domenica 29 novembre 2020

Non sono troppo provinciale?


La Torre Leon Pancaldo a Savona - Fonte: Wikipedia

Me lo sono chiesto di recente. Non sono troppo provinciale? A ben vedere, tutte le mie storie sono ambientate ossessivamente (è lecito affermarlo), nella città di Savona. L’unica licenza che mi sono permesso è stato con “L’ultimo dei Bezuchov” dove il protagonista se ne andava nell’isola di Egilsay, nell’arcipelago delle Orcadi a nord della Scozia.  Poi in “Cardiologia” ambientavo un racconto (“Riflessi”) a Roma. Per il resto: rigorosamente Savona. Ci si potrebbe fare un hashtag: #rigorosamentesavona. Magari potrebbe essere un grande successo! Ne dubito.
Ma abbiamo delle vere città?

La mia idea è che Milano sia la grande città italiana, l’unica. Il resto delle città della nostra Penisola sono centri storici attorno ai quali sono cresciute a dismisura le periferie (Roma; Genova). Niente Los Angeles, New York o Dallas da queste parti, nulla del genere. Ma periferie che hanno travolto quello che c’era attorno al centro storico. Con risultati spesso agghiaccianti. Ma non parlo certo di urbanistica in questo articolo. Semmai cerco di capire se questa mia dimensione provinciale tanto tenacemente perseguita (adoro quando scrivo in modo da sembrare un intellettuale), sia un limite; una risorsa, oppure un bel niente. Probabilmente la terza, esatto. Ma potrebbe essere un limite: per fortuna.

Negli anni Sessanta un sacco di gente abbandonava le campagne per la città, le fabbriche. E a ragione: in campagna quando per esempio piove, devi uscire e andare a controllare che nei campi vada tutto bene. Che i torrenti e i rii non minaccino i campi. Hai la febbre, oppure il mal di schiena? Nessun problema: esci sempre e comunque, perché nella stalla gli animali reclamano il cibo, e i campi il lavoro. Ferie? Non esistono. Feste? Si andava a messa la domenica mattina con il vestito buono, e poi dopo il pranzo domenicale, nei campi. È evidente che la fabbrica poteva solo trionfare. Febbre o mal di schiena? Stai a casa. Ferie? Sì, ad agosto. Eccetera eccetera.  Lo so: nelle fabbriche di Torino non era esattamente una pacchia. Avevi i diritti (pochi) se rigavi dritto e dicevi sempre “Sissignore”. Non dovevi creare problemi.  Ma di certo se montagna e campagna si sono svuotate è perché quello che si poteva trovare in una fabbrica era superiore. Comunque in una fabbrica non ti pioveva in testa.

Eppure…

Benché il Paese sia stato travolto dalla modernità e intere zone siano state sfigurate da capannoni (ormai vuoti e abbandonati), e da quartieri dormitorio, mi pare di poter dire che sia rimasto provinciale. Dalla moda di infarcire il linguaggio di parole inglesi, all’idea di contare ancora qualcosa, di poter “battere i pugni sul tavolo”; all’ossessione di essere sempre e comunque un “modello” per gli altri Paesi (quando non ne imbrocchiamo una nemmeno per sbaglio): sono tutti sintomi di un evidente provincialismo italico.  Eppure questo limite, come ho scritto prima, potrebbe essere una grande risorsa. Siamo all’interno di un sistema che ride del limite. Lo considera una inaudita costrizione di tempi arcaici che quindi deve essere rimossa. E nonostante il Covid, questa ideologia resterà ancora per decenni ben radicata e produrrà non si sa bene che cosa: ma qualcosa di certo produrrà. Né varrà qualcosa affermare o ribadire che il limite esiste, che la libertà è disciplina. Le risate fioccheranno abbondanti. Ma restare provinciali; scegliere di restare provinciali non vuol dire restare indietro o tagliati fuori dal “progresso”. Vuol dire avere il panorama più completo.
Il provinciale (non il provincialismo)

Il provinciale per prima cosa non considera il proprio Paese un modello, bensì quello che è: un guscio vuoto. Un organismo che consapevolmente e con determinazione (perché vota) ha intrapreso il cammino verso la discarica della Storia.  Non infarcisce il suo linguaggio di parole inglesi. Non batte i pugni sul tavolo, né vuole contare qualcosa perché sa di non contare più nulla da almeno duemila anni.  A me piacciono le isole, soprattutto quelle del nord Europa (“Ma perché quelle italiane no?” domanda colui che è affetto da provincialismo. No, non mi piacciono, risponde il provinciale).

Le Orcadi, le isole Far Oer, le Shetland. Credo di averlo già scritto in passato. Sono comunità di persone che vivono ai margini di tutto. Che cosa sappiamo di esse, della vita che si conduce adesso? Ben poco. Siamo certi che (per esempio), i giovani appena possono scappino da là per le grandi città dell’Europa oppure degli Stati Uniti. A voler essere pignoli potremmo anche affermare che non sono nemmeno realtà provinciali. Sono qualcosa al di sotto.  O almeno, così pensiamo. Eppure è più probabile che esattamente da questi luoghi distanti, spesso cupi (gli inverni sanno essere feroci), si riesca a dare uno sguardo differente a quello che accade. Il provinciale quando osserva il resto del mondo evoluto, colmo di progresso, oppure vi si immerge (per le ragioni più differenti: magari pensa di dover “guarire”), trova probabilmente una nota stonata.
Qualcosa di fuori posto; che di certo è lui. Ed è lui perché il provinciale si deve adeguare per non sentire più la dissonanza. A questo punto deve scegliere se rinunciare alla sua libertà; oppure difenderla a ogni costo. Perché spesso il provinciale conosce una qualità che chi vive altrove non sa, non riconosce più, ha perso di vista.

Lui è libero. Bizzarro, non è vero?  Nella sua piccola e insignificante e soffocante realtà provinciale, il provinciale è libero perché è se stesso e unico, e ne è consapevole (o meglio: diventa consapevole quando si allontana dalla sua realtà chiusa, gretta e provinciale). Altrove è un numero, ma questo decadimento viene spacciato per evoluzione, e l’unico modo che ha a disposizione per non essere uno dei tanti (numeri), è diventare numero uno; a scapito degli altri. Ma alla lunga è e rimane solo un numero, appunto. Uno dei tanti (i numeri uno alla lunga sono tutti uguali. Quindi: di fatto sei fregato, ma in modo più sottile), uno che deve essere uno dei tanti altrimenti torna indietro, torna a essere un provinciale. E invece si deve adeguare a quello che la massa desidera, o altrimenti resterà indietro. Nella sua realtà provinciale, piena zeppa di limiti, e soffocante, lui era un piccolo re; senza reame.

Non era un illuso, uno di quelli che credono non ci debbano essere limiti. Si gira, e ovunque vede limiti, limiti, limiti. E sono proprio essi che lo rendono la persona che è: unica e di difficile (se non impossibile) catalogazione; il che è male per il mondo che non conosce, né vuole limiti.  Che stranezza, non è vero? Il mondo che urla di libertà e di libertà senza limiti, deve pianificare e catalogare. Altrimenti va in corto circuito. Sono i limiti che vede da ogni parte, che lo stringono, che spesso lo inducono a riflettere su di sé, e su tutto il resto. A interrogarsi su che cosa conti davvero, in quella massa di progresso che sale sempre più, lasciandoci però identici all’uomo che viveva durante il regno di Hammurabi. Dal suo piccolo e irriso osservatorio il provinciale osserva, e comprende, probabilmente, che il 90% di quello che vede altrove non lo renderanno più libero o migliore; ma solo più utile. Quindi, resta provinciale.

Il provinciale che detesta la sua “provincialità” osserva.  L’uomo evoluto guarda. E non vede niente.

Marco Freccero su raccontastorie, 16 novembre 2020

[ Nato in provincia di Savona nel 1966, Marco Freccero continua a viverci. Ha svolto diversi mestieri (garzone, operaio, aiuto magazziniere, magazziniere, addetto alla vendita), prima di mollare tutto e diventare Web editor per siti di commercio elettronico. È stato per anni parte del gruppo di autori che ha guidato il sito Web dedicato alla piattaforma Apple: "IlMac.net". Dal 2010 ha rispolverato la sua passione: la scrittura. In quell'anno ha pubblicato l'ebook "Insieme nel buio" (tre racconti neri liguri), iniziando così ufficialmente la sua carriera di autore indipendente. Nel 2012 c'è stata la sua unica incursione nel campo delle case editrici. Infatti per 40K pubblica l'ebook: "Starter kit per blogger". Il romanzo "L'ultimo dei Bezuchov" è il suo nono libro. Nel 2014 ha pubblicato la raccolta di racconti (ambientati soprattutto nella città di Savona) dal titolo "Non hai mai capito niente", prima parte del progetto ben più ampio e ambizioso della "Trilogia delle Erbacce". Progetto che ha visto nel 2015 l'apparizione del libro "Cardiologia", seguito nel 2016 dal capitolo finale intitolato "La Follia del Mondo". Nel 2017, assieme alla scrittrice Morena Fanti, ha pubblicato il romanzo a 4 mani "L'ultimo giro di valzer". Da questa esperienza è scaturito il libro "La scrittura a 4 mani", dedicato a questo "particolare" modo di raccontare le storie. Sempre nel 2017 ha pubblicato l'ebook "La scrittura è difficile - Manuale controcorrente" (aggiornato nel 2018) dedicato a chi desidera avvicinarsi al mondo della scrittura ]


