giovedì 28 settembre 2023

Le retribuzioni delle lavoratrici erano spesso la metà di quelle dei lavoratori che svolgevano lo stesso lavoro


[...] Oggi si definisce come "sessismo democratico", nelle memorie di Leda Colombini che racconta la sua storia nella Resistenza e nella ricostruzione, l’inadeguatezza che molte donne sentivano a impegnarsi in prima persona in politica e corrispondeva anche alla "scarsa considerazione attribuita dai maschi all’eventuale presenza di donne in apparati dirigenti". <1
Racconta un dirigente di Reggio Emilia, ex-partigiano: "Il fatto era che non le conoscevamo queste compagne. Cioè non conoscevamo le loro peculiari capacità… Come facevamo a conoscerle? Beh, tutt’al più la conoscenza che avevamo era limitata alle compagne che erano state staffette. Ma far la staffetta non significava mettere in mostra delle particolari doti politiche. Significava avere due buone gambe per far girare il rapporto della bicicletta e il coraggio di affrontare, oltre allo sforzo fisico anche lo stress spirituale… Noi conoscevamo molte compagne che avevano queste doti, ma le loro capacità politiche…". <2
Se potessi realizzare il mio desiderio di sovrapporre i nomi delle donne che diedero vita all’UDI [Unione Donne Italiane], vedremmo che coincidono (come gli obiettivi politici) quasi perfettamente con quelli dei GDD [Gruppi Difesa Donna, organismi della Resistenza], ma sono molto più numerosi. Sono tante di più le donne che si mobilitano. E, con ragione, si potrebbe pensare che si tratti delle donne dei Gruppi che, pur non essendosi registrate come partigiane, escono allo scoperto e a una cittadinanza attiva proprio per l’esperienza della Resistenza che le aveva temprate all’impegno politico e sociale mentre erano convinte di fare solo il loro dovere, o quello che qualcuna ha definito "fare quello che era nell’ordine naturale delle cose" per opporsi alla guerra e ai nazifascisti? La mostra di Ravenna prova a documentare qualcosa su quante di più erano rispetto a quelle riconosciute. Ma in questi anni ne stiamo scoprendo sempre altre, molte altre!
L’UDI è il soggetto politico che ha raccolto l’eredità di queste donne e ha svolto un ruolo centrale nel cambiamento, ammodernamento e progresso del nostro Paese. Abbiamo celebrato con orgoglio il 70° perché sono stati settant’anni di lavoro proficuo che ha dato molti risultati, anche se oggi siamo di fronte a una situazione in cui molte conquiste sono sotto attacco.
Proprio settant’anni fa si svolse a Firenze, al Teatro della Pergola, tra il 20 e il 23 ottobre 1945, il Congresso che diede vita all’Unione Donne Italiane: in esso si unificarono i circoli sorti a partire dal 1944, dopo la Liberazione di Roma, nell’Italia liberata e i Gruppi di Difesa delle Donna, che avevano organizzato le donne a sostegno della Resistenza nell’Italia occupata. Quel 1° Congresso Nazionale dell’UDI - congresso "costitutivo" - adottò il programma, approvò lo Statuto ed elesse democraticamente le dirigenti. Quel Congresso sanciva che l’UDI era nata dall’incontro dei movimenti femminili dei partiti del CLN, esclusa la Democrazia Cristiana che, pur avendo fatto parte dei GDD, non aveva aderito al Comitato di Iniziativa sorto nel 1944 nell’Italia liberata. In verità, tra le firmatarie dell’appello del Comitato di Iniziativa, figuravano anche rappresentanti della società civile che, in varie forme, erano donne socialmente e politicamente impegnate nei partiti del CLN. Al Congresso erano presenti delegazioni estere (americane, inglesi, cecoslovacche, albanesi e francesi), avevano inviato messaggi quelle sovietiche e cinesi, ci furono i saluti delle forze politiche e della Camera del Lavoro. Le delegate erano circa 300, di tutte le regioni esclusa la Basilicata. Quelle più numerose provenivano da Emilia, Toscana, Piemonte, Veneto e Lombardia. Le categorie più rappresentate erano le donne diplomate, laureate, professioniste e insegnanti, poi le casalinghe, le impiegate e le operaie. Molto scarse le contadine presenti, nonostante il ruolo da loro svolto nella Resistenza, prova di quanto le donne delle campagne fossero ancora prigioniere della povertà e della realtà familiare. Ma in molte mandarono doni commoventi, come le poche lire che possedevano o scarpe per chi poteva partecipare. Anche se si voleva che il Nord "non sopraffacesse il Sud", l’obiettivo non fu raggiunto.
Eppure la tragica esperienza degli anni di guerra aveva cambiato anche le donne del Sud, che non sarebbero potute diventare protagoniste della politica, come poi successe per la prima volta nella storia italiana. Nel Mezzogiorno tantissime donne semplici e illetterate, mentre figli e mariti erano su fronti lontani, avevano dovuto provvedere da sole alla famiglia, fuggire dalle città bombardate, abbandonare le loro case disastrate, adattarsi a vivere da sfollate e sinistrate.
Al 1° Congresso dell’UDI parlò emozionato il Presidente del Consiglio, Ferruccio Parri, accolto entusiasticamente. Le relazioni introduttive, sull’attività al Nord e su quella al Sud, furono svolte da Lucia Corti e Rita Montagnana, Maddalena Secco, Elvira Pajetta, Rosetta Longo, Rina Piccolato, Gemma Russo e molte altre. Il tema centrale del Congresso era - come l’ha definito Marisa Rodano - "inusuale e significativo": la proposta, sulla base dell’esperienza resistenziale delle donne, era di costituire un’associazione capace di rivolgersi a tutte le donne, indipendentemente dall’appartenenza o meno alle forze politiche, dalla condizione sociale e professionale, dal livello culturale, persino di quelle socialmente privilegiate. Questa era una prima fondamentale novità, rispetto alle forme associative che le donne storicamente si erano date nel nostro Paese, prima del fascismo, generalmente connotate dal riferimento alla professione o da obiettivi programmatici particolari come l’accesso all’istruzione, la lotta contro le leggi della regolamentazione della prostituzione di Stato o la richiesta del diritto di voto.
Vi era l’intuizione, anche se ciò non era detto esplicitamente, che vi fosse una differenza sostanziale tra uomini e donne, per cui non bastava che ad entrambi i sessi si riconoscessero eguali diritti; che le donne fossero portatrici, per la loro tradizione, il loro duplice impegno nel lavoro e nella famiglia, la loro aderenza ai problemi della vita quotidiana, di valori e competenze diverse da quelle della parte maschile della società; che, di conseguenza, fosse indispensabile chiamarle a impegnarsi per adeguare l’assetto sociale, per costruire istituzioni e politiche a misura di donne, oltreché di uomini. Operazione non facile - settant’anni fa - con la maggioranza delle donne casalinghe, senza redditi propri, con un’altissima percentuale di donne analfabete o che avevano frequentato la scuola elementare, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Le retribuzioni delle lavoratrici erano spesso la metà di quelle dei lavoratori che svolgevano lo stesso lavoro! Tra le lavoratrici prevalevano le donne impegnate in agricoltura che guadagnavano un terzo.
[...] Tornando alla fine della guerra, basta pensare all’azione dell’UDI nel Comitato Pro Voto per ottenere che le donne potessero votare, oppure a quella nel referendum monarchia/repubblica, o ancora per l’elezione dell’Assemblea Costituente, poi alla successiva campagna condotta dall’UDI per invitare le donne a votare. L’elenco di norme a favore delle donne da inserire nella Costituzione, che l’UDI sottopose il 26 giugno 1946 alle elette alla Costituente, era costituito da: "parità giuridica con gli uomini in ogni campo; riconoscimento del diritto al lavoro e accesso a tutte le scuole, professioni, carriere; diritto a un’adeguata protezione che permetta alla donna di adempiere ai suoi compiti di madre; uguale valutazione, trattamento e compenso degli uomini per uguale lavoro, rendimento, responsabilità". Tutte norme che effettivamente sono state poi introdotte nella Costituzione, mentre si rafforzavano le iniziative nella ricostruzione a favore dell’infanzia, per ottenere fondi per le colonie estive, per la casa agli sfollati e ai sinistrati e contro gli sfratti; a sostegno dei contadini che occupavano terre incolte o mal coltivate, contro l’uso delle armi da parte della polizia in servizio di ordine pubblico (furono raccolte 3 milioni di firme!), per la concessione della pensione alle donne del frusinate violentate dalle truppe coloniali francesi, sia per la riduzione del danno che come riconoscimento del reato dello stupro di guerra. Dopo la guerra l’associazione si concentra insomma sui problemi immediati o su battaglie di carattere generale. Anche nel referendum istituzionale, prendendo posizione per la repubblica, l’UDI pone tra i suoi punti programmatici la rinascita del Paese, per la difesa della famiglia e delle lavoratrici, e contro la discriminazione politica e sociale della donna con la lotta contro la prostituzione e l’analfabetismo, la riforma dei codici e la piena partecipazione delle donne alla vita amministrativa e politica.
A partire dal 1953, l’UDI dichiara che suo fine è la battaglia per l’emancipazione femminile, afferma la sua autonomia rispetto a governi, forze sociali, partiti politici e pone come suo obiettivo centrale il diritto delle donne al lavoro. Iniziano così le battaglie per la parità di salario, per la tutela delle lavoratrici madri e, anni dopo, per l’estensione di quelle stesse tutele alle lavoratrici autonome, artigiane, commercianti, per la tutela del lavoro a domicilio, per la pensione alle casalinghe, contro i licenziamenti a causa di matrimonio. Nel 1956 l’UDI comincia a definire la società come una società maschile e concentra l’attività sulla sua trasformazione e per lo sviluppo dei servizi sociali. Seguiranno le lotte per il Piano nazionale degli asili nido, la scuola materna pubblica, l’obbligo scolastico fino ai quindici anni, e per un nuovo diritto di famiglia basato sull’eguaglianza, con l’eliminazione delle norme del Codice Rocco. Bisogna ricordare che esistevano diverse norme per gli uomini e per le donne sul potere in famiglia (vis modica e ius corrigendi), sull’adulterio, sul delitto d’onore, sui figli nati fuori dal matrimonio, che erano definiti illegittimi. Lo stupro era un delitto contro la morale e non contro la persona, su questo sarà lanciata la legge di iniziativa popolare nel 1979. Poi arriveranno il divorzio, i consultori, la depenalizzazione dell’aborto, contro la violenza sessuale e la violenza in famiglia.
E le battaglie ancora in atto per continuare a costruire futuro e autodeterminazione, di fronte alle nuove sfide e alle nuove forme di dominio che ci sovrastano.
[NOTE]
1 F. Piva, Storia di Leda. Da bracciante a dirigente di partito, Franco Angeli Edizioni, Milano, 2009.
2 Testimonianza di B. Catini e S. Fontanesi in N. Caiti, R. Guarnieri, La memoria dei "rossi". Fascismo, Resistenza e Ricostruzione a Reggio Emilia, Ediesse, Roma, 1996, pp.126 e 406.
Vittoria Tola, Dalla Resistenza a protagoniste della Repubblica: la nascita dell’UDI in "Noi, compagne di combattimento…". I Gruppi di Difesa della Donna, 1943-1945, Il convegno e la ricerca, ANPI Nazionale, Torino, 2015

