sabato 18 settembre 2021

Si impediva di conoscere ciò che veniva perpetrato nelle colonie italiane


Non solo molte fonti archivistiche sono tuttora indisponibili, ma negli archivi ministeriali e militari la documentazione concernente molti dei fatti indicati è scarsa perché dell’argomento si parlava e si scriveva il meno possibile. Un ferreo sistema di censura impediva all’opinione pubblica italiana e internazionale di conoscere ciò che veniva perpetrato nelle colonie.
In tale scenario, uno degli aspetti su cui è più difficile reperire informazioni è la violenza subita dalle donne africane, nonostante negli ultimi anni siano comparsi alcuni preziosi lavori che si soffermano, in un’ottica di genere, sulla condizione femminile nell’Africa occupata dagli italiani (Barrera, 1996, 2002; Poidimani, 2006; Sòrgoni, 1998, 2001; Stefani, 2007). Tali lavori analizzano soprattutto due versanti: la rappresentazione delle donne nell’immaginario culturale degli italiani e le relazioni sessuali tra donne africane e colonizzatori italiani.
Per quanto riguarda il primo aspetto, gli studi sottolineano come gli italiani, almeno fino al momento della conquista dell’Etiopia, fossero in linea con la “porno-tropics tradition” (McClintock, 1995), imperniata sulla metafora della Venere nera, che riduceva l’immagine della donna africana alle sole dimensioni dell’esotismo e dell’erotismo. Alla donna nera veniva riconosciuta come unica identità quella sessuale. Ne derivava una sorta di “harem coloniale” (Alloula, 1986; si veda anche Gautier, 2003) che aveva la funzione di rendere desiderabile ai lavoratori italiani il trasferimento nelle colonie. Dopo la fondazione dell’impero, quando l’accento fu posto sulla lotta al meticciato, il regime mise la sordina a questa raffigurazione. L’immagine della Venere nera fu sostituita da rappresentazioni di tipo etnografico, che ponevano in risalto tratti fisici ritenuti segno di inferiorità, allo scopo di riaffermare la “naturale” superiorità degli europei e la legittimità della loro colonizzazione.
Per quanto riguarda il secondo aspetto - le relazioni sessuali tra donne africane e colonizzatori italiani - fin dal lavoro pionieristico di Gabriella Campassi (1983), nel quale il possesso del corpo dei sudditi delle colonie era interpretato come metafora del possesso territoriale, gli studi hanno dedicato molto spazio ai rapporti di madamato (“relazione temporanea, ma non occasionale tra un cittadino e una suddita indigena”, Sòrgoni, 1998, pag. 74), che connotano tutta la prima fase dell’occupazione italiana, fino alla brusca rottura operata dalla politica fascista in concomitanza con la proclamazione dell’impero. Da quel momento vennero implementati una serie di dispositivi giuridici miranti a controllare il comportamento di italiani e “sudditi” per riaffermare il prestigio dei bianchi.
Furono vietate le relazioni coniugali ed extraconiugali tra “razze” diverse, proibita la legittimazione e l’adozione di figli nati dall’unione di “cittadini” con “sudditi”, instaurata una capillare segregazione razziale. I “meticci” furono ricacciati nella comunità indigena e ogni istituzione precedentemente creata per la loro assistenza fu posta fuori legge. Obiettivo di tali misure era la volontà di rafforzare la piramide etnica e di non consentire, al suo interno, alcuna “zona grigia”, per garantire alla “razza italiana” un posto di spicco tra i colonizzatori.
La delegittimazione della loro immagine, la costrizione nelle pratiche di madamato e prostituzione non furono però le sole violenze alle quali le donne africane furono sottoposte. Con anziani e bambini, perirono nei massacri, nella guerra con i gas, nell’incendio di interi villaggi, furono deportate in campi che meritano la denominazione di sterminio più che di concentramento. Come è noto, fu proprio sullo scenario coloniale che furono messe a punto quelle tecniche di violenza contro i civili impiegate poi in tutti i conflitti del Novecento.
[...]