venerdì 27 novembre 2020

Il mio incontro con Totò


Mi è sempre piaciuto molto passeggiare. Da ragazzo, mi facevo certe scarpinate da fare invidia a un maratoneta.
A volte, all’uscita da scuola, mi veniva una gran fame ed allora correvo dal pizzaiolo all’angolo e, con gli ultimi spiccioli destinati al biglietto dell’autobus, compravo una focaccia calda e la divoravo in tre bocconi. Poi, per tornare a casa, ero costretto a farmi otto chilometri a piedi, ma la cosa non mi pesava troppo e compivo il tragitto allegramente, chiacchierando del più e del meno con Eugenio, un amico d’infanzia, mio compagno di classe, che abitava nel mio stesso quartiere e condivideva il mio interesse sia per le pizze che per il movimento.
Il giorno in cui avvenne l’incontro con Totò mi trovavo proprio con quest’amico.
Era un pomeriggio d’autunno, splendeva il sole, l’aria era mite, l’atmosfera pigra e sonnacchiosa, tipica del meridione dove, dopo mangiato, tutti quelli che possono si concedono volentieri un pisolino.
Solitamente Eugenio ed io andavamo a zonzo senza meta, fin dove ci portavano le gambe.
Quel giorno, quasi senza accorgercene, percorremmo un bel tratto: partimmo da Fuorigrotta, superammo la collina di Posillipo ed arrivammo sino a Marechiaro.
Da lì, com’è noto, si gode un panorama mozzafiato. Tra le varie attrattive, c’è la “fenestella”, che invogliò Salvatore di Giacomo a scrivere le parole della celeberrima canzone: “Quanno sponta la luna a Marechiaro / pure li pisci nce fanno l’ammore / Se revotano ll’onne de lu mare / pe’ la priezza cagnano culore…”
Una volta arrivati, Eugenio ed io ci fermammo su una terrazza sul mare, dove spira incessantemente un’aria di gerani e di salsedine. Stemmo circa mezz’ora a chiacchierare di sport e di ragazze, mentre lo sguardo seguiva affascinanto il morbido profilo della costa, scorrendo, in un’ampia carrellata, il Vesuvio, Sorrento, Massalubrense e Capri, per perdesi infine all’orizzonte.
Napoli è una città difficile e tormentata, ma possiede degli aspetti luminosi e stupendi, come l’animo dei suoi figli migliori.
Terminata la visita, Eugenio ed io pensammo di far ritorno a casa e anziché seguire la rotabile, ci incamminammo per le scale, una comoda scorciatoia che porta a via Posillipo.
Qui, ogni rampa è intercalata da un ampio ballatoio, sul quale a volte s’affacciano piccole case, circondate da giardini.
Io e il mio amico salivamo a passo lento, la stanchezza cominciava a farsi sentire.
A un tratto, su uno di questi ballatoi, scorgemmo due signori che parlottavano fra loro. Uno armeggiava con una grossa cinepresa, come se fosse intento a ripararla. L’altro reggeva un “ciak”, la tipica tavoletta di legno che dà l’avvio alle riprese cinematografiche.
Arrivati all’ultimo gradino e superato l’angolo di un edificio, scorgemmo alla nostra sinistra un uomo vestito di nero, che teneva in mano un cappello a bombetta.
Costui portava dei grandi occhiali scuri e se ne stava addossato alla parete, come aspettando un segnale da parte degli altri due. Quell’uomo, nientedimeno, era Totò!
Eugenio ed io lo riconoscemmo subito, ma non dicemmo una parola, ci guardammo con aria interrogativa, come per dire: “Sognamo o siamo desti?” Quando capimmo che era tutto vero, i nostri visi sbiancarono. Totò, il divo dello schermo, l’asso del comico, l’attore prediletto, stava dinanzi a noi. La sagoma di luce era divenuta realtà!
In quel momento non c’era la schiera di addetti ai lavori che di solito segue le riprese di un film. La troupe era ridotta al minimo e non c’era neppure la folla di curiosi che si assiepa ai bordi di un set.
A parte l’operatore ed il ciacchista, Eugenio ed io eravamo gli unici presenti, testimoni di un evento per noi elettrizzante. Infatti, ce ne stavamo lì, impietriti, shoccati, ad ammirare il nostro beniamino. Sembravamo dei bimbi che all’improvviso vedono materializzarsi l’eroe del loro racconto preferito.
Totò non si era accorto di noi. Fissava il vuoto con un’espressione seria, pensosa, persino malinconica. Noi ci saremmo aspettati di vederlo sorridere, scherzare, improvvisare battute, come faceva sempre nei suoi film, e invece niente. Se ne stava immobile, tranquillo, come godendosi l’ultimo raggio di sole, prima che si dileguasse in fondo al mare.
Chissà cosa gli frullava per la testa. Forse stava raccogliendo le idee per girare la sua scena; oppure stava ripensando al passato, quando si presentava in teatro ed era accolto da un uragano di applausi e da grida di gioia e gratitudine.
Può darsi che la sua espressione amareggiata fosse dovuta alle stroncature della critica più intransigente, che lo accusava di fare sottocultura con i suoi film leggeri e “disimpegnati”. Taluni intellettuali avrebbero voluto che Totò agitasse la bandiera della contestazione. Costoro però dimenticavano che egli, più che un artista, era un prodigio della natura e non poteva interpretare altro che se stesso, ovvero lo scugnizzo irriverente, l’omino buffo e disarticolato, che con le sue battute surreali sapeva divertire le platee di tutto il mondo.
Un talento come Totò nasce una volta ogni mille anni e pertanto non è assoggettabile ad un’ideologia o a un progetto politico. Totò era una maschera vivente, un fuoco pirotecnico, un autentico artefice di comicità. E la comicità non ha bandiere, è già rivoluzionaria in sé, perché è libertà, strumento catartico, dunque l’antitesi della violenza e della sopraffazione.
L’intuito e la spiccata inventiva di Totò gli permisero di creare un linguaggio nuovo, corrosivo e dissacratorio, che mise in discussione il conformismo di certi benpensanti. Ciò avrebbe dovuto indurre i suoi denigratori a rivedere le proprie posizioni, riconoscendo in lui un innovatore, un progressista in senso lato, cosa che avvenne, ma soltanto dopo la sua morte.
 

Se il principe De Curtis non nascose mai le proprie simpatie monarchiche, il suo alter ego Totò usò la propria vis comica per stigmatizzare tic e difetti della borghesia e del potere, divenendo persino un elemento dirompente rispetto allo “statu quo”.
Quel pomeriggio, sulle scale di Marechiaro, il tempo sembrava essersi fermato e tutto si era condensato nell’immagine di due tredicenni imbambolati di fronte al loro mito.
A un tratto, vinsi l’esitazione e mi avvicinai a Totò. Da vicino riuscivo a distinguere bene i tratti del suo viso: mi parve stanco e provato dagli anni e dagli acciacchi.
Quell’uomo mi era così familiare, che sentii il bisogno di toccarlo, perciò allungai la mano e gli tirai la manica della giacca. Eugenio sgranò gli occhi e mi disse fra i denti: “Ma sei pazzo!”
Già mi ero pentito di quel gesto, quando improvvisamente Totò si girò lentamente verso di me, si tolse gli occhiali e fece uno sforzo tremendo per mettermi a fuoco.
Fremevo, mi aspettavo un rimprovero; lui invece distese le labbra e sfoderò un sorriso, paterno, bonario, dal quale traspariva tutta la sua umanità.
Eugenio, intanto, cercava di trascinarmi via, prima che qualcuno della troupe si accorgesse di noi e ci allontanasse. Per quanto svogliatamente, ripresi a salire le scale, ripensando all’incontro, un incontro che non avrei scordato tanto facilmente e che avrebbe contribuito a cambiare il corso della mia vita, anche se in quel momento non potevo sapere ancora che un giorno avrei scelto di dedicarmi al teatro.
Avevamo percorso mezza rampa di scale, quando sentimmo il caratteristico suono del “ciak”; ci voltammo e vedemmo Totò che si era tolto gli occhiali ed aveva indossato la sua inseparabile bombetta. Stava sempre addossato al muro della casa, ma adesso gesticolava, parlava, faceva smorfie e sembrava distinguere tutto intorno a sé, come se la vista gli fosse tornata di colpo.
Fu così che vedemmo compiersi il prodigio, la metamorfosi: l’uomo che cede il posto all’attore, all’omino che è in sé; la persona che rinunzia a se stessa per diventare maschera, strumento di buonumore, riuscendo così a divertire gli spettatori e ad onorare l’Arte.
 