mercoledì 20 settembre 2023

La questione istituzionale e la lotta di Liberazione


All'indomani del 25 luglio i partiti antifascisti ricomparvero sulla scena politica, pur non essendo stata loro riconosciuta legalmente la facoltà di costituirsi (come peraltro era volontà del re che, spaventato dall'atteggiamento apertamente filo-repubblicano assunto da molti partiti, in una missiva a Badoglio scriveva “L'attuale governo deve conservare e mantenere in ogni sua manifestazione il proprio carattere di governo militare come annunciato nel proclama del 26 luglio […], a nessun partito deve essere concesso né permesso l'organizzarsi palesemente […]” <98). Il pomeriggio del 9 settembre, mentre infuriava nei pressi del ponte della Magliana la battaglia per la difesa della Capitale dalla Wehrmacht, al primo piano di via Carlo Poma (casa del banchiere sardo Stefano Siglienti, esponente di punta dell'antifascismo romano) veniva fondato il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), organismo che si proponeva di riunire tutti i partiti antifascisti con il fine di coordinare al meglio la lotta all'occupante. I partiti riuniti sotto l'egida del CLN erano il Partito Socialista Italiano d'unità proletaria (PSIUP) rappresentato alla riunione da Pietro Nenni e Giuseppe Romita, il Partito Comunista (PCI) rappresentato da Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola, la Democrazia del Lavoro (DL) rappresentata da Ivanoe Bonomi (Presidente del Comitato e figura più importante dell'antifascismo italiano dal punto di vista istituzionale data la sua passata esperienza di Presidente del Consiglio prima del fascismo) e Meuccio Ruini, il Partito Liberale Italiano (PLI) rappresentato da Alessandro Casati, e infine due partiti praticamente appena costituitisi; la Democrazia Cristiana - che raccolse l'eredità politica del Partito Popolare di don Sturzo e la tradizione ideologica della Dottrina sociale della Chiesa e la cui nascita si fa risalire al marzo 1943 - rappresentata da Alcide De Gasperi e il Partito d'Azione che - nato in clandestinità nel 1942 e irrobustitosi per via della confluenza al suo interno dei principali esponenti di “Giustizia e Libertà” come Bauer e Lussu - era rappresentato da Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea. Non aderirono al CLN il Partito Repubblicano, che per sua vocazione ideologica poneva una pregiudiziale sulla questione istituzionale e non poteva partecipare a un organo in qualche misura legato alla monarchia sabauda (la responsabilità della linea dell'intransigenza repubblicana si dice fosse dovuta a Giovanni Conti, leader del PRI che provava una inscalfibile avversione nei confronti della casata Savoia <99) e gli ambienti militari-monarchici che per l'altro verso non avevano intenzione di prendere parte a un organismo in cui (come si vedrà) era pressoché unanime la condanna della monarchia e il proposito di cambiare la forma istituzionale; tuttavia entrambi queste formazioni politiche prenderanno parte attivamente alla lotta ai nazifascisti, i primi attraverso formazioni partigiane note come Brigate Mazzini e i secondi attraverso le formazioni partigiane autonome guidate da militari e si dicevano i rappresentanti di Badoglio e del Regno del Sud nella lotta partigiana.
Il Comitato di Liberazione Nazionale era strutturato a livello locale in diversi comitati regionali, di cui i più importanti erano quelli operanti in Toscana, in Liguria, in Veneto e in Piemonte che, unendosi a quello lombardo, si costituirono nel febbraio ‘44 nel CLNAI, Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia; questo divenne la costola del Comitato Centrale di stanza a Roma nell'Italia settentrionale, dove la RSI aveva la sua sede- più precisamente a Salò, sulle sponde del lago di Garda- e dove i tedeschi, sentendosi sempre più minacciati dall'avanzata alleata che pian piano sottraeva loro il controllo di territori, instaurarono un regime di occupazione sempre più violento e repressivo, esasperando il contegno e provocando l'aperta ostilità della popolazione nei loro confronti. Bisogna inoltre considerare che differentemente da Roma, dove la lotta ai nazisti fu condotta soprattutto dagli esponenti del movimento intellettuale antifascista con la sostanziale indifferenza della popolazione- “abituata” ai fascisti per via del capillare insediamento in essa di quasi tutte le istituzioni del regime (ministeri, sedi del PNF, sedi delle associazioni fasciste ecc.) -, al centro-nord la partecipazione popolare alla Resistenza fu assai più significativa; ciò era dovuto al fatto che in queste regioni vi era un forte radicamento operaio e proletario, e cioè di quelle classi sociali che costituivano la base elettorale del PCI e del PSI e che non di rado erano state oggetto di persecuzioni da parte dei fascisti durante il ventennio. Gli operai delle fabbriche della FIAT di Torino, della Romeo a Milano, i braccianti delle campagne nei pressi della Pianura Padana non disdegnarono perciò di imbracciare le armi contro i fascisti e di unirsi alla lotta orchestrata dagli intellettuali; anche coloro che non presero parte attivamente alla lotta manifestarono apertamente la loro ostilità ai tedeschi come testimonia l'ondata di scioperi che scosse la Lombardia, il Piemonte e la Liguria nel novembre-dicembre '43 <100.
Il Comitato Nazionale aveva al suo interno una Giunta militare composta su base paritetica da tutti i partiti e un Comitato deputato a prendere decisioni più strettamente di natura politica, anch'essa composto su base paritetica. Se da un punto di vista militare i partiti non riuscirono perfettamente a coordinare le azioni di guerriglia e di sabotaggio al nemico, poiché le formazioni militari partigiane rispondevano direttamente agli ordini dei propri partiti, da un punto di vista politico il CLN fu in grado di esprimersi come una voce unica; ciò però non significava che non esistessero divergenze politiche al suo interno. Innanzitutto è necessario specificare come il Comitato fosse attraversato, sin dalla sua prima riunione, da una frattura tra i partiti dell'ala rivoluzionaria del CLN - quali il PCI, il PSIUP e il Partito d'Azione - e quelli dell'ala moderata - ovvero il Partito Liberale, la Democrazia Cristiana e la DL. Il primo argomento intorno al quale emerse lo scontro tra i partiti era la questione istituzionale; se unanime era il proposito di affidare la scelta della forma istituzionale dello Stato, e quindi la scelta tra Monarchia e Repubblica, al voto del popolo sovrano attraverso un referendum da svolgersi a guerra finita <101, i contrasti sorgevano nel momento in cui si doveva stabilire la posizione da assumere nei confronti del governo Badoglio, espressione della volontà sovrana. I socialisti e gli azionisti erano fermi nel dichiarare la loro incompatibilità con il re e il maresciallo, considerati troppo compromessi con il fascismo e quindi non in grado di rappresentare l'unità nazionale, e chiedevano un governo che fosse espressione delle forze antifasciste <102, i comunisti oscillavano tra la richiesta di un governo espressione delle forze antifasciste (ma in maniera meno intransigente rispetto agli altri due partiti di sinistra) e l'appoggio al governo Badoglio come mezzo per fare uscire l'Italia dalla guerra <103, mentre i democristiani, i demolaburisti e i liberali erano disposti ad appoggiare il governo monarchico-badogliano per tutto il tempo che fosse necessario a uscire dalla guerra. Evidentemente però le ragioni del primo gruppo erano più forti di quelle del secondo se si considera che al primo congresso dei Comitati di liberazione nazionale svoltosi a Bari il 28-29 gennaio '44 emerse chiara e condivisa da tutti i partiti la richiesta di abdicazione del re; non si vedeva alcuna possibilità di dialogo tra il CLN e il governo Badoglio, che d'altra parte non aveva compiuto alcun passo nella direzione dei partiti. Tale impasse venne sbloccato dall'Unione Sovietica che il 14 marzo diede il proprio inaspettato appoggio al governo monarchico, con una mossa volta a sottrarre alle due potenze alleate (Gran Bretagna e USA) il controllo esclusivo sulla politica del Regno del Sud <104; pochi giorni dopo il leader in pectore del PCI Palmiro Togliatti tornò in Italia dal quasi ventennale esilio in Russia e, sbarcato a Napoli il 27 marzo, pronunciò un discorso dinnanzi ai comunisti napoletani in cui sostanzialmente sosteneva la necessità di una collaborazione delle forze resistenziali con Badoglio, considerata come la migliore soluzione per portare a termine la comune lotta contro il nazifascismo. Era questa la famosa “svolta di Salerno” che inserì definitivamente il PC al centro dell'universo politico italiano del dopoguerra. La mossa di Togliatti- che era assai lungimirante non solo perché assicurava al Partito Comunista il ruolo di forza leader all'interno del CLN ma anche e soprattutto perché gli consentiva di entrare direttamente nel governo <105 - denotò uno spiccato pragmatismo politico, sorprendente per il leader di una forza che negli anni '30, nel pieno della dittatura fascista, ancora si ostinava a ritenere possibile ed attuale la prospettiva rivoluzionaria e denunciava tutti gli altri partiti come “una catena di forze reazionarie, che partendo dal fascismo comprende i gruppi antifascisti che non hanno grandi basi di massa (liberali), quelli che hanno una base nei contadini e nella piccola borghesia (democratici, popolari, repubblicani) e in parte anche negli operai (partito socialista riformista) e quelli che avendo una base proletaria tendono a mantenere le masse operaie in una condizione di passività (partito massimalista)” <106. A Salerno Togliatti delinea una svolta delle forze comuniste sintetizzabile con il passaggio dalla prospettiva della rivoluzione, della dittatura del proletariato alla prospettiva della più realistica creazione di una democrazia pluralista e progressista.
Le resistenze socialiste ed azioniste alla svolta di Salerno e alla proposta togliattiana furono vinte dalla soluzione di compromesso trovata il 12 aprile da Enrico de Nicola, in collaborazione con Croce e Carlo Sforza, consistente nel formale mantenimento della carica di sovrano da parte di Vittorio Emanuele III e nel sostanziale trasferimento di poteri al figlio Umberto I in qualità di Luogotenente del regno. Tale trasferimento si sarebbe verificato a decorrere dall'atto di liberazione di Roma.
[NOTE]
98 P. MONELLI, Roma 1943, cit., pp.177-178
99 ALESSANDRO SPINELLI, I repubblicani del secondo dopoguerra (1943-1953), Longo, Ravenna 1998, pp.3-13
100 M. SALVADORI, Storia d'Italia, cit., p.308
101 IVANOE BONOMI, Diario di un anno (2 giugno 1943-10 giugno 1944), Garzanti, Milano 1947
102 M. SALVADORI, Storia d'Italia, cit., p.302
103 Ivi pp.288-289
104 Ivi p.302
105 M. SALVADORI, Storia d'Italia, cit., p.303
106 A. GRAMSCI e P. TOGLIATTI, Tesi di Lione, 1926 in ANTONIO GRAMSCI, La costruzione del Partito Comunista 1923-1926, Einaudi, Torino 1975, pp. 488-513
Guglielmo Salimei, Roma negli anni della liberazione: occupazione nazista e lotta partigiana, Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2020-2021

