sabato 2 marzo 2024

Solo se ciò che si vede sullo schermo appare credibile, e quindi evoca un mondo, le Langhe come metafora possono avere un senso e un’efficacia


L’idea di un’intervista a Guido Chiesa, regista e sceneggiatore della versione cinematografica del "Partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio (nonché di molti documentari sulla Resistenza), è nata dalla riflessione sul fatto che è difficile collocare la figura dei partigiani della guerra civile italiana nell’immaginario collettivo. Un evento storico straordinario che ha determinato il corso della storia d’Italia, in cui il protagonista principale è lo stesso popolo italiano, sembra una condizione fertile per cui creare - nella storia del costume - un’idealizzazione del periodo e di chi lo condusse. Chiaro è che la mitizzazione di un periodo storico non è di per sé positiva, rischia, anzi, di veicolare il messaggio di una nuova retorica, impoverendo i numerosi e diversi significati che la Resistenza ha assunto; ma senza intendere che fosse auspicabile una vera e propria mitologia della Resistenza, è significativo sottolineare che nell’immaginario collettivo sia assente (o quasi) l’immagine dei partigiani, che hanno contribuito non solo alla Liberazione dell’Italia da un punto di vista politico, ma anche intellettuale, contribuendo alla nascita di una cultura nuova e libera, che ancora oggi ci appartiene.
È strano pensare che quella parte di popolo che si ribellò spontaneamente all’invasione dei tedeschi e dei fascisti di Salò, che portò avanti una guerriglia tra boschi e montagne, che riuscì a mantenere una rete di collegamenti con i gruppi clandestini delle città, che riuscì a resistere fino all’arrivo degli alleati, che contribuì decisivamente alla Liberazione di tutti non ha mai ottenuto una rappresentazione precisa.
Se poi si pensa al fatto che la guida partitica arrivò solo in un secondo momento e che fu una realtà eterogenea, composta da più fronti politici, uniti sotto la bandiera antifascista, sembra proprio che ci fossero tutti gli elementi, perché la figura del “partigiano” diventasse una figura nazionale riconosciuta evitando la strumentalizzazione di una sola parte politica o di una sola realtà sociale. Invece, il risultato è quasi il contrario.
Forse perché i partigiani non appartengono a quella categoria di personaggi “illustri”, facilmente identificabili, o forse perché dopo la Resistenza non trovano un posto particolare nella politica della neo-Repubblica; certo è plausibile pensare che l’esperienza italiana degli anni Settanta, i cosiddetti anni di piombo, in cui il principale gruppo terroristico, le BR, dichiarava esplicitamente di avere raccolto il testimone dai partigiani, potrebbe essere (ma occorrerebbe un’analisi più approfondita) una delle principali ragioni che spiegano l’oblio calato su questa figura storica, umana e civile.
[...] Non è toccato quindi alla narrativa il compito di offrire all’immaginario collettivo la figura del partigiano, che, oltretutto, è così preziosa per indagare sull’identità del nostro popolo.
Dopo la Liberazione ci fu un tentativo, fin troppo azzardato, da parte di alcuni partiti e movimenti politici, di strumentalizzare la guerra partigiana e di “appropriarsi” di una sorta di “eroe positivo” da trasformare in mito nazional-popolare, rischiando la nascita di una retorica nuova. Le pagine di letteratura si mostrarono però talmente sfaccettate e complesse, distanti dall’idea di creare “un eroe a tavolino”, che non emerse mai una figura standardizzata.
Il cinema, in questo senso, rappresenta un terreno di confronto estremamente interessante con la narrativa, essendo una forma d’arte per immagini più accessibile al grande pubblico. La figura del partigiano e il suo mondo possono così assumere contorni più definiti e riconoscibili. Ma la guerra civile italiana non sembra avere stimolato particolarmente (se non in alcuni casi) la produzione cinematografica.
Guido Chiesa è una delle eccezioni e la sua filmografia rivela, al contrario, un interesse specifico per l’argomento. Per il suo lungometraggio sceglie un modello letterario di partigiano, ma al tempo stesso fornisce una nuova interpretazione per restituire luoghi e protagonisti.