Antonio Magliulo

Commediografo, nonché autore di articoli e saggi vari, Antonio Magliulo è nato a Napoli, da genitori musicisti, entrambi diplomati al locale Conservatorio. Terminato il consueto percorso di studi, entra nella scuola come insegnante di Arti Visuali. La passione per il palcoscenico sboccia piuttosto presto, perché in famiglia si “respira” un’aria fatta di arte. I suoi genitori sono infatti, oltre che musicisti, anche grandi estimatori di prosa e gli trasmettono la propria passione. Tredicenne, comincia a recitare nella filodrammatica di quartiere, sotto la guida di Oreste d’Amato, noto attore e regista partenopeo. Nello stesso periodo, ha la gradita sorpresa d’incontrare Totò, impegnato nella lavorazione del suo ultimo film, e rimane talmente colpito da quest’evento, che decide di dedicarsi anima e corpo al palcoscenico. Così, frequenta altri corsi teatrali ed entra a far parte di diverse compagnie cittadine. Più tardi, però si accorge che, al ruolo di attore, preferisce quello di autore e regista, e comincia a scrivere i suoi primi copioni ed a seguire dei corsi di regia. Nascono, una dopo l’altra, opere comiche ed impegnate, che vengono messe in scena dalla sua Compagnia "Maschere Nude", incontrando un crescente consenso di pubblico e critica. Ha all'attivo diverse pubblicazioni sul teatro e sul cinema. Da citare pure la sua collaborazione con i giornali: "Affari Italiani"; "Napoli.com"; "Fucine Mute", etc dove si occupa prevalentemente di arte e letteratura. Sino ad oggi A.M. ha scritto circa cinquanta copioni (tutti regolarmente depositati alla SIAE) di cui una dozzina per i più giovani. Uno dei più recenti: "Viva il Teatro", edito dalla Youcanprint e diretto agli allievi in età tra gli otto e i quindici anni. Ha pubblicato inoltre diversi saggi per varie case editrici e ha diretto circa settecento spettacoli, alcuni su testi di Shakespeare, Beckett, Ionesco, Pirandello, Eduardo, etc. Numerosi i riconoscimenti ottenuti. Attualmente è libero docente di storia del teatro all'Unitre. Mail to: antonio-magliulo@libero.it

youcanprint.it

 

giovedì 26 novembre 2020

La locanda di palazzo Cicala


Era passato su di un lungo cavalcavia rivestito di pannelli color verde-scuro mentre sotto scorreva il traffico di metà mattina, s’era mosso per stanze e corridoi di un edificio pubblico. Era sceso infine per strada tra i banchi di un mercatino che ripeteva le sue merci all’infinito: stoffe, bigiotterie, dolciumi, cassette musicali, video. La sera era entrato in un locale tra tavoli di formica e giocatori di carte immersi nei loro formulari: certamente una clientela abituale, com’era abituale la donna impellicciata in coppia con l’uomo avvolto in una sciarpa multicolore che s’era alzato a sostituire la sedia e poi rivolto a
un punto imprecisato della sala aveva chiesto conferma di un “colpo” da compiere la sera stessa con un tono di voce che aveva subito smontato il paradosso delle sue parole. E il suo muoversi aveva interrotto per alcuni istanti il fare degli altri, presi nel gioco, protetti dall’ambiente che sembrava sorvegliare ogni loro gesto, di fragili figure accomodate nello scorrere del tempo, prese nello stillicidio dei minuti. Una difesa desiderata in quel locale dal finto legno delle pareti da cui pendevano fotografie di guerra, di uomini armati immobili nella posa, e dietro strade e palazzi in posa nella loro rovina. La solida barriera dei tavoli, delle sedie (un arredo già menzionato, di un materiale dozzinale), delle carte, delle regole, delle parole smorzate, del piccolo calice ormai vuoto davanti a lui, del compenso ritirato da manimaniche rimboccate a pulire il bancone. E la porta con l’insegna già perse al suo sguardo, con la commistione di oggetti e presenze non più osservabili, ora là sciolti nella poca luce del quartiere che rivela un’unica figura appoggiata nell’angolo, racchiusa nel suo personale sintagma: donna di strada.
È giunto ora in una piazzetta che dà respiro a un intrico di vicoli, in parte delimitata dalla curva di un’abside e dalla parete di un edificio, con su murata la scritta
QUESTE ERANO LE CASE DI
LANFRANCO CICALA
CONSOLE LEGISTA E POETA
C’è una locanda al pianterreno: “La Locanda di Palazzo Cicala” un locale di pochi tavoli coi coperti sull’incerata, coi movimenti lenti della cena, di un guardare-non guardare. Si è seduto in un angolo. Schiene piegate gli coprono altri avventori. Osserva quel composto remare: una ripetizione di gesti che gonfia le presenze, che offre un senso d’angoscia, un che di senza sbocchi, ma anche il suo senso opposto: un tranquillo ritrovarsi (sulla soglia avevano colto la sua incertezza, era stato invitato a entrare: “Qui è come una volta” gli avevano detto indicando uno sgabello di legno che spuntava da sotto un tavolo). Ha scorto una vecchia radio sopra una mensola. È forse lì a mostrare il-tutto-che-non-è-quel-la-radio, lì a far sentire la sua assenza. È forse accesa su musi-che e voci che sembrano mostrare il-tutto-che-non-èquelle-musiche-e-voci, col nome ricordato di un cantante: Ariodante Dalla tornato dall’abisso degli anni. E gli si apre la straniata realtà di quel posto, con gli avventori, capelli radi, grigi, disposti in una condizione assordante (come un richiamo di cicala): già pronti a non esserci più.
 

Giorgio Terrone in fogli di via, numero 19-20

Giorgio Terrone è stato collaboratore di "Nuova Corrente", la longeva rivista genovese fondata nel 1954 da Mario Boselli e Giovanni Sechi (oggi diretta da Stefano Verdino) che ha affiancato, ma in totale indipendenza, le principali correnti culturali che si sono affacciate in Italia negli ultimi sessant'anni. Terrone ha pubblicato poesie e romanzi (si ricordano Storia di Mirandola, Geiger 1977, e Andrea o delle ricchezze disperse, Nuove Scritture 1985) fogli di via

 

martedì 24 novembre 2020

La veglia (di Wisława Szymborska)

Fonte: Wikipedia

La veglia non svanisce
come svaniscono i sogni.
Nessun brusio, nessun campanello
la scaccia,
nessun grido ne' fracasso
puo' strapparci da essa.
Torbide e ambigue
sono le immagini nei sogni,
il che puo' spiegarsi
in molti modi.
La veglia significa la veglia
ed e' un enigma maggiore.
Per i sogni ci sono chiavi.
La veglia si apre da sola
e non si lascia sbarrare.
Da essa si spargono
diplomi e stelle,
cadono giu' farfalle
e anime di vecchi ferri da stiro,
berretti senza teste
e cocci di nuvole.
Ne viene fuori un rebus
irrisolvibile.
Senza di noi non ci sarebbero sogni.
Quello senza cui non ci sarebbe veglia
e' ancora sconosciuto,
ma il prodotto della sua insonnia
si comunica a chiunque
si risvegli.
Non i sogni sono folli,
folle e' la veglia,
non fosse che per l'ostinazione
con cui si aggrappa
al corso degli eventi.
Nei sogni vive ancora
chi ci e' morto da poco,
vi gode perfino di buona salute
e ritrovata giovinezza.
La veglia depone davanti a noi
il suo corpo senza vita.
La veglia non arretra d'un passo.
La fugacita' dei sogni fa si'
che la memoria se li scrolli di dosso facilmente.
La veglia non deve temere l'oblio.
E' un osso duro.
Ci sta sul groppone,
ci pesa sul cuore,
sbarra il passo.
Non le si puo' sfuggire,
perche' ci accompagna in ogni fuga.
E non c'e' stazione
lungo il nostro viaggio
dove non ci aspetti.

Wisława Szymborska

 

domenica 22 novembre 2020

Un enigma in Provenza. Reberschak: weekend con brividi

Vence - Fonte: Wikipedia

Sandra Reberschak sembra allontanarsi con La regina di Saba [Bompiani, 1995] dai modi consueti della sua narrativa, dall'autoanalisi spoglia del Pensiero dominante all'epica quotidiana di Se anche tu non fossi (le vicissitudini del padre ebreo perseguitato dal fascismo) per toccare temi più sciolti dal vissuto personale o famigliare. 

Quello che la interessa ora è la verità della scrittura, non tanto come esercizio stilistico capace di smascherare il reale o di inventare un mondo altro, ma come un misterioso potere "demiurgico" che anticipa e fa accadere le cose. 

"Le fantasie - riflette la voce che racconta - non sono altro che pezzetti di verità captati in altri contesti, in altri momenti, divenuti ricordi, o brandelli di ricordi, o anche solo fattesi, a nostra insaputa, presentimenti". Affiora qui il vecchio paradosso della realtà che imita la fantasia ma in una accezione più forte, di un interscambio continuo tra tutto ciò che vive, comprese le facoltà spirituali. È almeno ciò che pensa una donna ancor giovane che troviamo sul treno della Riviera ligure, diretta a Vence dove sarà ospite dell'amica Roberta. Lavora nell'editoria, scrive libri, ha bisogno di un tranquillo week-end tra persone care e discrete. Ma il treno si arresta bruscamente, accorre gente, si grida, qualcuno è stato travolto, forse si è gettato sotto le ruote. Come posseduto da una frenesia, un uomo spara i suoi clic, fotografa da ogni lato la motrice, i binari, il fagotto di cenci, e poi si allontana con aria spossata. La viaggiatrice non riesce più a liberarsi dalla figura dello sconosciuto che immagina si chiami Bruno, prova a inseguirne mentalmente le tracce, a scriverne la storia: quella che troveremo, a capitoli alterni, nel libro della Reberschak. L'"incidente" segna il punto di raccordo di due vicende, una reale e l'altra inventata che corrono parallele e alla fine si congiungono con una soluzione a sorpresa, con effetto di choc. 

È la sorte che, alla fine, prende la mano alla protagonista-scrittrice, conferma le sue intuizioni e rifinisce per così dire il suo lavoro. 

A Vence, siamo introdotti in una famiglia apparentemente felice. Roberta ha alle spalle un matrimonio fallito, aspetta un figlio dal nuovo marito, un chirurgo famoso e appagato: lui ha una figlia di primo letto, Claire, che sembra accettare la situazione, con qualche spigolo che si può attribuire all'età. Ma nella grande luce di Provenza, entro la quale stingono rapporti convenzionali, dialoghi minimalisti, si consuma il dramma. 