Il 9 settembre si costituisce, a Roma, il Comitato di Liberazione Nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi e composto dai rappresentati del Partito Democratico del Lavoro, Partito d'Azione, Partito Comunista, Partito Socialista di Unità Proletaria, Partito Liberale, Democrazia Cristiana. Il suo compito è quello di creare le condizioni per una unità d'azione nella lotta di liberazione, in vista dell'obiettivo generale dell'unità nazionale. Esiste, tuttavia, una “costante tensione tra le componenti degli stessi Cln tra le spinte ad anticipare le forme di un nuovo assetto istituzionale fondate su una forte pressione dal basso e una forte valorizzazione delle istanze di autonomia, di autodeterminazione e di autogoverno, e le resistenze di tipo moderato, sostanzialmente convergenti nel ridurre il rinnovamento dopo il fascismo al ripristino delle regole democratico-liberali, tipiche dell'Italia prefascista” <501. Se nell'Italia meridionale si impone la necessità della mediazione politica, in un contesto caratterizzato dalla presenza del governo militare alleato, del governo Badoglio e della stessa monarchia, nell'Italia centro-settentrionale, occupata dai tedeschi, si delinea invece una maggiore caratterizzazione politico-militare che avrà un'influenza notevole sulla direzione e sullo sviluppo della Resistenza.
Non mancano, comunque, episodi di resistenza anche al Sud.
[...] Il problema della defascistizzazione si intreccia con la questione istituzionale. Se il Governo Badoglio rappresenta in qualche modo la continuità dello Stato e, soprattutto, della Monarchia, i partiti del Comitato di Liberazione rappresentano invece, sia pure con posizioni diverse, le istanze di cambiamento e di discontinuità con il passato.
L'occasione per affrontare questi temi è costituita dal Congresso dei Comitati Provinciali di Liberazione, la “prima espressione della opinione collettiva dei Partiti dell'Italia liberata”, che si tiene a Bari nei giorni 28 e 29 gennaio 1944. Già nei giorni che precedono l'inizio del Congresso emergono le diverse posizioni sui temi che catalizzano l'attenzione delle forze politiche.
[NOTE]
501 Enzo Collotti, Natura e funzione storica dei Comitati di liberazione, in AA.VV., Dizionario della Resistenza, cit., pp. 235-236.

Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

mercoledì 13 settembre 2023

Attraverso le elezioni, i cittadini europei avrebbero potuto accrescere progressivamente il loro interesse nei confronti dei temi comunitari


