martedì 21 settembre 2021

Sulla traduzione d'autore compiuta da poeti italiani moderni


Si direbbe che nell'ultimo trentennio [1940-1970], le traduzioni di poesia vanno da quelle del tipo che abbiamo chiamato dell'esercizio spirituale o del capitolo autobiografico (la traduzione esemplare degli anni Trenta: Ungaretti, Montale, Solmi, Quasimodo: ancora oggi vivissima in Luzi, Sereni, Bertolucci, ma anche in Giudici, Caproni, Zanzotto, ecc…) fino a quelle che si sono chiamate “di servizio”, con gradi diversi di intenti dichiarativo-critici.
(Franco Fortini <1)
Nel quadro delle teorie fortiniane la traduzione come «capitolo autobiografico» identifica dunque l'estremità “d'autore” di quello spettro di “intenzioni” traduttive che vanno dalla versione letterale e didascalica fino alla «creazione di un nuovo testo, che non pretende nessun rapporto con quello di partenza ma ogni rapporto invece con le opere “creative” del traduttore”» <2; versioni insomma in cui i poeti rivendicano (almeno come opzione) un diritto di riscrittura che può stanziare il testo fin oltre l'ambigua, sfuggente soglia tra traduzione e rifacimento. Categoria molto elastica, vi si potrebbero subito ascrivere le traduzioni che non prevedono il testo a fronte, quasi implicando una sorta di “rimozione del modello” tramite la quale riaffermare il proprio statuto autonomo, la propria natura di poesie riflesse ma non subordinate secondo un modulo largamente praticato nelle antologie ermetiche (Dal Fabbro, Traverso, Pagano…), ma recuperato anche in seguito nelle Traduzioni e imitazioni di Attilio Bertolucci, nel Quadernetto di traduzioni di Luciano Erba e altrove. Più in generale però, come suggerisce lo stesso Fortini - e sia pure nel quadro di una possibile intenzione di “fedeltà”, da intendersi come «fedeltà all'evento complessivo che chiamiamo testo originale e di cui il significato letterale non è che uno degli elementi decisivi» (Raboni <3) - “capitolo autobiografico” è una formula che si presta a definire quell'operazione che, secondo Caproni, strutturalmente implica «un allargamento nel campo della propria esperienza e della propria coscienza, del proprio esistere o essere, più che del conoscere» <4.
La traduzione d'autore insomma - in modo flagrante nei casi in cui la selezione del testo derivi da una scelta privata, solo soggiacente forse quando si tratti di corrispondere a un invito editoriale -, si dà come momento saldamente interconnesso con l'opera “originale” del poeta, radicata nei suoi materiali lessicali, nel suo immaginario e nelle sue competenze stilistiche; in tal senso infatti la pratica del tradurre esige un serrato impegno d'interpretazione (magari attualizzando solo alcuni significati potenziali insiti nell'orizzonte di senso dell'ipotesto), la ricerca di una coerenza tonale attingibile solo tramite un piano di «infedeltà programmate» (Raboni <5), l'evocazione di un diverso sistema di relazioni sincroniche con la realtà extratestuale <6 e con le istituzioni formali e linguistiche della cultura d'arrivo, visto che «ogni atto linguistico ha una determinazione temporale; nessuna forma semantica è atemporale: quando si usa una parola risvegliamo gli echi di tutta la sua storia precedente» (Steiner <7). Il tradurre allora non può darsi che come decentramento, scarto, anamorfismo, invenzione condizionata, già che «nessuna traduzione può essere assolutamente fedele, e qualsiasi atto di traduzione va a toccare il senso del testo tradotto» (Genette <8); e in questi interstizi quella che approssimativamente può essere definita la poetica del traduttore interviene ad orientare i processi di versione, e a farsene orientare.