La passione della verità. Claire fugge all'improvviso sulla moto di un amico drogato e un Bruno che non si lascia dimenticare arriva, come una fiondata, a turbare l'armonia di Roberta. Sull'altro versante, il Bruno dell'invenzione indaga sull'uomo morto tra i binari, scava nel suo passato di artista eccentrico e vagabondo, ritrova una ragazza fuggitiva, si perde in una rete di indizi e sortilegi: con una disciplina severa che è soltanto l'alibi furioso per avere consumato maldestramente un amore. 

A unificare le due storie, al di là dell'esito sorprendente e dell'arrischiata poetica che lo sottende (quella espressa all'inizio) c'è una passione della verità che vale per la scrittrice e per il fotografo, per la pagina scritta e la pellicola emulsionata. La stessa suggerita da una mostra di Cezanne, dalle repliche infinite della stessa montagna, dalla lotta del simulacro con l'essenza di quell'altura ("E chi vince? Cezanne o la Sainte-Victoire?"). L'attrattiva del romanzo sta proprio in questo turbamento, accentuato più che placato dall'intelligente, geometrico artificio dell'intreccio. E resiste agli allentamenti del linguaggio, a una corsività che, del resto, sembra in qualche misura funzionale alla storia "vera", al suo effetto di sfocamento rispetto alle risorse più consistenti e penetranti dell'invenzione. 

Lorenzo Mondo, tuttolibri, La Stampa, 1 settembre 1995


venerdì 20 novembre 2020

Magie in tipografia

L’autore quando era un giovane tipografo

"Le mani si muovono veloci e impercettibili, in una danza sospesa sopra un cassetto di legno diviso in tantissimi scomparti di diverse dimensioni. Le dita seguono un copione noto, spostandosi con esattezza da uno scomparto all’altro, silenziose e leggere, instancabili, precise. Con il loro movimento misterioso, che poco a poco riempie gli scomparti restituendo un ordine sistematico al disordine apparente della mescolanza, tradiscono un sapere che le guida come la mano guida la penna su un foglio. Sembra quasi che scrivano, quelle dita. E infatti è proprio ciò che fanno. Scrivono alla rovescia, compiendo il piccolo miracolo impossibile a chi, dopo aver parlato, vorrebbe far tornare indietro le parole. Quelle dita prendono le frasi e, lettera per lettera, accarezzandole con i polpastrelli grigi, le riportano indietro, rimettendole in scatola. E scrivono alla rovescia non solo perché scompongono ogni riga e la restituiscono al suo alfabeto di piombo, dall’ultima lettera alla prima, ma anche perché manipolano lettere speciali, lettere al contrario. Sono caratteri tipografici, e la loro casa è la cassa tipografica: quel cassetto di legno che ogni giorno fa da palcoscenico silenzioso alla danza misteriosa delle mani del maestro. Il maestro indossa un camice nero, ha gli occhi chiari, le labbra carnose da un angolo delle quali sale un filo di fumo della sigaretta, un’infinita pazienza e un forziere di segreti. Non si arrabbia mai e non alza mai la voce. Persino il principale, che tratta gli altri dipendenti con distacco e un po’ di sbrigativa autorità, con lui si fa rispettoso e attento, traducendo gli ordini in richieste di favori. A un paio di metri dal maestro c’è un altro camice nero, nuovo, non ancora liso né deformato dall’uso ai gomiti e alle tasche, più piccolo e un po’ intimidito: il mio. È l’estate del 1977 e, approfittando delle vacanze e della raccomandazione di mio padre, per due mesi lavoro part time in una tipografia di Borgo Vittoria. Due mesi non sono tanti, tuttalpiù ti permettono di sbirciare un mondo sconosciuto da una porta socchiusa. Ma è il maestro a tenerla aperta e a mostrarmi dall’altra parte un piccolo universo affascinante. Inizio dedicando ore alla pulizia dei blocchetti d’alluminio su cui si incollano i cliché fotografici: ogni blocchetto va strofinato energicamente, a lungo, ai limiti dell’anchilosi, su una superficie di cartone imbevuta di petrolio, fino a eliminare ogni traccia del nastro biadesivo che con il suo impercettibile 64 spessore potrebbe alterare le stampe successive. Imparo che cosa sono i punti e le linee tipografiche, il corpo e la forza di un carattere, apprendo che il sostegno a squadra su cui si allineano i caratteri si chiama “vantaggio”, pulisco i pavimenti, rilego i fascicoli con la spillatrice meccanica. Un giorno vengo spedito alla taglierina, impressionante per precisione e potenza, che pare sempre sul punto di divorarti una mano. Vedo nascere una pagina attraverso l’assemblaggio delle righe prodotte alla linotype, delle immagini montate in negativo su quei famigerati blocchetti, degli spessori necessari per creare gli spazi, dei titoli composti a mano. Imparo a usare il tirabozze per stampare le prime pagine di prova, vedo trasformare quelle bozze in matrici offset che poi gireranno dentro grandi macchine che mangiano rotoli di carta e inchiostro denso di vari colori per restituire pagine di giornali, manifesti, dépliant, riviste, libretti e tutto ciò che d’altro si può stampare. Il maestro mi porta un libro che racconta la storia della stampa, dagli incunaboli alle gigantesche rotative dei quotidiani, e mi sembra quasi un rito d’iniziazione. Leggo quelle pagine come fossero una bibbia, il libro segreto dei simboli di un mestiere. Lui mi insegna la distribuzione dei caratteri nella cassa tipografica, con la “A” quasi al centro e le altre lettere disseminate qua e là in una finta casualità: grazie a lui comincio anch’io a “scrivere al contrario”, smontando i titoli e rimettendo a dormire vocali e consonanti. Al contrario mi fa anche imparare a leggere: non da destra a sinistra, come normalmente ci si aspetterebbe con la scrittura bustrofedica, ma da sinistra a destra e dal basso in alto, con la pagina capovolta, come invece scoprirò (con una certa sorpresa) essere più pratico e veloce. Il maestro mi manda in linotipia a consegnare le righe di piombo sbagliate e a ritirare quelle corrette, e lì resto affascinato a guardare quelle specie di macchine per scrivere dalla tastiera enorme, altissime, che ticchettano come una telescrivente accompagnata da un rumore di tramoggia, in cima alle quali si allineano i calchi dei caratteri e in fondo alle quali escono le righe di piombo ancora caldissimo dopo la fusione, capace di riempire l’aria con il suo odore caratteristico e indescrivibile di metallo morbido. Il maestro riconosce alla prima distratta occhiata l’esatta misura di ogni spessore: un punto, due punti, mezza linea, due linee; ci vuole occhio, esercizio abitudine, lui mi sembra un mago mentre io continuo a sbagliare; alla fine dei due mesi sarò fiero di azzeccarne la metà senza bisogno di confrontarli. Il maestro non perde mai la pazienza, neppure quando la pagina di piombo va in “baracca” spargendo righe e caratteri ovunque e costringendolo a rifare il lavoro e a rimettere tutto a posto con una legatura più stretta. Il maestro sa insegnare, e lo fa soprattutto quando non parla. Dà l’esempio senza dare lezioni. Fa mille cose. Ed è giovanissimo. E infatti oggi, a 34 anni da quell’esperienza tra i banchi di una tipografia, se penso ai suoi entusiasmi e alle mie disillusioni, al suo fresco pragmatismo e alle mie stanche incertezze, mi sembra che il tempo sia passato solo per me. Non so se sono stato un buon allievo - non penso tanto al mestiere di tipografo, quanto al modello di persona che il maestro propone con il suo semplice esserci - ma quell’estate mi è davvero rimasta nel cuore come un dolce ricordo. Un ricordo che oggi, mentre Alfredo si accinge a spegnere 85 candeline, gli restituisco sperando di strappargli un sorriso".
 
Claudio Mercandino, giornalista de La Repubblica, edizione torinese, amico e compagno, mi inviò questo scritto tramite Fb in occasione del mio 85° anno di età... ben 9 anni fa. Ora è in pensione e sto pensando di restituirgli questa quasi orazione funebre (per me) in occasione di un suo compleanno molto più "giovane" del mio.
 