Una curiosa espressione di Jacques Delors, più volte utilizzata nel corso della sua carriera, definì le istituzioni comunitarie come un "opni, oggetto politico non identificato". L'affermazione di Delors appare come un compromesso tra l'interesse a tutela dei diritti degli Stati e la necessità di attribuire al processo di integrazione europea istituzioni stabili e soprattutto autonome.
In realtà, i caratteri di profonda instabilità mostrati dal modello di Comunità ne fecero scaturire due orientamenti interpretativi differenti. Il primo considerò il raggiungimento dell'obiettivo prefissato nella realizzazione di una unione politica; come sostiene Riccardo Perissich, "Ai limitati trasferimenti di sovranità già decisi, altri ne sarebbero seguiti, anche se sempre in modo graduale. Coerentemente con questo approccio, le istituzioni avrebbero dovuto evolvere verso un modello classico. La Commissione si sarebbe trasformata in un esecutivo federale; il Consiglio dei ministri in un "Senato degli Stati"; l'Assemblea parlamentare in un vero Parlamento federale" <490.
Il secondo orientamento si basò sull'idea che il principio di sovranità non potesse essere frammentato e che il conferimento di potere previsto dai Trattati fosse più di carattere tecnico che politico. Questa seconda interpretazione aumentò i dubbi e la diffidenza nei confronti della Commissione e ancor più del Parlamento. C'è da dire inoltre, che gli Stati firmatari dei Trattati si riconobbero più nella prima lettura del modello, con un necessario distinguo per la Francia che, all'epoca dell'entrata in vigore era presieduta dal generale Charles De Gaulle, fortemente contrario, come noto, all'idea di una qualsiasi minima cessione di potere a livello sovranazionale.
A seguito della fusione di CECA, CEE ed EURATOM una sola Commissione unificò l'apparato amministrativo mentre al Parlamento europeo venne assegnato unicamente il compito di esercitare il potere in materia di bilancio, oltre ad una funzione meramente consultiva; l'elezione diretta del Parlamento fu contemplata nell'articolo n. 138 del Trattato istitutivo della Comunità europea nel quale, oltre ad essere indicato il sistema di elezione dei parlamentari europei delegati come provvisorio, venne previsto che il Parlamento avrebbe elaborato progetti volti alla realizzazione di una procedura di elezione uniforme per tutti gli Stati membri.
Di fatto, negli anni che intercorsero tra il 1951 e il 1976, furono presentate numerose proposte orientate all'istituzione della procedura di elezione a suffragio universale diretto che, dopo molte difficoltà, trovarono soltanto nel 1979 la loro attuazione; questo risultato rappresentò l'inizio di una nuova era in cui l'importanza della comunicazione politico-istituzionale giocò un ruolo fondamentale per creare il necessario contatto con i cittadini, in previsione della loro partecipazione al voto europeo.
Ricordiamo come nel 1974, al vertice francese presieduto da Valéry Giscard D'Estaing, venne adottata la decisione di istituire il Consiglio europeo e l'elezione diretta del Parlamento. L'evento avrebbe esercitato una notevole influenza nella dinamica istituzionale europea; nonostante il suo assetto di Assemblea diversa da quelle nazionali, il Parlamento europeo direttamente eletto avrebbe preteso un aumento della propria influenza politica così come del proprio peso istituzionale.
Attraverso le elezioni, i cittadini europei avrebbero potuto accrescere progressivamente il loro interesse nei confronti dei temi comunitari riuscendo a percepire meglio l'esistenza di un'istituzione fino ad allora poco conosciuta. Su questo aspetto federalisti e "gradualisti" si collocarono su posizioni discordanti, in quanto i primi da sempre consideravano il Parlamento eletto come "Congresso del popolo europeo" e quindi come il potere costituente della futura Federazione europea. Personalità di spicco sui singoli piani nazionali, costantemente impegnate nella causa dell'integrazione europea (solo per citare alcuni nomi si ricordano Altiero Spinelli, Simone Veil, Helmut Kohl, Jacques Chirac), oltre ad esponenti politici ed intellettuali che interpretarono un ruolo di forte influenza all'interno dei loro partiti riguardo alla scelta europeista (per l'Italia ricordiamo Giorgio Amendola, Enrico Berlinguer, Mauro Ferri, Gaetano Arfè), si impegnarono con l'intento di legittimarne il ruolo rispetto alle altre istituzioni, in particolar modo la Commissione. I parlamentari eletti nel primo suffragio universale diretto si trovarono quindi ad affrontare temi che andavano dalla questione dei Paesi comunisti ai rapporti con il Terzo mondo, alla progettazione di una televisione europea fino alla necessità di redigere una prima bozza di Costituzione europea.
Il ricorso alle candidature di personalità politiche ben note all'opinione pubblica quali Enrico Berlinguer, Simone Veil, Willy Brandt, si pensò potesse offrire un maggiore potenziale all'organizzazione della propaganda.
La campagna elettorale del giugno 1979, così come le altre due successive, fu tuttavia caratterizzata, soprattutto in Italia e Francia, da argomenti troppo spesso collegati alla dialettica politica della propria nazione. In ogni caso l'informazione data ai cittadini europei fu in grado di suscitare un inevitabile interessamento ai problemi comunitari, ma soprattutto alla realtà sovranazionale.
L'affluenza al voto fu comunque inferiore rispetto alle elezioni nazionali. Nei motivi della scarsa partecipazione al voto, oltre l'assenza di dibattito propriamente europeo vi fu anche il fatto che le strategie dei partiti tesero ad una sorta di strumentalizzazione delle elezioni europee, puntando attraverso le campagne elettorali al perseguimento di obiettivi nazionali.
Il primo scrutinio diretto fu in grado comunque di dare una ventata di novità al concetto di democrazia europea. La nuova legittimità consentì al Parlamento di consolidare nel tempo i propri poteri e di interpretare un ruolo all'interno del processo decisionale comunitario che all'epoca poteva dirsi quanto meno "nebuloso".
Una volta fissato il periodo di svolgimento delle prime elezioni, le forze politiche nazionali dovettero sostenere una sfida che le avrebbe costrette a rimettersi in gioco, cercando di rinnovare gli argomenti e i temi individuati per le campagne elettorali nazionali. Una maggiore consapevolezza riguardo alla necessità di allargare l'orizzonte, senza trascurare tuttavia il contatto con i propri elettori e cercando le possibili somiglianze con gli altri partiti europei, avrebbe consentito di conciliare la propria ideologia in un contesto più ampio.
Occorre tener presente come tra il 1975 e il 1979 si fossero create all'interno dell'Assemblea parlamentare non eletta, formazioni politiche rappresentative di partiti accomunati da un orientamento affine a quello nazionale. La diversità di ideologie, tuttavia rendeva queste coalizioni molto deboli, soprattutto per via della tanto difficile integrazione ostacolata dalla predominanza degli interessi nazionali anteposti a quelli comunitari. La primazia dei partiti nazionali ha sempre costituito un ostacolo all'autonomia di azione dei gruppi e delle federazioni lasciando, fino ad oggi, inattuata la costituzione di veri e propri partiti europei.
All'indomani del primo suffragio universale diretto, tuttavia, il nuovo parlamentare europeo avrebbe assunto il ruolo di trait d'union tra il proprio elettorato, il proprio partito, la coalizione europea e il Parlamento stesso.
I tratti caratterizzanti il percorso politico-istituzionale del Parlamento europeo sono stati oggetto di approfondimento nello studio dei casi relativi ai tre Paesi considerati rivelando le differenze che, per la natura stessa del ruolo giocato nel contesto sovranazionale, non hanno risparmiato il processo di integrazione e, nel caso specifico, la partecipazione alle elezioni dirette del Parlamento. Accomunando Italia e Francia, Paesi fondatori della Comunità europea che si dimostrarono troppo intenti a trattare temi nazionali durante le campagne elettorali, nel Regno Unito l'idea di Europa si coniugò con la costante valutazione di tutti gli elementi che sarebbero risultati convenienti per partecipare, senza che tutto ciò costringesse a modificare o rinunciare a quanto già in possesso, atteggiamento che trovò nella linea di governo di Margaret Thatcher una perfetta interpretazione durata per l'intero decennio esaminato.
