Alla tipologia della manmade atopia, ovvero all’invivibilità creata per opera dell’uomo, si può accostare la maggior parte delle ambientazioni della guerra: sono luoghi destituiti dal loro passato, dalla loro primaria funzionalità, spazi privati dalla loro essenza: l’asfalto delle strade è «qua e là sfondato, sdrucito dappertutto» (QP [Una questione privata di Beppe Fenoglio] 4), i portici dei posti di guardia sono «semidiroccati» (QP 55), le baracche «miserabili e sporche» (AVM [L’Agnese va a morire di Renata Viganò] 123), le case dei villaggi e delle città «bucate, frantumate, corrose dalle bombe e dai colpi d’artiglieria» (AVM 206), le abitazioni ridotte a «spettri di case» (UN [Uomini e no di Elio Vittorini] 23), con delle finestre «semiaccecate da assiti» (QP 84) oppure «slabbrate e quasi tutte mascherate da assiti fradici per le intemperie» (QP 64). In alcuni casi, i romanzi presuppongono un paesaggio presentato nella sua stiuation faite, a cui spetta il ruolo di mettere in evidenza la distruzione bellica sin dall’inizio della narrazione, altre volte, invece, l’instancabile traduzione dei luoghi in spazi sprovvisti della loro identità, in paesaggi rasi al suolo e riproposti solamente nella loro qualità materiale ormai inutile, viene illustrati in presa diretta. Per esempio, la Milano vittoriniana è già dall’apertura del romanzo interamente costruita sull’estetica della lacuna: "(...) il deserto era come non era mai stato in nessun luogo del mondo. Non era come in Africa, nemmeno come in Australia, non era né di sabbia, né di pietre, e tuttavia era com’è in tutto il mondo. Era com’è anche in mezzo a una camera. Un uomo entra. Ed entra nel deserto. Enne 2 vide ch’era il deserto, lo attraversò, e pensava a Berta che non abitava a Milano, andò fino in fondo al corso Sempione dov’era la sua casa". (UN 21)
Analogamente, il protagonista fenogliano, nel suo percorso per le Langhe, soffermandosi a studiare la zona per mettere in atto con successo il piano della sua azione, nell’osservazione dei paesi constata come tratto principale del nuovo paesaggio bellico il vuoto di quella “terra di nessuno” installatasi all’interno dei luoghi abitati: "Da un promontorio della collina Milton guardava giù a Santo Stefano. Il grosso paese giaceva deserto e muto, sebbene già interamente sveglio, come dichiaravano i comignoli che fumavano bianco e denso. Deserto era pure il lungo rettilineo che collegava il paese alla stazione ferroviaria, e vuota, dalla parte opposta, la diritta strada per Canelli, tutta visibile fin oltre il ponte metallico, fino allo spigolo della collina che copriva Canelli. (…) Non vedeva nessuno, non una vecchia né un bambino, alle finestre o sui ballatoi posteriori delle case sopraelevate che da quella parte chiudevano la piazza maggiore del paese". (QP 75-77)
La città vecchia [di Sanremo] lasciata alle spalle da parte di Pin, invece, anche se ugualmente soggetta a uno svuotamento, subisce una trasformazione graduale: "Pin sente la terra vibrare sotto il rombo e la minaccia delle tonnellate di bombe appese che trasmigrano sopra la sua testa. La Città Vecchia in quel momento si sta svuotando e la povera gente s’accalca nella fanghiglia della galleria. (…) Pin vede il Dritto che s’è messo su un’altura e guarda nella gola della valle con il binocolo. Lo raggiunge. (…) Mi fai vedere anche a me, poi, Dritto? - dice Pin. Te’, - fa il Dritto, e gli passa il binocolo. Nella confusione di colori delle lenti, a poco a poco appare la cresta delle ultime montagne prima del mare e un grande fumo biancastro che s’alza. Altri tonfi, laggiù: il bombardamento continua". (SNR [Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino]) Se all’inizio della vicenda, la città vecchia conserva una sua dinamicità nell’«eco