Alfredo Schiavi, 19 novembre 2020 
 

martedì 17 novembre 2020

"Che cosa sono le nuvole?" - Il cinema di Pasolini fra innovazione e poesia


La vita è il sogno d’un sogno, ovvero la rappresentazione di una rappresentazione, questo sostiene Pasolini in Che cosa sono le nuvole? - uno degli episodi del film Capriccio all’Italiana - opera fra le sue più significative, intrisa di novità e di poesia.
Per esprimere la propria idea, il regista fa ricorso ad una “mise in abyme”, espressione francese che significa: collocazione all’infinito e che nell’arte figurativa e letteraria sta ad indicare un abile gioco di specchi in cui vengono proposti più livelli espressivi o narrativi, o, se si preferisce, più contenuti, un po’ come succede con le scatole cinesi, in cui una nasconde l’altra.
Che cosa sono le nuvole? girato nel 1967, è la messinscena di un famoso dramma shakespeariano: l’Otello. A realizzare tale messinscena sono dei personaggi inconsueti, cioè degli uomini /marionette, impersonati da attori del cinema comico, segno dell’importanza che il regista bolognese attribuiva agli artisti del genere.
Pasolini colloca la vicenda in un teatrino di terz’ordine e riduce all’osso la trama della tragedia shakespeariana per renderla accessibile ad un pubblico semplice, ingenuo e sprovveduto: Jago, invidioso di Cassio, che ha appena ottenuto un importante incarico da Otello, fa credere a quest’ultimo che la moglie Desdemona lo tradisca proprio col suo fido luogotenente.
Jago, che nel cortometraggio ha il volto contrassegnato da un eloquente colorito verde bile, si procura un fazzoletto della donna e lo esibisce al marito come prova della sua presunta infedeltà. Otello cade nell’inganno e, pazzo di gelosia, decide di punire Desdemona con la morte.
La tragedia sta per consumarsi sino in fondo, secondo il copione originale, ma gli spettatori, incapaci di distinguere fra finzione e realtà, non accettano l’iniqua conclusione, così irrompono sul palcoscenico e uccidono Jago ed Otello, portando poi in trionfo Cassio e Desdemona.
A questo punto il burattinaio decide di liberarsi di Jago ed Otello, i due attori/pupazzi che, a suo avviso, hanno fatto fallire lo spettacolo e sono divenuti ormai inutili; li fa caricare su un camion, il cui autista va subito a gettarli nello sversatoio dell’immondizia, accompagnando il “rito” con un canto.
Mentre sono semi-sepolte dai rifiuti, le marionette scorgono per la prima volta il cielo, dove fluttuano dei lievi cirri bianchi.
- Ihhh… che sono quelle? - chiede Otello, visibilmente sorpreso.  
- Sono le nuvole - risponde Jago  
- E che sono le nuvole? - replica l’altro.  
- Ma! - dice Jago.
- Quanto so' belle! Quanto so' belle! - esclama Otello.
- Ah, meravigliosa e straziante bellezza del creato - conclude Jago, con un lungo sospiro.
Sino ad allora, i due erano stati marionette, pupazzi appesi a un filo, oggetti nelle mani del burattinaio-padrone e perciò incapaci di assumere coscienza della propria realtà e del mondo circostante. Soltanto nel momento in cui questo legame si spezza, diventano creature libere e possono scoprire la meravigliosa bellezza del creato. Ma purtroppo tale liberazione coincide pure con la loro morte.
In questo epilogo è possibile cogliere alcuni fondamentali aspetti del film: l’allusione all’ineluttabilità della sorte dei puri e dei semplici; l’accenno ai condizionamenti che la società borghese esercita nei confronti delle classi subalterne; ed è rilevabile pure un’istanza di spiritualità dell’essere umano, non mediata dall’esterno.
Per comprendere appieno la novità introdotta dal film Che cosa sono le nuvole? bisogna esaminare la sequenza in cui Pasolini mostra un famoso quadro di Velásquez, Las meniñas (che appare assieme ad altri dipinti-locandine esposti all’ingresso del teatro), un’opera pittorica importante, complessa, considerata uno dei prototipi di “struttura in abisso”, nella quale le figure, riflesse in uno specchio, assumono molteplici apparenze e ulteriori valori semantici.
A confermare il meccanismo ricorsivo pasoliniano, ovvero la sua tendenza a frammentare le situazioni, rimandando l’interpretazione di una ad un’altra e così via, in una sorta di processo all’infinito, è lo scambio di battute fra Otello e Jago, in cui il primo chiede: - Ma perché dovremmo essere così diversi da come ci crediamo? - e Jago risponde - Eh, figlio mio, noi siamo in un sogno dentro un sogno.
Il riferimento all’opera del grande pittore spagnolo sta ad indicare l’intento del regista di ricorrere a un nuovo modo d’indagare la realtà, osservandone appunto le differenti sfaccettature.
Pasolini, in effetti, parte dalla constatazione che la realtà è inafferrabile, sfuggente, per dare vita ad una sorta di “cinema decostruzionista”, in cui le varie componenti narrative non sono scisse  definitivamente, né vanno a costituire un disordinato coacervo di contenuti a sé stanti, ma finiscono col confluire in un unico racconto, come se il medesimo soffio ispiratore alitasse incessantemente sull’opera, dall’inizio alla fine, conferendole senso, spessore e dignità.
Nel costruire il suo film, Pasolini opera un’attenta suddivisione dello spazio, separando il palco (luogo dei personaggi e della finzione)  dalla platea (luogo degli spettatori e della realtà). Improvvisamente, sul finire della vicenda, fa in modo che i due spazi si fondano, attraverso l’irruzione del pubblico sul palcoscenico e l’abbattimento della cosiddetta “quarta parete”.
A questo punto, appare evidente la volontà di dimostrare come le aspettative della massa (la volontà del pubblico in sala) possano confliggere con i sogni borghesi (l’opera shakespeariana col suo tragico finale; e l’interesse del marionettista-impresario che ambisce al successo dello spettacolo).
Che cosa sono le nuvole? è impreziosito dalla presenza di interpreti come: Totò (Jago); Ninetto Davoli (Otello); Laura Betti (Desdemona); Franco Franchi (Cassio); Ciccio Ingrassia (Roderigo); Adriana Asti (Bianca); Francesco Leonetti (il marionettista); Domenico Modugno (l’autista del camion); tutti provenienti dall’avanspettacolo (ad eccezione di Leonetti, scrittore, amico e compagno di studi di Pasolini) e dotati perciò di particolari requisiti attorali.
Magistrale, ad esempio, la prova di Totò e Franco Franchi, che, grazie alle loro connaturate doti istrioniche e alla lunga gavetta giovanile, riescono a raggiungere livelli d’impareggiabile bravura. I due danno vita ad una gustosa pantomima, nella quale si muovono con gesti coatti, trattenuti, si scrutano, assumono espressioni fanciullesche, stupìte, agendo con una tale misura, da sembrare degli autentici pupi siciliani.
È forse proprio questa loro duttilità, questo sapersi piegare alle leggi dello spettacolo, senza rimanerne schiavi, ma riuscendo a conservare il proprio marchio, la propria impronta creativa, a renderli eterni.
Particolare significato assume la presenza di Totò-Jago che, pronunciando la frase: “Ah, meravigliosa e struggente bellezza del creato”, chiude l’episodio e chiude pure la propria carriera d’uomo e d’artista. Morirà infatti un mese dopo aver terminato le riprese del film.
L’ultima sua battuta somiglia più alla persona che alla maschera. La prima, come si sa, era seria, pensosa, riservata, persino malinconica; la seconda comica, irriverente, surreale, capace di divertire il mondo intero con smorfie, gag, trovate ed una verve davvero inesauribile.
Nessuno meglio di Totò e dei suoi compagni avrebbe potuto rappresentare l’eterna dicotomia fra l’uomo e la maschera, la realtà e la finzione, il concreto e l’astratto.
Pasolini l’aveva capito bene, perciò affidò a dei comici il compito d’interpretare il suo cortometraggio e inaugurare così una nuova stagione espressiva. Scelse attori popolari, lontani dai paradigmi del teatro classico e dall’accademismo scolastico, artisti naturali, spontanei (grandi come soltanto gli umili sanno essere) e capaci perciò di coniugare, in un’originale e straordinaria sintesi, cinema e poesia.

Antonio Magliulo


domenica 15 novembre 2020

... mia madre andò a vivere a Torino

 

Gruppo di famiglia con la signora Righini da giovane - Fonte: Laura Hess

[...] mia madre [Giovanna Righini, 1887-1965] andò a vivere a Torino dove aveva sorelle sposate quando molti anni fa si separò da mio padre ed io girando il mondo lei era sola. 

Non vidi mio padre per più di vent'anni. 

La signora Righini

Vidi spesso mia madre. Con lei sono legato da un vincolo affettivo inconscio. Non abbiamo mai avuto un pensiero in comune: per lei nel bene e nel male ero suo figlio e aveva la bontà di non giudicarmi. Il suo profondo cristianesimo fu una vocazione all'onestà. 

Mi crebbe così: forse per questo non ho mai completamente perduto la strada anche se mi smarrisco. Quando me ne andai avevo diciotto anni. Mia madre ereditò una piccola somma, era molto economa, mentre mio padre era al massimo dissipatore. Per anni non ho compreso cosa fosse il denaro: furono le responsabilità verso i figli a farmi meglio capire questa sempre losca faccenda.
A Torino il centro è noioso, ma quale gigantesca  periferia di ferro e acciaio! Mia madre all'ospedale dove ha buoni amici tra medici e chirurghi. Qui la gente soffre. Vivo al mare tra uomini forti, resto come soffocato e sconfitto da questa atmosfera che mi taglia i nervi, mi sento levare il sangue dal dolore, vedendo mia madre che mi guarda con costernazione.

La signora Giovanna Righini e, a destra, il figlio Guido Hess Seborga - Fonte: Laura Hess

Il tramonto s'arrossa all'orizzonte. Gli alberi di verde nero. Il giardino non è potato, crescono alberi antichi e fiori.
Ricordo mia madre quando passeggiava su questa ghiaia. Nelle giornate estive di scirocco caldissimo a volte qui giungono granuli di sabbia rossa, pochi e rari, quasi distaccati gli uni dagli altri si vedono sullo stretto marciapiede che attornia l'alloggio a pianterreno.
Ragazzo li guardavo con stupore perchè non era sabbia nostra e li indicavo a mia madre che mi guardava in silenzio.
Era preoccupata e allora non capivo perchè. Ora so perchè mi fissava negli occhi e ritrovo improvvisamente un suo sguardo che avevo dimenticato e con ritardo ne capisco il significato. Mia madre intuiva e temeva la vita che avrei fatto. E temeva che mi sarei perduto.
Ma mi sono perduto?
Anche in queste ore so che metto in rischio certi affetti profondi.
Ma come posso fare per non perdermi?
Quale altro segno di dolore vedrei nel volto di mia madre?
Eppure nel mio cuore a poco a poco nasce un sollievo, il maestrale della sera mi sfiora, l'aria di oleandri e i fiori di questa terra […]

Guido Seborga, Occhio folle occhio lucido -  diario, ceschina  68 - graphot 2012

La signora Righini a Bordighera - Fonte: Laura Hess

Giovanna [Giovanna Righini, 1887-1965], madre di Guido Seborga mio padre, aveva fratelli e sorelle: zia Maria, zia Cristina, zia Clotilde, zio Secondo ed il mitico zio Vittorio, che Guido stimava talmente da chiamare Vittorio suo figlio.
Guido passò per anni l’estate ospite della zia vedova Nora nella villa di famiglia a Gignese.
La madre di Giovanna, detta nonna maman e che aveva venduto i terreni dove è stata costruita la prima FIAT in corso Marconi a Torino, è stata lasciata sola dal marito, al quale è intestato il Museo dell’ombrello di Gignese.