Un altro settore della psicologia sociale che può contribuire all’analisi delle violenze verso africani e africane è lo studio dei correlati psicosociali dei fenomeni di distruzione collettiva. In questo ambito, Bandura (1999) ha proposto il concetto di “disimpegno morale”, definito da quattro tipi di pratiche:
1. Le operazioni di etichettamento eufemistico che impediscono la percezione dell’immoralità delle azioni commesse. Il discorso coloniale italiano è pieno di esempi di questo genere; si pensi alla formula “operazioni di grande polizia coloniale”, usata per coprire stragi e massacri o all’ordinanza del ministro Lessona che definiva la politica di apartheid implementata in Etiopia “convivenza senza promiscuità”; altri esempi sono dati dai titoli dei libri di Graziani: “Cirenaica pacificata” (1932) e “Pace romana in Libia” (1937). La stessa parola “madamato” è stata creata con due obiettivi: definire le relazioni tra uomini italiani e donne africane con un termine diverso da quelli impiegati per le relazioni tra donne e uomini italiani e usare un eufemismo per indicare lo sfruttamento sessuale e domestico delle africane.
2. La minimizzazione del ruolo dell’agente nel compimento delle violenze.
Nello scenario coloniale, le autorità politiche e militari si assumeva la responsabilità delle azioni commesse, sollevando i singoli dal senso di responsabilità personale; inoltre, le pratiche di divisione del lavoro e le azioni collettive permettevano che le responsabilità, condivise tra molti, non fossero assunte da nessuno in particolare, secondo il ben conosciuto fenomeno della “diffusione della responsabilità”.
3. L’indebolimento del controllo morale attraverso la distorsione delle conseguenze delle azioni, impedendone la visibilità o rendendole fisicamente o temporalmente remote. Si è già accennato al ruolo essenziale che ebbe la censura nell’impedire che l’opinione pubblica italiana e internazionale fosse esaurientemente informata di quanto avveniva nelle colonie.
4. La rappresentazione delle vittime come esseri inferiori che meritano ciò che viene loro inflitto. Documentare la deumanizzazione nei confronti degli africani durante il periodo coloniale è banale data la molteplicità delle citazioni possibili. I testi dell’epoca sono ricchi di raffigurazioni, metafore, immagini che negano l’umanità di neri e meticci. Citiamo solo qualche esempio. Labanca (2002, pag. 248) parla di immagine “animalizzata” costruita, negli anni Trenta dalla stampa italiana, per descrivere gli etiopi vinti. Chiozzi (1994, pag. 94) denuncia “il modo etnografico” di fotografare gli africani “per la implicita volontà di oggettivare quei soggetti, cioè di deumanizzarli”.
Gli articoli di La Difesa della Razza, come sopra accennato, documentano un impiego senza reticenze di termini e immagini deumanizzanti (Volpato e Cantone, 2005). Particolarmente marcata è la deumanizzazione delle donne. Barrera (1996, pag. 60) parla di “depersonalizzazione” delle donne africane, ridotte a femmine”. Bonavita (1994) fa un lungo elenco di metafore zoologiche impiegate per descrivere le africane. Stefani (2007, pag. 104) sottolinea come, nella narrativa coloniale, le nere siano “paragonate a oggetti, animali, esseri senza anima”; l’esempio più pregnante è dato dal romanzo di Mitrano Sani (1933) la cui protagonista è paragonata a un cane per la sua apatia e assenza di razionalità. Le rappresentazioni letterarie di Mitrano Sani trovano una puntuale corrispondenza nelle affermazioni “scientifiche” di Cipriani, antropologo, firma illustre di La Difesa della Razza, che in uno dei suoi volumi sentenziava: “Nelle razze negre, l’inferiorità mentale della donna confina spesso con una vera e propria deficienza; anzi, almeno in Africa, certi contegni femminili vengono a perdere molto dell’umano, per portarsi assai prossimi a quello degli animali”. Cipriani, 1935, pag. 181).