Il regista traduce in immagini il testo più complesso e in qualche modo rappresentativo di tutta la produzione letteraria della Resistenza. Mostra la regione collinare delle Langhe, i suoi elementi naturali, cerca le ambientazioni descritte nel testo e attribuisce loro un’immagine reale. Chiesa cerca, inoltre, di mantenersi estremamente fedele alla pagina scritta, considerando le Langhe non soltanto come luogo storico e geografico, ma soprattutto come paesaggio esistenziale, metafora dell’eterno conflitto dell’uomo con la Natura. In questo modo realizza la sua analisi per immagini del testo fenogliano, e fornisce un confronto tra la natura letteraria e quella cinematografica della realtà sensibile ma anche introspettiva del mondo partigiano di Johnny. Ai fini della mia analisi, l’incontro con Guido Chiesa è stato un utile confronto per comprendere meglio il processo rielaborativo di Fenoglio sull’esperienza resistenziale, per identificare la figura di Johnny in spazi specifici del territorio italiano, e per interpretare i significati esistenziali che questi spazi assumono.
Come mi spiega il regista: "Paradossalmente, per ottenere questo risultato era necessario un impianto scenico e antropologico di grande autenticità: solo se ciò che si vede sullo schermo appare credibile, e quindi evoca un mondo, le Langhe come metafora possono avere un senso e un’efficacia".
Incontro Guido Chiesa il 30 marzo 2007 a Roma
1) Il Partigiano Johnny è un romanzo incompiuto, edito in più versioni, come si è mosso rispetto al caos filologico del testo?
Mi sono basato essenzialmente sull’edizione a cura di M. Corti, che considero la più completa anche se non condivido la datazione delle opere proposta dalla Corti, ma forse questa è materia per fenogliani puri… L’edizione Isella pur importante, per me, è ancora densa di contraddizioni, per esempio al capitolo 21 quando Johnny entra ad Alba occupata, non và a trovare i suoi genitori. Come può improvvisamente ignorare la presenza della casa paterna? Nell’edizione a cura di M. Corti - come pure nel mio film - questa scena infatti è presente e significativa.
2) Ha avuto qualche problema nel tradurre il testo in immagini, nel rintracciare una narratività che per la verità è sfuggente nel romanzo?
Sotto certi aspetti il passaggio dal libro alla sceneggiatura è stato più facile del previsto. Quando per la prima volta si legge il romanzo si è travolti dal suo magma linguistico: intraducibile sullo schermo e assai poco cinematografico. Invece, ad una lettura più attenta, ci si rende conto che la struttura narrativa del romanzo è molto forte, precisa, quasi di genere nella sua iterazione di fatti ed eventi funzionali alla costruzione del personaggio e del senso dell’opera. È una struttura classica, archetipica, come quella dell’Odissea, a cui il testo fenogliano è stato da molti messo in relazione. Anche se credo che uno dei punti di riferimento-chiave fosse per Fenoglio "Il viaggio del pellegrino" di John Bunyan, un libro poco conosciuto in Italia, ma che rappresenta uno dei testi fondamentali del mondo protestante. È la storia di un pellegrino che, abbandonata la città e la famiglia, parte alla ricerca di Dio e si avvicina alla santità attraverso il superamento di prove sempre più dure. Fenoglio lo cita più volte e all’inizio del romanzo è lo stesso Johnny a leggerlo. Una volta individuata la struttura narrativa, si trattava di compattarla nei tempi e nei modi di una sceneggiatura cinematografica: se Johnny compie tre volte la stessa azione, ne abbiamo tagliate due; se ci sono tre personaggi che svolgono la stessa funzione narrativa, ne abbiamo lasciato solo uno. E via dicendo. Certo abbiamo dovuto sacrificare degli episodi a cui tenevamo molto, ma ci interessava soprattutto che la sceneggiatura funzionasse, più della mera fedeltà alla pagina scritta. In questo senso abbiamo tradito il romanzo, anche perché, senza false modestie, eravamo convinti che il libro di Fenoglio sarebbe stato sempre e comunque più bello, complesso e sfaccettato del film. Considerando il romanzo come un’avventura epica ho scelto le “prove” che Johnny doveva superare, le imboscate, le fughe, gli attacchi frontali, la pioggia, il fango, la neve e infine la solitudine: in cui emerge la vera essenza del partigiano: un uomo di fronte a se stesso. È stato invece difficile raccontare un personaggio che non subisce cambiamenti da un punto di vista psicologico; rendere l’idea di un antieroe eterno.
3) Come ha selezionato i luoghi in cui girare?