di richiami e d’insulti» (SNR 3), nei raggi di sole che si incrociano con i «cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali» (SNR 3), nella riapparizione finale si profila come un luogo assente, come una «città proibita». L’ultimo capitolo de "Il Sentiero" si apre con Pin «seduto sulla cresta della montagna, solo» (SNR 139), mentre contempla le «vallate, fin giù nel fondo dove scorrono neri fiumi» (SNR 139) e le «lunghe nuvole (che) cancellano i paesi spersi e gli alberi» (SNR 139). Ogni idea di ritorno al passato del carruggio gli viene negata proprio a causa dell’inesistenza dei luoghi del passato: l’osteria è svuotata a causa della retata durante la quale tutti sono stati deportati o uccisi, la casa è disabitata perché la sorella si è trasferita all’hotel occupato dai tedeschi, mentre il vicolo «è deserto, come quando lui è venuto», con delle impannate delle botteghe chiuse e «a ridosso dei muri, antischegge di tavole e sacchi di terra» (SNR 144): "Pin è triste. (…) Pin vorrebbe essere con Pietromagro e riaprire la bottega nel carruggio. Ma il carruggio è deserto ormai, tutti sono scappati o prigionieri, o morti, e sua sorella, quella scimmia, va coi capitani". (SNR 132)
Il decadimento di ogni forma umana dell’abitare viene spesso illustrato anche al momento stesso in cui accade, cancellando non solo il passato collettivo di un popolo, ma anche quello privato dei singoli personaggi, sprovvisti in un attimo dalla propria dimora. Con una funzione formativa, quasi di rito di passaggio, sembra proporsi la perdita della dimora di Agnese del tutto distrutta dal fuoco e ridotta a un «mucchio di macerie nere» (AVM 176), distruggendo ogni residuo della vita della protagonista prima della sua definitiva entrata nel mondo della Resistenza. Walter, invece, uno dei compagni che operano tra le valli di Comacchio, diviene testimone diretto della perdita del proprio “luogo”: "Un mucchio di macerie tra l’orto e il frutteto. Dove erano state le belle camere e la grande cucina, il forno e il portico, non c’era più niente: in pezzi anche le pietre. Una linea di meno nel paesaggio, un vuoto che lo rendeva strano, sconosciuto, un posto cambiato. E un’altra famiglia che due ore prima aveva tante cose, adesso se ne andava a cercare un ricovero per la notte, con le mani vuote e il vestito che portava addosso; e contentarsi se erano tutti salvi". (AVM 116)
Tra le ambientazioni più importanti di questa manmade atopia, però, si collocano i luoghi più “stratificati” sul piano diacronico, come i luoghi pubblici delle città colpite dalla guerra, e soprattutto le loro piazze, irriconoscibili nel nuovo aspetto e, di frequente, dotate di una precisa funzionalità dal punto di vista del messaggio ideologico alla base dei romanzi. Il panorama bellico esposto nella sua invivibilità diviene al contempo significativo nella sua visibilità, poiché il guardare diventa imperativo, «un metodo d’indagine, un modo nuovo di guardare attorno a sé, di vedere i fatti e gli uomini e le cose non come proiezione di una particolare ideologia, ma come stimolo, semmai a una revisione di valori, a un approfondimento di temi, a una ulteriore indagine conoscitiva» (Melanco, 2005, p. 64). In quest’ottica si propone lo spazio di Largo Augusto di "Uomini e no", in cui l’egemonia della modalità visiva sulle altre percezioni sensoriali si coglie già dall’univoca direzione in cui si muove la folla, «tutta in un senso, tutta verso la piazza dov’è il monumento delle Cinque Giornate» (UN 82) e, soprattutto dall’insistenza sullo sguardo di Berta, divenuta protagonista del romanzo a partire dal LXII capitolo: "Scese, e camminava; guardava da ogni parte, e anche si voltava per guardare. (...) vide davanti a sé degli uomini fermi, con dei berretti strani e