Se per il primo suffragio universale diretto l'attività maggiore fu quella di approntare nuovi metodi organizzativi per le campagne elettorali, adatti alla ricerca di un consenso più ampio, diretto a legittimare l'istituzione sovranazionale, nella seconda e terza tornata le riflessioni delle forze politiche si resero necessarie per cercare di individuare le cause del progressivo calo partecipativo. I difetti di una comunicazione politica spesso basata su issues nazionali, soprattutto riguardo la Francia, ha di sicuro rappresentato una delle possibili cause, ma l'atteggiamento stesso dei partiti, apparso frequentemente poco incline a credere seriamente nell'importanza delle elezioni, ha lasciato percepire incertezza ai cittadini europei.
Per altro verso, anche le campagne elettorali comunitarie, sebbene abbiano investito molte risorse per cercare di catturare il consenso dell'opinione pubblica, hanno mostrato la parziale efficienza dei mezzi messi in atto.
Elezioni di second'ordine quindi? E' possibile parlarne ancora in questi termini? Da quanto emerso nel corso della ricerca condotta sul versante storico-politologico, il livello delle elezioni europee non risulta affatto secondario. Il dato partecipativo, anzi è inversamente proporzionale alla quantità di lavoro preparatorio sia dal punto di vista politico che amministravo-istituzionale, ben superiore a qualsiasi suffragio nazionale.
Ci si chiede allora perché gli elettori non abbiano risposto con altrettanto entusiasmo. Qui le risposte trovano differenti possibilità da tenere nella giusta considerazione: la poca attenzione ai temi comunitari, la qualità della comunicazione, l'errore di propagandare l'evento troppo a ridosso delle date di svolgimento, l'eccessiva distanza tra istituzioni e cittadini, il livello culturale degli elettori, i giorni della settimana individuati per i suffragi spesso troppo vicini ad elezioni nazionali appena svolte, la classe politica poco convinta.
In realtà tutti questi fattori rappresentano concause della scarsa partecipazione. Il cittadino europeo in mezzo a questo guazzabuglio è il personaggio principale di una performance in cui lui stesso determina la riuscita.
Nonostante i numeri evidenzino una progressiva flessione nei dieci anni esaminati, i cittadini non sono rimasti indifferenti di fronte alle novità introdotte dal processo di integrazione europea. Spesso, soprattutto durante i sondaggi, accanto ad una percentuale di "indifferenti" o "euroscettici", molti intervistati hanno lamentato la poca autorità del Parlamento europeo nel contesto istituzionale comunitario <491 confidando in ulteriori progressi strutturali. Il mancato raggiungimento di questo obiettivo, preannunciato già prima del 1979, insieme alle vicende politiche legate al proprio Paese, ha gradualmente provocato negli elettori reazioni di protesta attraverso il non voto o il voto negativo <492, comportamenti capaci di delineare una partecipazione differente rispetto alla decisione di esprimere la propria scelta. Questo tipo di elettore ha mostrato di essere stato raggiunto dall'informazione diffusa durante le campagne elettorali e, sulla base di quanto appreso, ha deciso consapevolmente di non votare o di esercitare un voto diverso annullando o votando scheda bianca; quindi si è recato ai seggi, non è rimasto inerte disinteressandosi di quanto stava accadendo. L'auspicio di un consolidamento istituzionale del Parlamento e di una maggiore coesione politica della Comunità europea non ancora raggiunti, anche per responsabilità delle politiche nazionali, ha posto l'elettore in condizione di negare il proprio contributo o protestare verso il mancato conseguimento dei risultati.
L'accrescimento della conoscenza e del coinvolgimento, sebbene presenti, non sono andati di pari passo con la partecipazione. Elementi di insoddisfazione hanno caratterizzato il comportamento dell'elettore realmente europeista.
I cittadini europei possono in realtà collocarsi in tre macro aree nelle quali si ritrovano gli europeisti, gli euroavversi e gli euroscettici. Se le aspettative degli europeisti sono rimaste deluse, gli euroavversi hanno parzialmente esercitato il diritto di voto alimentando quelle liste comunque presenti nella competizione europea. Gli euroscettici, invece hanno rappresentato il punto nevralgico dell'elettorato. Trovandosi in quella parte di popolazione attenta ad osservare quali e quanti cambiamenti sarebbero avvenuti a partire dal 1979 hanno avuto modo di consolidare la loro posizione continuando a percepire la Comunità ancora lontana e prevalentemente scomoda se non inutile. A differenza dell'europeista deluso che comunque ha continuato a partecipare, magari protestando, e dell'euroavverso che ha espresso il suo disappunto preferendo i partiti antieuropeisti, l'euroscettico ha proseguito nell'osservazione, affiancandosi agli incerti che sono rimasti a casa.
A questo punto sono apparse inevitabili ulteriori valutazioni verso quegli elementi che caratterizzano le elezioni in genere. Ciò che attrae il cittadino ai seggi elettorali è prevalentemente il peso che le elezioni possono esercitare sui cambiamenti del governo nel proprio Paese. Il "less at stake" delle elezioni europee ha rappresentato sicuramente uno dei motivi scatenanti i sentimenti appena descritti; lo scenario si profila diverso, "In such ‘marker-setting' elections, voters have an incentive to behave tactically, but in a sense of the word ‘tactical' that is quite different from what we see in National elections, where large parties are advantaged by their size. In a markersetting election the tactical situation is instead characterized by an apparent lack of consequences for the allocation of power, on the one hand, and by the attentiveness of politicians and media, on the other" <493.
La mancanza di conseguenze sul livello nazionale garantita dalle elezioni europee ha "alleggerito" l'elettore della responsabilità di orientare con la propria scelta il corso della politica nazionale. Sebbene nel 1979 vi fosse stata un'attività partitica a livello transnazionale consentita anche dalla disponibilità di fondi in quel periodo, l'attenzione dell'elettorato fu minima. In termini di risultati transnazionali la percezione fu praticamente irrilevante; circa il cinquanta per cento dei votanti ammise di non aver idea di quali gruppi avessero ottenuto maggiori consensi.
Altro aspetto da non sottovalutare si collega allo sproporzionato successo ottenuto dai partiti più piccoli rispetto ai grandi; è in questo caso che si può parlare di voto punitivo nei confronti della politica del governo nazionale.
[NOTE]
490 R. Perissich, L'Unione Europea una storia non ufficiale, Milano, Longanesi, 2008, p. 54.
491 Si vedano a questo proposito i risultati emersi nella pubblicazione della Commissione delle Comunità europee, Eurobarometro - L'opinione pubblica nella Comunità europea, Vol.1, 32/89, Direzione generale Informazione, comunicazione e cultura, Bruxelles, 1989.
492 Cfr. A. Gianturco Gulisano, La fenomenologia del non voto, in R. De Mucci (a cura di), Election day. Votare tutti e tutto assieme fa bene alla democrazia?, cit.
493 C. Van der Eijk, M. Franklin, M. Marsh, What voters teach us about Europe-Wide Elections: what Europe-Wide Elections teach us about voters, in "Electoral Studies", vol. 15, n. 2, p. 157.
Doriana Floris, Le prime elezioni per il Parlamento europeo e la partecipazione nazionale: un confronto tra Italia, Francia e Regno Unito, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, 2014