Giovanna è stata come molte torinesi dalle suore giuseppine. C’era anche quella che diventerà la suocera di Guido, però in collegio perché orfana.
Si sono rincontrate con i due figli sulla spiaggia di Bordighera.
Fu in quel momento che mia madre sedicenne decise che avrebbe sposato mio padre!
Lasciata dal marito, l’alpinista e ingegnere Adolfo Hess, crebbe l’irrequieto Guido aiutata dalla famiglia Hess, con cui restò in ottimi rapporti, soprattutto della sorella Maria Righini Vigliardi Paravia.
Quando Guido era giovane ha frequentato a lungo Bordighera dove viveva nella villetta di via 1° maggio dopo i carabinieri.

E poi vi venne ancora alcune volte negli anni ‘50.
Il cancro, che aveva da anni, le colpì il cervello.
Così passò l’ultimo periodo della sua vita nella casa per anziani Candiolo dove da un po' trascorreva l’estate.
Quando morì, Guido era a Bordighera.
Guido ha vissuto malissimo la morte della madre.

Laura Hess 

 

venerdì 13 novembre 2020

Marco Vichi, Un caso maledetto

Firenze, Ponte Vecchio - Fonte: Wikipedia

[...]
una nuova indagine di Marco Vichi, Un caso maledetto [...] e ne offriamo in esclusiva per i nostri lettori un brano in anteprima. Il protagonista è il suo personaggio più seriale, il commissario Bordelli, che sin dal cognome esprime l’ironia di un protagonista che non ha paura di scavare tra i misteri più oscuri di Firenze e di un’Italia scandagliata senza timori da Marco Vichi [...] Marco Vichi - nato a Firenze nel 1957, ma da anni vive in Chianti - è tra i pochi scrittori contemporanei adessere l’indagatore di un Novecento dai misteri mai risolti. E anche un piccolo caso di omicidio è sempre il volano per raccontarci una “Storia d’Italia” che fornisce al lettore tante domande e che, con la licenza poetica della narrativa, racconta più di mille saggi [...] ci fa ritrovare noi stessi e la memoria di una Italia che non ha mai dimenticato, ma che forse ha dimenticato gli italiani. Qui la sua forza: ogni parola è un proiettile che ci sfiora appositamente. Sentiamo il sibilo dello sparo, la paura è tanta ma è una paura che ci fa risorgere. Vichi è un (p)artigiano della parola: uno dei pochi che davvero ci conducono a riflettere anche a libro chiuso.

Gian Paolo Serino su Satisfiction

[...] Quando Bordelli arrivò a casa erano quasi le due. Blisk dormiva, e per salutare sbatté due o tre volte la coda sul pavimento. Il commissario s’infilò subito sotto le coperte sperando di addormentarsi, ma appena spense la luce si ritrovò sopra il solito calesse trainato dal cavallino stanco, che lo portava in giro nella memoria più recente…

Era riuscito a risolvere da solo due casi di omicidio. Uno scapolo di quarantadue anni trovato morto in casa propria, sdraiato sul pavimento della cucina, trafitto da trentadue coltellate, ucciso da un rivale in amore per gelosia. E una giovane donna di trent’anni trovata in un bosco dalle parti di Polcanto, ammazzata a revolverate dal marito che non accettava di essere lasciato. L’omicidio era davvero il più infantile dei crimini… Sei un ostacolo al mio piacere, sei la causa del mio dolore, dunque ti ammazzo… Se i bambini avessero la capacità e il potere di intervenire sul mondo, ucciderebbero una enorme moltitudine di persone proprio come i tiranni che sterminano gli oppositori.

Per vie traverse il calesse lo portò nei boschi intorno a Empoli, dove quasi un anno prima, esattamente il 13 febbraio, era riuscito a mettere le manette a un maniaco che torturava e uccideva prostitute. E se pensava che ci era riuscito grazie alla passione della guardia Mugnai per La Settimana Enigmistica… Be’, ancora non ci credeva. Il destino a volte si divertiva a giocherellare con la vita delle persone. Gli sembrava quasi di vederlo, il signor Destino, con la faccia da schiaffi, un sorrisetto sulle labbra da bambino viziato, che mezzo ubriaco osservava dall’alto il mondo affannato e si metteva a tirare leve, a tagliare corde, a lanciare palle, solo per vedere cosa poteva succedere… E giù in basso il formicume umano veniva travolto o graziato dai suoi giochetti, in balìa di forze oscure alle quali ognuno dava una spiegazione diversa. Ma non si stancava di ricordare che grazie alla cattura di quel maniaco sanguinario, per via di un giuramento, lui aveva addirittura smesso di fumare, facendo contento anche Piras… L’ennesima dimostrazione che a volte dal Male poteva nascere qualcosa di buono. Ma per adesso nulla di buono era nato dall’odiosa strage del 12 dicembre, nella banca di piazza Fontana. La pista anarchica? Ma davvero qualcuno ci credeva? Se davvero la CIA stava cercando di impedire con ogni mezzo che i comunisti guadagnassero terreno, poteva essere capace di organizzare o di favorire qualsiasi porcata pur di riuscirci, magari con la connivenza di una parte dei Servizi italiani. E se gli organismi incaricati della sicurezza nazionale creavano insicurezza, per poi imporre una più forte «nuova sicurezza» con il pugno di ferro, era un vero casino, il ribaltamento della logica… Un po’ come se un vetraio andasse di notte a rompere i vetri per poi di giorno correre a cambiarli. E pensare che nel gennaio del ’69, per puro caso, lui e il colonnello Arcieri avevano avuto tra le mani dei documenti dai quali emergeva proprio quella volontà eversiva e stragista, anche se da quei pochi elementi nessuno avrebbe potuto immaginare una tragedia del genere. E chissà quali altre squallide sorprese nascondeva il futuro d’Italia… Povera Italia, non aveva pace… Dopo i dolorosi decenni che aveva appena attraversato, sembrava proprio che stesse per essere travolta da nuove tormentose burrasche…

Ovviamente non era possibile che il cavallino macilento non lo portasse dalla povera Diletta, stuprata e uccisa poco più di un anno prima, la notte della Befana e della finale di Canzonissima. Anche il 6 gennaio appena passato c’era stata la finale di Canzonissima del ’69, ma lui per scaramanzia non aveva voluto guardarla, temendo che subito dopo la sigla potesse accadere un altro omicidio. Ma sapeva come tutta l’Italia che di nuovo Gianni Morandi aveva vinto, e che Claudio Villa era arrivato secondo…

Poi il calesse si sollevò da terra, trainato dal povero cavallino ormai stremato, e guidato dal Nano Sabbiolino attraversò i cieli avanzando nello spazio infinito, fino alle stelle, fino alla lucente luna… la luna, la luna… che il 20 luglio l’uomo era riuscito a calpestare… Gli astronauti ci avevano messo i piedi sopra, avevano saltellato qua e là, e chissà Leopardi cosa ne pensava… Ormai mezzo addormentato, fissando il buio ebbe il tempo di sperare che l’uomo non sporcasse e non deturpasse quella magica sfera piena di crateri, come già aveva fatto con la terra… A un tratto sentì la voce di sua mamma che recitava alcuni dei suoi versi più belli… Guardo le stelle, e m’abbandono, al liquefarsi lento delle ore, paga di andare per gli eterni spazi, cullata dalla buona madre terra…Mamma… Mamma… Come stai? Dove sei? Dormi, Franco, dormi, che domani c’è scuola… Fate la nanna coscine di pollo… La luna, la luna… Dovevano salvare la luna… E i poeti, a bocca aperta, affascinati da quella sfera biancastra, dovevano continuare a lanciare verso la sua magica luce rubata i loro versi… Tramontata è la luna, e le Pleiadi a mezzo della notte… Anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto resto sola…

Marco Vichi, Un caso maledetto, Guanda, 2020 (a cura di Gian Paolo Serino su Satisfiction)

lunedì 9 novembre 2020

Il Fabbricone di Testori


Il Fabbricone
è il primo vero romanzo di Giovanni Testori, ambientato in un palazzo popolare della periferia milanese degli anni cinquanta, il Fabbricone.
 

Protagoniste sono le voci delle persone che lo abitano, che di continuo dalle finestre si rimandano l’un l’altra.
 

Costruito su tante storie plurali, il libro si dipana anche intorno a una trama centrale: la storia d’amore tra la Rina e il Carlo. Come novelli Romeo e Giulietta, i due devono superare le ostilità delle famiglie, i Villa e gli Oliva, schierate su opposte sponde politiche. I Villa sono comunisti: il padre accoglie i figli la sera mentre legge in poltrona “Rinascita” e rimprovera il figlio Antonio, che cerca una propria strada nella boxe, di non frequentare più la sezione del partito. Completano il nucleo familiare la madre, la figlia Liberata, militante convinta, e Carlo, innamorato di Rina. Speculare ai Villa, la famiglia di lei, gli Oliva, cattolici ferventi e democristiani fino al midollo, a partire dal nonno, pugnace combattente in ogni situazione.
 