Il romanzo, da questo punto di vista, poneva problemi enormi. In prima battuta, vi sono narrati tantissimi luoghi (paesi, colline, cascine, ecc.) e, per forza di cose, abbiamo dovuto tagliare e ridurre il numero dei posti in cui girare. In seconda istanza, questi luoghi sono descritti con molta precisione e questa precisione non è puramente descrittiva, ma funzionale all’atmosfera e al significato della storia. Penso ad esempio ai bastioni di Mango da cui Johnny vive la drammatica attesa del rastrellamento tedesco: non sono dei semplici bastioni, sono un osservatorio morale sul mondo. Quattro location scout, Enrico Rivella, Nicola Rondolino, Gianpiero Vico e Lia Furxhi hanno per mesi battuto le Langhe paese per paese, collina per collina, alla ricerca dei luoghi richiesti dalla sceneggiatura. In alcuni casi, la ricerca di luoghi autentici e non intaccati dall’edilizia moderna li ha portati a sconfinare fuori dai tradizionali confini geografici delle Langhe, per trovare, ad esempio, Montechiaro d’Acqui, uno dei paesi meglio conservati del Basso Piemonte (in cui è ambientata la parte di Mombarcaro con i rossi). Altre volte, la scoperta di location come la cascina di Bossolaschetto, che ha funto da Cascina della Langa (nell’impossibilità di trovare una replica adeguata alla vera Cascina della Langa situata nei pressi di Manera) ci ha spinto a modificare la sceneggiatura in funzione del luogo reale. Lo scenografo Davide Bassan ha quindi operato su questi ambienti naturali secondo tre coordinate: evitare ogni intervento che riveli l’artificio tecnologico (ruspe, seghe elettriche, pitture a spray), prediligendo lavorazioni manuali; scegliendo materiali d’epoca o comunque di fabbricazione artigianale; arredamenti e suppellettili scelti dopo un accurato lavoro di ricerca su fonti iconografiche dell’epoca e su fonti orali. Sono rari, in tutte le Langhe, centri storici che non siano stati rovinati dall’edilizia e dalla cementificazione. Ad esempio, era impossibile usare Mango stesso. Della Mango descritta nel romanzo non vi è quasi più traccia. Ci eravamo quasi rassegnati ad utilizzare Monforte o Serralunga, paesi molto belli e abbastanza ben tenuti, ma molto distanti dalla topografia dei paesi descritti nel romanzo (ad esempio, privi dei bastioni all’ingresso del paese). Un po’ per disperazione, un po’ per testardaggine, siamo andati a vedere Neive, un paese che avevamo sempre scartato, essendo troppo vicino ad Alba e alla zona turisticamente più nota. Ma qui, con nostro grande stupore, abbiamo scoperto che Neive alta è ancora intatta: non un piccolo angolo, ma strade intere. Per noi rappresentava un risparmio di fatica e di lavoro enormi. Neive ci ha risolto tantissimi problemi, mentre per il resto ci siamo arrabattati in lungo e in largo. Durante le riprese ci siamo spostati in oltre 80 set, un numero altissimo per 54 giorni di ripresa. In totale abbiamo girato in oltre 30 comuni.
4) Ha preferito attenersi ai luoghi reali o ha cercato di raccontare i luoghi letterari?