lunghi bastoni neri tenuti sulle braccia, come ne aveva veduti il giorno ch’era stata con Enne 2 in bicicletta, sul corso Sempione. (...) Scese allora dal marciapiede, si mise con la folla, passò davanti a quegli uomini, e guardava che cosa avessero che luccicava al sole sui berretti. Vide che avevano delle teste di morto in metallo bianco, il teschio con le tibie incrociate; ma vide anche che sul marciapiede, tra quegli uomini e altri più in fondo, stavano allineati come dei mucchietti di cenci, qualche mucchietto bianco, e qualche mucchietto invece scuro, di pantaloni, giacche, capotti: panni usati. Che cos’era? (...) Avrebbe voluto saperlo da qualcuno della folla, non vederlo da sé, e invece vide da sé, e vide che erano morti, cinque uomini allineati morti sul marciapiede (…)". (UN 93-94)
Ana Stefanovska, Lo spazio narrativo del neorealismo italiano, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2019
Analogamente, il protagonista fenogliano, nel suo percorso per le Langhe, soffermandosi a studiare la zona per mettere in atto con successo il piano della sua azione, nell’osservazione dei paesi constata come tratto principale del nuovo paesaggio bellico il vuoto di quella “terra di nessuno” installatasi all’interno dei luoghi abitati: "Da un promontorio della collina Milton guardava giù a Santo Stefano. Il grosso paese giaceva deserto e muto, sebbene già interamente sveglio, come dichiaravano i comignoli che fumavano bianco e denso. Deserto era pure il lungo rettilineo che collegava il paese alla stazione ferroviaria, e vuota, dalla parte opposta, la diritta strada per Canelli, tutta visibile fin oltre il ponte metallico, fino allo spigolo della collina che copriva Canelli. (…) Non vedeva nessuno, non una vecchia né un bambino, alle finestre o sui ballatoi posteriori delle case sopraelevate che da quella parte chiudevano la piazza maggiore del paese". (QP 75-77)
La città vecchia [di Sanremo] lasciata alle spalle da parte di Pin, invece, anche se ugualmente soggetta a uno svuotamento, subisce una trasformazione graduale: "Pin sente la terra vibrare sotto il rombo e la minaccia delle tonnellate di bombe appese che trasmigrano sopra la sua testa. La Città Vecchia in quel momento si sta svuotando e la povera gente s’accalca nella fanghiglia della galleria. (…) Pin vede il Dritto che s’è messo su un’altura e guarda nella gola della valle con il binocolo. Lo raggiunge. (…) Mi fai vedere anche a me, poi, Dritto? - dice Pin. Te’, - fa il Dritto, e gli passa il binocolo. Nella confusione di colori delle lenti, a poco a poco appare la cresta delle ultime montagne prima del mare e un grande fumo biancastro che s’alza. Altri tonfi, laggiù: il bombardamento continua". (SNR [Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino]) Se all’inizio della vicenda, la città vecchia conserva una sua dinamicità nell’«eco di richiami e d’insulti» (SNR 3), nei raggi di sole che si incrociano con i «cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali» (SNR 3), nella riapparizione finale si profila come un luogo assente, come una «città proibita». L’ultimo capitolo de "Il Sentiero" si apre con Pin «seduto sulla cresta della montagna, solo» (SNR 139), mentre contempla le «vallate, fin giù nel fondo dove scorrono neri fiumi» (SNR 139) e le «lunghe nuvole (che) cancellano i paesi spersi e gli alberi» (SNR 139). Ogni idea di ritorno al passato del carruggio gli viene negata proprio a causa dell’inesistenza dei luoghi del passato: l’osteria è svuotata a causa della retata durante la quale tutti sono stati deportati o uccisi, la casa è disabitata perché la sorella si è trasferita all’hotel occupato dai tedeschi, mentre il vicolo «è deserto, come quando lui è venuto», con delle impannate delle botteghe chiuse e «a ridosso dei muri, antischegge di tavole e sacchi di terra» (SNR 144): "Pin è triste. (…) Pin vorrebbe essere con Pietromagro e riaprire la bottega nel carruggio. Ma il carruggio è deserto ormai, tutti sono scappati o prigionieri, o morti, e sua sorella, quella scimmia, va coi capitani". (SNR 132)