È il libro decisivo per Testori: il popolo diventa “la classe sociale con la maggiore vitalità, tanto da essere in grado di ritrovare da sola i grandi temi tragici”, una necessità che spingerà Testori nella sua ricerca artistica degli anni successivi. 

Marco Freccero su raccontastorie

 

venerdì 6 novembre 2020

Tutto quello che ho, è stato prima una riga di piombo

Il dipinto di Bernardino Palazzi (“Bagutta”) conservato presso il Circolo della Stampa di Milano,Palazzo Serbelloni, che raffigura una riunione del premio Bagutta (endstart photo gianpaolo finizio). Intorno a Orio Vergani, al centro con il libro, sono raffigurati: E. Mazzolani, Umberto Folliero,
G. Scarpa, Paolo Monelli, Anselmo Bucci, Raoul Radice, Riccardo Bacchelli, Mario Vellani Marchi, A. Franci, Marco Ramperti, Giuseppe Novello, O. Steffenini, Silvio Negro - Fonte: Accademia Italiana della Cucina

Vittorio (il nome “d’arte” di Orio sarebbe venuto dopo) [Vergani] era nato il 6 febbraio 1898 a Milano. Rimase orfano di padre pochi mesi dopo la nascita. La madre, maestra elementare, dovette affrontare una scelta dolorosa: tenne con sé la figlia primogenita, Vera, futura attrice di prosa, e affidò il bimbo al “vecchio zio”, Guido Podrecca, molto noto nel mondo della politica e in giornalismo come direttore di un settimanale, “L’Asino”, visceralmente, diremmo oggi, anticlericale. 

Con Podrecca, l’Orio ragazzino cambiò spesso residenza: Venezia, Chioggia, Borgo San Sepolcro, Viterbo, Colorno e finalmente Roma, dove cominciò a lavorare prestissimo: a quindici anni collaborava a un mensile, il “Secolo XX”: poi passò al “Messaggero”, alla “Idea Nazionale”, alla “Tribuna”. Sono di quel periodo la sua frequenza alla celebre e celebrata terza saletta di Aragno, un caffè della capitale, e i suoi incontri con Federigo Tozzi, Luigi Pirandello (la cui compagnia di prosa mise in scena, nel 1926, la prima commedia di Vergani, “Il cammino sulle acque”). Lì nacque anche l’amicizia disinteressata col giovane, e allora sconosciuto, Galeazzo Ciano che voleva intraprendere la via del giornalismo.
Una “colpa” che gli antifascisti segnarono sul loro libro nero, per ricordarsene nel giorno della vendetta (e lo fecero).
Sul finire del 1925 dopo la liquidazione, per motivi politici, del direttore Luigi Albertini, l’amministratore del “Corriere della Sera”, il grande Eugenio Balzan, decise che era venuto il momento
di rinnovare il giornale portandovi delle forze nuove.
Due, soprattutto, i nomi di spicco fra gli “eletti”: Paolo Monelli e Orio Vergani che sorprese tutti chiedendo, come primo “servizio”, di occuparsi dell’incontro di boxe fra Carnera e Paolino Uzcudum. Ebbe via libera; e iniziò quella straordinaria attività che avrebbe fatto di lui un caso unico nella storia del giornalismo.
Un grande quotidiano, per essere tale, deve avere a disposizione un numero, quanto più alto sia possibile, di collaboratori specializzati, da interpellare al momento opportuno. Ma chi “fa il giornale”, sono i redattori e gli inviati speciali, in grado di passare, con rapidità, da un argomento all’altro. 

Vergani fu l’insuperabile principe di questi giornalisti “per tutte le stagioni”. Entrò persino, trionfalmente, in uno dei settori più chiusi, quello dello sport, e diede agli avvenimenti dei risvolti umani. Si parla molto dei “servizi” di Vergani dal Giro d’Italia e dal Tour de France: erano “pezzi” che lui solo poteva permettersi.
Gli anni fra le due guerre vedono la sicura ascesa di Vergani, non solo come giornalista, ma anche quale commediografo, romanziere, autore di saggi d’arte: ma, per il grande pubblico e, soprattutto, per quella che sarà poi la “sua” Milano, non è ancora un nome che conta. 

In quel ventennio, due grandi avventure (gliene sentii parlare a lungo, a un tavolo di Bagutta, in serate
indimenticabili): il viaggio in Africa e la guerra civile spagnola.
Effettuò il primo tra la fine del 1934 e i primi mesi dell’anno seguente, insieme al pittore (e suo grande amico) Mario Vellani Marchi che illustrava con i suoi disegni “dal vero” gli articoli che Orio spediva al “Corriere”. Partirono da Tunisi per arrivare a Città del Capo. Vi erano alcune linee aree, ma l’Africa, nel suo insieme, conservava la sua fisionomia ottocentesca, solo in parte modificata dai colonizzatori. I due videro i grandi mercati indigeni, le carovane, navigarono il fiume Congo su un vecchio battello a vapore; Vergani trasmise al giornale quaranta articoli, poi riuniti in due volumi, oggi reperibili solo in antiquariato.
Ben diversa l’avventura spagnola. Nel 1936, quando si intuì che gli avvenimenti avrebbero avuto una svolta, Vergani fu mandato dal “Corriere” a Barcellona. Scese all’Hotel Falcon e, poche notti dopo, si trovò chiuso fra due barricate, una di anarchici, l’altra di franchisti. Vinsero i primi, Orio fu catturato, e un tribunale del popolo, presieduto da Luigi Longo appena arrivato dall’Urss, lo condannò alla fucilazione come “corruttore della gioventù”. Venne liberato assieme ad altri 1600 stranieri d’ogni nazionalità, praticamente trattenuti come ostaggi, da un’azione, che ci appare oggi inconcepibile, del governo italiano di allora: vennero inviati a Barcellona due incrociatori, il “Fiume” e il “Montecuccoli”, assieme al piroscafo “Principessa Maria”. Con una proposta molto semplice: o li lasciate imbarcare o spariamo.
Vergani non era un giornalista politico. Ciò nonostante, nel corso della guerra, venne nominato capo della redazione romana.
Spiegava: “Il direttore Borelli me lo disse chiaro: ormai la catastrofe è inevitabile, la guerra è persa. Potremmo arrivare a azioni insurrezionali! È bene che a Roma ci sia tu, che non hai fisionomia politica: un tuo appello alla concordia, alla fratellanza, potrà essere ascoltato”. Discorso che non teneva conto del desiderio di rivalsa dei “rimasti fuori”. Il 25 luglio i redattori, scopertisi antifascisti, cacciarono Borelli. Il 31 luglio il nuovo direttore, Ettore Janni, licenziò in tronco, per motivi politici, Vergani.
Per lui fu un trauma: “Una condanna a morte”, scrisse nel suo diario, “che mi portò vicinissimo al suicidio”. Vergani non fece parte della redazione del “Corriere” durante la Repubblica di Salò ma, nel 1945, fu lo stesso “epurato”, e dovette lavorare per altri giornali. Poi, nel 1946, rientrò nel “suo” “Corriere”.
Cominciò, per lui, un periodo particolare, e se si tiene conto del suo carattere e della sua indole, del tutto anomalo. Lavorava moltissimo: qualcuno ha calcolato che, oltre ai libri e alle commedie, egli abbia scritto circa ventimila articoli. In una sola notte, nel giugno del 1959, mentre era a Venezia per una “prima” teatrale, Vergani riuscì a scrivere e a dettare, uno dopo l’altro, sei servizi: la critica dello spettacolo; un “pezzo di colore” su Burano; un commento “umano” sulla morte di alcuni passeggeri di un aereo caduto, poche ore prima, a Olgiate; la critica della mostra di un pittore e il ricordo del commediografo e paroliere Luciano Ramo, morto quel giorno. E, cosa importante, tutti testi eccellenti, senza sbavature, ripetizioni, “cadute”.
Egli fu sempre e solo un grande giornalista: non ebbe mai uno di quegli incarichi non ben definiti ma redditizi come direttore editoriale aggiunto, responsabile del settore periodici o simili, che “portano” ad alti stipendi, senza richiedere impegno eccessivo. Scriveva. Poteva dire, come un suo celebre collega, Renato Simoni, “Tutto quello che ho, è stato prima una riga di piombo”.

Massimo Alberini in Accademia Italiana della Cucina (fondata da Orio Vergani nel 1953), Quaderno 75, aprile 2010

lunedì 2 novembre 2020

Era Dino Campana

Dino Campana - Fonte: Wikipedia

Finissima e originale figura di letterato, quella di Giacomo Natta (Vallecrosia 1892 - Roma 1960) sfugge alle consuete classificazioni come sfugge alle ordinarie storie della letteratura. In vita pubblicò un solo ma squisito libro che gli valse l’acuta e partecipe presentazione di Giuseppe Ungaretti. In gioventù frequentò, nella sua Riviera, Georgij Plekhanov e il Principe Kropotkin. Pubblicato su “Paragone” nel 1960, nel ricordo che segue, Natta rievoca eventi fiorentini, in particolare l’incontro (vi si imbatté, fra gli altri, a proposito di liguri, anche Camillo Sbarbaro) con Arturo Reghini, massone-pitagorico-imperialista (e da morto stella polare dei massoni, specialmente torinesi, toccati dal guenonismo) che con Evola, col quale poi si scontrò, fu all’origine del gruppo di “UR”, un punto fermo per “i maghi” italiani.  biblioego

Una dedica di Dino Campana a Mario Novaro

[...] Al ritorno, un tale che era salito in treno a Semmering, si invaghì del mio soprabito, ed io, pensando a quello che avrei trovato nella mia pensione di Firenze, glielo cedetti, al prezzo che mi era costato un mese prima. M'aveva anche detto che gli avrebbe portato bene. Ero in grado di sopportare quel freddo almeno fino al termine del viaggio. Ma me ne fu regalato uno assai prima, a Bologna. Avevo incontrato un amico in una piccola trattoria nei dintorni della stazione (ho ancora fresco il ricordo del piacere che provai mangiando il pane di Bologna, preferendolo quasi alla pietanza che era ottima), mi portò a casa sua dove mi fece provare due cappotti che aveva dimesso poiché non cessava di ingrassare. Scelsi quello meno largo, nero, col bavero di velluto. Mi girava un po' intorno al corpo mentre camminavo e le maniche sarebbero arrivate pari pari fino alla punta delle mie dita, se non avessi tenute le mani in tasca. Però l'eleganza del taglio mi rendeva passabile. Era come se fossi un po' dimagrito, era ovvio pensarlo osservandomi.