domenica 3 settembre 2023

Il gappista andava incontro ad una morte quasi certa


Sull’esistenza di un vuoto storiografico riguardo ai Gruppi di azione patriottica (Gap), è facilmente constatabile un comune accordo tra gli studiosi. Ed è un vuoto che pone degli interrogativi di qualche interesse, visto che l’attività dei Gap e le sue conseguenze da sempre hanno innescato dibattiti e polemiche; spesso assai virulente, destinate a ripresentarsi, stucchevolmente ripetitive, bloccate in una contrapposizione tra detrattori ed esaltatori, mentre la ricerca in proposito è stata quanto meno asfittica fino agli anni settanta, e quasi inesistente nei decenni successivi, ad eccezione di alcune biografi e di comandanti gappisti, e di pochi studi su singole realtà provinciali (tra i quali il migliore resta Luigi Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera: le brigate Garibaldi a Milano e provincia, 1943-1945, FrancoAngeli 1985).
Se le ragioni di questo vuoto consistessero nella mancanza di documentazione, il problema sarebbe già risolto, anche se non brillantemente: senza documenti, non si fa storia. Fortunatamente, per quanto riguarda le complesse vicende riguardanti costituzione, finalità, modalità operative, successi ed insuccessi dei Gap, i documenti ci sono, anche se non sempre di agevole consultazione. L’archivio del Partito comunista, che dei Gap fu il principale organizzatore, offre una notevole messe di documenti, spesso volutamente reticenti, o discontinui; intrecciati con le numerose autobiografie, ricordi e saggi di dirigenti e protagonisti, e integrati dalle fonti di polizia, rappresentano un buon punto di partenza per avviare una ricostruzione criticamente fondata della storia dei Gap. Dunque, le ragioni di un visibile vuoto storiografico non vanno cercate in questa direzione.
La spiegazione più ovvia, ma non per questo meno valida, è che si tratti di un argomento scomodo, affrontando il quale è difficile, anzi estremamente arduo, sottrarsi a giudizi di valore.
[...] Nessun democristiano o liberale ha mai condiviso, tanto meno dunque progettato o realizzato, la pratica degli attentati urbani; gli azionisti hanno in teoria approntato qualcosa di simile alle strutture gappiste, salvo utilizzarle quasi mai, o protestare con veemenza la loro estraneità agli attentati più clamorosi, su tutti naturalmente l’uccisione del filosofo Giovanni Gentile. In verità, nemmeno per il Partito comunista è stato facile reclutare e rendere operative le poche decine di gappisti indispensabili ad innescare la lotta armata nelle città occupate dell’autunno 1943; ancor più problematico fu sostituire la prima leva di gappisti, quasi tutti morti entro la primavera 1944: l’altissimo rischio della cattura, della tortura e della morte ebbe certo un ruolo non secondario accanto alle resistenze e perplessità di tipo etico nel rendere estremamente difficile trovare i combattenti disponibili ad entrare nei Gap.
A rendere problematico il superamento di reticenze e censure che hanno caratterizzato le autorapresentazioni del gappismo, oltre alle ragioni già ricordate, un forte contributo è stato fornito dall’offensiva antiresistenziale che a partire dal 1948 ha utilizzato proprio le questioni connesse all’uso della violenza, all’incerto statuto di legittimità nel quale i partigiani erano rimasti confinati, come armi giudiziarie e mediatiche per trasformare i combattenti in avventurieri sanguinari. In questa generale offensiva, i Gap, per molte intuibili ragioni, rappresentarono un argomento prediletto dai detrattori. Dai neofascisti degli anni cinquanta ai loro epigoni degli ultimi vent’anni, nei Gap si è voluto cogliere soprattutto, o esclusivamente, la responsabilità di suscitare feroci rappresaglie, cercate scientificamente dalla parte feroce, o cinica, della Resistenza.
Sia all’esaltazione acritica, sia alla demonizzazione, una ricostruzione del concreto, complicato e drammatico farsi dell’esperienza gappista non è mai parso un compito urgente e inderogabile.
A questo insieme di ragioni, già bastevoli, credo, a capire perché il gappismo sia argomento scomodo e poco frequentato dagli storici, andrà aggiunta almeno un’altra causa, tanto ovvia da poter essere anche solo accennata: il gappismo è stato rivendicato come il proprio antecedente legittimante da parte dei brigatisti degli anni settanta, fatto che ha naturalmente determinato un anatema sulla parola stessa. Terrorismo divenne sinonimo di follia omicida senza giustificazioni. Le stizzite e preoccupate precisazioni del Partito comunista tesero soprattutto a stabilire incommensurabili differenze fra le due epoche e i due fenomeni; ma come è noto, l’ansia autodifensiva non è mai una generosa levatrice di ricerche storiche, e così, ancor oggi il gappismo non è problema con il quale la storiografia della Resistenza si sia più misurata a fondo.
Santo Peli, I Gap nella Resistenza, SIM, 6 agosto 2015

