domenica
Comincia che sono qui, ancora a
Roma, e leggo un libro. I fiori blu
di Queneau.
Dice: tradotto da Calvino. In
verità è rifatto, esplicitamente. Calvino spiega in appendice che era
complicato tradurlo, perché Queneau aveva inventato tutto, dai nomi artefatti e
allusivi (a volte citano, a volte sono nomi parlanti), alle situazioni (pour cause, viene da dire) surreali. In
questo caso tradurre significava reinventare tutto in italiano, anche i nomi...
E spiega le cose con l’aria imbarazzata di chi vuole scusarsi per essersi
trovato a dover inventare troppo... Come non sapesse che tradurre è sempre
riscrivere. E cos’è riscrivere se non reinventare? E cos’è inventare se non
trovare (ciò che finora non s’era trovato)?
Lascio andare e continuo a leggere.
È che partiremo fra tre giorni e prima voglio finire il libro.
Così mi trovo a leggere di un
guardiano che carica una pipa profferendo
distrattamente frasi di un certo tipo... Lì per lì non capisco: è un refuso?
oppure anche in francese è possibile questo gioco di parole per cui delle frasi
possono essere proferite come profferta di un certo tipo di dialogo? o invece è
un’invenzione sottile del traduttore per ridare appunto un senso altrimenti
costruito dall’autore francese?
Mah!
Desolato, ricordo che ieri, una
pagina prima, avendo trovato che il protagonista avrebbe potuto andare a letto, mi sono rifiutato di star lì a
perdere tempo con queste minuzie. L’ho chiusa lì, ho interrotto la lettura per
pensare a cose pratiche.
Solo che le cose pratiche sono
anche taluni preparativi per la partenza e non riesco ad evitare l’accostamento
del nostro volo, fra tre giorni, con quello malaugurato dell’aereo tedesco che
qualche giorno fa s’è fracassato sulle montagne francesi a causa d’un copilota
narciso triste fino alla follia.
C’è un nesso?
Ed è che minuzie trascurate... da
un medico, da un manager... da addetti a quel lavoro intellettuale diffuso che
oggi è responsabile del buon andamento della società... minuzie hanno influito
sul prodursi di una catastrofe di centocinquanta vite?
Non era che da tre o quattro secoli
eravamo entrati nel tempo della precisione?
Ora la virtù dell’azione in sé, la
felice persuasività dell’atto performativo, ha di nuovo cambiato tutto?
Siamo tornati alla bella
schiettezza, all’immediatezza cosmica del medioevo tutto fede e destino (e
santi benedetti) (oppure Tanato)?
Nel frattempo mi càpita di leggere
che la nioque di Francis Ponge (lì
per lì uno dice: la gnocca del ventennio semi beota appena trascorso?) non è
altro che una pre-sessantottina proposta di scrittura antipoetica, da Ponge allegorizzata nella scrittura invece fonetica della parola conoscenza (ma un po’ contortamente,
essendo prima risalito a un supposto grecizzante gnoque da gnosi).
Lo spirito delle movenze
sessantottesche starebbe dunque nell’antipoetico,
nel senso di farla finita con le seduzioni e gli infingimenti della
poesia-parola per andare diretti alla cosa-cosa. Si tratterebbe dunque (come
dice un commentatore) del Partito preso
delle cose, volume che Ponge pubblica già nel 1942, trovandosi sul sentiero
tracciato da Rimbaud quando aveva detto di aspirare a una «poesia oggettiva».
Mi trovo davanti questo tema per
merito di Marco Giovenale, di cui da tempo seguo le mosse, le mosse che vedo,
senza capirle. Ed ecco che ora egli scrive con chiarezza: «A partire dalle
posizioni testuali e critiche di Jean-Marie Gleize e delle rivista Nioques».
Posizioni che Gleize propone come
«una specie di programma aperto per quanti si pongono il compito di ‘uscire’ in
maniera permanente e di esplorare un dopo-la-poesia
che utilizzi tutti i mezzi della ‘prosa in prosa (in prose)’, oltre ogni
pretesa estetica e puntando al contrario ad alcuni effetti di conoscenza del
mondo, del ‘mistero ambiente’ come diceva Ponge...»
Dunque a partire dalle posizioni di
Gleize e di Nioques, «come del gruppo
di Questions Théoriques, ma prima
ancora dal lavoro di uno degli autori che potremmo pensare alle origini di un
cambio di paradigma, e che può essere considerato un maestro per più
generazioni di ‘postpoeti’: Denis Roche», si perviene a una volontà di poesia,
precisa Marco Giovenale, come «scrittura littérale,
piana, non assertiva», che si trova «in posizione diametralmente opposta
rispetto a qualsiasi ritorno a formule di tipo espressionista».