Il decadimento di ogni forma umana dell’abitare viene spesso illustrato anche al momento stesso in cui accade, cancellando non solo il passato collettivo di un popolo, ma anche quello privato dei singoli personaggi, sprovvisti in un attimo dalla propria dimora. Con una funzione formativa, quasi di rito di passaggio, sembra proporsi la perdita della dimora di Agnese del tutto distrutta dal fuoco e ridotta a un «mucchio di macerie nere» (AVM 176), distruggendo ogni residuo della vita della protagonista prima della sua definitiva entrata nel mondo della Resistenza. Walter, invece, uno dei compagni che operano tra le valli di Comacchio, diviene testimone diretto della perdita del proprio “luogo”: "Un mucchio di macerie tra l’orto e il frutteto. Dove erano state le belle camere e la grande cucina, il forno e il portico, non c’era più niente: in pezzi anche le pietre. Una linea di meno nel paesaggio, un vuoto che lo rendeva strano, sconosciuto, un posto cambiato. E un’altra famiglia che due ore prima aveva tante cose, adesso se ne andava a cercare un ricovero per la notte, con le mani vuote e il vestito che portava addosso; e contentarsi se erano tutti salvi". (AVM 116)
Tra le ambientazioni più importanti di questa manmade atopia, però, si collocano i luoghi più “stratificati” sul piano diacronico, come i luoghi pubblici delle città colpite dalla guerra, e soprattutto le loro piazze, irriconoscibili nel nuovo aspetto e, di frequente, dotate di una precisa funzionalità dal punto di vista del messaggio ideologico alla base dei romanzi. Il panorama bellico esposto nella sua invivibilità diviene al contempo significativo nella sua visibilità, poiché il guardare diventa imperativo, «un metodo d’indagine, un modo nuovo di guardare attorno a sé, di vedere i fatti e gli uomini e le cose non come proiezione di una particolare ideologia, ma come stimolo, semmai a una revisione di valori, a un approfondimento di temi, a una ulteriore indagine conoscitiva» (Melanco, 2005, p. 64). In quest’ottica si propone lo spazio di Largo Augusto di "Uomini e no", in cui l’egemonia della modalità visiva sulle altre percezioni sensoriali si coglie già dall’univoca direzione in cui si muove la folla, «tutta in un senso, tutta verso la piazza dov’è il monumento delle Cinque Giornate» (UN 82) e, soprattutto dall’insistenza sullo sguardo di Berta, divenuta protagonista del romanzo a partire dal LXII capitolo: "Scese, e camminava; guardava da ogni parte, e anche si voltava per guardare. (...) vide davanti a sé degli uomini fermi, con dei berretti strani e lunghi bastoni neri tenuti sulle braccia, come ne aveva veduti il giorno ch’era stata con Enne 2 in bicicletta, sul corso Sempione. (...) Scese allora dal marciapiede, si mise con la folla, passò davanti a quegli uomini, e guardava che cosa avessero che luccicava al sole sui berretti. Vide che avevano delle teste di morto in metallo bianco, il teschio con le tibie incrociate; ma vide anche che sul marciapiede, tra quegli uomini e altri più in fondo, stavano allineati come dei mucchietti di cenci, qualche mucchietto bianco, e qualche mucchietto invece scuro, di pantaloni, giacche, capotti: panni usati. Che cos’era? (...) Avrebbe voluto saperlo da qualcuno della folla, non vederlo da sé, e invece vide da sé, e vide che erano morti, cinque uomini allineati morti sul marciapiede (…)". (UN 93-94)
Ana Stefanovska, Lo spazio narrativo del neorealismo italiano, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2019