Naturalmente i luoghi che racconta l’autore, quelli che ci restituisce attraverso i suoi occhi, quindi i luoghi letterari e cercando - quando era possibile - di identificarli con quelli reali. La lettura dei libri di Fenoglio mi ha spinto a vedere nelle Langhe di allora (cioè quelle antecedenti o contemporanee alla scrittura, e comunque anteriori al boom economico), non tanto un luogo geografico determinato, bensì una sorta di paesaggio esistenziale, un teatro ideale per la raffigurazione della tragedia umana (rapporto uomo/natura, conflitti tra le classi sociali). Così, quando ho iniziato realisticamente a pensare alla realizzazione del film sapevo che dovevo andare a cercare quelle Langhe, rinunciando a priori ad ogni tentativo ad ogni affresco globalizzante, a vantaggio dell’unità espressiva e dei significati. Vale a dire, la mia intenzione non era quella di fornire una visione realistica della zona e della sua storia, quanto di mettere in scena un mondo che fosse il più possibile adatto al dipanarsi del dramma umano e morale del protagonista. In questo senso, il film non parla delle Langhe, ma sceglie le Langhe perché offrono un terreno ideale a un certo tipo di discorso sull’uomo. Paradossalmente, per ottenere questo risultato era necessario un impianto scenico e antropologico di grande autenticità: solo se ciò che si vede sullo schermo appare credibile (e quindi evoca un mondo) le Langhe come metafora possono avere un senso e un’efficacia. Il direttore della fotografia Gherardo Gossi, oltre alla visione di molti documentari cinematografici dell’epoca, è stato da me indirizzato alla costruzione di un’immagine complessiva del film che fosse adeguata alla rappresentazione di un’Italia povera, buia, in guerra. In questo senso ci ha aiutato la scelta di girare in autunno, privilegiando così colori che vanno dal verde scuro al marrone fino al grigio. Negli interni, dove ha potuto, Gossi ha messo in scena fonti di luce reali (candele, lampade alogene, lumi a petrolio, ecc,), scegliendo di non illuminare le pareti, di creare forti contrasti di chiaroscuro, su una strada a noi indicata da pittori come Caravaggio. Non tanto in nome del realismo, ma per creare attorno a Johnny un mondo funzionale alla creazione di un determinato significato.
5) È stato difficile “filmare” un paesaggio trasfigurato dallo sguardo di uno scrittore?
Fenoglio è uno scrittore per così dire “fenomenologico”: le vicende dei suoi libri progrediscono per fatti, non per motivazioni psicologiche. La psicologia dei suoi personaggi è quasi inesistente, eppure fortissima perché deriva dalle loro azioni, dal paesaggio e dalle azioni di cui sono testimoni. Tutti elementi squisitamente cinematografici proprio perché visibili, evidenti, filmabili. Inoltre, Fenoglio ha sempre l’accuratezza di scegliere un punto di vista (si pensi alle immagini finali di "Un giorno di fuoco" o "Una questione privata") che altro non è che quel che si chiama inquadrare, filmare. Come un regista, Fenoglio sceglie di guardare la realtà che intende raccontare da un certo punto di vista e solo da quello.
6) Nel film si inquadra spesso lo sguardo del protagonista, questo indica che lo spettatore vede il paesaggio attraverso gli occhi di Johnny? Ha voluto mostrarci il rapporto tra il personaggio e il suo ambiente?
Sì, la bussola è lo sguardo di Johnny, e la grammatica interna del film non può che nascere da lì. La macchina da presa sta con lui, vede quel che lui vede, si muove quando lui si muove (o qualcosa si muove in lui), corre fugge scappa quando è Johnny a farlo. Ma anche quando aderisce al personaggio, lo rispetta e lo ama, mai rinuncia alla possibilità di uno sguardo critico su di esso. Se ciò accade è perché l’ideologia del film non è quella di Johnny, non si appiattisce su di lui, ne è consapevolmente distante benché appassionatamente vicina.
7) È stato importante nel film restituire la presenza di una natura ostile e dei suoi elementi?
Molto. Il romanzo specifica i titoli delle stagioni perché è la Natura che governa il mondo in collina, e l’inverno è la più importante delle stagioni perché genera il conflitto maggiore, e soltanto nel conflitto l’uomo può esprimere se stesso. Lo stesso discorso vale per gli elementi naturali, Johnny sente la sua vera natura umana a contatto con il fango che lo svilisce ma al tempo stesso lo accoglie, testimonia in qualche modo la ricerca di un rapporto viscerale, originario con la Natura. Rapporto che è mancato all’autore nella figura materna.
8) Secondo lei Fenoglio comunica, attraverso Johnny, un rapporto assente con la madre?
