo Moro. Nel 1993 sarà eletto sindaco di Cosenza, e proprio in quell'anno rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Tuttavia il lungo iter giudiziario iniziato negli anni novanta, in cui si sono successe una condanna e un'assoluzione, non si è mai concluso in via definitiva.
Cfr. E' morto Giacomo Mancini, uno dei grandi vecchi del Psi, 8 aprile 2002, “la Repubblica”, edizione on line, in www.repubblica.it/online/politica/mancini/mancini/mancini.html.
[896] Cfr. Togliatti e il Mezzogiorno, a cura di Franco De Felice, Ed. Riuniti, 1977, p. 107.
[897] R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., p. 552.
[898] Strutture ed enti che comunque si legano a soluzioni e programmi elaborati in età liberale: cfr. G. Barone, Stato e Mezzogiorno (1943-1960). Il “primo tempo” dell'intervento straordinario, in Storia dell'Italia repubblicana, Einaudi, 1986, vol. I, 7, t. 1, pp. 293-409.
[899] Cfr. per es. New York Times, settembre 1944: A. O'Hare M'Cormick, New Relief Scheme for Italy Is Urged, 7 settembre 1944; Italy Asks Freedom to Help Itself, 11 settembre 1944; H. Furst, Food Needed in Italy, 19 settembre 1944. Ma si veda anche D. Ellwood, L'alleato nemico, cit., pp. 96-7.
[900] Cfr. Sezione Pubbliche Relazioni, bollettino settimanale Acc n. 17, 30 luglio 1944, pp. 1-2, in box 955, cit., Acc files 10000/132/9, e bollettino n. 18, 6 agosto 1944, ivi.
[901] Ivi, p. 1.
[902] L'Italia e gli Alleati, in “L'Italia Liberata”, cit. in bollettino Acc n. 17, cit., p. 2.
[903] Ibidem.
[904] “La Voce Repubblicana”, 29 luglio 1944, cit. ivi.
[905] Bonomi a Stone, 22 luglio 1944, Acc files 10000/136/117, in Civil Affairs, p. 496. Tuttavia secondo quanto riportato in Aga Rossi ed Ellwood, la lettera è indirizzata ad Hull. Cfr.E. Aga Rossi, La situazione politica ed economica dell'Italia nel periodo 1944-45: i governi Bonomi, in “Quaderni dell'Istituto Romano per la storia d'Italia dal fascismo alla resistenza”, 1971, n. 2, ora in L'Italia nella sconfitta, cit., pp. 125-190, p. 150, e D. Ellwood, L'alleato nemico, cit., p. 88. La versione pubblicata in Civil Affairs è comunque indirizzata al Commissario capo della Commissione.
[906] L'Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), era stata creata nel 1943, ed era il prodotto del “liberalismo sociale” che animava il progressismo newdealista dei collaboratori di Roosevelt. Attraverso l'Unrra sarebbe stato infatti possibile attuare il progetto di un New Deal mondiale caro all'amministrazione democratica. Si veda a proposito J.L. Harper, L'America e la ricostruzione dell'Italia, 1945-1948, Il Mulino, 1987, pp. 26-7.
[907] Per la formazione del primo governo Bonomi, cfr. fra gli altri E. Aga Rossi, La situazione politica ed economica dell'Italia nel periodo 1944-45: i governi Bonomi, cit., pp. 127 e sgg..
[908] Cfr. Bonomi Government Begins Work, “The Times”, 20 giugno 1944.
[909] Bollettino settimanale Acc n. 18, 6 agosto 1944, cit., p. 2.
[910] Ibidem.
[911] Rapporto mensile del quartier generale Acc, mese di luglio 1944, 30 agosto 1944, p. 6, in box 955 cit., Acc files 10000/132/9.
[912] La maggior parte degli scioperi che le fonti registrano sono legati alla richiesta di un aumento delle razioni garantite ai lavoratori, soprattutto nel caso di operai addetti ai lavori pesanti. Cfr., fra le tante testimonianze, l'analisi della sottocommissione Lavoro in rapporto mensile del quartier generale Acc, mese di maggio 1944, p. 6, in box 955 cit., Acc files 10000/132/7.