Le città italiane del concitato triennio 1943-45 offrivano una serie di caratteristiche favorevoli per organizzare questo tipo di colpi: i bombardamenti delle forze Alleate rendevano impossibile stabilire i movimenti da e verso i centri urbani e gli sfollamenti impedivano alla neonata Repubblica Sociale Italiana (Rsi) e alle forze occupanti di controllare con efficacia l’ordine pubblico, nonostante gli sforzi profusi <4. In secondo luogo le città garantivano un vasto pubblico operaio, pronto, almeno secondo le convinzioni dei comunisti, a raccogliere l’esempio Gap e ad unirsi alle forze della Resistenza.
Per affrontare l’argomento dei Gap è doverosa una premessa: non è possibile parlare di gappismo senza tenere presente che ci troviamo di fronte ad esperienze eterogenee e assai difficilmente assimilabili; ogni Brigata Gap presenta peculiarità sociali, numeriche, di genere. In molti casi è legittimo domandarsi se queste esperienze siano tenute insieme solo dalla parola Gap e l’esempio più evidente di questa contraddizione è sicuramente il caso emiliano.
In Emilia il gappismo si sviluppò prevalentemente nelle campagne che circondavano le città e, a partire dalla primavera del 1944, la guerriglia in pianura assunse dimensioni tali da poter parlare di un vero e proprio esercito formato prevalentemente da contadini, mezzadri e braccianti, e da rappresentare una secca smentita a chi riteneva la pianura un luogo assolutamente non idoneo per combattere con i metodi della guerriglia <5.
Questa tipologia di lotta è assai diversa da quella che si sviluppò nei maggiori centri industriali del nord Italia (Milano, Torino, Genova) e ancora diversa da quella che si sviluppò in città liberate nella primavera-estate del 1944 (Roma e Firenze), dove il gappismo fu un fatto di pochi.
Il caso emiliano è dunque del tutto specifico e non può essere indicativo per altre realtà: l’appoggio e la partecipazione dei contadini alla lotta è una delle sue caratteristiche distintive. Le ragioni storiche dello straordinario sviluppo della Resistenza in queste zone vanno ricercate nella forte coscienza di classe dei contadini emiliani che si era consolidata attraverso le prime leghe cooperative ed attraverso un’avversione al fascismo che aveva radici ben più profonde di quelle fatte risalire all’8 settembre <6.
All’interno di quello che possiamo definire “gappismo di massa emiliano” si situa però anche la 7ª Gap bolognese che, per la sua caratteristica di agire in un contesto urbano più ampio, è da considerarsi ancora un caso a parte rispetto alle brigate Gap che agirono nei piccoli centri emiliani, i cui colpi furono architettati principalmente nei centri di prima periferia. La 7ª Brigata Gap arrivò a contare 24 squadre di gappisti, divisi tra Bologna ed il circondario bolognese, nella primavera-estate del 1944 <7. Alcide Leonardi, che assunse il comando proprio in quel periodo, riuscì ad imprimere un’efficacia straordinaria alla Brigata: nei centri di prima periferia vennero prese d’assalto le cabine telefoniche ed elettriche, le ferrovie, i tralicci dell’alta tensione e venne riposta molta attenzione all’attacco contro gli automezzi tedeschi, mentre nel centro cittadino non si allentò l’attività più strettamente terroristica. A partire dall’estate del 1944 vennero infatti messi in scena i colpi più clamorosi e spettacolari che presupponevano una grande forza numerica ed organizzativa e che hanno reso la Brigata bolognese un caso assolutamente unico: l’uccisione del vicefederale di Bologna (9 luglio), la bomba collocata al cinema Manzoni (20 luglio), la liberazione dei detenuti politici dal carcere di San Giovanni in Monte (9 agosto), i due attacchi all’hotel Baglioni (rispettivamente 29 settembre e 18 ottobre) e gli spericolati recuperi di armi portati a termine dalla squadra “Temporale” <8.
È quindi chiaro come sia difficile parlare di gappismo senza sottolineare che, in realtà, potremmo parlare di esperienze molto diverse tra loro in ragione del contesto urbano, sociale e politico: cercare di proporre una sintesi senza tenere conto dei diversi casi locali ci porterebbe ad una descrizione parziale e per certi versi anche fuorviante <9.
In generale la storia dei Gap si caratterizza per una difficoltà nel reclutamento e la loro entrata in azione venne più volte sollecitata dai comandi superiori che non si riuscivano a capacitare del cronico ritardo dell’organizzazione. Sia in fase iniziale che in fase inoltrata quando, in molti casi, interi nuclei di Gap caddero sotto i colpi delle delazioni e il lavoro dovette ricominciare da capo, il reclutamento fu assai arduo. Le difficoltà erano dovute ad una serie di fattori umani ed organizzativi. La percezione del forte rischio che si correva era un fattore da considerare: il gappista andava incontro ad una morte quasi certa e, per questo, molti scelsero di andare in montagna, dove in genere si combatteva una guerra più convenzionale, con più probabilità di fare ritorno a casa a liberazione avvenuta.
La peculiarità della lotta dei Gap erano infatti la clandestinità più assoluta e l’isolamento insieme, per i più, al distacco totale dalla famiglia e dagli ambienti frequentati prima di entrare a far parte della guerriglia. Nonostante ciò a Firenze le norme cospirative furono assai più fluide di quelle stabilite: il gruppo fondatore dei Gap proveniva da una banda di montagna, dove le precauzioni cospirative erano meno stringenti. I giovani reclutati avevano continuato a risiedere, anche dopo l’ingresso in clandestinità, nei rioni popolari di San Frediano e Santa Croce, dove erano molto conosciuti. Questi elementi fecero sì che a Firenze non si ebbero nemmeno i nomi di battaglia, se non come pure formalità <10.