Proprio così non sembrò agli amici che, verso le sette di sera trovai a Firenze nel caffè Paskowskj. Alla mia comparsa si misero a ridere, facendomi festa. Più degli altri si divertiva di me Ottone Rosai. Seduto tra Soffici e lui c'era uno, con due giacche, il quale mi guardò con curiosità sorridente, forse perché anch'io, come lui, non ero in regola. Mi sembrò a tutta prima un tedesco, un globe-trotter, uno sbarcatore. Era tarchiato, con degli scarponi, zazzera e barba bionda. Il cameriere che venne a darmi il benvenuto scomparve e ritornò subito con un soprabito grigio. L'aveva trovato, abbandonato ad un attaccapanni, la precedente primavera, e le due lettere che trovò nelle tasche portavano il mio nome. Me lo misi, e mi venne d'offrire quello che smisi allo sconosciuto, il quale si tolse sveltamente una giacca e se lo passò. Sul velluto cangiante in viola del bavero la barba viva rifulse in oro, e lo sguardo azzurro era più luminoso. 

"Sembri un professore tedesco" gli disse Rosai. Era Dino Campana. "Vous voilà bourgeois" gli disse un giovane parigino, Ackerman, il quale andava per Firenze ebbro della filosofia di Bergson. C'era anche Francesco Pagliai, stimatissimo dai maggiori; oggi funzionario all'Accademia della Crusca, e appartatissimo; Giannotto Bastianelli ed altri.
 

[...] Ritrovai Campana con le due giacche, il cappotto lo aveva venduto.
Trasse da una tasca, che ne conteneva parecchie, una copia dei Canti Orfici, e me la diede. Ci aveva scritto una lunga dedica. La pagina dove l'aveva scritta fu qualche giorno dopo strappata dal libro che stavo leggendo, al caffè Giubbe Rosse, su istigazione di Bino Binazzi che lo accompagnava. Bino Binazzi era quello che io non ero e cioè un "puro" e "un duro". Aveva un'aria di fanatismo triste, e s'era come fatto bandiera del poeta "incontaminato".
 

Il viso di Campana dava l'impressione d'una continenza estrema, d'una salute barbara. Ma aveva nello sguardo una pena direi irrimediabile, una solitudine irraggiungibile. Quando mi trovavo solo con lui, mi parlava con fanciullesca docilità e con una voce limpida e un po' lamentosa. Diceva cose che non distinguevo; il suo umore era mutevole, come se ci fosse in lui un franare continuo. Mi faceva un po' paura, ed io rimanevo con lui solo il meno possibile. Una volta che mi parve più stabile mi disse che traduceva, alla mattina, un poeta inglese.
"Alla mattina? "
"Sì, in quell'ora, dove sto io, la mia casa ha i piedi in Arno, ed è volta a settentrione, c'è la luce precisa di quella poesia". 

Non volle dirmi il nome del poeta.

Nessuno sapeva allora che egli era già stato in manicomio, e mi pareva che nessuno avvertisse il suo malessere. Era preso, anche, ma cautamente, un po' in giro. Tra i letterati al caffè fingeva di ignorare autori che conosceva con precisione e forse più di loro. "Rimbaud?" domandava sottomesso.
Con una certa impostura, aveva segrete malizie e improvvisi scoppi d'un ridere chiaro. Diceva e ripeteva con insistenza sospetta "maestro", a Soffici. Ho visto nel suo sguardo balenii d'odio. Era sofferente e insofferente quasi sempre.
Dove eravamo entrati, quella notte fredda e tetra, a bere del vino per riscaldarci e rallegrarci un po' (Reghini, la sua guardia del corpo, Pagliai, un altro ed io), Campana stava seduto, all'estremità d'un largo e lungo tavolo, con Rosai ed un pittore friulano sceso da poco a Firenze. Noi ci sedemmo dalla parte opposta del tavolo. La bottega era quasi vuota. Sedendosi, Reghini sbirciò un po' dall'alto, quasi con bontà, e con una curiosità affettata, Campana, salutò con un cenno della mano Rosai, trascurando il suo compagno in conseguenza della sua forte apparenza di montanaro. Con Rosai, per il vero, egli aveva già aperto il mantello della sua protezione, ma Rosai vi era entrato ed era uscito scherzando, col mantello come un giovane gatto. I tre "barbari", guardandosi, mentre noi urbani si discorreva, s'incontrarono nello stesso sentimento. Reghini aveva incominciato l'elogio della mistificazione, alla quale si giunge altamente, mediante l'amore della verità. 

Campana di tanto in tanto sogghignava, e mi pareva che le occhiate a lui rivolte dagli altri due intendessero, specialmente quelle di Rosai, ad aizzarlo. Io cominciavo a temere. Mi pareva che Campana non capisse o soprastesse a quegli incitamenti, ma all'improvviso balzò sul tavolo rovesciando con gli scarponi bicchieri e litri.
Inveì contro "I letterati fiorentini", in frasi triviali dove ricorrevano le parole: impotenti, feccia, cialtroni. E si proclamò unico, e "poeta della quarta Italia". Sopravvenne il padrone, Campana saltò dal tavolo e ridacchiando con gli altri se ne andò. Noi pure uscimmo, un momento dopo, pagando anche per loro. 

Andammo a zonzo. Reghini aveva un'aria di maestà offesa e il suo parlare era incerto.
Dalla baruffa, non ci scappò il morto; ma credo che poco ci mancasse. Se la pesante mazza sospesa sul capo di Campana non fosse stata trattenuta a tempo, gli avrebbe forse spaccato il cranio... Era circa l'una quando uscimmo da Ponte Vecchio e volgemmo per lung'Arno Acciaioli, nebbioso e deserto. Sbucarono da un andito dov'erano appostati, corsero verso di noi e ci furono addosso. Campana si slanciò contro Reghini, e i suoi compagni tentarono di metterglisi davanti per impedire a noi di difenderlo e di separarli. Fu un parapiglia. Parte dei colpi diretti a Reghini furono deviati e menomati. Sbattuto or di qua or di là gemeva pallidissimo. Campana, barba e capelli scompigliati, mostrando una schiena vigorosa e triviale, picchiava, dinoccolato, mandando dei sibili, dei sospiri di soddisfazione profonda, di copula. Gli ridevano gli occhi di una specie di gioia selvaggia. Passò una vettura a botticella, dove Reghini fu introdotto. Gli sedette accanto la guardia del corpo. Affacciandosi dal finestrino aperto Campana sputò in faccia al suo bersaglio: "te", gli disse facendogli con una mano le corna: "prendi". Lo afferrammo, scivolò per terra, si rialzò e inseguì, per poco, la vettura. Pareva un manigoldo teutonico.

Giacomo Natta, Il cappotto di Dino Campana in biblioego

domenica 1 novembre 2020

Edna St. Vincent Millay


La notte è mia sorella, io nel profondo
dell’amore annegata, giaccio a riva,
acque e alghe a fior d’onda mi lambiscono,
mi ferirà la draga, e c’è di più:
lei, solo braccio teso dalla sabbia,
unica voce il cui respiro sento
a sgelarmi le nari, ad aprirmi la mano,
lei potrebbe avvisarti, se tu udissi.
Ma di certo è impensabile che un uomo
in sì dura tempesta lasci il quieto
focolare e s’imbarchi al salvataggio
di un’annegata per portarla a casa,
sgocciolante conchiglie sul tappeto.
Buia è la notte, e per me piange il vento.
Veglia i sentieri della mia passione
come notturna tenebra il pericolo.
Deserti intorno. Da me s’allontani
chi è come il bimbo che l’ombra atterrisce,
fugga da questo luogo infido dove
tremule, oscure e pallide le rose
ondeggiano nell’aria senza stelo
e raggela le mani la rugiada.
Chi è come il bimbo che non ha paura
del buio della notte, lui soltanto
rimanga qui, gli occhi d’amore ardenti,
scaldato dalla febbre delle vene
giaccia quieto con me, protetto dall’insonne
Bellezza e dalla sua tenera spina.
 

So quel che voglio e ho fatto la mia scelta;
il mio destino non sei tu a deciderlo:
che tu mi ami o no, non ha importanza,
alla fine, di me rispondo io.
La tua presenza, i tuoi favori, tutto
ciò che m’hai dato, adesso puoi riprenderti:
c’è tra la tua bellezza ed il mio cuore
qualcosa che non riuscirai a confondere,
nè a tradire. Vorrei che tu capissi
che nel mio più segreto desiderio
sogno sempre il mio bacio; ma non chiesero
di bere ancora quelli che languivano
nei deserti del Sud; puoi benedirmi,
ma non piegarmi dopo avermi amata.
 
Edna St. Vincent Millay (Rockland, 22 febbraio 1892 - Austerlitz, 19 ottobre 1950)