[913] Bollettino settimanale Acc n. 36, 10 dicembre 1944, p.4, in box 955, cit..
[914] Ibidem.
[915] Policy towards Italy: New Directive for the Allied Commission, il War Cabinet Offices al Foreign Office, 30 dicembre 1944, in Na, London, Fo 371/49749.
[916] Cfr. The Probable Future of Italy, Foreign Office, 9 luglio 1945, in Na, London, Wo 220/421.
[917] Ivi, p. 1.
[918] Memo di Dunn a Hilldring, 6 luglio 1944, in Civil Affairs p. 497.
[919] La questione verrà affrontata nel paragrafo successivo. Per il punto di vista inglese nel dibattito fra le due nazioni, si veda comunque Na, London, Fo 371/49924; Fo 371/49749; Fo 371/49751.
Manoela Patti, Gli Alleati nel lungo dopoguerra del Mezzogiorno (1943-1946), Tesi di dottorato, Università degli studi di Catania, 2010

domenica 17 luglio 2022

In Jugoslavia nel giro di pochi mesi gli italiani sono costretti a cambiare strategia


Eric GOBETTI, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Roma-Bari, Laterza, 2013, 205 pp.
Questo volume è il punto di arrivo di oltre dieci anni di ricerche, attraverso le quali Eric Gobetti, partendo dal periodo di occupazione italiana dei territori dell’ex-Jugoslavia e dalle vicende belliche che la sconvolsero, ha provato a far comprendere la storia di questa complessa area del vecchio continente <1.
Si ritiene opportuno sottolineare che questo contributo esce circa un anno dopo la pubblicazione del lavoro di Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti che si è già avuto modo di presentare <2. Entrambe le opere, infatti, trattano della presenza dei militari italiani nei territori balcanici, ma sono differenti i focus principali. Mentre Aga Rossi e Giusti si concentrano soprattutto sulla crisi che affrontarono i reparti del regio esercito al momento dell’annuncio dell’armistizio; Gobetti, invece, dedica il suo lavoro a quanto succede prima dell’8 settembre 1943, concentrandosi sull’occupazione di questi territori da parte delle truppe del nostro paese.
Le caratteristiche che contraddistinguono lo scacchiere jugoslavo tra il 1941 e il 1943 sono sicuramente la complessità e l’ambiguità. È lo stesso autore a premettere che quanto succede nei Balcani del sud con il loro coinvolgimento nella Seconda guerra mondiale, non differentemente da molti altri pesi dell’Est europeo, «resta tutt’oggi l’evento cardine della storia dei popoli jugoslavi, ora perlopiù interpretato nella logica della guerra civile, sminuendo il valore morale della resistenza all’invasore» <3. In questo ingarbugliato contesto si trovano le truppe italiane a partire dall’aprile del 1941. Una presenza, quella dei nostri connazionali, che non può essere considerata come quella di semplici spettatori di quanto succede in questa regione. Infatti, come sottolinea opportunamente l’autore, sebbene sia stata rimossa dalla memoria collettiva dei nostri connazionali <4, l’idea dell’occupazione di questi territori parte da lontano, una precisa visione strategica, affinata negli anni precedenti, di un Mediterraneo egemonizzato dall’Italia - in cui lo Stato Jugoslavo nato dopo la Grande Guerra rappresenta un antagonista e un ostacolo per il predominio dell’Adriatico - che porta all’allontanamento dalla tradizionale politica filo-serba che aveva caratterizzato l’età liberale, in favore del sostegno alle aspirazioni albanesi e croate, che dovrebbero diventare i pilastri dell’influenza italiana della regione <5. Aspirazioni che si traducono concretamente con l’occupazione dell’Albania nel 1939 e la costituzione dello stato croato guidato dal “protetto” Ante Pavelić, nel momento stesso dell’invasione della Jugoslavia, al fianco dei tedeschi, nella primavera del 1941.