Quello che, probabilmente, ho capito solo dopo aver girato il film è l’importanza del rapporto di Fenoglio con la madre, un rapporto difficile che ha influenzato enormemente lo scrittore: spesso Johnny parla di “Madre Langa” e indica la collina con il termine “mammella”, questo - secondo me - è indice di un rapporto di dipendenza con la Natura che rimanda alla dipendenza del figlio con la madre. Il paesaggio lo accoglie nel suo seno e nonostante la Natura sia cieca e indifferente Johnny si affida a lei come fosse l’unica protezione possibile. Questa considerazione, oltretutto, è confermata dal rapporto problematico - che emerge nel romanzo - del personaggio con le donne (Cita due momenti del romanzo, rispettivamente descritti nei capitoli 14 e 19): "Come Johnny notò fin dal suo arrivo nei paraggi del quartier generale, le donne non erano piuttosto scarse nelle file azzurre […] Il latente anelito al puritanesimo militare, appunto, gli fece scuotere la testa a quella vista, ma in effetti, sul momento, appunto, le donne stavano lavorando sodo, facendo pulizia, bucato, una dattilografando… Il solo fatto che portassero un nome di battaglia, come gli uomini, poteva suggerire a un povero malizioso un’associazione con altre donne portanti uno pseudonimo <241. Sulla radura […] stavano donne, staffette, stavano facendo il bucato generale, con un’aria attiva e giocosa e l’allegra coscienza di star facendo il loro vero, naturale lavoro. In faccia a Johnny sbuffò l’odore della saponata, attraverso l’aria rarefatta portando il confortante senso di casalinghità all’aperto. Alcune guardie del corpo stavano vessando le lavandaie, con un’ironia sana e diretta" <242. La difficoltà di questo rapporto si osserva anche nella diffidenza che il personaggio mostra nei confronti di Elda. Infatti Johnny cerca di colmare la mancanza della figura materna, come figura protettiva, non nella donna - che ricorda ancora troppo la madre - ma nella Natura, che è l’unica vera forza generatrice. In questo senso è molto indicativo il momento in cui Johnny si fa il bagno nel fiume: "Notò ai margini della corrente principale una conchetta d’acqua, naturalmente azzeccata e felice. Johnny non ci resistè, si liberò del vestito e delle armi, e si immerse verticalmente, monoliticamente in quell’immobile vortice, fino alle spalle, con un lungo e filato fremito, equivalente perfetto, più perfetto di una carica sessuale" <243. Così Johnny/Fenoglio si ricongiunge alla sua esperienza prima nel ventre materno, ai nove mesi nel liquido amniotico. E nel fiume si sente accolto e consolato. Il rapporto tra Johnny e la Natura diventa simbiotico e il personaggio si affida a Lei nonostante le sue indifferenti ostilità: la neve, la pioggia, il fango, il freddo. Ho compreso tutto questo dopo avere girato il film, in cui si trovano solo alcune intuizioni a livello embrionale, perché durante la realizzazione la mia idea era più concentrata nel ritrarre il partigiano Johnny come “l’uomo autentico”, guidato da uno spirito razionale, pronto ad affrontare l’estrema solitudine invernale e tutta l’esperienza della Resistenza guidato dalla ragione. Lavorando al film ho cercato di comunicare quella che - secondo me - era l’intenzione dell’autore, cioè la ricerca di risposte esistenziali nella ragione, e una volta compreso che queste risposte non ci sono Johnny accetta che l’ultimo risultato della logica porta inevitabilmente al suicidio. Oggi invece, per leggere il personaggio, mi concentrerei di più sul rapporto madre-figlio dell’autore.
9) Legge la morte di Johnny come un suicidio?
Assolutamente sì. Sia di Johhny, che di Milton, dove ancora più chiaramente si vede il partigiano abbandonarsi in un ultimo abbraccio alla Natura - unica fonte di vita - e come in un’esperienza panica si lascia andare ad una Natura che lo riprende a sé. Johnny rappresenta un’umanità che cerca conforto, ma non potrà mai averlo. Per questo il "Partigiano Johnny" è un romanzo che comunica una forte riflessione esistenziale. Considero Leopardi, Fenoglio e Pasolini i maggiori scrittori-filosofi della letteratura italiana. Infatti per Johnny la vita può esistere solo nella natura, nonostante sia una natura cieca, che fa male. Esattamente come per Leopardi.
10) Quindi Johnny come emblema della condizione umana?
Esattamente. Johnny rappresenta l’uomo nella sua considerazione essenziale, e la dimensione unica nella quale può esprimersi pienamente è quella della guerra; perché la guerra è una condizione estrema dove l’uomo si trova di fronte a sé stesso, in una solitudine infinita che permette di affrontare le domande fondamentali sul significato dell’esistenza umana.
[NOTE]
241 B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, cit., p. 159
242 Ivi, p. 211
243 Ivi, p. 220
Anna Voltaggio, Spazi partigiani: il paesaggio letterario nella narrativa della Resistenza italiana, Tesi di Laurea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno accademico 2006-2007