[...] Questo mio studio allora pone al proprio centro il traduttore, o meglio il poeta-traduttore, per il quale (a maggior ragione) l'atto del tradurre si costituisce anche come mezzo di espressione individuale “per interposta voce”, sí che «il vero autore di qualunque testo che si presenti come tradotto è in realtà il traduttore» (Sanguineti <13); non a caso così come Caproni si era riferito al processo traduttivo come di un “allargamento” della propria coscienza, allo stesso modo un altro poeta come Risi si serve del medesimo, eloquente termine dichiarando che «tradurre significava allargare il [proprio] spazio poetico a una conoscenza di voci che, pure affini, venivano d'altrove» <14; e poco importa che Sereni dal canto suo capovolga i termini del discorso («traducendo non tanto ci si appropria, non tanto si fa proprio il testo altrui, quanto invece è l'altrui testo ad assorbire una zona sin lì incerta della nostra sensibilità e a illuminarla» <15): il meccanismo di assimilazione, nell'una direzione o nell'altra, di fatto rimane lo stesso. Allora il poeta è indotto naturalmente a tradurre per annessione (del testo a sé o di sé al testo), di assorbimento non di necessità al proprio stile ma senz'altro alla propria esperienza di poesia, tramite aggiunte progressive e contaminazioni di cui è testimonianza l'intenso commercio (d'immagini, di lessico, di ritmi) che si innesca fra le diverse varianti della sua scrittura in versi; commercio, questo, basato su una delicata tattica di negoziati, compromessi, licenze e contropartite, il cui groviglio - convergendovi quesiti di stile e di interpretazione - costituisce una specola di analisi privilegiata da cui non solo indagare l'attività del singolo poeta, ma su cui si potrebbe fondare una determinante pagina di storia della poesia del Novecento.
[...] In particolare la rassegna comprende, oltre a traduttori “di mestiere” come Leone Traverso, Beniamino Dal Fabbro (nn. 1910) e Vittorio Pagano (n. 1919), una compagine di autori che svaria da Giorgio Caproni (n. 1912) e Vittorio Sereni (n. 1913), passando per i fiorentini Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi (nn. 1914) e Franco Fortini (n. 1917), fino a Nelo Risi (n. 1920), Andrea Zanzotto (n. 1921) e Luciano Erba (n. 1922) <16.
Una cerchia abbastanza omogenea (anche solo per geografia: Toscana, Lombardia e Veneto si spartiscono quasi tutta la scena) ma che non si costringe in confini invalicabili: quando è il caso, infatti, per ragioni funzionali è contemplata la possibilità di derogare mobilitando voci rappresentative di altre generazioni (ma, ancora, non di altri territori), quali ad esempio Diego Valeri (n. 1887) o, all'altro capo, Giovanni Raboni (n. 1932).
Sia pure tenendo conto dei rapporti di continuità con i grandi traduttori delle generazioni precedenti (Ungaretti, Quasimodo, Solmi…), sono evidenti le ragioni che autorizzano ad eleggere il canone ermetico come punto di partenza ideale per una storia del tradurre poesia dagli anni Quaranta in poi. Riepilogando: da un punto di vista tecnico è decisiva tra gli ermetici la strutturazione di un codice formale, comune al linguaggio della poesia e a quello della traduzione, così organico e, per cosí dire, dotato di autorevolezza “normativa”, da costituirsi prima come obbligato paradigma di riferimento per le principali esperienze traduttive ad esso contemporanee, e poi quasi come il “grado zero” per i successivi sviluppi del genere <17.
[NOTE]
1 FRANCO FORTINI, Traduzione e rifacimento, in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini e con uno scritto di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori, 2003, p. 828.
2 Ivi, p. 827.
3 GIOVANNI RABONI, Prefazione a Charles Baudelaire, I fiori del male e altre poesie, traduzione di Giovanni Raboni, Torino, Einaudi, 1999, p. IX.