Le ambizioni italiane si devono misurare con una situazione che, mese dopo mese, diventa ancora più complicata. Il controllo del territorio si rivela difficile: il dialogo con le preesistenti élites locali è controproducente e risultati migliori non arrivano neppure dalla collaborazione con la neonata Croazia guidata da Pavelić. Il crollo dell’entità statale jugoslava fa esplodere aspri conflitti lungo fratture sia etniche, che politiche.
Nel giro di pochi mesi gli italiani sono costretti a cambiare strategia: gli interessi economici e politici passano in secondo piano e la nostra presenza diventa soprattutto militare, tanto che il Regio Esercito, ad inizio 1942, arriva ad avere oltre 300.000 soldati nella regione. Questa evoluzione viene orientata e condivisa dallo stesso Mussolini, per cui l’occupazione si tramuta in «una politica imperialista di stampo ottocentesco, basata sul controllo militare del territorio e delle risorse piuttosto che sull’egemonia politico-economica» <6.
In questo contesto i principali avversari si rivelano le forze partigiane comuniste comandate da Tito, in ascesa dopo l’invasione dell’URSS e il coinvolgimento diretto nella guerra della potenza guidata da Stalin, con cui si deve ingaggiare una logorante azione repressiva. Contemporaneamente, per poter controllare e amministrare i territori occupati, i vertici in grigioverde promuovono l’alleanza con un ampio fronte locale anticomunista, che porta nel 1942 all’istituzione della Milizia Volontaria Anticomunista (Mvac), che formalizza i rapporti di cooperazione con le milizie cetniche, avviati ormai da diversi mesi. Da qui il titolo dell’opera, Alleati del nemico, perché le milizie cetniche, sono espressione del nazionalismo serbo di stampo conservatore, che immagina una Jugoslavia egemonizzata dai serbi. Il capo di queste milizie è Draža Mihailović, ministro della guerra del governo monarchico jugoslavo, in esilio a Londra dopo l’invasione dell’Asse. I cetnici, infatti, oltre a contrapporsi ai comunisti, combattono duramente, sin all’inizio dell’occupazione nazifascista, contro le forze croate dell’alleato Ante Pavelić.
All’interno di questa complicata e contraddittoria rete di alleanze, i vertici italiani chiedono alle proprie truppe vigore e spregiudicatezza, per smentire lo stereotipo, già allora percepito, del buon soldato italiano <7. In questo contesto si spiega la circolare 3C emanata dal generale Mario Roatta nel marzo del 1942, che rimarrà in vigore fino all’armistizio. Con questa circolare gli italiani accolgono «esplicitamente il principio di correità della popolazione residente in un’area di attività partigiana» e fanno proprio «come metodo la politica del terrore contro i civili, ordinando rappresaglie, deportazioni, confische, catture di ostaggi, fucilazioni» <8. Strumenti principali della strategia repressiva, ricorda Gobetti, sono l’internamento dei civili, che arrivano alla cifra 100.000 individui deportati, in gran parte sloveni e montenegrini <9 e l’utilizzo della tattica della terra bruciata, ovvero la distruzione di case e villaggi per rappresaglia. I metodi del Regio Esercito, sottolinea l’autore, ricordano da vicino quelli attuati negli scenari coloniali <10. In questo contesto e in base a queste scelte, vengono compiuti crimini efferati anche dai militari italiani, senza che l’intera strategia attuata vada incontro a critiche. Al contrario, chi nel dopoguerra è stato inquisito per i crimini commessi in Jugoslavia si è autodifeso sostenendo che l’escalation di violenza sia stata causata dalla brutalità dei partigiani comunisti, una convinzione - quella della violenza dei comunisti jugoslavi - entrata nell’immaginario del nostro paese, che però, ci tiene a sottolineare l’autore, non trova riscontro nelle fonti relative a questo periodo, con le dovute tragiche eccezioni <11. La memoria dei reduci è sicuramente influenzata da questa situazione, che farà il paio con la sopraggiunta difficoltà nel collocare questa esperienza in un dopoguerra che vedrà l’esaltazione, nei partiti di sinistra, della retorica partigiana. Per questo motivo nei volumi di ricordi di quest’esperienza, secondo Gobetti, emergono, da parte italiana, due elementi, a suo avviso solo apparentemente contraddittorii: «una quotidianità annoiata di cui si evidenziano soprattutto i buoni rapporti stabiliti con la popolazione civile; una serie di improvvisi eventi drammatici, che mostrano la brutalità della guerriglia» <12. L’autore sostiene che questa memoria contraddittoria viene alimentata anche dal crescente spaesamento dei soldati italiani, che vedono crescere i consensi a favore della resistenza comunista, dimostratasi spesso molto più umana delle altre parti in conflitto, spuntando così le armi della propaganda anti-partigiana. Allo stesso tempo, i nostri soldati fanno fatica a comprendere la presenza di diverse e spesso contrapposte milizie locali, che si rendono frequentemente protagoniste di spietati atti di violenza, a sfondo etnico, compiuti proprio davanti ai loro occhi senza la possibilità di intervenire <13, con l’unica eccezione di diverse migliaia di ebrei messi in salvo con il contributo del Regio Esercito <14 [...]