Chiara Volpato, La violenza contro le donne nelle colonie italiane. Prospettive psicosociali di analisi, DEP n.10 / 2009

Ottorino Cerquigni, Madri e maternità nella nuova Etiopia, in “Domenica del Corriere”, 8 novembre 1936, pp. 6, 7 - Fonte: Monica Di Barbora, art. cit. infra

In conclusione, nonostante tutte le distinzioni che abbiamo esposto, è facile leggere nelle fotografie che documentano la presenza femminile nelle colonie africane dell’Italia una rappresentazione stereotipa, tanto delle donne europee, con una ulteriore specificità per quanto riguarda le donne italiane, che delle donne africane. Questa modalità di raffigurazione pare effettiva tanto nelle immagini pubbliche e destinate a una larga diffusione che nelle immagini private che tendono a raccogliere e fare propri i codici narrativi più diffusi. Esito della propaganda fascista che ha, però, buon gioco nell’insistere su modelli già proposti in epoca liberale. L’intreccio fra sessismo, razzismo e classismo che sta alla base di questi stereotipi li rende, però, difficili da decostruire ed è alla radice di una loro frequente riproposizione, solo leggermente ammorbidita nei toni, per così dire, anche in tempi recenti.
Monica Di Barbora, Donne in Aoi: fotografie tra sguardo pubblico e privato, OS Officina della storia, 30 marzo 2013
 
Le donne nere nell’immaginario coloniale italiano
La rappresentazione visiva delle donne nere ricoprì un ruolo centrale nel colonialismo italiano. <4 L’immagine più diffusa fu quella della donna somala, raffigurata come una donna alta, magra e slanciata, in atteggiamento provocatorio e ammiccante nei confronti dello spettatore (maschio) italiano. Il più delle volte il suo seno è esposto allo sguardo del pubblico, mentre il suo corpo risulta lascivamente abbandonato in una posa da odalisca, disponibile alla conquista dell’uomo italiano. <5
L’immagine della donna nera svolse diverse funzioni all’interno del discorso coloniale italiano. Da un lato, forse il più importante, le donne africane divennero il simbolo delle terre da conquistare. Come scrivono Campassi e Sega, “La donna nera diventa simbolo dell’Africa...e il rapporto uomo bianco-donna nera è simbolico del rapporto nazione imperialista-colonia: l’uomo è colui che dà la sua virilità fecondatrice e vivificatrice, la donna è colei che riceve da ciò un arricchimento nella realizzazione di sè come complemento dell’espandersi dell’io maschile”. <6   
Il possesso del corpo femminile venne così associato alla conquista delle terre “vergini”, mentre la disponibilità e sensualità delle donne si trasformarono in una giustificazione dell’aggressività coloniale italiana. Allo stesso tempo, il corpo femminile, così come il territorio, vennero caricati di significati riguardanti la prosperità delle colonie. Queste furono presentate come un diritto esclusivo degli italiani, in cui lo sfruttamento delle risorse naturali coincideva con quello del lavoro, sia manuale che sessuale, delle donne africane.
Da un altro lato, collegato al primo, il discorso sulle donne nere si collocò all’interno del processo di costruzione della nazione. Nel momento in cui l’Italia andava incentrando la propria identità intorno ai valori della classe media (settentrionale), i territori coloniali e, con essi, le donne, divennero il simbolo, e il luogo, della sessualità repressa dalla morale borghese. In un processo di trasferimento dell’alterità dalla classe operaia e dal meridione italiani alle colonie, le donne africane si trasformarono nell’oggetto privilegiato del desiderio illecito e proibito del maschio italiano. <7  
Questi discorsi si unirono alla raffigurazione, tipica dell’antropologia e dell’archeologia di fine ‘800, del continente africano come luogo delle origini della civiltà occidentale. L’Africa, e con essa la donna nera, divennero così il simbolo di una ritrovata primordialità sensuale, e di una passionalità da tempo perduta. Inoltre, nel momento in cui si andava affermando la psicanalisi freudiana, la femminilizzazione del continente africano assunse una funzione liberatoria per la coscienza europea, come simbolo della riscoperta delle parti più recondite del sè. <8  