A me sembra tuttavia che il bisogno di reale che ha oggi l’uomo, e
dunque di dire il reale prima di agirlo, se è di questo che si tratta,
non possa venir confuso con il rifiuto della poesia verbigerante confusa con
l’oratoria manipolativa (e dunque - forzando, ma si fa per dire - con la
pubblicità o la canzonetta: che pure posseggono un loro appropriato e legittimo
statuto retorico, una loro circoscritta bellezza e verità).
La poesia in realtà oggi, mi pare
di capire guardando il mondo, è piuttosto fortemente interrogata dalla
incalcolabile e sterminata (e anche indeterminata) rivoluzione del reale umano
che stiamo vivendo. Ha dunque davanti a sé una sfida esistenziale cui non
dovrebbe poter rispondere lasciando ad altri il compito suo. Infatti: ad altri
chi? Che cosa sarebbe ciò che risponde a tale bisogno di verità, di scoperta, di invenzione,
se non la poesia che, nella piena coscienza di sé, fa deontologicamente il suo lavoro?
lunedì
Quanti problemi per chi si accinge
a scrivere oggi!... Mah, credo però che sia sempre stato così, consapevolmente
o no.
primo
aprile
Sull’aereo più o meno un centinaio
di persone che da Roma vanno a Budapest. A occhio (e orecchio) pare che siano
tutti italiani. La statistica dirà altro, ma il mio gioco mentale è che Roma
voglia fare un pesce d’aprile a Budapest scaricandosi tutta lì, sopra il
Danubio, con questa e con altre ondate aeree.
Comunque nessuno dei miei aerei
consorti qui associa questo volo con quello finito male altrove (ammesso che
oggi altrove non sia poi qui, proprio in virtù di queste faccende di diciamo
comunicazione svelta, insomma smart).
Chiacchierano paciosi, osservano le nuvole ad altezza d’uomo, leggono bestsellers (o anche solo qualcosa di seller, da fatturato, ma, va da sé,
comunque da viaggio), ricordano cose, rifiutano le offerte poliglotte di stewards and hostess i quali (e le
quali) intanto, scorrendo inutili lungo la corsia, s’intrattengono,
ragionevoli, fra colleghi su fatti loro.
Io ritengo di dover credere che stewards and hostess vadano così
elaborando la frustrazione di quelle ridicolizzanti recite apotropaiche,
ripetute prima d’ogni volo, circa punti di fuga e gesti portafortuna in caso le
cose, qui, vadano storte. Brutto sarebbe, per loro ma anche per me, se mi
abbandonassi a presumere che, in questa come nelle altre sette-otto situazioni
che la vita disegna ogni giorno per stewards
and hostess come per tutti, essi (ed esse), senza star lì troppo a pensare,
recitino soltanto, sordi e atoni (sorde e atone), lungo la stereotipata schizofrenia
quotidiana di un monocorde si fa così.
Atterraggio. Grigio. Pioviccica.
Infastidisce la scarpinata umida
dalla pista al terminal.
Ti devono per forza far notare che
il tuo è un volo low cost.
Il taxi invece procede spedito nel
gran traffico serale e tu senti che Budapest, come ogni analogo hub dell’esistenza, a quest’ora è
compiaciuta di presentarsi capitale e dunque appunto nodo di vita, motore
acceso, un gran luogo, dove si
elabora e decide.
Per le strade scorrono e corrono
auto, autobus e tram, ma non tutti i fruitori di quei mezzi intendono volgere
verso qualche loro serale intimità. C’è ancora da fare, prima che la giornata
si esaurisca.
Al centro, però, il traffico ha un
intoppo, circa all’altezza dell’Oktogon.
Si chiama così la piazza ottagonale
più o meno a metà del nagykörút cioè
del grand boulevard che, cambiando
continuamente nome, attraversa l’intero centro di Pest, insomma dell’intera
città, per terminare infine dove comincia l’Isola Margherita. Come dire che
termina con il ponte che fa da confine tra Pest e le colline di Buda.
In onore dei costruttori
dell’Ungheria moderna, ovverosia Maria Teresa d’Austria (d’Austria sì, questo
il cognome, ma di quel paese lei era solo Arciduchessa, seppure regnante,
mentre d’Ungheria era ‘Re Apostolico’, non so se mi spiego, in aggiunta poi era
anche Regina regnante di Boemia, Regina regnante di Croazia e Regina regnante
di Slavonia, Duchessa regnante di Parma, Duchessa regnante di Piacenza, Duca di
Milano, Duca di Mantova, infine Granduchessa consorte di Toscana e Imperatrice,
purtroppo consorte, perché il poco illuministico Sacro Romano Impero non
ammetteva donne regnanti e bisognava arrangiarsi con le forme giuridiche a
disposizione... come dire: fatta la legge, trovato l’inganno...).