4 GIORGIO CAPRONI, Divagazioni sul tradurre, in La scatola nera, Milano, Garzanti, 1996, p. 62.
5 G. RABONI, Giovanni Raboni (ovvero tradurre per amore), in Traduzione e poesia nell'Europa del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2004, p. 627.
6 Sull'argomento, cioè sui problematici rapporti che si instaurano tra il testo tradotto e il nuovo contesto di referenza, si veda ad esempio ANDREA ZANZOTTO, Europa, melograno di lingue, Venezia, Società Dante Alighieri Ŕ Università degli studi di Venezia, 1995, poi in Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, Mondadori, 1999, p. 1361: «Non ho citato a caso il mondo nipponico, in cui giocano con evidenza tutte le questioni dell'extratesto, cioè del tipo di cultura che è in gioco, i riferimenti impliciti, l'accorgersi di tutto quello che non è detto ma solo accennato: ad esempio il fatto che la nebbia venga sentita dai giapponesi come un respiro della Natura, mentre noi la sentiamo come un chiudersi, un velarsi della Natura stessa, oppure che essi celebrino in primavera il culto dei morti anziché in autunno, già dà luogo a tutta una serie di fratture difficilmente valicabili, specie nelle valutazioni di un fluido campo di elementi poetici. Non parliamo poi della questione degli ideogrammi, perché allora tutti i miti che riguardano la nostra “poesia visiva”, che sono stati coltivati e che anch'io ho spesso cercato di tener presenti, si sfasciano di fronte alla violenza di questi dati assolutamente sghembi».
7 GEORGE STEINER, Dopo Babele, Milano, Garzanti, 2004 [1972], p. 49.
8 GÉRARD GENETTE, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997 [1982], p. 248.
13 EDOARDO SANGUINETI, Edoardo Sanguineti (citazioni travestite), in Traduzione e poesia nell‟Europa del Novecento cit., p. 629.
14 NELO RISI, Compito di francese e d'altre lingue 1943-1993, in «Testo a Fronte», VI, 11, II semestre 1994, p. 84.
15 VITTORIO SERENI, Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983, p. VI.
16 Si potrebbero indicare come figure “di frontiera” da un lato Attilio Bertolucci (n. 1911), e dall'altro Pier Paolo Pasolini (n. 1922), entrambi presenti in filigrana nei saggi che seguono (specialmente Bertolucci nei capitoli baudelairiani) ma, per così dire, sulla soglia della compagine; l'uno per la fin troppo parca attività di traduzione dal francese (con l'eccezione, ma in prosa, dei Fiori del male), l'altro per il relativamente ridotto “peso specifico” del tradurre dal francese nel quadro della sua versatile opera critica, poetica, cinematografica, narrativa... rispetto agli autori presi in esame.
17 Cfr. PIER VINCENZO MENGALDO, Aspetti e tendenze della lingua poetica italiana del Novecento, in La tradizione del Novecento. Prima serie, Torino, Bollati-Boringhieri, 1996 [1975], pp. 144-145: «Ciò testimonia il carattere omogeneo, di “scuola”, del linguaggio ermetico, il suo aspetto di koinè. I poeti tradotti sono allora sistematicamente filtrati attraverso gli stilemi più caratteristici della corrente […]. In tal modo si è venuto creando un abito stilistico uniforme che ha condizionato fortemente i traduttori anche dopo il declino della “scuola”: colpisce per esempio vederne affiorare di continuo alcuni ingredienti caratteristici nelle versioni di Éluard, tanto più difficilmente assimilabile all'ermetismo che non siano Rilke o Trakl, di un poeta cosí presto antiermetico come Fortini. Questo fenomeno, come anche la tenace persistenza dei più evidenti modi ermetizzanti nello stile poetico medio e minore più recente, conferma che, nel bene e nel male, con l'ermetismo si è avuta l'ultima tipica incarnazione, in Italia, di un linguaggio della poesia interpersonale, uniforme ed egemonico».
Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici. Poeti traduttori a confronto tra terza e quarta generazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2012