Nelle memorie e nei diari pubblicati nel dopoguerra, ricorre con insistenza il tema di una guerra collettiva portata avanti nella solitudine. Carla Capponi descrive così la sensazione di liberazione quando le venne ordinato di abbandonare Roma per raggiungere Palestrina: "avevo riflettuto a lungo su quanto la lotta fosse diversa in città, per le strade e le piazze di Roma, dove ogni albero era un fortino tedesco e i fascisti giravano in branchi armati. Stare nascosti nella cantina di Duilio, vagare di notte per effettuare colpi di mano alle colonne tedesche in transito verso il fronte, girare armati sapendo che a ogni angolo potevi essere perquisito, arrestato, ucciso; conoscere i luoghi della tortura e persino i volti degli aguzzini e dei nemici che opprimevano la città: tutto questo ci aveva tenuti in una tensione continua. A Palestrina le cose erano diverse: la lotta armata si svolgeva a viso aperto e gli scontri, anche se impari, avvenivano a faccia a faccia con il nemico. Io mi sentivo serena, tranquilla nella coscienza di assolvere un dovere. Il gappista tende un agguato e non vede quasi mai le vittime del suo attacco, mentre il partigiano non solo vede in faccia il nemico ma ne vede anche la morte e ne deve seppellire il corpo per impedire conseguenze sulle popolazioni civili" <11.
La freddezza nell’affrontare la morte diventava determinante per chi doveva colpire in pieno giorno: era necessario saper disumanizzare il nemico, non preoccuparsi della sua vita, della sua famiglia, oppure del fatto che il milite in questione fosse o meno convinto della scelta intrapresa. Questo problema si poneva con meno prepotenza nella guerra in montagna dove era possibile affrontare la morte in maniera velata, come conseguenza inevitabile della guerra. La guerra in città poneva invece interrogativi sulla vita e soprattutto sulla morte non eludibili; la morte doveva essere guardata in faccia con meno mediazioni, anche culturali: il gappista dopo aver sparato ripiombava nella solitudine dato che con i compagni di lotta raramente poteva condividere impressioni o titubanze per non contravvenire alle norme cospirative.
Un altro elemento che ritroviamo nei diari e nelle memorie dei gappisti è la difficoltà iniziale ad eseguire gli ordini imposti dal comando di agire subito e di colpire “uomini vivi”. Rompere questo digiuno delle armi fu per molti una scelta sofferta, difficile, ricordata con una sensazione di profondo malessere: "Ma noi non riuscivamo a dimenticare che le nostre armi avevano fatto fuoco su uomini vivi. Li avevamo visti. […] Avevo sparato su un uomo. Non riuscivo a parlare, a mescolarmi di nuovo con i miei amici. Ormai tra me e loro era avvenuta una rottura decisiva: io avevo cominciato la guerriglia. […] Io me ne rimasi solo, sveglio, a pensare. Mi domandavo mille volte se un uomo aveva il diritto di colpire un altro uomo. A una domanda così semplicistica mi rispondevo mille volte di no. Ma la mia guerra era legittima, e soprattutto non l’avevo voluta io, né gli uomini della mia parte. Eravamo stati travolti da un mare di violenza, cercavamo di difenderci da essa e di salvare quanto fosse più possibile dallo sfacelo" <12.
[NOTE]
4 Cfr. L. Paggi, Il «popolo dei morti». La repubblica italiana nata dalla guerra (1940-1946), il Mulino, Bologna 2009, pp. 110-116.
5 Cfr. M. Conti, Guerra in pianura. I Gruppi di azione patriottica (Gap) a Reggio Emilia, «RSRicerche Storiche», 118 (2014).
6 Cfr. D. Gagliani, Culture comuniste tra anni ’30 e ’40: Togliatti e Reggio “rossa”, alcune note, in G. Boccolari, L. Casali (a cura di), I Magnacucchi, Valdo Magnani e la ricerca di una sinistra autonoma e democratica, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 25-46; L. Casali, D. Gagliani, Presenza comunista, lotta armata e lotta sociale nelle relazioni degli «ispettori»: settembre 1943-marzo 1944, in L. Arbizzani (a cura di), Azione operaia, contadina, di massa, in L’Emilia Romagna nella guerra di Liberazione, vol. III, De Donato, Bari 1976, pp. 499-611.
7 Istituto per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Reggio Emilia (d’ora in poi ISTORECO), Fondo Archivi della Resistenza (d’ora in poi AR), b. 1b, fasc. 18, Delegazione per l’Emilia del comando generale dei distaccamenti e Brigate d’Assalto Garibaldi, giugno 1944.
8 Per una sintesi del caso bolognese cfr. M. De Micheli, 7ª Gap, Editori Riuniti, Roma 1971.
9 Il recente libro di Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e resistenza, del quale abbiamo preso visione solo a lavoro ultimato, restituisce per la prima volta una sintesi dell’esperienza dei Gap attraverso un’avvincente ricostruzione dei colpi più rappresentativi. L’autore chiarisce che la scelta del plurale “storie di Gap” in luogo del singolare “storia dei Gap” è tesa a delimitare i confini della sua ricerca che, non potendosi basare su una mole di studi locali criticamente fondati - tuttora assenti -, ha dovuto comprendere solo i casi ritenuti esemplari ed emblematici. Cfr. S. Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e resistenza, Torino, Einaudi 2014, p. 8.
10 A. Fagioli, Partigiano a 15 anni, Alfa, Firenze 1993, p. 106.
11 Carla Capponi, Con cuore di donna, il Saggiatore, Milano 2000, pp. 277-278; cfr. anche R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, a cura di M. Ponzani, Einaudi, Torino 2011, pp. 110-111.
12 Cfr. R. Bentivegna, Achtung Banditen! Roma 1944, Mursia, Milano 1983, pp. 82-83.

Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune line di ricerca in Aa.Vv., Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea - II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici - Rivista di storia contemporanea, 3 (2015)