[NOTE]
1 Cfr. GOBETTI, Eric, Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall’Italia fascista, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2001; ID., L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Roma, Carocci, 2007; si ritiene utile menzionare anche questo testo dell’autore, testimonianza dell’interesse a 360° per i territori della ex-Jugoslavia: ID. Nema problema! Jugoslavie! 10 anni di viaggi, Torino, Miraggi, 2011.
2 Cfr. AGA ROSSI, Elena, GIUSTI, Maria Teresa, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Bologna, Il Mulino, 2011, Cfr. DE PROSPO, Mario, «Recensione: Elena AGA ROSSI, Maria Teresa GIUSTI, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Bologna, Il Mulino, 2011, 660 pp.», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea: La satira fa storia. Eventi, pratiche, linguaggi, 29 ottobre 2012, URL: <http://www.studistorici.com/2012/10/29/de-prospo_numero_11/>. È giusto rilevare che il volume dell’Aga Rossi e della Giusti abbraccia un’area territoriale più vasta oltre quella jugoslava, comprendente anche Grecia e Albania.
3 GOBETTI, Eric, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, 2013,p. 9.
4 Ibidem, p. 7.
5 Ibidem, pp.14-15 . Cfr. anche RODOGNO, Davide, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista (1940-43), Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
6 GOBETTI, Eric, Alleati del nemico, cit., p. 76.
7 Cfr. GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra, cit.,pp.173-176. Sulla creazione e del ‘mito’ del buon italiano la bibliografia è corposa, segnaliamo su questi argomenti il recente FOCARDI, Filippo, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, la rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013. Cfr. la recensione del volume in VERONESI, Oreste, «Recensione: Filippo FOCARDI, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013, XIX + 288 pp.», Diacronie. Studi di Storia Contemporanea : Spazi, percorsi e memorie, 29/10/2013. URL: <http://www.studistorici.com/2013/10/29/veronesi_numero_15/>.
8 GOBETTI, Eric, Alleati del nemico, cit., p. 91.
9 Ibidem, p. 95. Cfr. CAPOGRECO, Carlo Spartaco, I campi del duce. L’internamento nell’Italia Fascista (190-43), Torino, Einaudi, 2004, pp.135-152; KERSEVAN, Alessandra, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentra mento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943, Roma, Nutrimenti, 2008.
10 GOBETTI, Eric, Alleati del nemico, cit., p. 100. Cfr. anche RODOGNO, Davide, op. cit., pp. 400-410; SALA, Teodoro, Guerra e amministrazione in Jugoslavia 1941-1943. Un’ipotesi coloniale in POGGIO, Pier Paolo, MICHELETTI, Bruna (a cura di), L’Italia in guerra 1940-43, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 1992, pp. 83-97.
11 GOBETTI, Eric, Alleati del nemico, cit., p. 104.
12 Ibidem, p. 108.
13 Ibidem, p. 115.
14 Ibidem, pp. 138-141.
Mario De Prospo, «Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943», Diacronie [Online], N° 17, 1 - 2014, documento 13