Le immagini delle donne somale non furono tuttavia le uniche rappresentazioni delle donne nere, e si collocarono all’interno di un discorso più ampio. Accanto alla raffigurazione della bellezza somala, ne esisteva un’altra, in cui la donna nera era, ancora una volta, ridotta a oggetto dello sguardo coloniale, ma in maniera profondamente diversa: il corpo femminile nero era studiato per la sua deformità e bruttezza, piuttosto che per la sua sensualità. Al centro dell’obiettivo era posto non tanto il corpo slanciato delle somale, quanto il fondoschiena sporgente e i seni cadenti, ritenuti tipici di tutte le altre donne africane. <9
Il discorso (sia visuale che testuale) riguardante le caratteristiche fisiologiche delle donne nere fu ampiamente diffuso non solo all’interno delle riviste specializzate, ma anche su giornali e riviste di massa. In questo modo, le categorie proprie dell’antropologia (e della criminologia) ottocentesca, miranti a classificare le popolazioni umane in “tipi” definiti da specifici tratti fisici, entrarono a far parte dell’immaginario collettivo italiano. Nelle fotografie riprodotte, le donne nere non incarnavano tanto la sensualità delle colonie, quanto la primitività dell’intera popolazione e civiltà africana. <10
La contraddizione implicita nella rappresentazione visiva delle donne africane non fu mai interamente risolta. La raffigurazione delle somale riprodusse canoni di bellezza tipicamente occidentali, attraverso la costruzione di immagini in cui le donne nere erano presentate come Veneri idealizzate. Le donne somale risultavano dunque attraenti proprio perchè “bianche”, e perciò innocue per l’uomo italiano, che non poteva essere contaminato da un rapporto sessuale con loro. Allo stesso tempo, essendo di colore, erano naturalmente inferiori all’uomo bianco, e dunque oggetto di un desiderio che difficilmente avrebbe potuto esprimersi nei confronti di una donna bianca.
La combinazione, e contraddittorietà, del discorso riguardante le donne somale è riassunto in questa descrizione, scritta nel 1899 da Brichetti, un comandante militare: “In quelle donne Somale...scoprimmo una combinazione di femminilità greca e romana mista al profilo snello e a quel particolare colore caldo e liscio proprio del sangue arabo. Guardandole, le comparai inconciamente alle vivide e spendide figure ebraiche che emanano amore e grazia dai dipinti di Van Dyck e Caracciolo”. <11
[NOTE]
4 In questa sede mi riferisco unicamente alla rappresentazione delle donne nere. Tuttavia sarebbe necessario inserire questa analisi all’interno di un discorso più ampio, in cui la raffigurazione delle donne nere sia posta a confronto con quella delle donne arabe.
5 Per questo paragrafo mi rifaccio in gran parte alle uniche ricerche riguardanti la rappresentazione delle donne nere nel colonialismo italiano: Gabriella Campassi e Maria Teresa Sega, Uomo bianco, donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale, “Rivista di storia e critica della fotografia”, vol.4, n.5, 1983, pp.54-62; Karen Pinkus, Bodily Regimes. Italian Advertising under Fascism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1995. Si veda anche Deborah Willis e Carla Williams, The Black Female Body: a Photographic History, Philadelphia, Temple University Press, 2002.
6 G. Campassi e M.T. Sega, Uomo bianco, donna nera, cit., p.55. Sul legame tra conquista coloniale e conquista delle donne si veda Anne Stoler, “Carnal Knowledge and Imperial Power: Gender, Race, and Morality in Colonial Asia”, in Joan Scott e Judith Butler, a cura di, Feminism and History, New York, Oxford University Press, 1996, pp.209-266.
7 In questo senso è interessante notare il fatto che il linguaggio utilizzato per descrivere e raffigurare le donne nere fu molto simile a quello impiegato nei confronti delle prostitute, e della classe operaia italiane. Cfr. D. Willis e C. Williams, The Black Female Body, cit.; K. Pinkus, Bodily Regimes, cit.
8 Cfr. Ella Shohat, “Gender and Culture of Empire: Toward a Feminist Ethnography of the Cinema”, in T. Gabriel e H. Nacify, a cura di, Otherness and the Media, New York, 1993, pp.45-84
9 Su questi temi si veda soprattutto D. Willis e C. Williams, The Black Female Body, cit.
10 Cfr. Elizabeth Edwards, a cura di, Anthropology and Photography, 1860-1920, New Haven, Yale University Press, 1992
11 K. Pinkus, Bodily Regimes, cit., p.51 (trad. mia)
Elisabetta Bini (New York University), Fonti fotografiche e storia delle donne: la rappresentazione delle donne nere nelle fotografie coloniali italiane in Le fonti fotografiche nella ricerca storica, Convegno Sissco: Cantieri di Storia II, Coordinatrice: Elisabetta Bini (New York University),  Università di Lecce, 2003