Il costruttore seguente
dell’Ungheria (moderna) poi è stato suo figlio Giuseppe II. Per cui appunto il grand boulevard budapestino (inventato
quando è stata inventata a città, vale a dire nel secondo ottocento, quando
Parigi era Parigi) ha nome József körút da un lato, Teréz körút nel tratto più
centrale e infine nell’altro lato, in onore dell’originario santo Stefano,
primo re ungherese cattolico, viene a chiamarsi Szent István körút. Alla fine
del quale, il boulevard poi sfocia,
come detto, nel Margit hid, ponte sul Danubio dove, nel fiume naturalmente,
inizia a sua volta la Margit sziget, l’isola che nel Duecento ospitò, da
monaca, una principessa reale di nome Margherita.
Tale monaca rimase a lungo beata.
Poi però Pio XII la santificò, nel 1943 la innalzò alla gloria degli altari.
Non so se abbia un significato che nel pieno, anzi – dopo Stalingrado –
all’apice di quella guerra e allo snodo di tutto, con i gran pensieri che aveva
per la testa, il papa trovasse invece il tempo di dedicarsi a una faccenda in
fondo opzionale, dato che il relativo processo canonico di santificazione
durava da secoli – leggo, in wikipedia,
dal 1271 – e non era bastata ad accelerarlo, il processo, neppure la
circostanza che, pare, Margherita d’Ungheria fosse una delle voci occulte di Giovanna d’Arco nel
1425.
Né so d’altronde se abbia un
significato, poi, che oggi tale spazio valga, e non solo per le agenzie di
viaggio ma di fatto, come l’attuale Woodstock europea, cioè come il luogo autentico di una lunga kermesse
agostana, pop, folk, blues e soprattutto rock, per giovani liberati non-stop
per un mese in una sorta di annuale island
of freedom. Boh!
Dunque grosso modo all’Oktogon un
ingorgo.
C’è un ingorgo nel senso che le
auto private sono in fila e stop, anche se resta ancora libero un margine
stradale per i bus e i taxi.
Il nostro taxi scorre, infatti, ma
il tassista ci avverte subito che durerà poco, al massimo fino all’inizio di
Szent István körút, cioè – almeno così capisco io – all’altezza della Stazione
dell’Ovest (ohé, qui alla Nyugati pályaudvar ci ha messo le mani temporibus illis perfino Eiffel, sì
quello, quello di Parigi, quello della torre).
Perché?
Beh, a far imbottigliare il
traffico sono i lavori per il rinnovo delle rotaie tranviarie lungo tutto il grand boulevard, addirittura anche oltre il ponte Margherita e, una volta a Buda, fino
a piazza Mosca.
Il tassista non sembra convinto
della cosa, dei lavori, ma fa un gesto come a dire tant’è. Comunque lui, come tutti i tassisti, con i tempi del
destino, naviga nel traffico fino a destinazione.
Insomma tutto il mondo è paese. Mi
ritorna il ricordo, con un brivido, di come l’anno scorso, una volta che avevo
preso la macchina per fare presto perché ero in ritardo, io sia finito
imbottigliato dentro il traffico del centro romano, intorno a piazza Colonna,
tanto che, depresso, mi ero convinto di non venirne più fuori, se non con
l’aiuto della forza pubblica.
In quell’occasione, per salvarmi
l’anima, ho voluto pensare che ciò fosse: una teorica claustrofobia, della vita
allegoria e dunque così sia.
Sì: le canzonette, le rime,
servono, sono una spinta verso il poetico,
che è il reale reale, il multipiano delle cose, il loro essere complesso, che
sta lì invisibile o almeno astruso, occultato dietro la banalità piatta e
sbrigativa dell’emotivo quotidiano.
Solo che queste strade, qui a me,
fanno sempre un certo che. Questi viali budapestini sono il percorso di uno dei
cortei, credo quello principale, di quel giorno di fine ottobre 1956 in cui la
gente andò al palazzo del parlamento per contestare il governo, dando inizio a
quella celebre ribellione popolare contro il potere comunista così com’era... o
contro il potere comunista comunque?... o contro il potere cattivo?... o contro
il potere in sé?... ma, insomma, per che cosa?
Resta che in fondo ogni potere ha
oggi un potentissimo nemico potenziale: la vita quotidiana delle
persone... [...]
Alberto Scarponi, Appunti di viaggio Roma - Budapest, Reti Dedalus, Anno X - Luglio 2015